GORNALISMO E CULTURA
di Paolo Maria Di Stefano
“Pubblicista dimissionario”
In
occasione di una conversazione “Dall’incunabolo
al web”
Ora la Storia si occuperà anche di me! La fortuna mi ha
aiutato e, in un manoscritto abbandonato in un angolo di una piccola antica
biblioteca di un villaggio toscano -non c‘entra ma non guasta-: ho mangiato
divinamente bene!) ho rinvenuto quelli che potrebbero essere i versi finali di
una prima stesura del ventunesimo canto dell’Inferno, abbandonati da un Dante
teso a tracciare una linea comica e popolare, in ossequio, io credo, ai dettami
del tempo, secondo i quali un accenno “comico” non poteva mancare, soprattutto
in un’opera complessa e “assorbente” come la Commedia.
Il
Canto, se Dante non avesse tagliato quei versi, si sarebbe concluso così:
(…)
136 “Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti verso lor duca per cenno;
139 ed egli avea del cul fatto trombetta.
Odoroso rumor come di morto
da gran tempo insepolto all’aere
esposto
142 quasi un parlare dal respiro corto
a me aggrinzito là poco discosto
anelante a fuggir eppur attento
145 formar parole a compilar un detto
che latino mi fu: te l’ dico, io sento
giornalismo e cultura maledetto
148 connubio innatural contra naturam.
Eliminando
i versi da 140 (Odoroso rumor come di
morto) a 148 (connubio innatural
contra naturam), il Sommo ha probabilmente inteso valorizzare la comicità
della scena di un diavolo che usa il posteriore come una trombetta. Comicità
grossolana e popolaresca quanto si vuole, ma in grado di fare
dell’endecasillabo in oggetto un verso immortale, inciso nella mente di tutti,
senza distinzione di ceto, di cultura, di formazione culturale. In questa volontà
di raggiungimento del massimo effetto comico, a me sembra, però, che il Poeta
abbia perso un’occasione d’oro: inventare il neologismo “giornalismo”, oggi
sulla bocca del mondo intero, in una con la distinzione tra questo e la
cultura, a significare che una cosa è “cultura”, altra il giornalismo. Che è
esattamente quanto sembra accadere oggi, a secoli di distanza. E che gli stessi
giornalisti sottolineano in più riprese. Da ultimo, in occasione di una
conversazione “Dall’incunabolo al web”
-proposto dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia- che avrebbe dovuto avere
un seguito non fosse altro che a soddisfazione delle aspettative dei cento
giornalisti in lista d’attesa, dopo i centoquindici ammessi al primo incontro
in Sala dell’Accademia della Ambrosiana, il 29 ottobre scorso.
È stato
ordinato il blocco dell’iniziativa.
Qualcuno
si è stupito, ma in realtà la SIGEF, guidata dal Presidente dell’Ordine
Nazionale dei Giornalisti, non ha fatto che intervenire tempestivamente e con
decisione per impedire che nascesse confusione tra “formazione giornalistica” e
“formazione culturale”, testualmente affermando che, in quel caso, si trattava
di formazione culturale, non giornalistica. Ed è ovvio che i “giornali” non
avendo il compito di contribuire a “fare cultura”, non possano che giovarsi di
giornalisti non colti, il cui non colto mestiere va difeso contro ogni attacco. E
d’altro canto: essendo i giornalisti, per auto proclamazione, depositari della
scienza e della pratica della comunicazione, perché dovrebbero occuparsi di una
storia -"dall’incunabolo al web"- che con la comunicazione nulla ha a che vedere?
E i giornali, perché dovrebbero accettare di veder lievitare i costi,
consentendo ai giornalisti di impiegare il loro tempo -lautamente pagato- in
inutili bazzecole culturali?