di Luca Marchesini
Milano
raccontata con incantata affettuosa meraviglia, da uno scrittore di particolare sensibilità.
Veduta di Corso San Gottardo |
Sono nato a Milano da madre
nata a Milano da madre arrivata a Milano bambina negli anni Dieci del
Novecento. La mia matrilineare milanesità appare dunque ben consolidata e, se a
questo si aggiunge che a Milano ho sempre vissuto, verrebbe da pensare che il
mio stesso modo di essere e vedere le cose ne abbia risentito a fondo; che con
questa città io sia insomma pienamente consustanziato. E invece.
Invece,
per le sue strade, fra le sue case, mi sono sempre mosso un po’ con l’occhio
del forestiero: subendone il fascino ma, appunto, come il forestiero, che fa
magari una certa fatica a intendersi con la popolazione autoctona, ne parla a
stento la lingua, ne sente in parte estranea la mentalità e nel quale tuttavia
proprio tale impressione di lontananza genera una sorta di curiosità acuta, di
incantato stupore.
Veduta aerea del quartiere Ticinese |
Curiosità.
Stupore. Nei confronti dei luoghi così come della gente: un binomio, tra
l’altro, difficilmente scindibile, specie dove il tempo sembra essersi interamente
trasfuso nello spazio. Penso ad esempio alle bettole che costeggiavano i
navigli, il Naviglio Grande così come il Naviglio Pavese, ancora all’inizio
degli anni Settanta. Non sto parlando della miriade di locali sorti in seguito,
di fatto indistinguibili l’uno dall’altro se non per scelte estrinseche più che
altro d’arredo. Parlo delle vecchie osterie, ciascuna delle quali aveva una
propria storia e un proprio carattere, che di tale storia era il compendio;
dove si poteva pensare che anche un secolo prima come ora si mangiasse alla
buona, vuotando un bicchiere e parlando male del governo, e che come ora un
popolano corpulento magari si alzasse tra i tavoli per intonare con voce di
baritono un’aria d’opera o un canto di rivolta.
Tutta
quella zona sembra d’altronde portarsi dietro il proprio passato, rappreso nei
muri delle vecchie case, spesso ristrutturate all’interno, ma il cui aspetto
ancora trasuda un’antica miseria. Basse finestre ad altezza di ginocchio
nascondono seminterrati che un tempo dovevano servire da abitazioni. In ogni
angolo, echi di moti insurrezionali ottocenteschi o primo-novecenteschi.
Difficile
separare certi dati, che con fuorviante approssimazione si potrebbero definire
oggettivi, da più personali suggestioni e onirismi di vario genere.
Il
forestiero, il viaggiatore in incognito, è sempre un po’ incantato.
Le tipiche case di ringhiera |
Ma in
fondo è questa stessa città a richiedere, per essere compresa, una certa
ipertrofia dell’immaginario. Una città che ha i suoi tesori d’arte, talora
anche seminascosti (entri in un anonimo portone e ti ritrovi in un cortiletto
che scopri essere del Bramante), ma che non può certo competere, su questo
terreno, con città ben altrimenti monumentali. Il fascino di Milano si cela
semmai negli anfratti: qualcosa di segreto, capace di stimolare un interesse
paraerotico più di una bellezza ostentata. Alcuni portoni che danno sul corso
San Gottardo svelano vicoli inaspettatamente lunghi e tortuosi, veri e propri
angoli di città rimasti incassati in antichi edifici. Altre volte, varcata la
soglia, ti ritrovi invece in un cortile, oltre il quale non di rado se ne apre
un secondo e magari un terzo: spazi che possono anche presentare caratteristiche
per nulla simili, testimonianze di epoche diverse orizzontalmente sedimentate,
fino a una ruralità ancestrale.
Uno dei due navigli di sera |
Altrettanto
se non più antiche sono poi le costruzioni che costeggiano il corso di Porta
Ticinese, soprattutto dalla parte dei numeri pari. Cunicoli angusti e bui, ma
di foggia elegante, dalla strada conducono a volte a spazi interni assai suggestivi,
dove scale dalla balaustra in ferro si inerpicano perdendosi nell’ombra. È da
questo lato del corso che si snodano alcune plurisecolari stradicciole, legate
a vicende cittadine di vario genere: la via Scaldasole, sede di uno storico
circolo anarchico, e la via Vetere, che trae il nome dal vicino convento delle
Vetere ovvero delle vecchie, così detto perché vi avevano trovato rifugio le
ultratrentenni (tutte indistintamente vecchie, secondo i parametri di allora)
ai tempi di Federico Barbarossa, i cui soldati non pare andassero tanto per il
sottile né dessero troppa importanza al femminile consenso.
Gli archi di Porta Ticinese |
Ma è
tutta la città a lasciar trasparire in ogni sua piega le stratificazioni del
tempo. La stessa periferia è costituita in larga parte da antichi borghi, che
la successiva espansione del tessuto urbano si è limitata a inglobare,
mantenendone il carattere e la struttura. Da qui una sorta di naturale
integrazione fra le diverse aree, un’organicità che, quando ero ragazzo, e
della topografia locale non avevo una chiara visione d’insieme, mi faceva
pensare alla mia città come a un mondo, perlopiù sconosciuto o conosciuto solo
quanto bastava ad accendere la curiosità per le sue immense inesplorate
retrovie; vicino e lontano insieme. Un mondo o piuttosto un organismo vivente, con
le sue segrete connessioni, il suo serale scintillio, e un odore particolare,
di notte, un sottofondo che nella stagione invernale tendeva a circondarsi di
nebbia saturandosi poi, all’inizio dell’estate, di un’acquosa vegetale pesantezza,
come una fermentazione di rose e foglie fradice.
Cortile fiorito sul Naviglio Pavese |
La sola
città in cui mi sembrava, allora, di poter vivere. Anche se poi quella che
avevo in mente era solo la parte di essa che più mi era familiare e
comprendeva, oltre al centro storico, la zona meridionale e sudorientale, da
Porta Ticinese a Porta Romana o poco oltre, spingendosi sul lato opposto fino a
Porta Genova, con il Ponte in ferro della stazione e il suo carico di memorie
storiche reali o immaginarie, con le residue reali o immaginarie tracce di catrame,
di carbone, di vapore sporco e, subito dopo la linea ferroviaria, il dedalo
delle vie buie e attorcigliate fra bassi edifici che mostrano talora l’annerita
crudezza del mattone.
Il vicolo dei Lavandai |
Una città
dalla monocromia solo apparente. Non mi riferisco ai colori pugno nell’occhio
che qua e là vi sarebbero stati iniettati in seguito da taluni non luoghi o da
qualche avveniristica scultura. Parlo proprio delle sue tinte tradizionali: del
mattone, appunto, nelle sue diverse tonalità; del giallo di certi intonaci
illanguidito dal tempo; del suo stesso grigio in realtà mai uniforme, pronto a scivolare
nell’ombra fuligginosa delle rientranze, nell’umida trascuratezza dei
sottobalconi, nel ferro denudato delle ringhiere, nel buio delle vecchie strade
schizzato di sole. Una città che in certi suoi angoli sembra richiamarne altre.
La via Brera per esempio, con i suoi antichi edifici e i numerosi locali, mi ha
sempre fatto pensare a un ambiente parigino. È qui che s’affaccia, in mezzo a
tanti altri caffè, il bar Jamaica, storico ritrovo di artisti e intellettuali fin
dai primi anni del dopoguerra, con le piastrelle bianche alle pareti lasciate
intatte. Ed è da qui che si diparte la via Fiori Chiari, tutto un susseguirsi
di posti di ristoro, assieme all’opposta via Fiori Oscuri e a una fitta rete di
vicoli che vanno a imbrigliare una zona in cui la città stessa sembra affondare
le proprie radici: una zona che comprende alcune note istituzioni, come la
Biblioteca, la Pinacoteca e l’Accademia di Brera, fino a lambire la sede
storica del Piccolo Teatro, in via Rovello, e, sul versante opposto, in via
Solferino, l’altrettanto storica sede del Corriere della Sera.
Uno scorcio di via Brera |
Ma a
conferire a certi luoghi un tocco parigino contribuivano anche, fino a qualche decennio
fa, numerose edicole dei giornali dalla foggia tipica: costruzioni in ferro
dipinte di verde, con il tetto aguzzo, simili a delle piccole pagode, che richiamavano
alla mente certe loro consorelle francesi. In effetti ovunque si avvertiva
allora un clima di apertura verso il mondo. Un clima che ben aveva sintetizzato
Umberto Saba dicendo che in questa città, alla sera, invece di stelle si
accendevano parole. Si accendevano parole, sì. Parole e anche tante luci. Cinema,
teatri, gallerie pedonali: tutto uno sfavillio. Poco dopo il tramonto, insieme
con i lampioni, in Piazza del Duomo prendevano a brillare, sulla facciata del
palazzo antistante la basilica, le insegne pubblicitarie, l’omino del Brill,
che soddisfatto si chinava a rimirare le proprie scarpe rossoraggianti, e il
muto ticchettare di una dattilografa.
Una città
con un respiro ampio, un po’ Parigi un po’ Vienna. Tutta la zona intorno a
piazza Cordusio, e la piazza stessa, richiamano viennesi atmosfere. C’era un
tempo, da quelle parti, un locale scuro, di legno scuro i tavoli legno scuro
alle pareti, come una residua vinosa testimonianza del dominio asburgico. L’intera
zona occidentale, d’altronde, nel suo versante meno periferico, da piazzale
Aquileia fino quasi al di nuovo francesizzante Parco Sempione, ricorda a sua
volta Vienna nell’eleganza degli edifici antichi e dei viali alberati, così
come nella struttura stessa della rete stradale, dalle maggiori nervature alle
sue propaggini ombrate talora da tigli plurisecolari.
Corso Sempione |
E, poi, c’è,
o forse c’era, anche una Milano un po’ russa. Certe case povere, estrema
periferia. Una stanza e un sottotetto dalle pareti bianche, spoglie, con
qualche macchia d’umidità. In un angolo il borbottare sonnolento di una stufa a
kerosene. Una crepa, nel vetro di una finestra, ricoperta alla buona con della
carta gommata. Ne filtrava una puntura di gelo invernale, presto collusa con l’odore
del kerosene e la calda essudazione come di muffa dei muri umidi. La sera
scendeva presto, azzurra. Nella stufa, una grassa fiammella oscillava, di qua,
di là, come una serpe indolente. La misera stanza di Raskol’nikov, materiale
combustibile a parte. Una strada non asfaltata si allungava pochi metri più in
basso, un sentiero di ghiaccio e fango.
Milano. Con
i suoi colori e i suoi odori. Quelle che ho conosciuto in gioventù erano le
testimonianze di una civiltà preindustriale: travi fradice, carbone, fumi
grassi dell’inverno, cuoio nafta pezza bruciata. La neve cadeva allora in
abbondanza, trasformando il paesaggio urbano, e anche la nebbia era molto più
fitta, in certe notti le lampade allo iodio la impregnavano del loro umore
medicamentoso. Quel giallo denso, da tuorlo d’uovo però sterile: solo chi ha
con questi luoghi consolidata dimestichezza riesce in genere ad avvertirne il
potere di fascinazione, come un richiamo ancestrale.
Ma prima,
prima: prima ancora della mia nascita. Le cose che mi sono state raccontate e
che, pure, ho visto. I colori e i
suoni della mia preistoria. I gridi delle rondini, d’estate, nel cielo di un
caseggiato di ringhiera, in pieno centro cittadino. I giochi dei bambini ai Giardini
della Guastalla o in una piazza del Duomo non ancora circumnavigata dalle
automobili. Dappertutto, inconfondibile, l’odore dei pessitt, cioè dei pesciolini, minuscoli pesci (solo girini nella fase
pisciforme?) pescati nei fossi e fritti nell’olio di lino (nell’olio di lino!)
che le osterie alla buona offrivano con la polenta. E poi le discussioni
semiclandestine negli anni del fascismo, e L’ora
delle decisioni irrevocabili, e la città bombardata, e la ricostruzione,
nel clima effervescente del dopoguerra, e, e, e.
San Cristofaro sul Naviglio |
La mia
prima casa: via Ada Negri 2; ma, al tempo della mia nascita, via Antonini 51/2,
a quel breve svincolo non essendo stata ancora riconosciuta onomastica dignità.
Ed ecco il tempo scorrere all’indietro, mentre lo sguardo si sposta verso
quell’angolo di periferia: un po’ come quando si scruta lo spazio profondo e
più vi ci si addentra più ci si approssima al big bang. La via Antonini: uno
stradone che ancora in parte separa, ma assai più nettamente separava allora,
la città dalla campagna. La città o piuttosto le sue recenti e non ben
consolidate propaggini, precarie teste di ponte di un esercito in rapida
avanzata. Una fila di palazzi, sorta di grigi casermoni messi di sbieco, uno di
fianco all’altro, a formare mezza lisca di pesce. Dalla parte opposta della
carreggiata, un sipario di edifici più o meno anni Venti, con il pianoterra
occupato da negozi, e, subito dietro la sottile parete (una cosa tipo cittadina
del far west, magari allestita in un set cinematografico), campi, rogge,
cascinali. Ovunque un vago sapore di provincia americana, far, appunto, o
middle west. La notte, d’estate, giungevano nella mia camera le voci degli
avventori di una vicina osteria sghembe di vino.
Il bellissimo campanile di San Gottardo |
Case
popolari. Lungo le scale, odori di cibi poveri, perlopiù del sud: frittata,
peperonata. Anni di forti migrazioni interne. Lì, sulla prima rampa,
stazionavano spesso i bambini, fra giochi e scambi di parole, talvolta
sfidandosi in un temerario salto in lungo, chi cinque gradini chi sei, i più
ardimentosi azzardandosi a sorvolarne ben otto, con uno scatto felino dal
pianerottolo del piano rialzato. Tutto intorno, un camminamento e una striscia
di prato con qualche albero, e la siepe di mortella a fianco della recinzione.
I negozi
lungo la via Antonini evocavano atmosfere dickensiane. Poco dopo la macelleria,
con i marmi e l’odore di tutte le macellerie, c’era la rivendita di frutta e
verdura: all’avvicinarsi delle feste natalizie, specie verso sera, un’immagine
di vegetale opulenza punteggiata di rosso, di giallo, di viola. C’era la
salumeria, col suo banco altissimo riparato da un vetro scuro in cui si
specchiava il volto di un bambino. Mentre la moglie stava alla cassa, lui, il
salumiere, non faceva che tagliare impacchettare e scrivere numeri direttamente
sulla carta da imballo, con una matita che riponeva ogni volta dietro
l’orecchio, con velocità da giocoliere. Una barra metallica tipo ventilatore,
appesa al soffitto, con due strisce di carta oleata alle estremità, ruotava senza
sosta, nel tentativo utopico di disconnettere mosche e salumi. E c’era la
latteria, presidiata dentro e fuori da una sorta di nube, vaporosa sintesi di grasse
essudazioni e frescura, fra latte e latticini vari, fra gelati che un apposito
macchinario sfornava di continuo e insipidi e coloratissimi ghiaccioli. La
vecchietta (ma poi chissà, forse solo una vetera)
che gestiva il negozio insieme con le liquirizie e le gomme da masticare
vendeva anche delle cosiddette sorpresine,
buste microscopiche con dentro un cowboy di plastica o un indiano di plastica o
un cavallo di plastica, non c’era scampo, quello che non si sapeva era solo
quale delle tre cose si sarebbe trovata, però quel minimo d’incertezza, e quel
nome evocativo, sorpresine,
producevano nonostante tutto un eccitante senso di mistero.
Il Ponte degli artisti in Porta Genova |
America;
un’America d’antan. Qualcosa che
aleggiava un po’ ovunque: nel languore vagamente tomsawyeriano del campo
sportivo (specie verso l’estate ne giungevano, con le voci dei giocatori, i
tonfi attutiti delle palle da tennis) e, poco oltre, della piccola pasticceria
Felisi; nei giochi semplici dei bambini nei viottoli; nello stesso aspro odore
di caffè che una torrefazione diffondeva per tutto il quartiere; nell’orizzonte
texano, solo cielo, che si apriva tra le rade costruzioni, fabbriche, uffici,
oltre la via Ripamonti. Lontano, grigia nella distanza, la sagoma di un gasometro.