PECHINO: UNA SFIORITA PRIMAVERA
di Li Dan
Roma e Pechino, Piazza Del Popolo
e Piazza Tiananmen, due piazze simboliche colte nel
rosso incendiato del tramonto. In una delle due, la speranza
della libertà fu assassinata dal Potere e si tinse di rosso, il rosso delle vittime di quella
lontana primavera. Li Dan faceva parte di quella primavera e di quella speranza.
Questo è il suo racconto per i lettori di “Odissea”
Ogni volta che vado a Roma non
manco mai ad uno spettacolo, ora pieno di spettatori, ora un’esibizione solo
per gli alberi e le pietre che saggiamente immobili ne rimangono fedeli.
L’appuntamento è all’ora del tramonto. Mi siedo su una delle pietre sul bordo
di due mondi. Mentre il cielo si intimidisce in una sfumatura rosa, abbasso gli
occhi e guardo Piazza del Popolo che pian piano si accende. Mi piace sfiorare
con lo sguardo il bordo della piazza, un cerchio, un cerchio dorato. In
un’altra città, capitale anche lei, in centro c’è un’altra piazza, una piazza
con degli spigoli, una piazza non arrotondata. Sono tutte e
due piazze del popolo, anche se l’altra ha un nome più astratto e filosofico
che la collega alla pace celeste.
Laggiù
l’orizzonte si tinge di rosso fuoco, le sottili dita delle tenebre punto per
punto incendiano la città.La luce comincia ad alleggerire la cupola di San
Pietro rendendola quasi trasparente. Sento una certa intimità con la sua
bellezza, forse perché la trasparenza mi illude che il potere si stia
preparando per una breve pausa. Anche in quell’altra città c’è un vistoso
simbolo di potere, di colore rosso ma la luce non riesce mai a penetrarlo, è
sempre consistente, imponente e opaco,
il potere non si riposa mai. È l’ingresso principale di una costruzione antica,
viene chiamato Tiananmen, letteralmente “Porta della Pace Celeste”. La Piazza
che lo ospita ne prende il nome, Piazza Tiananmen.
Rosso anche
il sole che ho di fronte adesso, il suo viso sorride dolcemente a tutti gli
occhi. Mi sposto un po’ a sinistra per vedere la strada coperta dall’obelisco.
I fari cancellano i profili delle macchine, la Via Ferdinando di Savoia si
trasforma in un fiume luminoso. Un fiume che scorre come fluisce il tempo, le
luci brillano come scintillano i ricordi. Il Pincio mi incanta, qui i frammenti
remoti si ritrovano, compongono forme, lasciandomi stupita dalla facilità degli
incastri perfetti.
Un rombo,
una figura in jeans rivolta nel fumo bluastro. “Sali”, lui e la sua moto mi
coprirono la piazza. “No, grazie” fu la
mia risposta. Riconobbi subito dai jeans un tipico bad boy di Pechino, e la
moto era un’ emblema dei giovani pechinesi con oscure storie alle spalle. Avevo
una caviglia rotta e non potendo più andare in bicicletta i 16 kilometri che
separavano la mia università e la piazza erano diventati una vera difficoltà.
Portavo un bastone e lo mettevo di traverso sulla strada per fermare qualsiasi
mezzo per un passaggio. La parola d’ordine era “studente”. Noi studenti
universitari eravamo adorati e coccolati da tutti perché eravamo stati noi ad
accendere la scintilla del movimento e il movimento stava insaporendo l’aria
della capitale di rivoluzione. Avrò
fatto la resistenza, avrò cercato di mostrare la mia autonomia, avrò aspettato
sperando che arrivassero altri mezzi? Che importanza ha? Salii sulla sua moto, e gli chiesi “cosa devo
fare?”, lui sorrise “abbracciami alla
vita, tieniti forte”. Sentii il vento nei capelli e la tshirt che si gonfiava come una vela, la notte mi diede una piacevole sensazione di
leggerezza, gridai: “è la prima volta!”.
Il bastone
funzionava abbastanza bene, i 16 kilometri furono superati seduta dietro sulle
biciclette, schiacciata nella cabina dei furgoni, accovacciata nel cassone dei
camion. Studenti, professori, intellettuali, artisti, funzionari, impiegati,
operai, anziani, giovani, ragazzini, bambini riempivano la piazza. Saluti,
sorrisi e abbracci, il calore umano scioglieva i cuori. Si trattava di
manifestare, manifestare contro un partito dominante ed un sistema politico
totalitario urlando per la libertà, gridando contro la corruzione. La
realizzazione di un diritto intrattabile e la fiducia di poter portare la Cina
verso un futuro migliore ci scaldavano il sangue.
Anche nel
centro di Piazza Tiananmen c’è un monumento alto e sottile, il Monumento agli
Eroi del Popolo. In qualche modo è
considerato uno dei simboli della Repubblica Popolare Cinese, la Cina
socialista che ormai, dopo tanti anni di menzogne, crudeltà e distruzioni, di socialismo aveva poco più che il nome. Si
era formato lì il centro della manifestazione. Il dialogo tra il premier e gli
studenti era già fallito da tempo, era iniziato lo sciopero della fame, e
intorno al Monumento erano arrivati degli autobus per fornire un riparo agli
studenti che non mangiavano da giorni. Ci andavo ogni giorno, lì si sentivano
più aggiornamenti. Lì venivano dei ragazzi a cantare, cantavano parole fresche
e forti accompagnate da una musica quasi arrabbiata, solo tanti anni dopo si
capirà che quelle erano le prime note del rock cinese, voci di quei giorni
pieni di gioia e vitalità. Sì, i nostri cuori scoppiavano di felicità. I
volantini del governo lanciati dagli elicotteri e i toni minacciosi del potere
sulle prime pagine di quasi tutti i giornali rimbalzavano nel vuoto. La paura,
lo strumento più efficace di qualsiasi dittatura, fu completamente dimenticata.
Si respirava la gioia, una gioia che in sé fu una vittoria.
Fu a fianco
del Monumento, lui e la sua moto saltarono davanti a me per la seconda volta.
“Hey,
Pilastro!” mi chiamò.
Sulla mia
faccia sarà comparso un punto interrogativo… lui aggiunse “vista l’università
che frequenti, sarete i famosi pilastri della patria”.
“Banale”
dissi.
“In che
senso?”.
“Fare
complimenti è banale”, prima di finire la frase mi ero già un po’ pentita del
tono, e per ammorbidire “e tu, sentiamo, come ti chiamo?”.
“Fondo…
siamo quelli caduti più in basso nella società, no?....” rise.
“Sciocchezze!
Non vedi che qui sono sparite queste distinzioni inutili?” quel filo amaro nel
suo sorriso mi aveva messo in imbarazzo. Però era vero, non avevo mai visto e
non ho più visto quella città così unita. Persero il senso posizione, classe,
provenienza e tutte le altre distinzioni. Milioni di persone semmai erano
divise tra i pro e i contro, se vogliamo tra sognatori e rassegnati, tra popolo
e potere. In quei quasi cinquanta giorni non si erano visti poliziotti ed erano
spariti anche i ladri. La gente donava soldi a qualsiasi studente con una
scatola appesa al collo senza mai dubitare della destinazione del denaro. Tutto
ciò che non era in sintonia con la rivoluzione e con la lotta per questo futuro
diventava improvvisamente minuscolo, miserabile. In piazza la compravendita era
disprezzata, le persone portavano ravioli, riso, piatti, pane e uova preparati
a casa che regalavano ai manifestanti, spesso insieme a del tè caldo e delle
bibite fresche.
“È
bellissimo così”, sorrise senza quell’ombra di amarezza, “sarebbe bello se
Pechino rimanesse così per sempre”.
“Sicuramente sei uno delle Tigri Volanti” dissi,
lui rispose con un silenzio. Tigri Volanti era il soprannome di un gruppo di
motociclisti di Pechino che in quei giorni portavano notizie ad ogni angolo
della città, notizie e avvisi sulle manifestazioni, sui cambiamenti nella
piazza, sulle operazioni del governo, sulle organizzazioni delle azioni da
parte degli studenti e dei cittadini e anche sui potenziali pericoli.
A
quell’epoca la mobilità dipendeva soprattutto da autobus e biciclette, i pochi
che possedevano le moto erano i più veloci. Allora il business e il commercio
non erano attività comuni, gli stipendi variavano solo in base al livello di
istruzione e di posizione, le differenze alla fine non erano così importanti
per fare nascere contrapposizioni tra ricchi e poveri. Possedere una moto era un
pensiero lontano per i più, chi poteva permettersela quasi sempre aveva a che
fare con il business o il commercio. A Pechino la maggior parte dei primi
piccoli commercianti privati erano dei giovani con oscure storie alle spalle,
non pochi erano stati in prigione per reati spesso banali. Con queste macchie
era quasi impossibile continuare a studiare o trovare lavoro, quindi si
adattavano a svolgere questo mestiere che suscitava qualche diffidenza, e le
prime merci più diffuse erano jeans e occhiali da sole, automaticamente anche
loro simboli di bad boys.
Capii di
avere sbagliato argomento e rimasi in silenzio. “Senti,” prese la parola lui,
“secondo te, perché la parola movimento (运动) ha a che fare con nuvole (云)?”. Non ci avevo mai fatto caso, però mi venne come un lampo, “è una
questione fonetica” risposi.
“运 potrebbe starci, ma 动?” Obbiettò.
“Dai, lascia
perdere nuvole 云,运 ha la
radicale via e strada, 动 ha forza, con la nostra forza troveremo la
via!” Fui stupita da sola e soddisfattissima di questa risposta improvvisata.
Ho
incontrato tante volte le Tigri Volanti, nel campus e per strade, di giorno e
di notte, sempre di sfuggita, però non avevo più rivisto lui. Chissà, forse non
era uno di loro.
La sera del
3 giugno, stavo ascoltando le discussioni sull’ultimo annuncio del governo, per
l’ennesima volta parole minacciose: “Non andate in strada, non andate in piazza
Tiananmen… rimanete a casa… in modo da garantire la sicurezza della vostra
vita…”. Improvvisamente sentii “Pilastro!”, mi voltai “Fondo!” fui
contentissima di rivederlo. Lui invece era molto serio, “è tardi, ti porto
all’università”. Il sole cominciava a picchiare di giorno, si stava più
volentieri nella piazza di sera. “Non è neanche mezzanotte, voglio rimanere
ancora un po’”. “Pilastro, ascoltami”, usò un tono autorevole, “oggi c’è molto
meno gente in giro, ho paura che dopo non trovi un passaggio. Ti porto
all’università adesso, dopo sarò impegnato”. Non dissi niente, mi tirò su dalla
scalinata su cui ero seduta, “guardami”. Alzai gli occhi, come colpita da una
corrente elettrica, rimasi immobile, sentii le sue pupille appoggiate sulle
mie. “Sali!”. Obbedii.
Dormii
profondamente e tranquillamente, senza agitazioni e senza sogni. Mi svegliai
tardi, e alla prima voce che sentii crollò tutto il mondo.
Corpi che
correvano, corpi che cadevano, proiettori luminosi dei proiettili che li
inseguivano, file di carri armati che avanzavano, fari che abbagliavano… carne,
sangue, grida… i frammenti dei racconti mi strillavano nella testa. Ignorai la
caviglia, presi la bicicletta e pedalai, pedalai verso la piazza. Seppi che
l’esercito aveva già spazzato via tutti e che gli studenti si erano ritirati
dalla piazza, ma ci volli andare lo stesso. Non vedevo l’ora di arrivare in
piazza, dove ero mancata, mancata nel momento fatale.
Per le
strade, le barricate fatte con i cassonetti e i blocchi di cemento degli
spartitraffico,erano ormai abbandonate.
In un angolo due carri armati bruciati, nell’ombra dei rami inceneriti di un
maestoso albero di acacia fiorito. I cavalcavia, che a quei tempi erano rari e
esistevano solo in poche grandi città, avevano creato difficoltà ai mezzi
militari guidati dai soldati, perlopiù ragazzi di campagna. Nella notte tra il
3 e il 4 i cittadini infuriati dall’inaspettata operazione crudele del governo
riuscirono a bloccare qua e là dei carri armati e distruggerli. Cittadini
completamente inermi.
Arrivai in
piazza, la bicicletta sobbalzava, il viale che attraversava la piazza e che
aveva ospitato tutti i cortei di questi giorni era stata ridotta dai carri
armati come un asse per lavare. Cenere e baraonda per terra, non avevo mai
visto la piazza così vuota. Cercando di fermare le lacrime, alzai gli occhi
verso il cielo, una distesa grigia, un grigio fitto. Le nuvole, così scure così
pesanti, ondeggiavano violentemente come se volessero rompere quell’equilibro
di forze che impediva loro di precipitare verso la piazza. “… quanto a me, le
mie braccia son rotte, per aver abbracciato solo nuvole” (Charles
Baudelaire, ‘I lamenti d'un Icaro’, I fiori del male). Capii, non si
trattava di una questione fonetica. Esistevano così tante forze, forze fredde
che spegnevano con insopportabile facilità la nostra forza alimentata da
volontà, fiducia, speranza e dal sangue caldo della gioventù. Noi non abbiamo trovato la strada su cui
camminare verso un futuro che credevamo vicino. Fondo, forse lui sospettava già
la tragedia?
La
televisione, la radio, i giornali si riempirono presto di annunci di ricercati,
di notizie sulle ricerche e sugli arresti.
Le strade erano pattugliate da mezzi militari carichi di soldati con i
mitra puntati verso la gente. Faceva caldo? Era umido? Non mi ricordo. La percezione
era di una città che stava cuocendo al vapore, con il vapore della paura. Una sensazione che è ancora tagliente oggi
nella fresca brezza del Pincio.
Piazza del
Popolo brilla di un colore oro, guardo le persone che ci passano, piccole
figure ben definite. Quante persone ci stanno in questa piazza? E questa piazza
quante volte ha visto la vittoria della gioia?
Non ho più
visto Fondo. L’ho cercato allora anche negli ospedali che aiutavano i feriti e
dove andavamo a donare il sangue,
l’unica possibilità rimasta che ci collegava ancora al sogno che ci
stava allontanando. Non osavo pensare a cosa poteva essergli successo, con le
targhe non sarà stato difficile trovare le Tigri Volanti. Non so neanche come
si chiamasse.
Tanti anni
sono passati. Ho visto tante altre piazze, rosse bianche gialle azzurre dorate,
arrotondate o squadrate, con forme regolari o con morbide linee sinuose. Ho
saputo di tante rivoluzioni, non poche esattamente nello stesso anno 1989,
chissà se in qualche modo abbiamo influenzato qualcuno. Forse è solo
un’illusione, o meglio ancora una nostra esigenza pensarlo, lo sappiamo. Un
fallimento senza avere seminato niente incendia la disperazione, che potrebbe
in un attimo trasformarsi in veleno.
Il sole è
sceso. Le nuvole si tolgono il trucco e tornano essere bianche,
un’irresistibile attrazione, un incanto e allo stesso tempo un rischio di
delusione. Solo tanti anni dopo ho saputo che quei giorni vengono chiamati
“primavera democratica cinese”. La
primavera di Praga, la Primavera Araba…, primavere che profumavano di speranza
e di gioia come la nostra, immagino.
Il cielo si
calma in un blu trasparente, le nuvole con una danza soffice preparano il sogno
di notte. Tutto si calma, il silenzio abbraccia il Pincio. Il Pincio mi
ubriaca, è l’unico luogo a Roma dove trovo l’interpretazione di “Roma, città eterna”, qui i momenti esiliati
della vita tornano a casa. “Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da
un raggio di sole: ed è subito sera” (Salvatore Quasimodo, Ed è subito sera). E fra poco, a Pechino, sarà l’alba.
Note:
运动: /yùn dòng /movimento.
运 (composto da 云+辶): /yùn/ muovere, rimuovere;
fortuna, destino.
动 (composto da云+力): /dòng/ muovere, muoversi, agire, cambiare; movimento,
azione.
云: /yún/, nuvola.
辶: Radicale, camminare.
力/lì/ potere, forza, abilità.