di Nicoletta Dosio
C'è chi costruisce e chi distrugge |
Canto per una baita prigioniera
Chi dice che le pietre non hanno un cuore non conosce la piccola
baita NO TAV della Clarea né sa l'invincibile amore di quanti l'hanno pensata,
costruita, protetta. La sua storia è parte importante di una lotta nata
trent'anni fa e che caparbiamente continua.
La lobby del TAV, dopo averla tenuta per più di otto anni
prigioniera, ha decretato che lunedì 3 agosto dovrà morire. Per tale data ne
hanno previsto l’esproprio definitivo e probabilmente la demolizione. Ma i
ricordi sono troppi perché quel giorno possa passare nella rassegnazione.
È nata dai nostri progetti e dalle nostre mani, in quel 2010 in
cui il movimento NO TAV si rimise in cammino senza deleghe, dopo le illusioni
istituzionali del fine decennio. Le prime trivellazioni a San Giuliano e
all'autoporto di Susa, la militarizzazione della Valle, con decine di denunce e
vere e proprie cacce all'uomo che causarono ferimenti e lunghi ricoveri in
ospedale. Il sondaggio geologico legato al progetto del tunnel di base spostato
da Venaus a Chiomonte, nella valletta della Clarea, chiusa tra le montagne, per
questo più facilmente trasformabile in fortino.
Un luogo che fu importante nell'antichità, come testimoniano i
resti di antiche civiltà neolitiche ed i racconti leggendari che vi collocano
la favolosa città di Rama.
La prima a violare quei luoghi di boschi, castagneti e vigne fu
l'autostrada del Frejus, con un viadotto che li percorre in diagonale, da
galleria a galleria, contendendo il terreno al torrente.
Volemmo la baita come presidio permanente in vista del futuro.
Fu individuato un piccolo spiazzo lungo la via delle Gallie, la strada sterrata
che dall'antichità collega Giaglione a Chiomonte, la vallata del Moncenisio
alla Valle del Monginevro. Acquistammo il terreno collettivamente e a fine
estate i lavori ebbero inizio. La costruimmo in pietra, in armonia con la
natura circostante, sullo stile dei mulini che, sia pur in disuso, ancora
esistono, poco lontano. All'interno un'unica stanza, un piccolo bagno, scaffali
per le provviste, in modo da resistere il più a lungo possibile a quello che
immaginavamo sarebbe stato un vero e proprio assedio.
Ricordo l'allegria di quell'autunno di lavori: ognuno
contribuiva a suo modo, dando il meglio di sé, perché anche quella era lotta.
Le domeniche erano scampagnate e merende intorno alla baita, scambi di notizie
e assemblee, tra gli alberi che, a poco a poco si tingevano di rosso, giallo e
ocra e il lento cadere delle foglie.
Si stava procedendo alla costruzione del tetto, quando arrivò
l'ordine di sequestro con l'apposizione dei sigilli. Era l'ultima settimana di
novembre: la copertura andava completata prima della neve. Decidemmo di rompere
i sigilli e la costruzione andò avanti. Tra ingiunzioni e rifiuti arrivarono
anche le prime denunce a cui si rispose intensificando i lavori.
Brindammo all'anno nuovo nella baita ancora spoglia, allo
scoccare della mezzanotte, dopo una faticosa marcia nella neve alta, sotto un
cielo sfolgorante di stelle che camminavano con noi, così vicine da poterle
sfiorare.
In tal modo ebbe inizio quel 2011 tanto denso di eventi che, a
ricordarli, sembrano dilatarsi nel tempo e far di pochi mesi una vita intera.
La primavera in Clarea sfodera tutti i colori del verde. In
quell’armonia, il corpo estraneo era il viadotto autostradale, coi suoi piloni
minacciosi, ma già intaccati dalla natura che tenacemente si riprende quello
che è suo.
Anche gli antichi castagni si coprirono prima di gemme e poi di
foglie, tutti tranne uno, un gigante che ancora si ergeva, ormai disseccato,
come un antico totem, nei pressi della baita. Sulla sua cima costruimmo la
prima casetta di avvistamento, un gentile nido: il capostipite di un villaggio
sparso sugli alberi dei quali uno sciagurato progetto prevedeva l’abbattimento
per far posto al cantiere del TAV.
I mass media davano come imminente l’inizio dei lavori e si
intensificò da parte nostra il presidio del territorio. La baita divenne il
punto fisso e attrezzato di quei lunghi giorni di attesa. Si teneva d’occhio
l’autostrada su cui sapevamo che, al momento cruciale, sarebbero spuntati in
lunga fila i lampeggianti blu. Li vedemmo comparire all’improvviso una sera di
maggio, ed attestarsi sul viadotto sotto l’antica cascina della Maddalena. Una
breccia nel guard-rail avrebbe permesso loro di scendere sulla via delle Gallie
e occupare i terreni destinati al cantiere.
La nostra resistenza fu pronta e per loro inaspettata: decine di
persone in corsa lungo i pendii, a fare da barriera vivente. Desistettero, ma
si prepararono a ritornare in forze. Anche noi ci attrezzammo a resistere. Da
quella resistenza nacque la libera repubblica della Maddalena. I suoi confini
partivano, ad occidente, dai cancelli della centrale idroelettrica di
Chiomonte. La baita ne costituiva l’estremo avamposto ad oriente.
Quei giorni cambiarono l’esistenza di molti. La vita in comune
fece cadere barriere, diffidenze e dogmi. Storie diverse si confrontarono e si
unirono non nella mediazione, ma nella radicalità. L’accesso alla libera
repubblica era interdetto ai “tutori dell’ordine costituito”, ma aperto alle
realtà che, da tante parti del Paese, anzi del mondo, vennero a condividere lo
spirito e la lettera di quella nostra esperienza e ne portarono con sé il
sapore e il messaggio.
Durò un mese e mezzo, poi venne il 27 giugno, una giornata di
lacrimogeni, ruspe, manganelli e prepotenze poliziesche. Caddero le barricate
alla Maddalena, ma la baita fu difesa e, il 3 luglio, divenne il cuore della
riscossa. In una nube di lacrimogeni si distribuiva acqua e viveri, si curavano
feriti e ci si preparava a resistere ancora.
Quell’estate la vivemmo in tanti alla baita intorno a cui si
dispiegò un vasto campeggio. Tende nel sottobosco, sacchi a pelo nelle casette
sugli alberi, pasti e chiacchiere in comune. Qualcuno preparava legna per
l’inverno. Donne, uomini, bambini; cani e pure un gattino che arrivò affamato e
con noi rimase. Anche i caprioli si spinsero sul sentiero, nel silenzio che
precede l’alba. In una giornata di pioggia vi trovarono accoglienza alcuni
pellegrini in cammino sul sentiero di Compostela e se ne andarono contenti,
dopo aver chiesto di apporre sul diario di viaggio l’annullo NO TAV, quale
certificazione del loro passaggio.
Non mancarono provocazioni né lacrimogeni contro quello che
ormai era diventato il villaggio di Asterix, con tanto di palizzate, arco
d’ingresso, catapulta ornamentale (di essa i giornali parlarono come di una
pericolosa macchina da guerra). Un blocco poliziesco permanente aveva
interrotto la strada delle Gallie all’altezza dei piloni autostradali: niente
più collegamento diretto tra Giaglione e Chiomonte. Ben presto comparvero le
prime recinzioni a delineare i contorni del progettato cantiere e della “zona
rossa”, comprendente la baita e i castagneti sottostanti. La risposta del
movimento fu il taglio delle reti con manifestazioni di decine di migliaia di
persone. Fioccarono denunce e arresti preventivi per gli attivisti.
Ma la baita continuava a resistere, amata e protetta, diventata
casa per qualcuno e luogo del cuore per tutti.
Lo sgombero avviene il 27 febbraio 2012, la mattina presto: un
esercito di poliziotti in assetto antisommossa contro un pugno di uomini,
mentre l’intera Valle sta salendo a dar manforte. Intorno a Luca morente ai
piedi del traliccio sul quale è salito inseguito da un automa in divisa non si
fermano i lavori di recinzione. La baita è dietro le sbarre, inglobata nel
cantiere, come gli antichi castagni, le casette sugli alberi, il pilone votivo
costruito dai credenti: un esproprio di fatto, prima di qualsiasi atto
ufficiale.
Dov’era il bosco arrivano le ruspe. Sradicati i castagni
centenari carichi di nidi e storia, i frassini e i carpini. Cancellato il
sottobosco di roverella e piccoli frutti. Interrotta la via all’acqua per gli
animali della selva.
Soltanto a metà aprile i terreni saranno espropriati, con la
procedura accelerata dell’esproprio temporaneo di beni ormai devastati per
sempre. Per denunciare tutto questo Marisa Meyer, alla quale il movimento aveva
intestato la baita e la terra, si incatena alle reti.
Da allora la nostra baita guarda desolata piazzali di cemento,
cumuli di detriti avvelenati da amianto e uranio, in un inferno di mezzi
sferraglianti, ruspe e autoblindo, prigioniera di un mondo capovolto, dove
l’anomalia è la sua figura gentile, con l’ultimo ciliegio selvatico che si
appoggia ai suoi muri, sfuggito alla mattanza. A guardarla a vista, nell’eterno
giorno artificiale del cantiere c’è l’esercito in assetto da guerra: una vera e
propria occupazione militare, estesa dalla Clarea a tutta la Valle, come accade
ai “popoli di troppo” finiti nel mirino dell’UE e della Nato.
Nonostante le finestrelle coi vetri rotti e il tetto che, privo
di lose, si sta sfaldando, la sua struttura è ancora salda, costruita come fu
con maestria.
Lunedì 3 agosto arriveranno con l’esproprio definitivo ed il
decreto di demolizione per abusivismo edilizio: nell’abusivismo legalizzato del
cantiere-fortino, voluto dai lobbisti delle Grandi Opere e retto dalle mafie
che si annidano nel cuore dello stato, la nostra piccola, amata baita è un
avversario pericoloso perché porta in sé la storia concreta di una lotta
irriducibile, generosa e bella per un mondo più giusto e vivibile per tutti.
A poche centinaia di metri, oltre il torrente, il neonato
presidio dei Mulini di Clarea sorride e aspetta…