L’ULTIMA PASSEGGIATA
di
Fulvio Papi
Ernesto e Lidia Treccani ad una manifestazione |
La
telefonata del maestro Treccani, del tutto inaspettata, mi distrasse dall’ansia
filosofica di non aver capito tutte le risorse teoretiche che possono derivare
dalla “dialettica trascendentale della ragione” di Kant. Nella mia formazione
non era una incertezza marginale di quelle che si possano dimenticare appena si
volta pagina. Eppure non fui privo di gratitudine al suono del telefono, è
molto probabile che togliermi dalla nube di inquietudine intellettuale fosse, almeno
in quel momento, più importante che venire in chiaro sulle mie incertezze kantiane.
“Ciao,
sono Ernesto. Scusa se ti disturbo, ma sarebbe importante che ci vedessimo un
momento per chiarire certe questioni di Corrente. Le mostre per esempio, e anche,
come sai, certi problemi economici”.
Allora
il maestro presiedeva direttamente alle attività della Fondazione, se pure con
un certo sorridente distacco, come preferisse ascoltare il parere degli amici
del Comitato, sempre partecipi e attenti, spesso severi per quanto si riferiva
al bilancio, talora invece complici di una immaginazione che imponeva i suoi
diritti al di là degli stessi confini che precedentemente avevamo concordato.
La decisione relativa ai programmi futuri finiva col risentire di questa inevitabile
ambiguità che lasciava aperta le necessità di nuovi incontri che, con il
passare del tempo, avrebbero dovuto educare ad una necessaria resa alla realtà.
Ero
sicuro che il nostro colloquio sarebbe stato un’occasione felice per prendere
quel percorso in cui i dubbi, le incertezze, i giudizi, le speranze, i desideri
(“astratti”, avrebbero detto i filosofi) relativi a Corrente, si sarebbero
incontrati con le nostre considerazioni sui fatti culturali e politici. E, in
fondo, era la mia aspettativa perché, senza magari saperlo bene, desideravo
finire il mio giorno nella nuvola di parole, profonde e vane ma tutte segnate
dalla saggezza della amicizia.
Ernesto Treccani e Fulvio Papi
durante un dibattito alla
Fondazione Corrente di Milano
Il
taxi poi avrebbe sfiorato piazza Leonardo da Vinci dove la primavera ormai
avanzata, donava lo scenario di fronde fresche e opulente, e la tavolozza
multicolore dei fiori e, sullo sfondo, rosati e timidi i colori delle magnolie.
Era del resto il tempo in cui il mio sguardo aveva la fortuna di rinascere nella
ammirazione estetica.
Il
maestro Treccani mi accolse con quel sorriso che gli era proprio, educato ormai
a una irrinunciabile aspettativa di un mondo senza violenze, sopraffazioni,
povertà morali e materiali. Le parole? Non le ricordo proprio, perché appartenevano
al consumo dell’anima, quindi impegnative e profonde come verità, ma fuggevoli
come rondini.
Nella
penombra dell’ingresso alla ricca stanza dei quadri, leggera più che un soffio
di vento, comparve Lidia: “Fulvio ci porteresti a fare una passeggiata fino ai
giardini?”
Questa
domanda faceva scomparire ogni piccola e inutile cerimonia che è d’abitudine in
un incontro.
“Certamente,
possiamo andare anche subito”.
durante un dibattito alla
Fondazione Corrente di Milano
Veduta dei Giardini Pubblici
di Milano
I
discorsi precedenti con il maestro avrebbero trovato il loro riposo nelle
nostre enciclopedie private. L’improvvisa domanda apparteneva a un’altra forma
della vita. Sapevo anche se in maniera imprecisa, per il riserbo di Treccani,
che Lidia era ammalata gravemente.
“Certamente”.
E così in pochi minuti ci trovammo tutti e tre in via Porta già invasa dall’ombra.
Poi io in mezzo, sicuro di me, se pure con le ginocchia ribelli, Lidia e il
maestro accolti sottobraccio a destra e a sinistra. Camminavano lenti, eppure
leggeri, meglio di chiunque fosse considerato una persona anziana. Un
osservatore dal suo lessico avrebbe scelto la parola “affetto”. Attraversammo prudenti
ma sicuri il tratto di via Turati, dove, mi pare, ci fu favorevole e
comprensivo il traffico quotidiano.
I
giardini furono conquistati facilmente, noi per nulla simili a personaggi
minori della Milano dell’Ottocento messi in teatro. Ai giardini ci attendeva
una panchina tutta nostra, ombrosa e prossima a quella che, un tempo, era la
grande gabbia delle scimmie, dove, bambino, venivo portato per distribuire
noccioline. In quel momento questo era solo un bozzetto sfuocato, la convinta
lontananza da un altro personaggio che non fosse me stesso. Devo però
aggiungere che sul momento una parola sola avrebbe potuto avere la pena di una
infrazione insensata. Lidia era chiusa in un silenzio che nemmeno l’orgoglio di
un grande poeta avrebbe potuto spezzare con il suo verso migliore. Avevo letto
la sua autobiografia, ma quel silenzio spezzava anche quel racconto. Sapevo
cogliere la rottura dei tempi. Le sole parole che volarono nell’aria, leggere
farfalle, furono poi del maestro rivolte a me:
“Guarda
quel verde delle foglie, intenso profondo, eppure luminoso, è meraviglioso”.
di Milano
Feci
il cenno di chi aveva capito, ma era un falso convenzionale. Il valore del
colore, in teoria lo sapevo, era un abisso tra l’emozione, ampia come un ricco
respiro e il mio distinguere o paragonare simile a un apprendimento scolastico.
Ernesto poteva misurare la nostra pena con un metro che immaginavo ma non
conoscevo. Il mio silenzio era un eco del tutto indifeso del silenzio di Lidia,
dove ogni parola poteva indicare un confine smarrito, un futuro vuoto per un “io”
che era costretto a percepirsi simile a un vuoto.
Ernesto
forse lucidamente lo capiva. Quanto tempo siamo rimasti sulla panchina? Non l’ho
mai saputo. So invece, di certo, cha fu Lidia a dire “adesso torniamo”. Il
ritorno fu silenzioso, nemmeno una parola sulla nostra sosta. Io un po’ più
veloce. Lidia ed Ernesto quasi indipendenti rispetto al mio sostegno. O stavo
improvvisando un breve e inconscio racconto per tacitare la pena?
Ingresso
della Casa delle rondini, Lidia abbandonò il suo appoggio e senza guardarmi
disse: “Fulvio quando guarirò da questa malattia?”.
“Ci
vorrà pazienza, ci vorrà del tempo, ma guarirai”.
Capivo
che non potevo che aggrapparmi alla saggezza convenzionale e, infine, alla sua
inutilità. Poi in fretta ho aggiunto “Vi accompagno di sopra?”
Ma
Lidia questa volta sorridendo, quasi per punire con gentilezza la mia superflua
e vana premura: “Adesso siamo capaci di prendere l’ascensore”.
Il
“ciao” di Ernesto era una voce vuota, impersonale, lontana.