ECONOMIA DI GUERRA
di Alfonso Gianni
Disegno di Claudio Zanini (2022)
Per
l’Italia non è più una metafora.
Se
c’è ancora qualcuno che si domanda per quale ragione il cosiddetto piano
italiano per la pace sia stato accolto dalle parti in causa e nell’ambito
internazionale con reazioni oscillanti fra il disinteresse e il disprezzo, può
forse trovare una delle risposte più plausibili in quanto sta accadendo in
queste ore. L’artiglieria pesante italiana è entrata in azione del Donbass. Si
tratta dei cannoni FH70, esito di un progetto tedesco, inglese e italiano,
capaci di sparare tre colpi al minuto centrando obiettivi situati a 25
chilometri di distanza. Fanno parte delle armi letali che il nostro esercito ha
consegnato alle forze armate ucraine in attuazione dei tre decreti
interministeriali del governo Draghi su cui, essendo segretati, il Parlamento
italiano non ha potuto mettere lingua. È evidente che la credibilità di un
piano di pace, al di là degli specifici punti in esso contenuti, è minata alle
fondamenta dal sempre maggiore coinvolgimento, attuato senza dichiararlo, del
nostro paese nella guerra in atto fra Russia e Ucraina. Le armi italiane si aggiungono a una dotazione bellica già alimentata da
tempo in particolare dagli americani e dagli inglesi. Esattamente un mese dopo
l’invasione russa, si è tenuta a Roma una riunione, passata quasi sotto
silenzio, dell’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise) che risponde
direttamente al Presidente del Consiglio dei ministri ed ha il compito di
ricercare e fornire tutte le informazioni su quanto si muove al di fuori del
territorio nazionale, a protezione degli interessi politici, militari,
economici, scientifici e industriali dell’Italia. Nel corso di quella riunione
si sottolineava come i russi avessero incontrato difficoltà impreviste anche per
il vantaggio ucraino negli armamenti, dal momento che per ogni tank russo vi
sarebbero 11 armi anticarro in dotazione agli ucraini. Infatti, parlando agli
inizi di maggio ai lavoratori della Lockeed Martin - protagonista cinquant’anni
fa di un famoso scandalo nelle relazioni con l’Italia - Biden era andato sul
pesante, celebrando la produzione dei missili anticarro Javelin, di cui 5.500
inviati in Ucraina, e commentando con scarso senso del ridicolo che i genitori
ucraini chiamavano i neonati Javelin e Javelina in onore di quella manna
piovuta dal cielo a stelle e strisce. Davanti al nuovo pacchetto di aiuti di 40
miliardi di dollari a favore dell’Ucraina, il New York Times il 19 maggio si interrogava seriamente se
l’obiettivo di Biden non fosse in realtà quello di destabilizzare e mortificare
la Russa piuttosto che salvare gli ucraini. E il vecchio Kissinger ammoniva
quanto tale obiettivo fosse sciagurato, dati i rischi concreti di una guerra
nucleare. Ma la spinta bellicista e riarmista ha oramai invaso l’Europa. Lo
abbiamo visto nelle scelte del nuovo governo tedesco in aperta controtendenza
con quelle praticate nel dopoguerra da quel paese. Lo vediamo nitidamente anche
da noi. Il pregevole lavoro degli analisti della Rete italiana Pace e Disarmo ha condotto a significative correzioni
del Rapporto annuale al Parlamento sull’export di armi, mettendo in luce che
nel 2021 si è verificato il record storico di esportazioni effettive e
definitive di materiale bellico (oltre 4,7 miliardi di euro) rimanendo alte le
nuove autorizzazioni (per 4,6 miliardi). In totale gli Stati del mondo verso
cui sono state autorizzate nell’anno scorso vendite italiane di armamenti sono
stati ben 92. Il nostro paese si presenta come un hub della produzione
militare, tanto per quantità che per qualità distruttiva. Progetti in sé non
nuovi traggono alimento da questa rinnovata spinta alla produzione di armi.
Riappare il tormentone di una fusione fra Leonardo e Fincantieri. Così sono
state intese le parole di Giorgetti, ministro dello sviluppo economico, durante
la sua recente visita alla Fincantieri di Monfalcone, dove ha avanzato
l’ipotesi di costruire “un polo militare italiano”. Il governo è azionista di
riferimento sia di Leonardo (partecipata dal Mef al 30%) che di Fincantieri
(che Cdp industria controlla con il 71.32%). La sua è dunque la voce del
padrone. Ma non ha finora trovato consensi tra gli Ad delle due imprese e
neppure nel mercato. La reazione negativa di Profumo, Ad di Leonardo, ha subito
fatto risalire le quotazioni azionarie dell’azienda, proponendo in alternativa di
fare di Leonardo il polo di aggregazione per un gruppo europeo dell’elettronica
della Difesa. Altri centri finanziari si sono dichiarati contrari alla fusione.
Eppure l’ipotesi resta in campo, più forte che nel passato, in un curioso
braccio di ferro tra politica e finanza. Infatti Giorgetti ribadisce che la
domanda di difesa in Europa crescerà e quindi il nostro paese deve mostrarsi
all’altezza. Come a dire che non abbiamo ancora dato il peggio di noi stessi.