Il Racconto
No soul all spirit
di Vito Calabrese [racconto
per Alberto]
(Disegni
di Adamo Calabrese)
Sto
correndo con lo zaino, appoggiato malamente su una sola spalla, e canticchio
uno dei miei ritornelli preferiti. Oggi mi sento forte, anche se l’aria è
puzzolente, il sole è bianco dietro il velo di nuvole, le auto sono ferme in
fila al semaforo e sgasano fumo tossico, i cani cagano dappertutto sul marciapiede
e vaffa… l’ho calpestata. Merda!
Corro,
saltellando, dopo aver strisciato la scarpetta - uh, uh, ho il 41, una bella
fetta - tra l’erba sporca e l’asfalto rovinato, ma la merda di cane è dura da rimuovere
e puzza. Corro a testa bassa, imprecando e canticchiando, perché, anyway, la vita è mia e me la voglio
godere.
Alberto!
– qualcuno mi chiama a voce alta, una voce squillante, una voce femminile che
conosco bene. Rialzo la testa, mi giro correndo, come volessi essere sicuro di
aver riconosciuto quella voce, per allontanarmi ancor più velocemente da quel
richiamo. Sssbonk!
Ahi,
che male! Sono andato a sbattere contro il palo della luce, che non ho visto,
perché mi sono girato a guardare quella faccia, stupita o stupida, che mi ha
chiamato, distraendomi fatalmente. Che botta!
-Alberto,
ti sei fatto male? – la voce di Martina cerca di consolarmi e invece mi
attizza.
-Che
domanda idiota. Certo che mi sono fatto male. Ti pare?
-Mi
dispiace. Vedrai che adesso ti passa. – Martina allunga la mano e tenta di
accarezzare il bozzo che già si nota sulla fronte.
-No,
non ti azzardare. Mi fa male e basta. Lasciami in pace.
È
morto lo ius soli, viva l’Italia dei pregiudizi e della paura
Il
battibecco con Martina continua mentre mi ricompongo. Lei vorrebbe
accompagnarmi ma glielo impedisco e parto di corsa. Intuisco che sono stato
sgarbato e che me la farà pagare. Continuo a correre con un’andatura
traumatizzata e nevrotica. Non mi
arrendo.
Let it be! Oggi è la mia giornata,
nonostante tutto.
Sto
attraversando il viale, di corsa, dopo aver dato un’occhiata sghemba alle mie
spalle, comunque insufficiente, e provoco l’improvvisa frenata di un SUV, da
cui sporge una mano col dito medio, che m’infastidisce. Gli faccio una
boccaccia e mi allontano sull’altro marciapiede, nascosto dalle auto
parcheggiate come un muro solido.
Vado
quasi a sbattere OOPS! contro un nero,
un ragazzo nero, fermo al crocevia di fianco all’hotel Europa, che tende il
berretto floscio nella speranza di trovare l’elemosina che gli risolva la
giornata. Lui apre la bocca - che denti bianchi! - ma il suo improperio, fuck you, gli resta strozzato tra le
labbra perché, improvviso, si alza il suono lacerante di una sirena.
Sgombero a Roma, scontri
tra migranti e agenti
Il poliziotto: «Se serve,
spezzagli il braccio»
Volevo
chiedergli scusa, sorry, ma non c’è
stato il tempo. Ho sentito l’odore acido
e pungente della paura. Il nero si è messo il berretto in testa ed è schizzato
via, lontano da quella sirena, urlante, quasi dolorosa, che voleva trattenerlo.
Mi sono fermato a guardare il van della Polizia Locale che avanzava in mezzo
all’incrocio, bloccando il traffico, e s’inerpicava sul cordolo della rotonda,
continuando a ululare come un cane furioso.
Ius
soli, i ragazzi senza cittadinanza non ci stanno: "Manifestazione il 13
ottobre"
Due
vigili sono scesi dal van correndo nella direzione del nero. L’hanno visto e vogliono
prenderlo, per fargli cosa? Metterlo dentro? Cacciarlo fuori? Fuori da Milano,
fuori dall’Italia? Ricacciarlo nell’inferno di una guerra? Nella miseria di una
terra desertificata?
Sono
rimasto interdetto a guardare quella caccia all’uomo in scala locale, che mi ha
lasciato la bocca secca. Non mi piaceva, proprio non mi piaceva.
Run, boy, run away.
In
cuor mio, facevo il tifo per lui, anche se la polizia m’incuteva paura.
I
vigili correvano con dei telefoni, o forse delle ricetrasmittenti, in mano. Poi
è esplosa un’altra sirena dal lato opposto della via e ho capito che per il
nero si era chiusa la partita. L’avevano preso in mezzo. Peccato!
La
gente scesa dalle auto, guardava commentando ad alta voce, non propriamente a
favore del nero, diceva che avevano fatto un Daspo.
What? Daspo! Shit!
E se
fosse toccato a me?
E se
fossi nato nero in una terra che non poteva più accogliermi?
Papa Francesco: “Accogliamo gli immigrati a
braccia aperteˮ
E se…
cosa mi passa per la mente?
Sono
a Milano, in una buona famiglia e vado a scuola. Ho anche il telefonino, anzi
ce l’avrei se non me l’avesse sequestrato mia madre, ma non importa. È roba da
niente al confronto col nero runboy.
L’allenamento
al campo di calcio del giovedì pomeriggio è finito. Lo spogliatoio è saturo
degli odori che evaporano dalle maglie sudate, dalle calze fradice, dai
calzoncini inzaccherati. Lucio lancia una delle sue scarpe scalcagnate contro
il largo culo di Franco. Sssciack!
Si
gira con un ghigno vigliacco sulla faccia, mentre Lucio sorride, avendo prima
invitato i compagni ad alzare il dito.
-Chi
è stato? – ride Lucio.
-Già.
Volete giocare? – risponde alterato Franco.
-Sì.
Indovina chi è stato? – ripete Lucio, con una smorfia.
Le
voci concitate si sovrappongono mentre i ragazzi si accalcano intorno al
grosso, grasso Franco e lo incalzano.
-Chi
è stato? Indovina?
-Ve
lo dico io, chi è stato. – alza la voce Franco.
-Avanti…
chi sarà?
-Quello
che ce l’ha più corto - e indica Lucio, ridendo sgangheratamente.
Il
ragazzo avvampa in faccia, coprendosi con una mano il pisellino, raccoglie
l’altra scarpa e gliela tira addosso con tutta la rabbia che gli sta montando.
-Tieni, pisellone.
"Americans
should live with their eyes and ears wide open. They will be tormented day and
night by the Hwasong-12 rockets without knowing when they will be
launched."
In
quel momento entra nello spogliatoio l’allenatore, Danilo. Intuisce qualcosa,
perché i ragazzi scattano in varie posizioni, spezzando la tensione che li
aveva catturati in quel gioco bastardo.
-Beh!
Che state facendo? Provo a indovinare?
Hmm,
mormorii e occhi bassi.
-Scommetto
che giocavate a chi piscia più lontano.
Scoppiano
risate. Una voce dal fondo esclama:
-A
chi ce l’ha più corto.
-Adesso
basta. La ricreazione è finita. Via! Filate a fare la doccia.
Così
dicendo rifila uno scappellotto a me, che me ne stavo curvo sulle mie pudenda,
attento a non fiatare.
-Che
c’è? - Rispondo incerto.
-Muoviti,
vai a lavarti.
Mi
alzo e mi trascino verso le docce, già impegnate.
-Pischello,
affrettati. Il tuo pisello non è abbastanza lungo per nasconderlo con due mani.
Vai!
La
battuta è così grossolana che mi fa montare una rabbia canina, mi fa avvampare
dal viso fino alle chiappe. Mi piego leggermente in avanti ed esplodo una
scoreggia, talmente rumorosa da travolgere lo spogliatoio in uno schiamazzo. Mi
butto sotto la doccia, scostando Lucio, per evitare il calcione di Danilo, e
canto a squarciagola: “numero 1”,
seguito dal coro dello spogliatoio.
Stop alla costruzione della moschea,
primo atto della neo Giunta di centrodestra a Sesto San Giovanni
Guardo
dalla finestra del settimo piano. È scesa la sera, il profilo della città si
confonde con le ombre dei primi giorni d’autunno. La voce pressante della mamma
mi richiama al dovere. È meglio che mi affretti. Le mie sorelle sono attorno
alla tavola e la stanno apparecchiando. Cerco un varco per inserirmi in quella
giostra ma sono emarginato, finché la mamma s’impone e mi affida il compito di
tagliare il pane a fette. Bene, l’ordine è stato ristabilito. C’è posto anche per
me.
«Invasione islamica»,
«effetto calamita»...
Nella
mente rivivo l’azione drammatica dell’inseguimento di runboy. Ne sono ancora turbato. La mamma se ne accorge e riesce a
farmi raccontare quell’esperienza.
-Allora
hanno aperto la caccia. . . - esclama la piccola con il viso corrucciato.
-Cosa
dici? Sono solo dimostrazioni per spaventare i poveri migranti e
tranquillizzare la gente insofferente. – chiarisce la mamma.
-Invece
ha reso bene l’idea. È diventato un gioco terribile e pericoloso a danno dei
poveretti, di quelli che non hanno nessuno che li difenda. – interviene la
sorella grande. - Li sfruttano e poi li lasciano per strada. Bisogna fare
qualcosa. -
La
conversazione si è fermata. La frase della sorellona è ancora sospesa
nell’aria. Ho la sensazione di essere stato emarginato. Ho dato l’avvio e poi
non mi hanno più considerato.
Migranti
nel Mediterraneo.
Tre Ong rinunciano ai salvataggi in Libia
-Tutti
possiamo fare qualcosa per l’accoglienza. – mamma rompe la pausa.
-Voglio
aiutarli là, da dove vengono.
-Sarebbe
a dire?
-Voglio
andare in Africa.
-Ne
riparleremo con papà. Te lo prometto, ne parleremo ma bisogna chiarirsi le idee.
-Io
una strada ce l’ho.
-Quale?
-Zema,
la mia amica che è tornata in Africa.
Abbasso
gli occhi sul piatto per inforcare un pezzo di cotoletta ma sono rimasti solo i
fagiolini. Che fine ha fatto la mia cotoletta? Mi giro verso Francesca, seduta
al mio fianco, e vedo che cerca di masticare velocemente un grosso pezzo di
cotoletta, ingozzandosi.
È
stata lei. Mi ha fregato la carne dal piatto.
-Molla
l’osso!
Le
prendo il piatto e lei mi trattiene, sibilando con un pezzo di carne che le sta
a mezza bocca. Lottiamo ostinatamente, il piatto si rovescia sulla tavola. La
mamma, ripresasi dallo sconcerto, impone urlando la fine della zuffa. Ho capito
che dovrò aspettare un po’ per riavere il telefonino. Mi alzo da tavola e salgo
in camera.
Migranti, la denuncia di Msf:
"L'Europa paga la Libia per commettere abusi"