“La riforma Renzi è oligarchica e
antipopolare”
di Roberto Scarpinato*
Il mio dissenso nei confronti
della riforma costituzionale è dovuto a vari motivi che, per ragioni di tempo,
potrò esplicare solo in piccola parte. In primo luogo perché questa riforma non
è affatto una revisione della Costituzione vigente, cioè un aggiustamento di
alcuni meccanismi della macchina statale per renderla più funzionale, ma con i
suoi 47 articoli su 139 introduce una diversa Costituzione, alternativa e
antagonista nel suo disegno globale a quella vigente, mutando in profondità
l’organizzazione dello Stato, i rapporti tra i poteri ed il rapporto tra il
potere ed i cittadini. Una diversa Costituzione che modificando il modo in cui
il potere è organizzato, ha inevitabili e rilevanti ricadute sui diritti
politici e sociali dei cittadini, garantiti nella prima parte della
Costituzione. Basti considerare che, ad esempio, la riforma abroga l’articolo
58 della Costituzione vigente che sancisce il diritto dei cittadini di eleggere
i senatori, e con ciò stesso svuota di contenuto l’art. 1 della Costituzione,
norma cardine del sistema democratico che stabilisce che la sovranità
appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Nella diversa organizzazione del potere prevista dalla riforma, questo potere
sovrano fondamentale per la vita democratica, viene tolto ai cittadini e
attributo alle oligarchie di partito che controllano i consigli regionali. Poiché,
come diceva Hegel, il demonio si cela nel dettaglio, questo dettaglio -se così
vogliamo impropriamente definirlo- racchiude in se e disvela l’animus oligarchico
e antipopolare che, a mio parere, attraversa sottotraccia tutta la riforma
costituzionale, celandosi nei meandri di articoli la cui comprensione sfugge al
cittadino medio, cioè a dire alla generalità dei cittadini che il 4 dicembre
saranno chiamati a votare.
I fautori
della riforma focalizzano l’attenzione e il dibattito pubblico sulla necessità
di ridimensionare i poteri del Senato eliminando il bicameralismo paritario,
questione sulla quale si può concordare in linea di principio, ma glissano su
un punto essenziale: Perché pur riformando il Senato avete ritenuto
indispensabile espropriare i cittadini del diritto-potere di eleggere i senatori?
Il bicameralismo così come lo volete riformare non poteva funzionare
altrettanto bene lasciando intatto il diritto costituzionale dei cittadini di
eleggere i senatori?
Perché
questo specifico punto della riforma è stato ritenuto tanto essenziale da determinare
addirittura l’epurazione dalla Commissione affari costituzionali dei senatori
del Pd: Corradino Mineo e Vannino Chiti, che si battevano per mantenere in vita
il diritto dei cittadini di eleggere i senatori? Forse uno degli obiettivi che
si volevano perseguire, ma che non possono essere esplicitati alla pubblica
opinione, era proprio quello di restringere gli spazi di partecipazione
democratica e di estromettere il popolo dalla macchina dello Stato? Dunque
secondo voi la ricetta migliore per curare la crisi della democrazia e della rappresentanza,
è quella di restringere ancor di più gli spazi di democrazia e di
rappresentanza?
Questo
travaso di potere dai cittadini alle oligarchie di partito non riguarda solo il
Senato, ma anche la Camera dei Deputati e viene realizzato mediante sofisticati
meccanismi che sfuggono alla comprensione del cittadino medio.
La nuova legge elettorale nota
come l’Italicum, che costituisce una delle chiavi di volta della riforma,
attribuisce infatti ai capi partito e ai loro entourage il potere di nominare
ben cento deputati della Camera, imponendoli dall’alto senza il voto popolare.
Questo
risultato viene conseguito mediante il sistema dei capilista bloccati inseriti
di autorità nelle liste elettorali presentate nei 100 collegi nei quali si
suddivide il paese, e che vengono eletti automaticamente con i voti riportati
dalla lista, senza che nessun elettore li abbia indicati. Gli elettori potranno
esprimere un voto di preferenza per un altro candidato oltre il capo lista, ma
i voti di preferenza così espressi saranno presi in considerazione solo se la
lista da loro votata avrà ottenuto più di cento deputati in campo nazionale,
perché i primi cento posti sono bloccati per le persone “nominate” dai gruppi
dirigenti del partito in base a particolari vincoli di fedeltà. Così, per
formulare un esempio, se una lista ottiene un totale nazionale di voti pari a
100 deputati, nessuno dei candidati scelti dagli elettori dal 101 in poi con il
voto di preferenza potrà essere eletto alla Camera, perché tutti i posti disponibili
sono stati esauriti. Ora poiché il premio di maggioranza previsto dall’Italicum
attribuisce al partito vincitore delle elezioni 340 deputati su 630, tutti i
partiti della minoranza potranno portare alla Camera nel loro insieme
complessivamente 290 deputati, e, quindi, ciascuno solo una quota di deputati
intorno a 100 o ad un sottomultiplo di cento.
Il che
significa che entreranno alla Camera per le minoranze solo i capilista
bloccati, nominati dai capi partiti. Nessuno o quasi dei candidati scelti dagli
elettori oltre i cento con i voti di preferenza, farà ingresso in Parlamento. Ne
consegue che ben due terzi dei cittadini italiani votanti, tanti quanti sono
rappresentati dalla somma dei partiti della minoranza nell’attuale panorama
tripolare nazionale, saranno di fatto privati del diritto di scegliere i propri
rappresentanti alla Camera. Se questa è la sorte riservata ai cittadini
elettori delle minoranze, è interessante notare come il congegno dei cento
capilista bloccati, unito ad altri, consegua poi l’ulteriore risultato
antidemocratico di determinare una distorsione della rappresentanza
parlamentare anche nel partito di maggioranza, e di realizzare una sostanziale
abolizione della separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo.
Per spiegare
come ciò si verifichi, occorre comprendere come opera il combinato disposto
della riforma e dell’Italicum.
L’articolo 2 comma 8 dell’Italicum
stabilisce: “I partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare
depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome
della persona da loro indicata come capo della forza politica”. In questo modo
il voto per la forza politica “che si candida a governare” è anche il voto per
il “capo della forza politica” che si candida a divenire il capo del governo,
in contrasto con l’art. 92 della Costituzione, rimasto inalterato, che ne
affida la nomina al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni
dei gruppi parlamentari. Come è stato osservato, sarà ben difficile non solo la
nomina di una persona diversa, ma perfino la sfiducia, destinata
inevitabilmente a provocare lo scioglimento della Camera.
Ciò posto,
tenuto conto che, come accennato, l’Italicum attribuisce alla medesima oligarchia
di partito che esprime il leader della forza politica candidato a capo del
governo, la possibilità di nominare cento deputati della Camera, è evidente che
tale gruppo oligarchico nominerà capilista, e quindi deputati ipso facto, tutti
i componenti del gruppo ed i fedelissimi del leader.
Si tratta di
un numero di deputati che già di per sé attribuisce al futuro capo del governo
la Golden share per il controllo della maggioranza alla Camera dei deputati,
perché equivale a circa un terzo dei deputati eleggibili dal partito.
Qualunque
studioso di diritto societario sa bene che l’amministratore delegato di una
azienda che detiene un terzo della quota azionaria, è in grado di controllare
l’intera azienda. Ma non finisce qui. Il leader futuro capo del governo ed il
suo entourage dopo avere nominato 100 deputati, tanti quanti sono i collegi
elettorali del paese, sono gli stessi che formano la lista degli altri
candidati non bloccati, per i quali gli elettori hanno la possibilità di
esprimere una preferenza o due a condizione che si votino candidati di sesso
diverso.
La riforma
costituzionale non prevede alcuna norma che imponga (così come, ad esempio,
l’art. 21 della Costituzione tedesca) che l’ordinamento interno dei partiti
debba essere conforme ai princìpi fondamentali della democrazia e che
garantisca, di conseguenza, una selezione democratica dei candidati da inserire
nelle liste elettorali. Dunque la stessa oligarchia partitica che elegge se
stessa con il sistema dei 100 capilista bloccati, ha la possibilità di
cooptare, inserendoli nella lista dei candidati votabili, solo personaggi
ritenuti affidabili e obbedienti, escludendo dalla lista gli indipendenti e gli
esponenti delle opposizioni interne, oppure relegandoli in posizioni marginali.
Ma non
finisce qui. L’Italicum ha in serbo un altro congegno a disposizione delle
oligarchie di partito per selezionare persone da cooptare nella maggioranza
parlamentare del futuro capo del governo. Si tratta della possibilità di
candidare la stessa persona in ben dieci diversi collegi contemporaneamente. Il
candidato eletto in più collegi deve scegliere il collegio che preferisce. In
quello in cui rinuncia, al suo posto viene eletto il candidato che ha ottenuto
più voti di preferenza dopo di lui. Il gruppo oligarchico che esprime il leader
futuro capo del governo ha in questo modo la possibilità di neutralizzare
eventuali candidati espressi dai territori e ritenuti non affidabili,
stabilendo che il candidato eletto in più circoscrizioni e fedele alla
leadership, scelga la circoscrizione nella quale altrimenti al suo posto
verrebbe eletto il candidato non gradito, che viene così escluso dalla Camera.
Grazie a
questi congegni elettorali, lo stesso gruppo oligarchico che designa come capo
del Governo il capo della partito di maggioranza, acquisisce la possibilità di
controllare contemporaneamente sia il Governo che la Camera dei deputati.
Si realizza
così un continuum tra Camera dei deputati e Governo espressione entrambi dello
stesso gruppo oligarchico che abolisce di fatto la separazione dei poteri tra
legislativo ed esecutivo, e la Camera si trasforma da organo espressione della
sovranità popolare che controlla il governo dando e revocando la fiducia, in
Camera di ratifica delle iniziative legislative promosse dal Capo del Governo,
il quale è allo stesso tempo capo del partito di maggioranza.
Il capo del Governo/capopartito
oltre ad avere una supremazia di fatto sulla Camera nei modi accennati, ha
anche una supremazia istituzionale in quanto la riforma gli attribuisce il potere
di dettare l’agenda dei lavori parlamentari con il meccanismo delle leggi
dichiarate dal Governo di urgenza che devono essere approvate entro 70 giorni.
Interessante
notare che la stessa corsia preferenziale non è prevista per le leggi di
iniziativa parlamentare, così che il governo è in grado di colonizzare ancor di
più l’attività legislativa del parlamento. Alla sostanziale desovranizzazione
del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere
legislativo e, quindi, del ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo, si
somma poi la disattivazione del ruolo delle minoranze che, sempre grazie
all’Italicum, sono condannate per tutta la legislatura alla più totale
impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290 deputati rispetto ai 340
della maggioranza governativa.
E ciò
nonostante che nell’attuale panorama politico multipolare, le minoranze siano
in realtà la maggioranza reale nel paese, assommando i voti di due terzi dei
votanti a fronte del residuo terzo circa, ottenuto dal partito del capo del
governo. Grazie alla lampada di Aladino del combinato disposto della riforma
costituzionale e dell’Italicum, un ristretto gruppo oligarchico
autoreferenziale in grado di auto cooptarsi prescindendo in buona misura nei
modi accennati dai voti di preferenza espressi da una minoranza del paese, pari
a circa un terzo dei votanti, che lo porta al potere, è in grado di divenire il
gestore oligopolistico delle leve strategiche dello stato, cioè della Camera e
del Governo.
Azionando
sinergicamente tali leve, il gruppo nell’assenza di ogni valido contro
bilanciamento è in grado di esercitare un potere politico-istituzionale di
supremazia sugli apparati istituzionali nei quali si articola lo stato: dalla
Rai, alle Partecipate pubbliche, agli enti pubblici economici, alle varie
Authority, ai vertici delle Forze di Polizia, dei Servizi segreti, e via
elencando. Si pongono così le premesse per realizzare uno spoil system generalizzato, finalizzato a garantire
l’autoriproduzione del gruppo oligarchico mediante la nomina ai vertici degli
apparati che contano, solo persone di provata consonanza politica e fedeltà.
Tramite
questi e molti altri sofisticati meccanismi, si pongono così a mio parere le premesse per una transizione occulta
da un repubblica parlamentare imperniata sulla sovranità popolare, sulla
centralità del Parlamento e sulla separazione dei poteri, ad un regime
oligarchico nel quale il potere reale si concentra nelle mani di una oligarchia
che occupa il cuore nevralgico dello stato.
Per
giustificare la sostituzione della Costituzione vigente con una nuova
Costituzione, i promotori della riforma si sono appellati ad argomenti che si
rivelano non ancorati alla realtà e che, proprio per questo motivo, suscitano,
a mio parere, serie perplessità, giacché se le ragioni della riforma dichiarate
non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre ragioni
che non si ritiene politicamente pagante esplicitare.
Si sostiene
infatti che questa riforma sarebbe finalizzata a tagliare i costi della
politica e sarebbe necessaria ed urgente per risolvere i problemi del paese.
Quanto all’inconsistenza del primo argomento -cioè lo scopo di tagliare i
costi della politica- non ritengo di dovermi soffermare. La Ragioneria dello
Stato in una relazione trasmessa al Ministro per le riforme in data 28 ottobre
2014 ha stimato il risparmio di spesa conseguente alla riforma del Senato pari
a 57,7 milioni di euro, una cifra ridicola rispetto al bilancio statale, e che
potrebbe essere risparmiata in mille altri modi con leggi ordinarie senza
alcuna necessità di stravolgere la Costituzione. Per esempio tagliando i costi
della corruzione, i costi della evasione fiscale, invece di tagliare la
democrazia.
Il secondo argomento dei
sostenitori del Sì è -come accennavo- che la riforma è necessaria ed urgente
per risolvere i problemi del paese, in quanto il bicameralismo paritario
determina una patologico rallentamento del processo legislativo, ed in quanto
l’attuale assetto costituzionale impedisce una governabilità del paese agile,
flessibile, necessaria per reggere le sfide della globalizzazione.
Se questo è
lo scopo dichiarato, non risulta che siano stati indicati dai fautori del Sì i
problemi del paese che sarebbero stati causati in passato dalla farraginosità
dei meccanismi istituzionali previsti dalla Costituzione vigente e che, invece,
troverebbero immediata soluzione con la riforma della Costituzione.
Forse la
completa assenza di una politica industriale che perdura da oltre un quarto di
secolo e a causa della quale dal 2008 ad oggi sono passati al capitale
straniero più di 500 marchi storici di tutti i settori strategici
dell’industria nazionale?
Dall’elettronica,
alle automobili, alle comunicazioni, agli elettrodomestici, alle ferrovie,
all’aerospaziale, all’agroalimentare, alla moda, l’elenco dei marchi passati al
capitale straniero dà la sensazione di una silenziosa Caporetto nazionale:
Pirelli, Pininfarina, Indesit, Ansaldo Breda, Italcementi, Edison, Buitoni,
Parmalat, Fendi, Bulgari, Gucci, Valentino, etc
Forse la
disoccupazione giovanile che raggiunge livelli record in ambito europeo e
l’emigrazione all’estero di centinaia di migliaia di giovani laureati che nel
nostro paese non hanno alcun futuro?
Forse la
gigantesca evasione fiscale (la terza del mondo dopo Messico e Turchia) con un
mancato introito per le casse dello stato che mette in ginocchio l’erogazione
dei servizi sociali?
Ciascuno può
allungare a piacimento la lista dei gravi problemi nei quali versa il paese e
che lo stanno avvitando in una spirale di declino che sembra senza fine, e
stilare dal suo punto di vista una diversa gerarchia della gravità di tali
problemi.
Ma pur nella
diversità delle opzioni, un fatto è certo: nessuno di questi problemi è
addebitabile al bicameralismo paritario e alla Costituzione del 1948. Una
classe dirigente che si è rivelata inadeguata a reggere le sfide della
complessità e che si è resa responsabile del declassamento economico e sociale
del paese, ora tenta di scaricare le proprie responsabilità sul capro
espiatorio di una Costituzione del 1948 che nulla ha da spartire con le cause
della crisi economica.
Non basta.
Gli uffici studi del Parlamento hanno documentato quanto sia priva di
fondamento nella realtà la narrazione dei sostenitori del Sì secondo cui il
bicameralismo paritario avrebbe enormemente dilatato i tempi di approvazione
delle leggi a causa della navetta tra la Camera dei Deputati ed il Senato,
quando una delle due camere apporta modifiche ai progetti di legge approvati
dall’altra.
In questa legislatura sono state
sino ad oggi approvare 250 leggi di cui ben 200, pari all’80%, senza navetta
parlamentare e solo 50 pari al 20% con rinvio di una Camera all’altra, a
seguito di modifiche. I tempi medi di approvazione delle leggi sono i seguenti:
ogni legge ordinaria viene approvata in media fra Camera e Senato in 53 giorni;
ogni decreto viene convertito in legge dalle due Camere in 46 giorni; e ogni
legge finanziaria passa, con la "doppia conforme", in 88 giorni. Se
una legge si incaglia in parlamento non è per colpa del pur discutibile bicameralismo
paritario: ma dei dissensi politici dentro le coalizioni di maggioranza. È pur
vero che vi sono leggi che invece sono state approvate in tempi molto lunghi.
Ma se si approfondisce l’analisi si comprende bene che le ragioni di questi
tempi lunghi non sono attribuibili al bicameralismo paritario, ma a ben altre
ragioni di ordine politico non sempre commendevoli. La legge sulla corruzione,
per esempio, ha ottenuto il via libera dal Parlamento dopo ben 1546 giorni. Dunque
ricapitolando le ragioni addotte dai sostenitori del Sì per sostenere la
necessità di questa riforma non trovano riscontro nella realtà.
Possiamo
concludere che non è affatto vero che esiste una crisi di governabilità del
paese che è una concausa importante della grave crisi economica nella quale
ristagniamo?
Non possiamo
affatto sostenerlo. Anzi dobbiamo ammettere che esiste certamente una reale
grave crisi di governabilità che ha causato ed aggrava la crisi.
Quel che
merita riflessione, dal mio punto di vista, è che si addebita la crisi di
governabilità alla Costituzione vigente e si tacciono invece alla pubblica
opinione le vere cause strutturali di tale crisi di governabilità, che possono
essere ignote al cittadino comune, che possono essere sconosciute ai tanti
giuristi in buona fede che non conoscono quale sia il reale funzionamento della
macchina del potere oggi, ma che, invece, non possono essere ignote a coloro
che hanno ideato questa riforma. Quali sono dunque le reali cause che
ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico
venutosi a creare nella seconda repubblica per fattori nazionali e
internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo
scorso? La risposta a questa domanda presuppone che si abbia ben chiaro quali
siano gli strumenti indispensabili per governare la politica economica di un
paese e che sono essenzialmente tre. La potestà monetaria, cioè il potere di
emettere moneta e obbligazioni di Stato. La potestà valutaria, cioè il potere
di svalutare la moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di
competitività all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di
bilancio, cioè il potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa
pubblica in deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed
uscite. In assenza di questa fondamentale cassetta degli attrezzi, non è
possibile governare la politica economica di un paese. L’esempio più evidente si trae
dall’esperienza degli strumenti messi in campo dall’amministrazione americana
per gestire e superare la crisi sistemica verificatasi dopo l’esplosione della
bolla dei mutui subprime.
L’amministrazione statunitense ha
contemporaneamente azionato la leva della potestà monetaria autorizzando la Fed
ad iniettare ogni mese 80 miliardi di liquidità nell’economia reale, la leva
della sovranità valutaria svalutando il dollaro rispetto ad altre monete, la
leva infine della potestà di bilancio, finanziando con il deficit di bilancio
statale politiche di spesa per il rilancio dell’economia. Solo grazie a tali
manovre, l’economia statunitense è uscita dal guado. Veniamo ora al nostro
paese. Perché il governo italiano nello stesso periodo non ha azionato le stesse
leve felicemente azionate dall’amministrazione statunitense? Forse perché ha
commesso un errore di diagnosi? Perché ha ritenuto di dovere seguire un’altra
strategia?
No, semplicemente perché non ha potuto. Non ha potuto perché le tre potestà fondamentali per gestire il governo dell’economia del sistema Italia -potestà monetaria, potestà valutaria, potestà di bilancio- non sono più azionabili dal governo italiano essendo state cedute ad organi sovranazionali: la Commissione europea e la Bce, componenti insieme al Fondo monetario internazionale della cosiddetta Troika, santuario del pensiero unico neoliberista.
No, semplicemente perché non ha potuto. Non ha potuto perché le tre potestà fondamentali per gestire il governo dell’economia del sistema Italia -potestà monetaria, potestà valutaria, potestà di bilancio- non sono più azionabili dal governo italiano essendo state cedute ad organi sovranazionali: la Commissione europea e la Bce, componenti insieme al Fondo monetario internazionale della cosiddetta Troika, santuario del pensiero unico neoliberista.
In altri
termini il governo non ha potuto azionare quelle leve per un deficit di
governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948, come
sostengono i fautori del Sì, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in poi.
Il deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il frutto
di un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per governare
la politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento europeo o
ad altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state cedute agli
organi prima menzionati -la Commissione europea, la Bce (e per certi versi il Fondo
monetario internazionale)- privi di legittimazione e rappresentanza
democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi invece
ai grandi centri del potere economico e finanziario.
Connessione
questa dimostrata in modo inequivocabile dalla biografia di tanti soggetti che
in tali organi hanno rivestito e rivestono ruoli decisionali strategici e che
provengono dalle strutture apicali delle più grandi banche di affari
internazionali, o che a fine del loro mandato vengono assunti da tali banche e
da potenti multinazionali come consulenti o top manager.
Non risponde
a realtà dunque, come affermano i sostenitori del Sì, che la politica ha
perduto il controllo sull’economia a causa dell’ inefficienza delle procedure
decisionali previste dall’attuale Costituzione che, dunque, sarebbe bene
riformare votando Sì al prossimo referendum del 4 dicembre.
La politica, o meglio la
democrazia, ha abdicato al suo ruolo, quando ha consegnato gli strumenti della
sovranità a ristrette oligarchie arroccate in centri decisionali impermeabili
alla volontà popolare, ma fortemente permeabili ai diktat dei mercati, o meglio
alle potenze economiche che governano i mercati. Una esemplificazione concreta
e recente dei risultati di questa abdicazione della politica al potere
economico e dei modi nei quali oggi viene gestito il potere reale si ricava
dall’esame della lettera strettamente riservata che in data 5 agosto 2011, il
Presidente della Bce inviò al Presidente del Consiglio dei Ministri italiano,
dettandogli una analitica agenda politica delle riforme che il governo ed il
Parlamento italiano dovevano approvare, specificando anche i tempi e gli
strumenti legislativi da adottare.
Dalla
riforma della legislazione sul lavoro, alla riforma della contrattazione
collettiva, alla riforma delle pensioni sino alle privatizzazioni e alla
riforma della Costituzione, è una summa del pensiero e delle strategie
neoliberiste.
È
impressionante verificare a posteriori come quell’agenda politica sia stata
puntualmente realizzata -dalla riforma Fornero sino al Jobs Act- dai tre
governi che si sono susseguiti dal 2011 ad oggi, e da maggioranze parlamentari
composte in larga misura da persone nominate da ristretti vertici di partito.
Quel che
appare ancor più significativo è che in quella stessa lettera del 5 agosto
2011, il Presidente della Bce sollecitava anche una riforma della seconda parte
della Costituzione che è stata realizzata nel 2012 nella indifferenza e nella
inconsapevolezza della sua reale portata, della opinione pubblica e del mondo
dei giuristi.
Mi riferisco
a quell’art. 81 della Costituzione che ha introdotto l’obbligo del pareggio di
bilancio, norma di matrice culturale neoliberista.
Una norma
che ha introdotto un vero e proprio cavallo di Troia all’interno della
cittadella costituzionale, perché impedisce di finanziare in deficit politiche
economiche espansive di tipo keinesiano per superare le fasi di crisi
aumentando la spesa pubblica, ed impone quindi come unica soluzione alternativa
obbligata il taglio della spesa pubblica ai servizi dello Stato sociale,
determinando così l’impoverimento delle masse popolari, la riduzione della loro
capacità di spesa, la caduta della domanda aggregata interna e l’avvitamento
della spirale recessiva.
La vicenda in parola dimostra
quanto siano infondate tutte le argomentazioni dei sostenitori del Sì secondo
cui la Costituzione va riformata perché quella attuale rallenta l’iter
legislativo e impedisce la governabilità.
Tutte le
leggi indicate dalla BCE sono state approvate in tempi rapidissimi con un
doppio passaggio parlamentare. La Salva-Italia di Monti e Fornero fu approvata
in appena 16 giorni.
La legge
costituzionale sul pareggio di bilancio obbligatorio fu approvata addirittura
in cinque mesi (con quattro votazioni Camera-Senato-Camera-Senato).
La vicenda
esposta costituisce una concreta esemplificazione del reale modo di essere del
potere oggi e di come oligarchie partitiche insediate al governo e in grado di
controllare il parlamento, possano divenire la cinghia di trasmissione della
volontà politica di centri decisionali esterni ai luoghi della rappresentanza
popolare, attraverso itinerari informali che si sottraggono alla visibilità
democratica.
Quella che
ho appena esposto non è solo una vicenda del passato ma è una simulazione di
come sarà esercitato il potere in futuro se questa riforma costituzionale
dovesse essere definitivamente approvata.
Non si
tratta di un processo alle intenzioni, non si tratta di dietrologia.
Nella
relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, si
legge testualmente che questa riforma risolverà tutti i problemi del paese,
rimediando:
“l’esigenza
di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle
relative stringenti regole di bilancio”
“le sfide
derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto
della competizione globale”
In altri termini l’abrogazione del
diritto dei cittadini di eleggere i senatori e, in buona misura, i deputati,
nonché il travaso di potere dal Parlamento al Governo che costituiscono il
cuore e il nerbo della riforma, vengono invocati per assicurare la migliore
consonanza ai diktat della Commissione europea, della Bce e alle pretese dei
mercati.
In nome
della esigenza di una totale subordinazione della politica all’economia. Il
migliore inequivocabile riscontro che questo sia il reale obiettivo della
riforma costituzionale, viene dalla sua sponsorizzazione entusiastica da parte
delle più potenti banche di affari internazionali e delle altre cattedrali
della finanza internazionale che in questi ultimi mesi sono scese in campo con
tutta la loro forza di pressione per sostenere il fronte del Sì, e per
intimidire gli indecisi minacciando sfracelli economici se la riforma dovesse
essere bocciata dai cittadini il 4 dicembre. E mi pare meritevole di
riflessione che queste finalità della riforma benché siano state dichiarate
nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale,
non siano mai state utilizzate per sostenere le ragioni del Sì nel corso di
tutta questa campagna referendaria. Evidentemente i promotori politici della
riforma ritengono controproducente proclamare a reti unificate che la riforma
costituzionale risolverà tutti i problemi del paese, grazie al fedele
esecuzione delle indicazioni provenienti dalla governance europea.
I Riformatori affermano di essere
proiettati nel futuro, ma a me sembra che con questa riforma si rischi di
riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca del primo Novecento quando
prima dell’avvento della Costituzione del 1948, il potere politico era
concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il
potere economico.
Era il tempo
in cui lo Stato non godeva di alcuna considerazione perché era considerato un
instrumentum regni nelle mani dei potenti e la legge, come insegnava Gaetano
Salvemini, non godeva di alcun rispetto perché era percepita come la voce del
padrone.
Quella
triste stagione della storia è stata archiviata grazie alla Costituzione del
1948 che resta, oggi come ieri, l’ultima linea Maginot per la difesa della
democrazia e dei diritti. Una Costituzione che nessuno ci ha regalato, che è
costata lacrime e sangue, come ci ricorda Piero Calamandrei, uno dei padri
della Costituzione del 1948, le cui parole pronunciate durante i lavori della
Costituente nella seduta del 7 marzo 1947, sono da tenere bene a mente in
questo delicato frangente della storia nel quale dovremo decidere sul futuro
del paese, e mi sembrano le migliori per concludere il mio intervento: “Io mi domando,
onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa
nostra Assemblea costituente… credo che i nostri posteri sentiranno più di noi,
tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova
storia: e si immagineranno… che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva
della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati
noi, uomini effimeri i cui nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia
stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad
uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle
pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da
Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani […]
Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si
trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva
per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata
la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la
resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento
volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro
sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli
uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono i nostri
morti. Non dobbiamo tradirli”.