L’Europa
malinconica
di Giovanni Bianchi
I nuovi dilemmi
Dopo Brexit, Trump. E prima di Trump, Erdogan.
Il vecchio continente appare roso dal morbo interno dei cosiddetti populismi e
circondato da defezioni che sono insieme ostilità. Non è dunque stagione di
ottimismi. Varrebbe meglio un sano realismo non dimentico di un bisogno di
speranza storica. In questa direzione muoveva Carl Schmitt, che nella premessa
all’edizione italiana di Le categorie del
‘politico’ dell’agosto del 1971, scriveva senza sfumature: “Nel corso di
mezzo secolo l’Europa ha perduto il suo ruolo di centro della politica
mondiale; è questo il periodo in cui sono apparsi i miei lavori scientifici. La
detronizzazione dell’Europa ha significato anche uno scuotimento di concetti
specifici che erano stati elaborati dalle nazioni europee, attraverso faticosi
processi di pensiero. Rientrano, fra questi, concetti propri della scienza del
diritto come Stato e sovranità, costituzione e legge, legalità e legittimità.
Essi sono il prodotto di una lunga simbiosi del pensiero teologico, filosofico
e giuridico; appartengono, come componente essenziale, al razionalismo
occidentale, culminano in un Ius Publicum
Europaeum elaborato sistematicamente, e vanno a fondo con esso”. Dove
chiarezza e catastrofe si tengono per mano. A noi basta fissare il termine detronizzazione, rispetto al quale la
voglia di divagare e pensare ad altro pare essere dilagata in maniera vincente.
Salvo imbatterci talvolta in giudizi molto simili a quello di Schmitt che
troviamo in autori negletti del continente asiatico. Come affrontare il
problema? Come non limitarci a scenari rassicuranti? Come affrontare la
stagione europea nella quale la locomotiva Germania ha ricominciato a parlare
di Europa “a due velocità”? Anzitutto le due velocità –e forse più– sono
sotto gli occhi di tutti. Insieme al desiderio diffuso di non essere esclusi
dalla velocità più veloce… Insieme alla considerazione non peregrina che il
passaggio dall’Europa dei 28 all’Europa a due velocità vedrà il formarsi di un’area
che potrebbe anche denominarsi Grande Germania. Ancora una volta un passaggio
difficile. Ancora una volta l’avvertenza di non perdersi intorno alle
etichette. Con il bisogno salutare di ritrovare punti di riferimento. Uno di
questi l’ho rintracciato in un discorso di Tommaso Padoa-Schioppa di dodici
anni fa agli studenti della Bocconi. Vale la pena rimeditarlo.
Padoa Schioppa |
Un titolo suggestivo
Si
tratta di un testo suggestivo fin dal titolo, che suona: L’Europa della malinconia, conversazione rivolta agli studenti
dell’Università Bocconi il 28 ottobre del 2005. Con l’intento dichiarato di
parlare ai giovani dell’Europa di oggi e di domani e suggerire loro di
adottarla quale punto di riferimento tanto nella vita di lavoro quanto come
cittadini italiani.
Pur sapendo –si affrettava ad osservare– “che
proporre l’Europa quale punto di riferimento in questo autunno 2005, ancor più
proporre l’unione politica europea, è un andare contro la corrente: l’Europa
non è di moda, appare a molti come un’idea perdente”.
Tutt’altro
che una novità l’euroscetticismo, mentre le perplessità si accompagnano fin
dagli esordi a quei terreni sui quali l’Europa è chiamata a crescere, quali la
politica, l’economia, le istituzioni, la vita associata; e ancora commerci,
concorrenza, norme tecniche, sussidi, moneta, disoccupazione; e, su un piano
più specificamente politico e istituzionale, il Parlamento, la Commissione, le procedure
di voto, l’allargamento, le maggioranze. Perché allora proporre quale motivo di
riflessione il tema della malinconia che sembra non appartenere a quei terreni,
ma piuttosto alla vita individuale?
Padoa-Schioppa
confessa di averlo scelto perché questo è a suo giudizio lo stato d’animo che
caratterizza forse più di ogni altro il momento che l’Europa sta vivendo. E
confida di non credere che l’Europa sia malinconica perché in crisi; ma
piuttosto che essa sia in crisi perché la nostra società è malinconica. Pur
osservando che nella malinconia vi sono anche il desiderio di perfezione e la
tensione verso l’alto cui l’Europa può attingere per realizzare il suo grande
disegno. Non ci resta dunque che prendere atto dell’umore nero, riattivare la
speranza, seguire il filo di un discorso inabituale. Anzitutto, se si parla di
stati d’animo, passioni e sindromi dei mercati, si può anche parlare di
malinconia dell’Europa, con riferimento ai sintomi primari: la sfiducia, l’inazione,
la perdita d’interesse per il mondo esterno, la scarsa opinione di sé. Ma poi anche al carattere introvertito della
malinconia. Nel distinguere infatti tra malinconia e lutto Freud osserva che
mentre nel lutto a svuotarsi è il mondo, nella malinconia a impoverirsi è l’Io
stesso. E’ l’ora perciò di sciorinare sintomi e agenti patologici.
Se
in un archivio della stampa quotidiana italiana e internazionale incrociamo la
parola Europa con la parola crisi, ci imbattiamo in una lista quasi sterminata
di riferimenti.
Padoa-Schioppa
asseriva di aver collezionato una serie cospicua di casi in cui un illustre
quotidiano come il Financial Times
annunciava catastrofi europee a quattro colonne in prima pagina e, qualche
giorno dopo, informava sobriamente il lettore del loro superamento con un
pezzetto su due colonne in basso a pagina quattro: a proposito della
conversione all’euro, della Convenzione Europea, dell’ingresso di nuovi membri
nell’Unione, e di altro ancora.
Allo
stesso modo ricordava l’insistenza con cui nei primi giorni dell’entrata in
vigore dell’euro i giornalisti televisivi sollecitavano i passanti a lamentare
i disagi di quel cambiamento, mentre gli intervistati rispondevano con sorrisi
e frasi d’entusiasmo per il grande evento della moneta unica. Dunque? Se è
plausibile che le cattive notizie ci rendano malinconici, è però constatabile
che esse sono il frutto della bile nera che pervade la società europea e la
rende svogliata nel consumare, nell’investire, nel generare figli e nel
concepire progetti ambiziosi che guardino lontano. E così si entra nella
spirale della malinconia, della depressione e della rabbia. La gente se la
prende con la burocrazia di Bruxelles, ignorando che la regione Lombardia o la
città di Monaco hanno più dipendenti che la Commissione a Bruxelles.
Inoltre
il discorso di Padoa-Schioppa ha il merito di essere vivace come il parlare ai
giovani esige. Questa Europa è comunque parte essenziale di quel mondo
post-moderno che vede la crisi della sovranità degli Stati e che potremmo
quindi anche qualificare come post-westfaliano. Un mondo che non manca di
cantori controcorrente come il notissimo Jeremy Rifkin che arriva ad argomentare
che gli Stati Uniti sono il vecchio mondo, l’Europa il nuovo…
Sogno
europeo? E pensare che non mancò chi definiva a suo tempo l’America come il
sogno giovane di una vecchia Europa.
“Diversamente
dall’America, l’Europa non vive a credito per mantenere alto il suo tenore di
vita. Il suo prodotto totale è circa pari a quello americano, ma ha qualità
superiore perché minore è la quota destinata a spese militari, a spreco
energetico, a lotta anticrimine. […] E non c’è solo l’economia. L’Europa ha la
più alta qualità di vita, una più rigorosa protezione della privacy, una più
stringente tutela dell’ambiente, un grado di solidarietà sociale più elevato,
un più prudente atteggiamento verso la sperimentazione scientifica e
l’innovazione tecnologica, una più forte capacità di proporre e trasmettere ad
altri paesi e regioni del mondo il proprio modello di relazioni sociali,
politiche, internazionali”.
Un nuovo sistema di governo
Non
basta. Ci imbattiamo in considerazioni analoghe nel breve ed efficacissimo libro
di Mark Leonard (Why Europe Will Lead the
21st Century, 2005). L’Europa, egli osserva, ha fondato un nuovo sistema di
governo e una nuova maniera di operare nel campo delle relazioni
internazionali. L’uno e l’altra sono fondati non sul segreto ma sulla trasparenza,
non sull’esclusione ma sull’inclusione, non sulla minaccia ma sulla
persuasione. E con questo suo metodo la Comunità e poi l’Unione europea ha trasformato
non solo l’economia , ma anche il diritto, le istituzioni e la politica di paesi
che aspiravano a farne parte.
Sono
passati dodici anni, è vero, gli ultimi dei quali terribili, eppure talvolta
rileggere aiuta a mettere a fuoco la prospettiva. Eppure questa Europa non ha inteso né saputo far fronte
alla tragedia balcanica, tragedia non ad
limina, ma nel cuore della sua storia
e del suo progetto. Perché? Perché, come il baco dentro una splendida
mela, cova al suo interno il vizio nascosto: considerarsi cosa fatta, mentre
fatta non è. L’Europa ha inventato la pace (Michael Howard), ma non ha tradotto
in realtà la sua invenzione. Il metodo è nuovo, ma non la formula. Manca (a
partire da Maastricht) di un patto fondante per il quale il decidere e l’agire
insieme siano assicurati non solo nell’accordo ma anche nel disaccordo. E il
disaccordo tra chi pensa in democratico-cristiano e chi in socialdemocratico
creò impaccio ed estraneità (colpevole) di fronte alla dissoluzione della
ex-Jugoslavia, e poi l’evocazione sussidiaria degli Stati Uniti d’America. I
risultati in tale modo raggiunti sono notevoli, ma anche fragili.
L’Europa è
incompiuta. Essa prescrive che il potere di governo sia distribuito su diversi
livelli, secondo la dimensione e la natura delle questioni di interesse comune,
ma questo percorso significa due cose lasciate a metà: il superamento, in primo
luogo, della concezione secondo la quale uno Stato è tale soltanto se la sua
sovranità non riconosce alcun potere sopra di sé, e, in secondo luogo, il
riconoscimento che un potere sopranazionale ricostituisce e disloca la
sovranità, non la sopprime. Questa Europa a un tal percento di se stessa non
poteva far fronte alla dissoluzione armata della sovranità jugoslava nei
Balcani . Da qui il farsene carico tardivo, e il ripensare se stessa, e i
propri tempi di attuazione. Il ripiegamento su una sorta di rapporti bilaterali
è appunto un ripiegamento, non una soluzione e neppure una prospettiva. Così si
esalta la cattiva coscienza del nostro saturnino ritardo. Così la tragedia dei
Balcani consiste irrisolta davanti a noi e ci è tutta interna a dispetto di
ogni quotidiana rimozione.
Ma
così l’Europa malinconica rischia di trasformarsi in Europa paralizzata. E
questa Europa non può rinunciare del resto a una sua dimensione possibile
mentre nel mondo globalizzato crescono, si collocano e si affermano giganteschi
Stati-nazione e potenze regionali della dimensione di Cina, Russia, India,
Brasile, Messico, Iran, Nigeria…
Per
risolvere e risolversi questa Europa ha bisogno di raggiungere la sua misura.
Lo dico nella disperata convinzione che il ripiegamento sui singoli
Stati-nazione sia appunto soltanto ripiegamento. In che senso allora il destino
dell’Europa impatta quello dei Balcani e ne può rappresentare la terapia?
Ritorno
alla lezione di Padoa-Schioppa ai bocconiani. Il mondo non ha una potenza esterna,
per di più benevola, democratica e
illuminata come lo fu, per noi europei, l’America.
Forse
la possibile potenza esterna del mondo poteva e potrebbe ancora essere in
futuro proprio l’Europa, anticipatrice di un ordine diverso e postmoderno. Molti
fattori pongono noi europei in una posizione unica. Abbiamo responsabilità e un
debito morale e politico per avere imposto al mondo i costi delle nostre lotte
interne. Ma abbiamo anche le risorse per svolgere un ruolo influente negli
affari del mondo; già oggi siamo i primi fornitori di aiuto allo sviluppo e non
viviamo a credito. Abbiamo principi, perché accettiamo la solidarietà e il
multilateralismo quali elementi costitutivi dell’ordine mondiale. E abbiamo
credibilità. Funzionerà? (Prima o poi dovrà funzionare.)
Di nuovo in cammino
Dunque
l’Europa, nonostante tutto, è in cammino
per molteplici ragioni. Con una complessità che non è da leggere soltanto come
rebus ed handicap. Anni fa Romano Prodi disse che il Welfare deve essere
considerato la più grande invenzione politica del secolo scorso. E il Welfare è
europeo e poco più che europeo. Esso fa parte di quel profilo che segnala
l’Unione Europea come attore atteso, nuovo e perfino paradigmatico della
globalizzazione, con un ruolo geopolitico inedito. Proprio oggi che il welfare
è diventato l’obbiettivo privilegiato delle tempeste mirate dei mercati.
Particolare, al punto che potrebbe meritare le attenzioni di un rinato Alexis
de Tocqueville, è il rapporto fra società civile (movimenti, associazionismo, volontariato)
e struttura istituzionale. Là dove si esercita la cosiddetta “democrazia
attiva”. Ebbene, nell’impasse delle cancellerie, questa Europa civile non ha
balbettato, non si è estraniata, non ha cessato di pensare e operare. Le sue
colonne, non soltanto “umanitarie”, hanno mantenuto i collegamenti tra le
giovani forze del Vecchio Continente e la Jugoslavia in dissoluzione. Ricordo un drammatico
confronto nell’ufficio del Sindaco di Sarajevo. Il primo cittadino della città
martire rimproverava ai rappresentanti delle Acli e dell’Arci la latitanza del
loro governo. Non cantammo balzando sull’attenti l’inno di Mameli, ma
presentammo le credenziali di un associazionismo non al di fuori del proprio
Stato-nazione.
Alexander Langer |
Dovrei
ricordare per completezza il supporto dei giornalisti polacchi, esausti dopo
venti giorni senza la possibilità di una doccia. E il rigore morale unito
all’imponenza logistica dei francesi di Equilibre
guidati da Alain Michel. Soltanto in
quella missione invernale persero due autisti di Tir: uno centrato da un
cecchino al posto di guida, l’altro saltato su una mina a un checkpoint. Un
flusso continuo, e non soltanto “umanitario”, da tutta Europa. Inteso a
ribadire un legame e una appartenenza
nelle more di una politica incompiuta.
Lascio
però subito i cenni memorialistici che poco hanno da spartire con l’analisi.
Anzi, o uno si chiama Josef Roth e scrive La
milleduesima notte e fa l’affresco nostalgico dell’Austria-Ungheria, oppure
lo struggimento buttato in politica fa solo confusione.
Ma
c’è un’ultima raffica di considerazioni che mi pare utile affrontare circa il
ruolo nella vicenda dell’associazionismo e del volontariato. Quegli “iscritti
alla bontà” che hanno attraversato i Balcani in fiamme lasciando sul campo
caduti, a Mostar come a Tuzla. Perché senza retorica si vivevano come avamposti
di un'altra Europa possibile all’interno dell’orizzonte di un’Europa e
un’Italia incompiute.
Inventando saperi e tecniche sul campo. Lavorando -spesso inconsapevolmente- a una implementazione e modifica dello statuto di
una politica “classica” che a Sarajevo si segnalava dilemmaticamente per
assenza o per impotenza. Associazionismo, volontariato, organizzazioni non
governative se non risultano provvisti di una teoria compiuta d’approccio alla
tragedia dei Balcani e ai dilemmi presenti di quest’Europa, non hanno però
lasciato cadere l’occasione di una riflessione sul campo. Basterebbe uno
sguardo non distratto alle pagine lasciateci da uno degli esponenti più assidui
e tesi nel frequentare la ex-Jugoslavia, così acuto e partecipe da esserne
irreversibilmente segnato: Alexander Langer.