LA LEONESSA
di
Angelo Gaccione
Brescia è una città bellissima;
per me una fra le più belle città d’Italia: su questa convinzione posso sfidare
chiunque a sostenere il contrario. Potete scegliere un Corso, un Viale, una
Contrada e percorrerla a caso: raramente voi incontrerete qualcosa che
visivamente offende il vostro sguardo. Non voglio con questo dire che non siano
stati operati dei guasti; sappiamo benissimo come il tessuto medievale sia
stato in ogni dove compromesso, Brescia compresa. Se ne lamentava a suo tempo
il celebre narratore francese Victor Hugo per la sua Parigi e ne scriveva con
dolore, come io ogni volta con dolore ne scrivo. L’aggressione alla trama
urbana medievale era stata feroce e gli aveva fatto aggiungere al passo di
Ovidio: tempus edax rerum, il sintagma homo edacior, e traduceva
polemicamente così: il tempo è cieco, l’uomo è stupido. Lo scrittore non
si era potuto rassegnare alla cancellazione di “Quel fitto di abitazioni
borghesi, pigiate come le celle di un alveare, [che] aveva una sua
bellezza” e così proseguiva: “La vista dei tetti di una capitale è, come
quella delle onde del mare, uno spettacolo grandioso. I vicoli incrociati e
intricati disegnavano in quell’insieme cento figure curiose. Attorno ai
mercati, [la Ville] appariva come una stella a mille raggi. Le vie
Saint-Denis e Saint Martin, dalle ramificazioni innumerevoli, salivano una dopo
l’altra come due grossi alberi che confondono i loro rami. Serpeggiavano poi su
tutto l’insieme come linee tortuose, le vie della Plâtrerie, della Verrerie,
della Tixeranderie, ed altre ancora”.
Immaginiamoci ora alcune delle nostre
città medievali dove più ferocemente sono penetrate le ganasce dei bulldozer.
Possiamo immaginarci anche Brescia circondata da mura, spalti, porte e pusterle;
possiamo immaginarci il suo cuore medievale prima
del 1929, prima della demolizione di tutta l’area delle Pescherie, per capire
cosa si è perso della sua atmosfera. “Il quartiere si sviluppava fra vicoli
angusti, larghi anche solo due metri, su cui si affacciavano edifici di
edilizia medievale che toccavano i venticinque metri di altezza” scrive
Giuseppe Spatola su ‘Bresciaoggi’. Un intrico armoniosamente dissonante, splendidamente
incoerente nel suo artistico “disordine” da costituire una vera e propria trama
poetica, una sinfonia di pietra, se mi permettete una metafora così ardita, che
da Piazza del Mercato fino al quartiere del Carmine, lambiva i portici di via Dieci
Giornate. Nemmeno possiamo dimenticare la barbarie dei bombardamenti aerei del
1944-’45: le infamie della guerra non si sono fatte scrupolo del patrimonio
storico e tanto meno delle chiese di questa magnifica città. E tuttavia,
malgrado le perdite, si è stati abbastanza accorti a evitare che “il nuovo”
preservasse il cuore; forse l’esperienza della megalomania monumentale espressa
dal regime fascista in Piazza della Vittoria, era servita abbondantemente a
vaccinare la città.
Le demolizioni |
Ho detto che Brescia è
bellissima, e dunque vi esorto a non dar retta a quanti sostengono che vi
basterà una mezza giornata per visitarla; diffidate anche delle guide e degli
uffici di informazione turistica. Mezza giornata vi basterà sì e no per Santa
Giulia e i suoi chiostri, e per l’area archeologica del Capitolium. In mezza
giornata potete solo “guardare”, ma “vedere” e soprattutto “capire”, vi sarà
impossibile. Dovete tornarci come me più e più volte, se volete entrare in
sintonia con questo luogo. Io l’ho girata e continuo a girarla in lungo e in
largo ogni qual volta vi metto piede. Se trovo un portone aperto mi ci infilo
subito, perché di palazzi notevoli Brescia ne ha a bizzeffe. E non mi riferisco
solo a quelli più noti come il Maggi Gambara e a quelli disposti lungo la via
dei Musei. Di chiese, poi, la cattolica Brescia ne ha una caterva; appartenenti
ai secoli più diversi non sono solo belle le loro facciate (da quella tardo-romanica
di San Francesco a quella rinascimentale di Santa Maria dei Miracoli; da quella
cinquecentesca di Santa Maria della Carità a quella tardo-gotica di Santa Maria
del Carmine), sono ricchissime di opere pittoriche e scultoree, di affreschi,
di arredi sacri, di chiostri.
San Francesco |
Se non vi prenderete
tutto il tempo necessario per esplorarle, non potrete ammirare opere importanti
del Tiepolo, di Tiziano, del Romanino, del Veronese, del Tintoretto, di
Moretto, di Celesti, di Foppa, di Bellini, tanto per fare qualche nome.
Ignorereste che in San Giuseppe, per esempio, sono custodite le spoglie di
Benedetto Marcello e di Gasparo da Salò, e se siete fanatici dell’organo come
me, vi perdereste un Antegnati del 1581. Se non entrerete in San Clemente,
nell’omonimo Vicolo al numero 6, ve ne tornereste a casa senza rendere omaggio
alla tomba di Moretto; e se non salirete la scalinata di via Giovanni Piamarta
al numero 9 non potrete mettervi in raccoglimento nei bellissimi chiostri di
San Cristo (per la verità il nome completo è Santissimo Corpo e Sangue di
Cristo), e soprattutto farvi sedurre da quell’ammasso di affreschi che la
ricoprono. Giustamente i bresciani ne vanno orgogliosi e la considerano la loro
Cappella Sistina.
Ovvio che per gustare
tutti questi tesori mezza giornata non basta. Tornateci, dunque, più e più
volte, così potrete alternare a piacimento le vostre passeggiate sul Corso
Zanardelli e Magenta, sedervi in Piazza della Loggia, salire al Castello, e
percorrere le vie più blasonate. Sedervi ai piedi della fontana di Piazza del
Duomo e gustarvi la superba scenografia di questo immenso splendido rettangolo.
L’hanno dedicata al papa Paolo VI questa piazza, ma per me resta Piazza del
Duomo Vecchio; provo un vero fastidio tutte le volte che vengono cambiati i
nomi di luoghi storici, specialmente se si tratta di nomi antichi o medievali i
cui toponimi servono a tramandare informazioni preziose che il cambio dei nomi
fatalmente cancella. Che senso ha avuto, mi domando, battezzare Largo Augusto
quello che era l’antico Verziere qui a Milano? Perché non tenere più coerentemente
l’antico nome che lo caratterizzava per la sua funzione di mercato?
Il Duomo Vecchio |
Piazza del Duomo
Vecchio (con la V maiuscola e a dispetto di tutti gli “innovatori”) per la
“nostra” Brescia, e se ne abbia a male chi vuole. E onore alla sua bella forma
rotonda (per me bella quanto la Rotonda di San Lorenzo in Piazza delle Erbe a
Mantova, quanto la Rotonda di San Tomè di Almenno San Bartolomeo in provincia
di Bergamo che mi ha letteralmente incantato), onore alla sua Cripta dove nel
settembre del 1943 prese vita il Comitato di Liberazione Nazionale per la
Resistenza al nazifascismo, e onore al vescovo Giacinto Tredici che la mise a
disposizione.
Io non trascuro le
zone più popolari, quelle dove i turisti non vanno; e poi vado alla ricerca dei
miei miti: senza quelle soste mi sembrerebbe di far torto alla città. Vado
perciò per la Contrada del Carmine come vado per via San Faustino e Santa
Chiara; vado fino al Piazzale Garibaldi per un saluto all’eroe dei due Mondi,
come a Piazzale Arnaldo per un inchino all’acerrimo avversario del potere
temporale del papato: la Chiesa trionfante ed opulenta ne ha fatto bruciare il
corpo e disperdere le ceneri. Vado, naturalmente in Piazzetta dell’Albera,
l’attuale Tito Speri, perché non trascuro mai di far visita al suo monumento.
Ultimamente sono partito da Piazza della Loggia (un’altra Piazza della Strage
di Stato come la nostra di Piazza Fontana), seguendo le 200 formelle tonde con
i nomi dei morti ammazzati dell’Italia degli anni bui con cui sono state
lastricate alcune vie, per arrivare qui in Tito Speri.
È una specie di
Memoriale dei morti della violenza politica dagli anni Sessanta in poi; un
lungo e articolato filare, come fossero tante pietre d’inciampo di un percorso
che arriva fino alla zona delle barricate, dove la resistenza agli austriaci
durante le Dieci Giornate era stata accanita (Brescia non per nulla ha una via
Barricate). Il giovane Tito Speri di quelle giornate era stato l’eroe; il
“glorioso ribelle”, come si legge sul marmo del suo monumento, aveva appena 24
anni. Ne aveva 28 quando Radetzky lo fece impiccare nel marzo del 1853 a
Mantova, facendone uno dei “martiri di Belfiore”. Nel marzo del 1862 il poeta
bresciano Giulio Uberti gli dedicava un commosso ricordo in 31 strofe: “A te
noi ripensiamo: idolo e duce / a popolar valanga, irrequieto, / ansante
all’alba della nuova luce, / povero e lieto…”.
Se sono stanco mi
infilo in qualche chiesa, accolto non di rado dalle note di un organo sui cui
tasti qualcuno si sta esercitando, o vado a sedermi al Teatro Grande in Corso
Zanardelli. Qui posso incantarmi a quell’incredibile fantasmagorico trionfo
Rococò che sprigiona dal Ridotto del teatro con i suoi specchi, le sue
luci, i suoi affreschi, le sue decorazioni, le sue balaustre. A volte chiudo
gli occhi e mi tornano in mente le tante fotografie in bianco e nero in cui
l’antico Corso era percorso dai vecchi tram che scorrevano sulle rotaie: qui come
in diverse vie della città. Oppure le foto con le carrozze a cavallo che
battevano l’acciottolato, e lo paragono con il passeggio dei nostri giorni.
Doveva essere un’atmosfera irripetibile e che ora possiamo evocare solo col
pensiero. Allora riapro gli occhi e sorseggio un caffè: sulla mia testa la
volta affrescata del Ridotto è affollata di angeli musici che volteggiano
sospesi tra le nuvole e soffiano nelle loro lunghe trombe. Non essere
malinconico, mi dicono, non essere malinconico.
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