di
Fulvio Papi
La
costituzione di un gruppo di orientamento socialista con la definizione
“Gramsci Matteotti” mi pare molto positiva perché proprio nel suo nome indica
un problema storico della sinistra italiana, che è rimasto senza alcuna
soluzione unitaria – impossibile praticamente ai tempi di allora – che ora,
almeno idealmente, indica una direzione forse praticabile. Anche se io, proprio
come filosofo, so che il tempo consuma, ma difficilmente rende qualcosa.
Dire
due parole sul nome. Per Matteotti intellettualmente e politicamente non c’è
nessun problema. Educato al socialismo riformista e legato agli elettori
popolari (poveri e molto disagiati) della sua zona, è una figura morale
“univoca”. Per Gramsci la situazione è differente. Gramsci del ‘19 – ‘21, del
celebre articolo sulla Rivoluzione russa “contro il Capitale” sull’Avanti! torinese, quindi un Gramsci
soprattutto (gentiliano) anti positivista, oppure il Gramsci del ’33 -’34
quando è in piena rottura con la politica dello stalinismo e della III
Internazionale?
Linea
perfettamente documentata, non fosse altro che dalla celebre memoria di
Pertini. Questo forse è utile capire perché esistono ancora personaggi magari
solitari che riprendono il Gramsci torinese, allora geniale, dei “Consigli di
fabbrica” del 1921.
Punto
centrale: nonostante la ammirevole dignità degli interventi, la presa di
posizione intorno alla priorità del Partito mi pare sbagliata. Tutta la storia
dei partiti, da quella inglese a quella tedesca (nell’800) mostra che il
partito nasce se vi sono situazioni sociali oggettive che richiedono, con la
loro stessa esistenza, l’organizzazione politica in un Partito che trova la
propria identità in un processo culturale e politico. Il Partito quindi è una
forma storica e contingente che non può mai essere identificata con un’“idea”
di partito. Se non si tiene conto di questa realtà, che dipende da una
pluralità di condizioni sociali che analizzeremo nella nostra realtà, il
“partito” ha necessariamente una duplice caratteristica: 1) o il Partito
avanguardia di tradizione leninista: partito di quadri; 2) o il Partito
“idealista” , ovvero di “élite intellettuali”, molto nobili ma astratte, come
in Italia mostra la storia - nobile, ripeto - dei liberalsocialisti che non ha
avuto un vero rilievo sociale (nei “partiti di massa”) e che oggi serve
soprattutto a pubblicisti facili e a storici un poco di superficie, per
mostrare un modello positivo di contro al modello negativo del bolscevismo
(linea Lenin-Stalin del resto controversa, cfr. Gramsci).
Riassunto:
il partito può nascere non con un gesto intellettuale anche generoso e una
comunicazione digitale e individuale, ma solo interpretando esigenze diffuse
nella obiettività sociale e nei modi in cui essa viene interpretata a livello
simbolico, individuale e collettivo. Per parlare di Partito in una forma che
abbia qualcosa di tradizionale (oggi i Partiti sono di fatto dei derivati delle
forme dominanti di comunicazione) occorre avere un quadro chiaro e non antico,
o immaginario, delle varie modalità della realtà sociale.
L’analisi
sociologica contemporanea ha fornito modelli interpretativi molto positivi:
dalla antica teoria della “società dello spettacolo” a quella dei “simulacri”,
a quella più recente della “modernità liquida”, o quella di questi mesi della
società a “emancipazione zero”. Ma bisogna tenere presente tutti gli elementi
distruttivi che sono presenti nella nostra vita storica e la certezza che la
prosecuzione dell’incremento produttivo con le forme tradizionali dell’energia,
offra uno spazio dai 12 ai 20 anni prima che si risolva in una catastrofe
antropologica. Nei prossimi anni, se va bene, solo il 18% dell’energia
necessaria alla nostra forma di civiltà, sarà di natura rinnovabile. Il che
provocherà una emigrazione di circa mezzo miliardo di persone.
Se
poi si volesse tornare ai “classici”, allora si potrà dire con il vecchio Marx
che è la condizione sociale che provoca le idee, e non le idee che provocano la
situazione sociale. La critica, come si sa, è rivolta allo Hegel storico e allo
Hegel etico – giuridico. Cose dell’Ottocento che ebbero una loro attualità fino
ai primi decenni del ‘900 (il conflitto tra Lenin e Rosa Luxemburg, tra
Bernstein e Rosa, etc.). Questa è storia che è bene ricordare per non cadere in
forme arcaiche di pensiero. Per quanto riguarda l’Italia è utile ricordare la
posizione di Mondolfo che volle che volle essere contemporaneamente marxista e
riformista, molto interessante tra socialisti massimalisti aperti ad
avanguardismi epocali molto rozzi, e socialisti riformisti spesso limitati
nella loro prospettiva da residui positivistici. Ma, lasciando la storia, è
utile tornare all’analisi contemporanea. Noi abbiamo una trasformazione della
modalità produttiva che mostra differenze radicali secondo le proporzioni dell’unità
produttiva stessa e dei metodi di lavoro. Esistono ormai scaffali di
biblioteche su questi temi. Devo però dire che molte cose sono state scritte da
filosofi “imbecilli”, i quali scambiarono il lavoro digitalizzato con
l’intelletto collettivo che nel suo esercizio sociale superava la
“alienazione”. Scemenze, le quali dimostrano che non sono ben note due nozioni
fondamentali in Marx: a) l’umanesimo filosoficamente materialistico e
socialmente idealistico; b) l’indebolimento di questa forma di umanesimo,
quanto più avanza in Marx stesso l’analisi delle strutture fondamentali del
sistema capitalistico (III vol. de Il Capitale). Sembrano cose da specialisti,
invece sono nozioni fondamentali per capire lo sviluppo del “modo capitalistico
di produzione” che oggi è radicalmente diverso da quello che studiava Marx,
anche se è importante tenere conto dello sviluppo storico delle categorie
tradizionali, per capire il nostro presente, dalle cui condizioni sociali
ricevere la possibilità di costruire una forma politica. Esistono preziose
analisi economiche del capitalismo finanziario mondiale di natura post –
keynesiana che qui non è il caso di riassumere.
Una
qualsiasi prospettiva di sinistra, da cento e più anni, fa centro sulla forma
sociale del lavoro: dalla manifattura, alla fabbrica meccanizzata, all’unità
produttiva fordista. Questa è solo storia. Gli studi sulla trasformazione del
lavoro sociale sono numerosi. Io mi limiterò qui a una considerazione che è già
stata fatta da più giovani studiosi. Il capitale produttivo tradizionalmente
veniva considerato come capitale fisso (le macchine) e capitale variabile (la
forza lavoro). Oggi il capitale variabile è diventato prevalentemente capitale
fisso. Questo vuol dire che la struttura antropologica è selezionata in ordine
al modello produttivo. Conoscere lo strumento, non vuol dire saper adoperare lo
strumento, ma diventare la parte vivente dello strumento stesso, parte vivente
integrata nella forma tecnologica. Non mi dilungherò come sarebbe possibile, ma
mi limiterò ad osservare che le “parti viventi” di un sistema tecnologico
producono figure antropologiche che non costituiscono più spiritualmente una
comunità lavorativa (se non in casi eccezionali, tipo esuberi) ma tendono a
riconoscersi nella loro individualità. Questo non vuol dire per nulla che sia
mutato il rapporto profitto – salario, ma che esso è vissuto dal lavoro –
da chi lavora – in una forma simbolica molto differente. Quindi risulta
difficile costituire un’unità politica (“sindacale” è un problema diverso), poiché
essa non ha più una condizione unitaria della forza lavoro nella forma del suo
processo produttivo. In due parole: la coscienza (che è un modo di vivere, non
una cosa) di classe (l’unità operativa del processo produttivo) è oggi un modo
di dire, per nulla una realtà sociale. Da questa ormai storica rottura sociale
derivano tre forme obiettive: l’identità collettiva nel consumo (che è il
“collettivo” di una pratica “individuale”), quale modo di essere al mondo;
un’idea di razionalizzazione, che è per lo più un incremento produttivo e
capitalistico di modi di esistenza già strutturati (per esempio la velocità dei
trasporti); infine una estetizzazione molto volgare dell’esistenza, ma soddisfacente
per la figura antropologica che è derivata da un vivere sociale del capitalismo,
che ha preso la forma materiale che un tempo aveva una dimensione “ideale”.
Queste considerazioni non tolgono nulla alla conoscenza dei disastri collettivi
che derivano dalla forma sociale di esistenza. La trasformazione climatica, la
distruzione della natura, la forma pessima delle città, gli effetti della
“cultura” affidati ad internet, a vari disagi sociali: scuola, salute,
inquinamento, etc.. Bisogna penso riconoscere che una risposta almeno morale,
dotata di una sua radicalità, viene più continua ed efficace dal mondo
religioso. Mentre è più difficile unificare questi fondamentali disagi sociali
in una forma politica, ma l’analisi del perché le cose stiano così porterebbe
lontano: si può dire che ciascuno di noi nella sua vita, e del tutto
involontariamente, è un riproduttore dell’insieme economico e sociale del
capitalismo. Queste considerazioni portano a dire che l’uomo “miraculum magnum”
è diventato la specie vivente nel pianeta che distrugge le sue stesse
condizioni di sopravvivenza. Ma questo è “pensiero”. Oggi in realtà, come ho
già detto, esistono ampi spazi negativi del sistema - mondo che, bene
interpretati, costituiscono le possibilità di un condizionamento alternativo,
almeno parziale. È qui che ciascuno, senza illusioni o nostalgie, può portare
il suo granello di sabbia.