IL CANE DI GIACOMETTI
Gabriele Scaramuzza conversa col
poeta Stefano Raimondi
Stefano Raimondi |
G. Scaramuzza- Quando mi hai segnalato
l’uscita di Il cane di Giacometti, e
dopo averne letto la prima parte, ti ho scritto (il mio messaggio è però andato
perduto, al solito) che sono “molto belle” le tue poesie, proprio così. Ma poi mi
sono chiesto cosa intendessi dire, non era un generico complimento. Ora provo a
motivarmi. La città innanzitutto, le tue sono poesie cittadine, e in esse regna
un senso di abbandono, di attrazione e di disadattamento che condivido. Certo,
la tua non è la Milano dell’immediato dopoguerra che ho conosciuto: sui
marciapiedi i bambini potevano giocare, disegnare piste su cui gareggiare coi
“tollini” (fino a farsi sanguinare le dita), gli spazi verdi in essi (non
ancora ridotti a posteggi), in cui giovani donne ci raccontavano storie, e gli
alberi non ancora stenti. I giochi tra gli orti e le siepi di sambuco (dei cui
rami facevamo spade per duellare, angoli nascosti in cui conoscersi, ortaggi
acquistati da chi li coltivava); gli angoli di rifiuti in cui dominavano il
carburo, lucertole e le libellule (quanta crudeltà, la nostra, verso questi animali);
le macerie, i metalli arrugginiti, talvolta carogne di animali. Le strade non
erano invase dalle macchine e ci si poteva correre, schettinare, giocare; fino
agli anni Cinquanta si usavano i tombini come porte in cui infilare (coi piedi
beninteso: mimesi di una partitella di calcio) piccoli sassi trovati a caso.
Già, i
bambini, e i tombini ricorrono anche nelle tue poesia, e hanno fatto emergere
scorci, motivi, atmosfere che sono stati anche miei. La tua città è anche la
mia, Milano; diversa nel tempo, certo; ma anche simile. Oggi non sono bambini a
giocare nella città, né orti, né svaghi all’aperto; ma solo estraneità, gente
chiusa in se stessa, per lo più in dialogo al cellulare, che distoglie ogni
attenzione all’altro, e al paesaggio.
È dunque la presenza
di sapori in cui mi riconosco che ha motivato la mia prima impressione. Anche
se da subito non mi è sfuggito lo spessore “artistico” del tuo lavoro: la
scelta di uno stile, di un lessico; ne riparleremo. Vuoi aggiungere tu qualcosa
sulla tua Milano, che pur sempre mi commuove ?
Stefano Raimondi - Sì hai ragione Milano (più che
una città qualsiasi) è per me un corpo presente e una pratica di memoria, che
si riattiva ad ogni passo, ad ogni svolta, in ogni atmosfera. Sin dalla mia
prima raccolta La città dell’orto del
2002, Milano si è radicata in me più come un epifenomeno esistenzialmente
narrante, che non un semplice luogo abitativo. La città addirittura, in quella
raccolta, è divenuta, addirittura, il corpo del padre, la sua memoria, la sua
vita raccontata a me fin da bambino. E quei racconti sono gli stessi che citi
tu, quella città portata a parole da lui, è la stessa che tu hai percorso,
giocato, sofferto. La guerra, la fame, i bombardamenti, i rifugi. Da lì parte
la mia storia e da lì la sento continuare: dal basso. Sarà forse per questo che
i tombini sono diventati per me un “posto” oscuro e, nello stesso tempo
immaginifico, dove trovare scampo; dove trovare la sparizione. La città è il
luogo dei mutamenti, delle trasformazioni e, mai come Milano, ne è la prova
effettiva, fattiva. È la strada della folla, dell’indistinto, del flâneur. Ma è
anche la città delle improvvisazioni, degli sguardi, degli amori sconosciuti
che si risolvono in uno sfioramento tra un abbandono continuo e l’altro. La
città è libertà d’essere e di finire e Milano, nella sua circolarità porta
vanti ma anche indietro. La poesia qui accade agli incroci, sotto i semafori,
sulle panchine: sono i luoghi-nicchie dove sentire la grazia di un ascolto
particolare e fuori dal comune. Sì perché la poesia dice questo inaudito che sottostà alle cose, alle
situazioni, alle vicende da vivere, da trasformare in precipitati d’esperienza.
Da quella raccolta in poi la città è diventata il mio set, dove “girare” le mie poesie urbane. Il cane di Giacometti, però ne narra un’altra: è la città
dell’abbandono, del lascito, del resto rimasto per riprendere, per continuare a
vivere. Amo la mia città da sempre. Pensa che fino ad ora non ho mai neppure
cambiato via. Da cinquantatré anni abito sempre nello stesso quartiere e qui
intorno, è stato il mondo a cambiare. Vedo e osservo la sua trasformazione ogni
giorno e da sempre. Dove prima c’erano degli orti è poi arrivata la scuola (la
mia e ora di mio figlio), dove c’erano le fabbriche, ora ci sono prestigiosi e
splendenti musei (Fondazione Prada) che non riescono però a cancellare del
tutto, la traccia del territorio che li sostiene. Ancora respiro la “via buia”,
malfamata dove il traffico dei camion, che caricavano e scaricavano merci,
popolava queste periferie di vuoti e prostitute, di avventure e disperazioni.
Qui, da bambini, scovavamo l’oscuro che ci faceva paura e ci faceva crescere.
Ma ancora mi appartengono queste vie, questa città che non smette un istante di
parlarmi e narrarmi storie bellissime e tremende.
GS - la prima cosa che attrae è
naturalmente titolo: perché chiamare in causa proprio Giacometti? Il cane, già;
ma anche qualcosa che appartiene alla sua figura di artista. Qualcosa dice già
il risvolto di copertina, ma qualcosa resta da dire: qual è il tuo rapporto con
Giacometti?
SR - Alberto Giacometti è sempre
stato l’artista che mi ha coinvolto di più, sia emotivamente che
artisticamente. La sua trafittura materica è come fosse un “istante” tra il prima e il poi eterno di ogni cosa. Le sue sculture sembrano rimanere in
bilico tra un balbettio e un rantolo: esse presenziano il mondo come fossero
nate un attimo prima della nascita stessa o restare eterne un attimo dopo la
loro fine. Fendono il tempo e le esistenze; sono un gesto intenzionale carico
di potenza e di vuoto. Dicono la sottigliezza della lama e la leggerezza della
carezza, proprio come percepisco l’azione della poesia in me. Un dualismo che
tiene in piedi un equilibrio instabile e franco. Il Cane poi è un’opera che
Giacometti racconta così a Jean Genet, in visita nel suo atelier: “Da principio
scelto come segno di miseria e solitudine, il cane mi pare disegnato adesso
come spettro armonico, la linea della schiena che risponde alla linea delle
zampe, spettro che sa essere l’esaltazione suprema della solitudine”. È proprio
la solitudine che ha fatto di quella scultura un mondo parlante. E la mia
raccolta s’innesca esattamente da quella solitudine. Il tema dell’abbandono è
il fulcro centrale di questa raccolta, che appartiene alla trilogia appunto
detta “dell’abbandono”, che si completerà (dopo il primo titolo uscito nel 2013
Per restare fedeli) con L’Atalante che sarà il prossimo e
conclusivo tassello. Alberto Giacometti, dunque, pur non comparendo mai come
personaggio o riferimento nel testo (ma appunto solo nel titolo) è comunque un
nume tutelare nella mia scrittura e soprattutto qui. Il suo “fare” pastoso e
lieve, il suo perdurare nel rischio della sparizione, il suo lavorio lento e
mai definitivo, hanno per me qualcosa di familiare nella costruzione dei miei
poemi.
GS - Chiamiamo poesie quelle che
hai scritto, ti senti a pieno titolo poeta. Alterni tuttavia brevi prose a
versi. Il termine poesie accomuna entrambi? Quali le differenze tra di essi?
Perché questa scelta?
SR - Vorrei risponderti come
rispose Giorgio Caproni ad un intervistatore: “Non sono un poeta, sono uno
scrittore che scrive in versi”, ma non vorrei peccare di presunzione. La poesia
è un genere letterario che pratico per respiro e passione; ha sempre avuto a
che fare con me fin da quando ho capito che le parole – che rotolano da molto
lontano e ci appartengono per somiglianza – hanno per me lo spessore della
profondità e la sfrontatezza dell’azzardo. Ho anche capito che prendersi cura
delle parole è prendersi cura di noi e questo già è un grande successo. Alterno sempre brevi poesie in prosa a versi
veri e propri, partendo dal presupposto che è ciò che si deve dire a dare/esporre la forma del come
metterle alla luce. Lavorando nella maggior parte dei casi con forme
poematiche, la storia per me è determinante. A volte mi bastano poche parole,
lasciate sospese tra il loro andare accapo, altre volte ho bisogno di più
spazio per dire ciò che giunge, ciò che riaffiora. Non c’è una differenza
sostanziale ma solamente grafica formale. Le piccole prose hanno lo stesso
ritmo dei versi ma rimandano ad un epos
differente.
GS - Un’impressione generale da
subito mi ha colto, temo sia solo mia, fuori luogo. Tant’è: è un dato di fatto
e te ne devo parlare. L’atmosfera generale
del mio primo incontro con queste tue poesie mi ha richiamato un verso di
Rückert musicato da Mahler: “Ed ora il sole vuole ancora sorgere / Come se
una disgrazia nella notte / Non fosse accaduta”. È la prima cosa che mi è
venuta in mente leggendoti: lo stupore che tutto nel mondo riprenda il suo
corso, continui come prima, malgrado le tragedie che ci assillano da più parti;
mi sembra una delle note emergenti nei tuoi versi. Sbaglio?
SR - Ti ringrazio Gabriele per
questa nota acuta e pertinente, ma soprattutto vera. Penso che il tragico che
ci abita sin dalla notte dei tempi sia un avviso, sia un modo per porci sempre
in allerta di fronte all’esperienza che la vita ci regala quotidianamente. Ma
tutto è leggibile diversamente e tutto non è mai presumibile. La paura è il
sentimento che conosco meglio e questo mi pone sempre in uno stato d’emergenza,
che mi fa preparare: mi fa essere pronto (anche se so che non lo si è mai
totalmente). Ma essere pronti significa conoscersi e darsi pace, significa accettarsi
e riconoscere come doni anche le nostre fragilità e le nostre sconfitte. Le
vittorie sono gli obiettivi che ci attirano e da lì noi iniziamo per inoltrarci nelle avventure. Ma la fine di tutte le
storie non le conosceremo mai: le possiamo solo desiderare e desiderare è
sperare che tutto collimi con il nostro esserci
pienamente o come disse Marco Aurelio, avverare a capire che “il nostro
dovere è essere felici”. Non è poco questo! Ripartire dunque è per me
riprendere a desiderare ed essere felice. È per questo che penso che gli
abbandoni non sono mai solo degli abbandoni, ma momenti che “lasciano uno
spazio nuovo”; istanti dai quali riprendere o riprendersi daccapo. Nelle parole
c’è sempre nascosta un’altra parola e in abbandono c’è, nondimeno, dono.
GS - La poesia come dialogo più che
solo espressione di sé: dialogo con sé nella misura in cui riprendi te stesso,
dialogo con altri quando ti confronti, citandole, con parole altrui, con film
eccellenti. Ma anche quando chiami anche indirettamente in causa i poeti che
più ami, le opere d’arte che più ti hanno preso. Bello, molto sereniano trovo,
il citare parole o situazioni altrui (questo lo evinco anche dalle note finali
che sono andata a leggermi anticipatamente). Si può dire?
SR - Certo! Noi siamo gli ultimi a
parlare e mai i primi! Siamo il risultato di un passato immediatamente rasente
alle nostre spalle e da qui incominciamo ad “essere” futuro. Amo ringraziare e
la parola che salvo sempre è proprio “grazie”. Ringraziare è un gesto che si fa
sempre per ultimo, dopo un incontro, dopo uno scambio, dopo un dono. E la
poesia è una stratificazione che soggiace sotto i nostri piedi e ci sostiene
ovunque noi siamo, ovunque noi tentiamo di andare. Dunque citare o dialogare
con chi prima di me/noi ha creato qualcosa di fondante – che resta – mi sembra
importante ringraziarlo, riportandolo alla luce, facendolo intra-vedere
nuovamente e daccapo.
Molti sono stati i poeti Maestri e molti sono i poeti complici del
mio andare. E in questa viandanza, i dialoghi si sono instaurati nella lentezza,
nel dolore, nella furibonda gestione degli immediati dintorni vissuti con gioia
e timore.
GS - Si leggono con piacere le tue poesie, con un
piacere non immediato tuttavia, ma ritrovato sul limite di una impegnata
riflessione. Bisogna scorrerle lentamente, centellinarle una per una e questo
prende tempo, un tempo buono che ritma le ore. Come si verifica con Sereni
e con altri nostri poeti, nulla è agevole, spontaneo; tutto dà da pensare e
ripensare. È una poesia non facile, ma meditata, la tua; non si devono leggere
troppe poesie insieme, se no ci si perde, e si perde il sapore delle parole che
hai scritto. Il lavoro della lettura ha
come premio la soddisfazione di una meditazione saporosa. Dà da pensare come
sempre la tua poesia. E ci vuole distensione, se no tutto va perduto nel
consumo.
Giusto?
SR - Bellissima l’immagine:
“meditazione saporosa”. Penso che davvero sia questo il modo giusto di affrontare la lettura di una
poesia, meditare saporosamente, perché è proprio così che le parole poetiche
cercano di farsi trovare: meditandole, gustandole. Certo, non sempre si
lasciano trovare, ma la soddisfazione del commensale è direttamente
proporzionale alla sua resistenza, alla sua adesione al testo, al tempo che
concede all’incontro con le parole. Inoltre sono convinto che la facilità di
una poesia o la sua difficoltà non sia da imputare al 100%, unicamente al
testo, ma in buona parte all’attenzione innescata dal lettore. Una poesia alza
sempre l’asticella al senso ed è per questo che richiede un impegno non da
poco. È un incontro, la lettura di un testo poetico e un incontro, come un
dialogo del resto, è sempre tra due individui/persone che si mettono nella
disponibilità di vedere, ascoltare l’Altro. La comprensione è la conseguenza di
un’intesa e questa non si raggiunge nella disattenzione.
La poesia è sorella della filosofia e questa sorellanza passa
proprio dal pensiero che le parole innescano una volta incontrate. Le parole
della poesia sono parole concesse al
pensare, sono parole messe sempre in stato di pensiero. Esse fanno pensare,
mettendoti quasi in uno stato di “preoccupazione”. Ad esse si arriva per
ascolto e non altro.
GS - Fai molto riflettere dunque.
In particolare, nel mio caso, sul mio non esser poeta, un non poeta tuttavia
incantato dalla poesia. Che cosa contraddistingue a tuo parere un poeta? La
mancanza dell’arduo, da conquistare con lento esercizio, “mestiere di poeta”?
Un tenersi più a livello di significati che di significanti? Le due cose si
mescolano inevitabilmente, lo sappiamo; ma conta l’intenzione predominante. Non
c’è da squalificarsi per questo, ma può suscitare qualche sospetto verso se
stessi in quanto “scrittori”, veri o (come per lo più avviene) solo presunti.
Ti pongo una domanda difficile, lo so; ma mi incuriosisce. Rispondi solo se ti
riesce agevole. Ma qui devo smettere, l’intervista è già così (senza le tue
risposte) troppo lunga. Grazie comunque di averla accettata.
SR - Un poeta non si contraddistingue
per ciò che fa ma piuttosto per “come” lo fa. La poesia è una questione di
lingua e di linguaggio e questo non bisogna mai dimenticarlo. Non c’è poesia
senza una capacità da parte di chi la scrive, di “governare” la lingua con la
quale crea, fonde, attende. La poesia non è il poetico!