di
Franco Astengo
Riporta
alla nostra memoria il cupo scenario degli anni’50, il tema della continuità
della produzione e dello spegnimento degli altiforni che si trova al centro del
drammatico confronto riguardante lo stabilimento ILVA di Taranto. Furono molte
nella fase del post-seconda guerra mondiale le occupazioni di fabbriche colpite
dalla ristrutturazione dell’industria colpite dalla riconversione post-bellica
e da scelte geo-politiche antioperaie compiute dal governo democristiano. Durante
quelle occupazioni, come già era capitato per la difesa dei macchinari nel
corso dell’invasione nazista, gli operai provvidero per quanto possibile
all’autogestione proprio per consentire agli impianti di funzionare e garantire
la completezza del ciclo produttivo.
Si
trattava di una classe operaia forte, stabile, concentrata, orientata
politicamente e sindacalmente dalla quale uscirono grandi quadri politici sia a
livello nazionale, sia a livello locale. Erano anche tempi di feroce
repressione poliziesca.
Gli anni ’50: quelli della polizia di Scelba
davanti alle fabbriche o ai campi occupati dai contadini, quando il
proletariato contava i suoi morti e lottava per affermare una diversa
condizione di vita da Modena a Melissa, da Montescaglioso a Battipaglia.
Chi
ha attraversato quel periodo, ad esempio abitando in una città operaia, ha
ancora nelle orecchie il suono lacerante delle sirene, lo stridore delle gomme
delle camionette che salivano sui marciapiedi dove i manifestanti cercavano di
ritirarsi, il Natale trascorso sotto le ampie volte di una fredda fabbrica
occupata oppure in piazza attorno a falò improvvisati, il commissario con la
fascia tricolore che ordina la carica, la miseria nelle case dove ci si
radunava per cercare di dare sostegno a chi proprio non riusciva più a cucire
il pranzo con la cena ma anche la solidarietà dei commercianti che facevano
credito e tiravano giù le saracinesche quando c’era lo sciopero.
L’Italia
del boom nacque in quel modo, attraverso i sacrifici immensi delle lavoratrici
e dei lavoratori passati attraverso una temperie straordinariamente pesante,
nel periodo - è bene ricordarlo - immediatamente seguente alla guerra,
all’invasione nazista, alle deportazioni, alle fucilazioni, alla Resistenza.
Oggi
Taranto e tante altre situazioni non ci offrono la stessa impressione: si sente
lontana la solidarietà di classe perché nessuno, proprio nessuno, è capace di
farla esprimere in forma collettiva, darle un senso, una prospettiva dello
stare assieme per cambiare le cose.
L’impressione
è quella di avamposti mandati allo sbaraglio, privi di retroterra e di
orizzonte: al di là della figura morale del Presidente della Repubblica tocca
ancora una volta, in questa Italia abbandonata dalla politica, alla magistratura
svolgere una funzione di supplenza.
Chi
ha vissuto sulla propria pelle quei tremendi anni’50 ha la sensazione del
ritorno all’indietro, ma anche di un peggioramento secco della capacità
collettiva di capire la condizione nella quale ci si sta trovando alle prese
con l’arroganza schiavistica di una multinazionale dal volto e interessi
ignoti.