Salvatore
Natoli:
gli esiti della
governabilità
di Giovanni Bianchi
Pubblichiamo
lo scritto di Giovanni Bianchi in prima pagina e non nella Rubrica
“Segnali
di fumo”, perché l’antropologia degli italiani si sustantia magnificamente nella lurida feccia che accomuna il
verminaio romano della cronaca criminale di queste ore.
Salvatore Natoli |
La diagnosi di Natoli
L'ultimo
saggio di Salvatore Natoli (Antropologia
politica degli italiani, La Scuola, Brescia 2014) ha tra i molti meriti
quello dello sguardo lungo. Di tenersi cioè lontano dal congiunturalismo e dal
sondaggismo per privilegiare la storia di lungo periodo, dove si radunano le
grandi trasformazioni e quei processi cumulativi in grado di creare le
mentalità che sopravvivono ai cicli politici, ed anzi, sempre secondo il
Natoli, proprio per questo "li determinano e per questo, seppure sotto
altra forma, si ripresentano".
Gli
autori di riferimento sono anzitutto il Guicciardini, il Leopardi, e
aggiungerei il Prezzolini e più ancora Guido Dorso -il maggior teorico italiano
del trasformismo- del quale sempre Salvatore Natoli si è occupato in altre
occasioni.
Per
il maggior filosofo dei comportamenti fin dagli esordi della modernità il
carattere degli italiani è stato determinato dall'assenza di senso dello Stato,
e quindi da una scarsa fiducia nelle istituzioni, e dalle conseguenze di un
decollo tardo e limitato del capitalismo, e con esso della sua etica.
Circostanza che ci obbliga a fare i conti con una assenza di Stato laico e con
l’inesistenza della cultura liberale conseguente.
Tutti
nodi che stanno venendo al pettine con il manifestarsi preoccupante delle
conseguenze di una debole efficienza media del sistema, cui si accompagna,
senza più riuscire ad essere antidoto, il perpetuarsi di una tradizionale
mentalità familistica, tutta interna al modello della famiglia mediterranea.
La
svolta è tale che anche il "piccolo è bello", tipico della filosofia
del Censis di Giuseppe De Rita, che per molti anni ha esercitato di fatto
l'egemonia sull'intellettualità italiana, risulta oggi inservibile per
affrontare i processi di globalizzazione: tutti oramai concordano, e non
soltanto per ragioni di ricerca, occorre ben altro!
Nella
prospettiva natoliana vengono anche recuperate le grandi sociologie, proprio
perché sottratte al tecnicismo congiunturale che le affligge, e quasi costrette
a riaprirsi nuovamente ai grandi orizzonti della storia. Gli italiani cioè non
solo presentano un deficit di Stato, ma anche un deficit di popolo, dal momento
che i popoli sono in qualche maniera frutto di un'invenzione a loro volta
politica, capace di stabilizzare i processi di identità.
Ecco
perché negli ultimi due decenni sono tornati a vigoreggiare i localismi, nipoti
dell'antico Strapaese, e le ideologie perdenti delle piccole patrie. Il tutto
ulteriormente complicato dalla presenza ingombrante della Chiesa cattolica, in
quanto potere temporale in grado di ingenerare equivoci e scombinare le carte
politiche secondo la celebre critica gramsciana.
Una
Chiesa comunque in grado di esercitare pesantemente e puntualmente un potere di
interferenza e perfino di interdizione. Il cardinalato
"tardorinascimentale" di Camillo Ruini appare in questa prospettiva
l'ultima tappa di un lungo percorso. E non è fortunatamente casuale che il
termine "valori non negoziabili" risultasse poco gradito a Benedetto
XVI e pare totalmente espunto dal lessico di papa Bergoglio.
Un’etica di cittadinanza
Secondo
Salvatore Natoli "gli altri Paesi non sono certo più o meno onesti di noi,
ma a far la differenza è un'etica pubblica che li rende più esigenti e meno
concessivi di quanto lo siamo noi". La critica impietosa e il sarcasmo non
sono del resto nuovi. In proposito Natoli cita abbondantemente il Giacomo
Leopardi del Discorso sopra lo stato
presente dei costumi italiani. Discorso che resta una pietra miliare per
l’autocomprensione del carattere -pregi e difetti, più difetti che pregi- della
nostra gente. "Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci.
Quelli che credono superiori a tutti per cinismo la nazione francese, s’ingannano".
Osserva
in proposito il Natoli: "Ora, come è noto, sono le condotte comuni e non i
grandi principi a rendere forti le democrazie".
Chi
infatti si sia preso la briga di leggere il corposo volume di Henry Kissinger
dal titolo L’arte della diplomazia, ricorderà
il giudizio sintetico ed acuto che l'ex segretario di Stato offre circa la
grande macchina democratica degli States, dicendo grosso modo che è impossibile
capire come esattamente funzioni e come riesca a funzionare, ma che alla fine
produce decisioni democratiche...
Tornando ai casi nostri, tra i
materiali più eterogenei e meritevoli di ascolto di questa democrazia sono gli italiani in
quanto popolo in faticosa democratizzazione su una troppo lunga penisola.
Popolo costruito e in costruzione: cantiere perennemente aperto dove gli
eterogenei materiali dell’antipolitica -dai campanilismi dello strapese alla
resistenza sui territori delle organizzazioni della malavita- prendono
gradatamente le forme della cittadinanza politica. Venti milioni di abitanti da
rendere cittadini nel 1861, al momento della proclamazione dello Stato
unitario. E poi 29 milioni di italiani all’estero, in cerca di lavoro in tutto
il mondo... Fino all’approdo di una nave nel porto di Brindisi brulicante di
ventimila albanesi l’8 marzo del 1991, che s’insedia nella nostra storia come
icona del cambio d’epoca.
Questi italiani non sono granché mutati
da quando li analizzava Giacomo Leopardi, sottraendosi già allora alla trita
retorica del poveri ma belli e ricordandoci che l'italiano è una figura
costruita nel tempo e che la sua persistente "anormalità" si
raccoglie intorno all'assenza di classe dirigente e all'assenza di vita
interiore.
È da questo background che discende a sua
volta la diffusa attitudine, tutta rassegnata, a pensare la vita senza
prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, ridotta e
tutta rattrappita nel solo presente. Questa disperazione, diventata nei secoli
congeniale, unita al disprezzo e al contemporaneo venir meno dell’autostima,
coltiva un intimo sentimento della vanità della vita che si rivela non soltanto
il maggior nemico del bene operare, ma anche lo zoccolo etico più fertile per
rendere questa sorta di italiano autore del male e rassegnato protagonista
della immoralità. Per cui può apparire saggezza il ridere indistintamente a
abitualmente delle cose d’ognuno, incominciando da sé medesimo…
Che le cose non siano sensibilmente
cambiate è testimoniato dalla presente situazione politica che vede un ceto
politico che, come si è più volte osservato, pur di perpetuarsi, ha rinunciato
ad essere classe dirigente. Di questo il "popolaccio" leopardiano s'è
accorto e convinto e la reazione è rappresentata dal disinteresse per la cosa
pubblica, dal disincanto per le regole etiche e morali, dall’astensionismo
elettorale. Siamo cioè in quel che David Bidussa definisce il “canone
italiano”, ripercorrendo l’idealtipo tratteggiato da Giuseppe Prezzolini, alla
vigilia dell’avventura fascista, sotto il titolo di Codice della vita italiana. I frequentatori abituali del nostro
corso lo ricordano senz'altro. Scrive
Prezzolini:
"I cittadini italiani si dividono in
due categorie: Non c'è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto
intero in ferrovia, non entra gratis
a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella
magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara
all'agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a
costo di perderci, ecc. questi è un fesso... Non bisogna confondere il furbo
con l'intelligente. L'intelligente è spesso un fesso anche lui... Il furbo è
sempre in un posto che si è meritato non per le sue capacità, ma per la sua
abilità a fingere di averle".
Viene passata in rassegna una gamma di
comportamenti diffusi, polarizzati intorno a due categorie, i furbi e i fessi,
che hanno sedimentato un modo comune di pensare nelle generazioni degli
italiani. Addirittura un fatto di costume. Prezzolini giunge di conseguenza a
fissare l'attenzione su una caratteristica relativa alla furbizia che denuncia
un atteggiamento comune a larghe schiere di connazionali. Scrive infatti:
"L'italiano ha un tale culto per la furbizia che arriva persino
all'ammirazione di chi se ne serve a suo danno... La vittima si lamenta della
furbizia che l'ha colpita, ma in cuor suo si ripromette di imparare la lezione
per un'altra occasione." E qui davvero non sai se ammirare l'arguzia o la
profondità dell'indagine psicologica.
Un guicciardinismo che cola di
generazione in generazione, non smentendo se stesso. Che ci accompagna in un
disincanto che di tempo in tempo l’acuirsi delle difficoltà quotidiane si
incarica di trasformare in rancore.
La vera anomalia è però che gli italiani riescono
ugualmente a modificarsi
battendo le vie
storicamente consolidate del trasformismo, dal momento che il trasformismo si
colloca ad un livello più profondo di quanto comunemente non ci accada di pensare, e anziché ritenerlo
unicamente un fenomeno degenerato di prassi parlamentare sarà bene provare a
intenderlo come una tipologia italiana del mutamento. Infatti la rete dei
personalismi e degli interessi particolari regge questo sistema e dal momento
che in qualche modo essa risulta “pagante” non solo è difficile da smantellare
ma ha ormai plasmato una mentalità diffusa, appunto, “nazionale”.
Esistono
invalicabili limiti di cultura che non si possono eliminare per decreto: alcuni
dei nostri maggiori sopra passati in rassegna ci hanno ricordato che gli
italiani usano lo Stato più di quanto lo servano, ed in compenso ne parlano
male.
Osservava
Natoli già in uno scritto del 1991 apparso nella rivista "Bailamme": "Nel contempo essi sono troppo abituati
alle delusioni e tendono, ognuno per conto proprio, a prevenirle cercando di
trovare soluzioni private o mettendosi alla ricerca dei cosiddetti appoggi
giusti al fine di ottenere più celermente e sottobanco quanto non riescono ad
acquisire alla luce del sole."
Da
qui discende un'evidente ipertrofia dello Stato come affare e perciò un uso
sempre più affaristico dello Stato, che è tanto più incidente quanto più lo
Stato è presente nella società. In questo modo in Italia si è venuta a mano a
mano costituendo una forma di organizzazione sociopolitica in cui pubblico e
privato si mescolano costantemente fino ad una vera e propria riprivatizzazione
dello Stato attraverso il sistema pervasivo dei partiti. (Enrico Berlinguer
parlò di "occupazione".)
Così
il fenomeno è esplicitato fino al suo dilagare nei giorni nostri, con una
cannibalizzazione delle forme del politico che si è fatta tribalizzazione della
società civile e quindi delle istituzioni, e addirittura della quotidianità
stessa. Ciò spiega come in Italia lo Stato sia pervasivo senza essere altrettanto
efficiente ed il privato non riesca mai ad essere così privato come dovrebbe e
come soprattutto va proclamando sulle diverse gazzette e nel diluvio dei
talkshow. Per questo il trasformismo non può significare soltanto prassi
parlamentare, ma assume la consistenza e il peso di una tipologia del mutamento della nazione.
Le
riforme sarebbero dunque da fare. Ma
come e da parte di chi? Nelle società ad alta complessità i sottosistemi che le
costituiscono godono di una relativa indipendenza e proprio per questo possono
evolvere in modo differenziato. Quel che è accaduto in Italia è proprio questo:
il sistema politico è reso inefficiente da quella stessa rete dei personalismi
attraverso cui si riproduce. Nelle società contemporanee infatti è possibile
constatare un pullulare di movimenti a diversa motivazione (sovente one issue) che sorgono e dispaiono ma
non sboccano in istituzioni. Quel che in questi casi è singolare notare è il
fatto che normalmente gli individui sopravvivono
ai movimenti cui aderiscono.
Risulta
così difficile individuare un responsabile da chiamare in causa, per l'evidente
ambiguità della rappresentanza politica. Ed inoltre, in una società in cui vi è
un'alta specializzazione delle prestazioni, risulta improbabile che i cittadini
abbiano la competenza di decidere sulla funzionalità delle regole.
Nessuna
società può essere cambiata per decreto, ma è in base alla sua “andatura
ordinaria” che si misurano successi e fallimenti. E bisogna segnalare che il
sistema Italia, anche se non riesce mai a correre a pieno regime, non è un
sistema totalmente bloccato. In Italia si è praticato sempre poco, ed in modo
incerto, il governo del cambiamento, ma ciò non ha impedito che vi fosse una
crescita, sia pure non programmata, una mescolanza di spreco e di
imprenditorialità.
È
in questo quadro che va collocato il discorso sulla casta di Rizzo e Stella, che ha cessato di essere un'inchiesta
giornalistica per diventare una categoria del politico italiano. Così pure deve
essere affrontato il tema di una diffusa area di sottogoverno, tema proposto da Stefano Rodotà.
Tra rappresentanza e
governabilità
Scrive
Natoli che "nel tempo gli italiani sono cambiati e cambiano, ma in
generale non dirigono i processi di cambiamento, li subiscono". Diventano
cioè diversi senza rendersene (pienamente) conto. Un lungo andazzo, un'indole
nazionale, una sorta di Dna e perfino una regolarità della politica italiana.
Osserva ancora Natoli che "perché una democrazia sia compiuta, è
necessario che le parti politiche si alternino ai governi; il ricambio evita
una sclerosi dei partiti e con essa una decomposizione della democrazia".
Problema fondamentale e che ci trasciniamo da sempre.
Ma
perché una democrazia sia compiuta, oltre a regole all'altezza dei mutamenti
che già si sono verificati, ci vogliono soggetti in grado di organizzare
pensiero politico e selezionare la classe dirigente. Questo manca da troppo
tempo alla politica italiana. L'interventismo giudiziario susseguente a
Tangentopoli nasce in questa anomia e in questa rarefazione del politico: i
giudici, nel vuoto e nello scempio delle regole, si erigono impropriamente a
soggetto politico. Pare anche, in qualche caso, che ci prendano gusto. Do you remember Ingroia?
Scrive
ancora Natoli: "Una vera e propria patologia della rappresentanza". E
infatti non possiamo essere i perenni nipoti della Trilaterale del 1974. Fu
allora che si disse: vi è un crisi della
democrazia prodotta da un sovraccarico di domanda; si rende quindi
necessaria una riduzione della complessità
per realizzare la governabilità del
sistema.
Il
presupposto teorico venne fornito dalla teoria luhmanniana, meglio nota
come teoria
della complessità. La parola chiave della teoria luhmanniana è complessità e vuol rappresentare la
crisi di ogni “spiegazione semplice”
del mondo e dei processi sociali : “il
mondo è complesso e rende sempre più inafferrabile la totalità degli elementi e
dei dati”. Perciò, non è più pensabile alcun “soggetto generale” che riesca a conoscere la totalità.
Tutto
vero, ma come si attrezza una democrazia, in quali tempi, con quali modalità,
con quali soggetti ai compiti che la complessità sembra assegnarle?
Non
a caso la governabilità veniva allora proposta all'Italia come antidoto a un
"eccesso di partecipazione". Dove il rischio e il problema non è
soltanto la protervia del vecchio, ma anche la concreta praticabilità
democratica del nuovo.
Conclude
Natoli (che non ha mai nascosto una puntuale
attenzione alla sistemica luhmanniana)
la propria disamina osservando che Guicciardini ha perfettamente ragione
nel dirci che è la forza delle cose a
renderci trasformisti. Sociologia dal respiro storico e alta e lucida
politologia.
Resta
davanti a noi la necessità di ricercare una soluzione politica, o almeno di
mettere in campo gli sforzi che accompagnano la sua ricerca. Non a caso le
difficoltà e gli interrogativi del renzismo si confrontano con i tempi
dichiaratamente stretti della fase, ma hanno radici lunghe che scavalcano,
attraversandola, la grave crisi economica e sociale.
Il
titolo di quest'anno pone con evidenza la centralità del tema. Usiamo -questa è
la prospettiva che propongo- il tempo del corso per costruire insieme un punto
di vista che ci trovi meno disorientati e meno impotenti.
Eppure
Ho
l’abitudine di definire la fase che viviamo come caratterizzata dalla politica
senza fondamenti, quantomeno perché la velocità del tempo e il tempo delle
decisioni sopravanzano la riflessione e il parlare (Parlamento viene da
parlare) delle decisioni da prendere. Salvatore Natoli ci aiuta -non soltanto
con questo testo in esame quanto soprattutto con l'intervista rilasciata a
Francesca Nodari- a non spaventarci della difficoltà e ad addentrarci nella
transizione.
Come?
Anzitutto con l'impostazione di fondo della sua filosofia dove ermeneutica e
genealogia sono il luogo dello sguardo e dell'elaborazione. Quindi, proprio con
le ultime pagine dell'intervista dal titolo La
mia filosofia, dove, dato a Luhmann quel che è di Luhmann, osserva che il passaggio nel quale siamo
inseriti non è dal pensiero forte al pensiero debole, ma dal pensiero semplice
al pensiero complesso. In secondo luogo perché, essendosi dall'Ottocento
sviluppate le tecniche come dinamiche applicative della scienza, siamo passati
dalla società del progresso alla società del rischio.
Scrive
Natoli: "Stare al mondo è
essere, oggi, in una situazione in cui siamo chiamati a governare la
contingenza. Da questo punto di vista, la mia riproposizione della virtù viene
incontro a questo, perché la virtù è
quella modalità di rafforzamento di sé, che è tanto più necessaria in una
situazione di improbabilità. La virtù, si badi bene, è il rafforzamento di
sé, ma non nella forma dell'onnipotenza, bensì nella forma della capacità di
saper costruire relazioni. Perché se noi consideriamo l'elenco di tutte le
virtù così come è presente nella storia della filosofia, non ve n’è una che per
essere messa in opera, non comporti una forma di relazione. Perché l'uomo
virtuoso, da solo, non esiste. Quindi la
virtù è il governo di sé, nel senso della capacità di attivare relazioni
positive con il mondo".
Il mondo, che è
dimora del nostro transitare, ma anche campo continuo d'azione.
NATALE 2014. FORSE
Luci e ombre di una città
Testo e foto di Paolo
Maria Di Stefano
Il tempo di Avvento è qui, a
preparar Natale.
Ha piovuto e piove come mai. A
tratti, promesse improbabile di sole d’inverno.
Forse anche per questo Milano è
pronta ad accendere le sue luci, come da tradizione: per cercare di rompere
questa cappa che la veste di grigio, ancor più di quanto non facciano la
politica e la cultura.
Le feste si annunciano vestite
anche di disordine e di egoismi.
Gli inquilini delle case popolari
manifestano tutto il loro disagio; gli occupanti abusivi, anche.
I primi, perché vivono ormai
prigionieri in casa, asserragliati per difendersi da chi, approfittando anche
di una breve assenza, è pronto ad appropriarsi della casa, e delle cose che
contiene; gli altri, perché sono alla ricerca disperata di un luogo nel quale
almeno sostare al coperto. E per questo, si organizzano, magari anche pagando
chi è in grado di segnalare il momento giusto per entrare.
Che è un’applicazione dei princìpi
della nostra economia: individuare le opportunità e sfruttarle, utilizzando la
legge del minimo mezzo. E c’è chi un ricovero se lo costruisce come può, spesso
negli angoli del benessere, sempre ai confini delle luci, come per esser
ricordati senza imporsi.
Su tutto, l’inefficienza (il disinteresse?) di
coloro che dovrebbero impegnarsi a risolvere i problemi nati dalla pianta
oscura della miseria e dell’emarginazione. Frutto dell’egoismo di ciascuno di
noi, solo apparentemente impotenti ad arginare l’appropriazione delle ricchezze
da parte di pochi a scapito dei tanti, sempre più deboli e sempre più numerosi,
e solo a parole fautori della dignità di ogni essere umano. Ma le feste sono
imminenti, e i pensieri vivono in un mondo di regali, di pranzi e cene in
compagnia, di vetrine, di luci, di suoni, di viaggi e vacanze, di rumori e di
voci… di tutto ciò che ha fatto il Natale fino a ieri, atteso più per ragioni
economiche e di immagine che per i valori che dovrebbe rappresentare e che, non
ostante tutto, rappresenta.
Oggi, il Natale si è fatto forse
(appena) un poco più pensoso e consapevole. Siamo tutti più poveri, e allora più
di qualcuno sembra ricordare i valori dello spirito, magari soltanto per
risparmiare.
Che potrebbe anche tradursi in
quella cultura degli altri che sembra ridotta ad un’ombra nella nebbia. Forse
anche per questo Milano si prepara ad illuminare il suo Natale.
La città ha sprazzi di vitalità,
anche interessanti. Si aggiorna e si rinnova a ritmo veloce, forse discutibile,
ma lo fa. Forse solo in vista di una esposizione dalla quale spera si avveri
una parte dei sogni di nuova ricchezza, ma lo fa.
Via Croce Rossa |
Forse la delusione sarà grande,
ma almeno una parte delle nuove cose rimarrà. Fosse anche solo un ricordo. Il
Natale dell’anno passato -appena ieri- ha visto per la prima volta piazza Gae
Aulenti ornarsi di luci. Queste.
Piazza Gae Aulenti |
Tutto “in progress”, ancora. La
piazza aveva allora l’aria di un grande cortile e le decorazioni, in fondo non
eccessive, sembravano occupare ogni spazio. Solo una idea di abete. Suggestiva,
e in qualche modo ispirata al respiro del mondo, in quel convivere di luci e di
colori e di parole. Nell’aria, quasi
un’attesa di partecipazione da parte dell’osservatore: un invito, forse, a
contribuire a creare la nuova Milano.
Oggi la piazza è cambiata. È
cresciuta. Qualcuno afferma che contribuisce non poco a snaturare la città,
dimenticando che una città è per definizione un cuore pulsante e vivo e un
organismo in continuo aggiornamento, che deve dare risposte ai cittadini
dell’oggi, anche divenendo memoria storica. “Nessuna città viva ha mai risposto
a precise esigenze di programmazione, a nessun tentativo di logica oggettiva”
ha risposto alla mia domanda il mio Spirito Guida, Alessandra, architetto che
progetta idee e creatività. “In casi sporadici è accaduto, ma soltanto in
parte. Le città vivono dell’oggi e del sentire di chi le abita. E di chi le
abita pietrificano l’essenza.
Sforzarsi di costruire la città
ideale è la maggiore e forse la più dannosa delle utopie”.
Le luci di questo Natale stanno
per nascere. Piazza Gae Aulenti certamente le vivrà per quello che essa è:
forse la migliore espressione di una fantasia creativa alla quale per lungo
tempo Milano è parsa estranea, ma che, oggi, sembra avviarsi a conquistare
l’anima della città.
Trombe in piazza Gae Aulenti |
Nel cantiere che progetta e
realizza idee e fantasie, popolato di architetti e da giovani artisti,
entusiasti del lavoro cui sono stati chiamati, Alessandra è impegnata e lavora
senza sosta. Crea, e adora farlo. Il giorno e la notte e il tempo sono spariti.
Non riuscirà a tornare neppure quest’anno nella città e nella casa che ama, ma
è dentro di me e di sua madre e parla e sorride e fa del nostro un Natale
diverso, un Natale di ricordi, di certezze e di speranze. Mi ha dato un
incarico: augurare a tutti un Natale fatto di luci affascinanti, e di musica
che in quelle luci trovi i suoni della felicità.
E un Natale dal quale nessuno
debba nascondersi.
barbone a Milano |
Un Natale che unisca la felicità
di ciascuno a quella di anche uno soltanto degli ultimi.