L’intervista che qui
riproduciamo è stata raccolta da Petronilla Pacetti il
21 luglio scorso per “La Bottega
dei libri” di Pontedera (Pisa) e pubblicata sabato 17 agosto.
Petronilla Pacetti. Se
non Le dispiace, vorrei cominciare chiedendoLe in che cosa Lei sente di essere
ancora profondamente calabrese e in che cosa sente, invece, di aver acquisito
una “milanesità” al punto da scrivere quattro libri su Milano.
Angelo Gaccione: Ho sempre sostenuto che la vera patria di un uomo è la lingua
che parla. Io parlo la lingua materna, non quella milanese che non è la mia
lingua. Anche la mia memoria si è nutrita abbondantemente di luoghi e di
materia dentro cui pesca il mio immaginario di scrittore. Dunque possiamo dire che
le mie radici stanno saldamente in un universo calabrese e del Sud. Vivendo da
molto tempo a Milano, non potevo non fare i conti anche con questa realtà e di
occuparmene a vari livelli.
Pacetti. A
proposito dei suoi libri: leggendo le Sue biografie, ho visto che Lei ha
scritto in categorie letterarie molto diverse, dal teatro ai racconti, alle
fiabe. È perché non vuole scegliere tra tanti amori accontentandosi di uno solo
o perché crede che un autore debba saper scrivere in ogni ambito?
Gaccione:
Spesso scherzando ho detto che mi ritengo una figura rinascimentale e dunque
non mi precludo alcun ambito. In realtà le passioni e gli interessi sono sorti
volta a volta nel corso del tempo. Ho utilizzato ed utilizzo forme espressive
diverse in base a quanto ho da dire. Adeguo alla materia il linguaggio che
ritengo più idoneo. Che sia dotato di una buona duttilità è vero: mi viene bene
una nota d’arte come un reportage su un luogo, una personalità, un evento.
Almeno come posso verificare dal consenso dei lettori, anche di quelli più
esigenti.
Pacetti.
Sempre nelle biografie ho trovato due aggettivi per definire almeno alcuni dei
suoi lavori (soprattutto quelli teatrali, immagino): sperimentali e
provocatori. Li condivide?
Gaccione:
Come ho appena detto, sperimento linguaggi diversi; in questo senso accolgo
l’aggettivo sperimentale. Non so se si tratta di scritti “provocatori”, non sono scritti gratuiti e scontati,
questo sì. Cerco di non essere mai banale, se poi ciò che dico riesce a “stimolare”
l’intelligenza del lettore, allora vuol dire che lo scritto non è stato
vano.
Angelo Gaccione (Foto Dino Ignani, Roma) |
Pacetti. Se
li condivide, in che termini possiamo considerarla uno scrittore sperimentale e
provocatorio?
Gaccione: Non si tratta di aggettivi, per me uno scrittore è interessante o
non lo è; ha un suo stile e un suo modo per dire le cose oppure no; ha qualcosa
da dire o non ce l’ha; è credibile oppure no.
Pacetti. Mi
piacerebbe molto anche sapere perché ha deciso di scrivere (o forse lo aveva
già scritto da tempo) e pubblicare L’incendio di Roccabruna proprio ora,
in questo momento della sua vita?
Gaccione: Ho lavorato molto a questo libro ed i racconti sono
stilisticamente molto curati. Essendo io da decenni impegnato a ridare dignità
al racconto (genere da noi poco considerato), volevo che la narrazione non
presentasse alcuna sbavatura. Il modo di condurre il racconto è per me
fondamentale. Come ripeto spesso, ed ho anche scritto in un libretto di
aforismi: U cuntu è nenti importa cumi si porta, cioè come si conduce.
Anche se qui la materia ha un suo peso sostanziale. Ecco cosa mi ha scritto in
un passaggio di una sua email il noto psichiatra Eugenio Borgna dopo la lettura
di questo libro: “(…) ho letto il tuo libro affascinato, dalla prima
all’ultima pagina, dai suoi contenuti, dai suoi temi, dalla sua creatività,
dalla sua indicibile ricchezza espressiva. Non leggevo da tempo con questo
entusiasmo un libro che mi ha fatto conoscere una scrittura così fosforescente,
che di pagina in pagina fa riemergere contenuti del tutto inattesi”. Ne
sono orgoglioso, e perciò è doveroso applicarsi con impegno in questa difficile
arte. Esce in una età matura questo libro, volevo che fosse preso sul serio
come sta avvenendo.
Pacetti. Ne
L’incendio di Roccabruna Lei mostra una grande vicinanza non solo alla
Calabria e alla sua storia, ma anche a un dialetto che esprime e racconta
questa regione, benché nel contesto di un linguaggio sostanzialmente raffinato.
Cosa le è rimasto dentro della sua lingua madre in tanti anni di lontananza,
fisica ed emotiva, dalla terra dove è nato?
Gaccione: Sono
un difensore delle lingue madri, dei dialetti, stupidamente colpevolizzati.
Senza la conoscenza del dialetto si ignora la storia dei propri luoghi, dei
riti, dei miti, della propria cucina, del sentire di un popolo, dei suoi pregi
e dei suoi difetti. Non si è consapevoli da dove ci viene l’umorismo, il senso
del lutto, la tragicità, il fatalismo. Non si conosce la toponomastica e ciò
che ci sta dietro. Insomma si ignora parte importante della propria cultura e
delle proprie origini. E non dimentichiamo che è dai dialetti che è nato il
volgare italiano, come ci insegna Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia.
L’incendio è calato in un universo preciso, racconta fatti di uomini e
donne di quell’universo, la lingua (con qualche concessione al dialetto) doveva
adeguarsi per non suonare falsa e inefficace. Nei racconti metropolitani di Manhattan
la lingua è totalmente diversa perché è cambiato il contesto e sono cambiati
sociologicamente i protagonisti. Ho sempre parlato la lingua materna che
considero una ricchezza inestimabile; rappresenta la mia prima pelle e col
tempo si è maggiormente arricchita. Non dimentichiamoci che il dialetto è un
sistema di suoni più che un sistema di segni. Nel 2018 sono nati in lingua
dialettale i trenta testi poetici pubblicati nella raccolta Lingua mater.
Hanno voluto venir fuori in lingua dialettale e ad una età non più giovane, entusiasmando
i più noti poeti italiani, compreso quelli non Meridionali, da Giuseppe Conte a
Tomaso Kemeny, da Tiziano Rossi a Guido Oldani, dalla Bisutti ad Attolico,
tanto per citarne qualcuno.
Gaccione all'Università di Ginevra Febbraio 2012 |
Pacetti. E
se il linguaggio struttura la coscienza, cioè il nostro modo di vedere la
realtà, la sua chiave di lettura del mondo è, prima di tutto, la consapevolezza
dell'ingiustizia sociale o la spinta verso un livello di vita migliore?
Gaccione: La spinta morale in me è molto forte, come uomo, prima che come
scrittore. Chiunque si è occupato di me ha sottolineato questa, “spinta”,
come la definisce lei. Lo
scrittore Roberto Pazzi sottolinea questa “ispirazione morale”, che nutre la mia scrittura, “Come se scrivere fosse sempre succedaneo
per cambiarlo in meglio questo mondo, e mancasse sempre la completezza
dell’azione. Come se scrivere fosse insomma una imperfetta supplenza
dell’azione efficace, la politica”. Lo scrittore è un uomo che
vive in mezzo ad altri uomini; vive dentro un mondo di cui fa parte, è naturale
che gli stia a cuore la sua sorte come quella dei suoi simili. Non può non
occuparsene, se lo fa rinuncia alla sua essenza umana, all’aspetto più nobile
della sua essenza. Lo hanno fatto altri prima di noi, non solo scrittori o
letterati, sono anche morti per noi e continuano a morire. Sono in piazza
quando occorre, alzo la voce assieme ad altri, uso la penna e porto il mio
corpo dove è necessario: per Ambrosoli, per Falcone, Borsellino o i morti senza
voce come in questi giorni. Lo faccio dalle pagine di “Odissea” come dalle
piazze: per me è un obbligo di vita.
Pacetti. In
che modo è riuscito a conciliare ciò che Le appartiene profondamente della sua
terra e del Meridione d’Italia in genere, con il territorio (anche psicologico)
e la storia, così diversi, in cui è collocata Milano?
Gaccione:
A Milano sono arrivato quando la mia visione
della vita e lo scontro delle idee erano già definite. Avevo già fatto le
esperienze e le letture necessarie. Sapevo da che parte stare in entrambi i
luoghi, così come in entrambi i luoghi ho criticato (e continuo a farlo) ciò
che mi sembrava deteriore ed empio, ed amato e difeso (e continuo a farlo) ciò
che di meglio emerge dalle loro qualità e dal loro agire.
Gaccione a Montichiari (2019) |
Pacetti. Mi sembra che, soprattutto con la direzione di Odissea,
Lei abbia espresso una forte visione politica, nel senso greco di
partecipazione alla vita della πόλις? È così o è solo una
mia impressione?
Gaccione: Sì,
ha ragione. Odissea si è posta da subito come un’agorà che dibattesse
sul destino della polis e dei suoi corpi vivi. Un’ampia area di intelligenze
diverse che affrontassero alcuni dei nodi più drammatici di questo tempo,
accettando come ha scritto Hegel di Socrate “la collisione col potere”, per
rimettere l’etica al centro dell’agire individuale e del bene pubblico.
Pacetti. Se
è così, è per questo che Lei ama tanto l'aforisma, perché permette, in qualche
modo, di colpire se non di svegliare le coscienze?
Gaccione:
L’aforisma è la più efficace e sintetica forma di espressione e di pensiero,
perciò lo amo tanto e l’ho sempre valorizzato pubblicando non solo i miei, ma
quelli di tanti autori e autrici. Con poche battute si arriva al cuore delle
cose. Se io dico: “Pretendono un mondo migliore, ma non muovono un dito
perché lo diventi”, non ho bisogno di aggiungere altro per smascherare gli
ignavi e gli opportunisti. Non mi serve stendere un lungo saggio articolato, lì
dentro, in quel semplice distico, c’è una concezione di vita, una intera
visione, c’è tutto.