PIETRE D’INCIAMPO
di Giorgio Colombo
Ecco come Torino ricorda i suoi
figli della shoah.
Una pietra alla memoria anche dei
fratelli Colombo.
Un momento della posa di una delle pietre d'inciampo |
Stolpersteine, pietre d’inciampo, così le ha nominate l’artista
tedesco Gunter Demnig: blocchi di pietra con una piastra in ottone nella
quale sono incisi i nomi dei morti nei campi di sterminio nazisti, blocchi
interrati di fronte ai negozi, uffici o abitazioni dove sono vissuti quei
cittadini sequestrati, deportati, ammazzati nei campi di Auschwitz-Birkenau,
Bergen-Belsen, Bogdanovka, Buchenwald, Chelmno, Dachau, Flossenburg, Maidanek,
Mathausen… Stolpersteine, le parole sono pietre (così intitolava nel
1955 un suo libro Carlo Levi), e le pietre possono costituire un breve
sussulto, un intoppo, inciampare in un ostacolo, uno stimolo, un lampo
animale, ripensare, tornare a qualcos’altro, girarsi, voltarsi, ricordare, un raddoppiamento, ritornare a qualcosa, c’è di mezzo il
cuore, memoria, una emozione, un dolore,
forse. Dai nomi alle persone, alle cose, al passato, alla intermittenza della
memoria. Sì, perché spesso si cerca di cancellare un passato doloroso. Così il
ricordo si annebbia e sparisce. Si vuole farlo sparire, non sempre riuscendovi.
Un groppo in gola, un fatto privato, non
una ricorrenza pubblica, non una bandiera collettiva, una festa dove il gruppo
trasforma il singolo. Non reduci di una
guerra, magari con una sbrindellata divisa, ma sopra-vissuti di un
incomprensibile massacro. Al contrario ‘Per
non dimenticare’ era il titolo che cominciava ad accompagnare le
presentazioni ai giovani, nelle scuole sulle atrocità della guerra appena
trascorsa. I superstiti dello sterminio, stupiti di essere ancora capaci,
avevano ricominciato con reticenza,
faticosamente, a parlare e a
essere ascoltati: “a tirare fuori quello che avevo dentro”. Il nome di Primo Levi entrava con difficoltà
nell’editoria. Oggi tutte le sue opere,
anche gli interventi sparsi, occasionali, unico caso di uno scrittore italiano -neppure
Dante-, sono tradotte e pubblicate in USA
dall’editore Liveright.
Dimenticanza e ricordo, due termini che si
rincorrono. La dimenticanza è sempre
interrotta da ricordi, anche imprevisti, sbucati all’improvviso, magari un
sorriso o magari un brivido ricacciato
nelle dimenticanze. Un gioco a rimpiattino: ricordi cancellati, respinti -rimane una traccia
d’angoscia-, ricordi affettuosi,
illuminati, richiamati con piacere, ricordi vicini sempre più sfuggenti col passare degli anni. Allora-ora!
I Colombo mentre giocano a bocce |
1941 I due fratelli
(Benve)Nuto e (En)Rico e il cugino Edoardo, mio nonno, tutti Colombo, giocano a
bocce nella villa di Luserna, un paese della Val Pellice. La villa apparteneva
ad un ufficiale sabaudo, generale Morozzo Della Rocca e manteneva ambienti, per
noi bambini, favolosi: la sala da bigliardo, le cucine sotterranee col
saliscendi, la grande biblioteca e all’esterno una fontana con vasca e germani
natanti, e un boschetto che scendeva pericolosamente sino al fiume. Una porta
non doveva essere mai aperta quando entravano silenziosamente i grandi, come
dei congiurati. Sapevamo benissimo che andavano a sentire “Radio Londra”. I tre
Colombo erano in vacanza prolungata dalla loro città, Torino, avendo dovuto
cedere ad altri i rispettivi negozi, Nuto e Rico “Alle province d’Italia”, un grande emporio di tessuti e abiti
pronti, e un negozio di pellicce e cappelli, “Fratelli Torta suc.” Edoardo, per la impossibilità di mantenerne
la titolarità secondo le leggi razziali vigenti.
Nuto e Rico Colombo |
Ora ritorno all’oggi, o
meglio al giovedì 21 gennaio scorso, quando Gunter Deming con una cerimonia in
piazza Castello angolo via Garibaldi a Torino, dove si aprivano le vetrine del
negozio “Alle province d’Italia”, ha
cementato nel marciapiede la pietra d’inciampo dedicata ai fratelli
Benvenuto ed Enrico Colombo e al figlio
di Benvenuto, Mario, deportati e morti ad Auscchwitz. Edoardo si era nascosto
con altro nome; generosamente accolto presso una famiglia di gestori agricoli
presso il paese piemontese di Verolengo, è così sfuggito alla deportazione. Il
caso dei fratelli Colombo è ricordato da Raffaello Levi durante la cerimonia di
Torino: “Benvenuto ed Enrico furono vittime
del tradimento da parte del loro dipendente di fiducia (nominato dai due
proprietari in loro sostituzione) che li denunciò alla Gestapo: quell’uomo li
vendette per intascare la taglia, cinquemila lire per ogni ebreo denunciato e
per appropriarsi del negozio”. Venuti a Torino per un incontro di affari al
caffè Zucca di via Roma, trovarono le SS che li aspettavano. Deportati con
Mario ad Auschwitz furono uccisi al loro arrivo. Mario sopravvisse e morì nel
marzo del ’44. Dopo la guerra il dipendente che li aveva traditi fu processato,
però senza una condanna perché l’amnistia aveva cancellato i reati degli anni
di guerra. Italiani brava gente.
L’iniziativa
di Gunter Demnig è iniziata a Colonia nel 1995 e ha portato nel 2015 alla
installazione di oltre 50.000 “pietre”: “Qui abitava… nome, data di nascita e
di morte”. In Italia le troviamo a Roma, di cui è nota la tragica distruzione
del ghetto, la prima città in Italia, per interessamento di Tullia Zevi, e poi
in tanti diversi luoghi, anche di piccoli paesi, là dove si era scatenata la
furia nazi-fascista, Gorizia, Venezia, Reggio Emilia, Correggio, Genova,
Livorno, Prato, Brescia e ora, dall’altr’anno, a Torino, a cura del Museo
diffuso della Resistenza (fotografie di Fabio Melotti).
Allora-ora. Parole, pietre, ricordi,
dimenticanze.