LO
SFRUTTAMENTO NEL CUORE DELL’OPPOSIZIONE
di Franco Astengo
Il tema del lavoro non è
contemplato nell’orizzonte del costituendo nuovo governo e di conseguenza viene
totalmente ignorata la questione dello sfruttamento che ne rappresenta, da
sempre, il risvolto più evidente e significativo. La realtà concreta dello
sfruttamento si è estesa, nel corso di questi anni definiti abbastanza
impropriamente di “globalizzazione” ben oltre i confini di quella che
marxianamente era stata definita “contraddizione principale”.
Si
sono acuiti i termini del conflitto di genere, di quello generazionale, del
rapporto centro- periferia in particolare sul tema ambientale, e l’utilizzo
capitalistico dell’innovazione tecnologica ha intrecciato diversamente, da come
l’avevamo storicamente concepita, la relazione tra struttura e sovrastruttura.
A
Sinistra, sul piano internazionale, è stata accettata l’idea
dell’irreversibilità della vittoria del capitalismo e accettata, subita,
introiettata la logica della gestione del ciclo attuata in forma
particolarmente violenta dagli apparenti vincitori del “post-Muro”: gestione
del ciclo dimostratasi violenta e sopraffattrice su tutto l’insieme della
società causando ingiustizie e disuguaglianze ben oltre il solo elemento del
reddito e delle condizioni materiali di vita. Sono state abbandonate anche le
più pallide e timide obiezioni di derivazione “socialdemocratica”: soltanto
negli ultimi tempi questo tipo di opzioni che definiremmo di revisione del
keynesismo hanno ritrovato spazio, prima in alcuni autori come Atkinson,
Stiglitz, Piketty, Krugman e poi all’interno del Partito Democratico USA e del
Labour Party: non certo modelli di ritorno al bolscevismo (da riflettere
nuovamente l’idea marxiana della rivoluzione nei “punti alti”? Oppure del
Gramsci che, all’annuncio della rivoluzione russa, scrive “La Rivoluzione
contro il capitale)”.
Torniamo
a noi e al costituendo governo italiano.
Se
s’intende cercare di costruire un ‘opposizione ciò che si sta preparando si
tratta di riflettere sul fatto che, prima di tutto, serve un’opposizione posta
sul piano internazionalista organizzativamente dimensionata su di un impianto
sovranazionale almeno a dimensione europea. In questo contesto la questione del
lavoro e di conseguenza la questione dello sfruttamento deve essere considerata
centrale, ritenuta come l’architrave di tutta l’elaborazione che deve essere
posta in campo. Come si è scritto nel titolo di questo intervento “Lo
sfruttamento nel cuore dell’opposizione”.
Di
seguito alcuni punti di riflessione sul tema che si è cercato (naturalmente in
una dimensione del tutto schematica e insufficiente) di approfondire:
1) È evidente che il tema non è quello dei salari ma
quello dello sfruttamento. La forza-lavoro è, infatti, adoperata secondo
l’antica logica dell’“esercito di riserva”, oggi agita soprattutto attraverso
la leva della precarietà che si accompagna oggettivamente ai bassi salari;
2) In questo senso si
comprende benissimo, per quel che riguarda l’Italia essenzialmente nel quadro
europeo, il presentarsi di un vero e proprio deficit d’innovazione. Deficit
d’innovazione assolutamente voluto per tenere al minimo il profilo produttivo
accentrato in settori marginali sia rispetto alla necessità di produzione
interna sia al riguardo delle esportazioni;
3) Questo quadro è
riconducibile alla quasi completa sparizione, in Italia, della produzione nei
settori industriali strategici derivante dal fallimento dei processi di
privatizzazione seguiti alla liquidazione dell’IRI. Processi di privatizzazione
che hanno generato due fattori fondamentali della crisi: l’emergere di un vero
e proprio “ritardo tecnologico” e una gigantesca “questione morale”. “Questione
morale” che ha rappresentato, assieme al mutamento degli equilibri
internazionali, uno dei fattori determinanti della perdita di senso dell’intero
sistema politico, fino al punto di determinare la situazione attuale;
4) La mancata innovazione
tecnologica è stata dovuta essenzialmente da un’assoluta carenza d’investimenti
attuati da una gestione pubblica. Contemporaneamente alla crisi dell’industria
registriamo un’obsolescenza delle infrastrutture (strade, ferrovie, porti) e
l’esplosione della vicenda bancaria che sta tenendo banco sul terreno dello scacchiere politico,
ma al riguardo della quale quasi nessuno fa notare come stia all’origine del
complesso delle difficoltà economiche del Paese. La questione bancaria non può
essere certo risolta propagandisticamente con la promessa del rimborso ai
risparmiatori colpiti (e truffati si potrebbe aggiungere);
5) Si è rivelata sbagliata
anche la logica dei “distretti” e della “fabbrichetta del Nord-Est” (fenomeno,
come stiamo notando, strettamente collegato con la situazione delle banche).Si
è risposto, nel corso degli anni, in maniera completamente sbagliata alle esigenze
di decentramento sul territorio delle possibilità d’investimento che pure erano
state giustamente avanzate fin dagli anni’80 del secolo scorso. Si raccolgono
così, non certo da oggi, i frutti amari della “deregulation” attuata in materia
di rapporti di lavoro, di relazione con l’ambiente da parte dell’impresa, di
sparizione degli elementi d’intervento e gestione pubblica anche attraverso il
ruolo delle istituzioni. In questo modo l’Italia si è marginalizzata rispetto
al contesto europeo, la fragilità del suo tessuto economico è stato facile
preda delle delocalizzazioni e delle acquisizioni esterne: senza alcuna idea
autarchica o sovranista è evidente che l’assenza di una struttura industriale
“forte” nei settori strategici si sia rivelata esiziale
6) Non si è mai realizzata
un’ipotesi di capacità programmatoria delle Regioni (ridotte ormai a Ente di
nomina e di spesa) e si sono stroncate, proprio sul piano economico, le
possibilità degli Enti Locali, abbattendone i bilanci a colpe di scure (anche
su questo punto il programma del costituendo governo non enuncia nulla di
concreto), di intervenire sul territorio in tema di infrastrutture. Si è
dimostrato sbagliato anche il modello delle “aree industriali di crisi
complessa” da affrontare attraverso Invitalia, proprio perché modello interno
all’opzione “deregulation” e attuato, quando è capitato, al di fuori da una
logica programmatoria da esercitarsi sia sul piano generale, sia in sede
locale;
7) Risultato: estrema
debolezza della struttura industriale ormai sede di assalto da parte di
compagnie di ventura oltre alla mai abbastanza ricordata intensificazione dello
sfruttamento e quindi della crescita nella precarietà e nell’incertezza anche
delle stesse espressioni di capacità tecnico – scientifica (senza aprire questo
capitolo che pure dovrebbe essere ricordato e analizzato con grande
determinazione). La storia più recente della siderurgia in Italia ma anche
della chimica e dell’elettronica può essere considerata del tutto
paradigmatica;
8) Completamente dismessa
la possibilità d’investimenti pubblici in un quadro di programmazione economica
(impedita tra l’altro, è bene ricordare, dai Trattati Europei, con la tagliola
degli “aiuti di stato”) e di gestione pubblica diretta di alcuni comparti
assolutamente strategici (ferrovie, aerei, utilities energetiche, ecc) oltre
alla confusione legislativa al livello degli Enti Locali la situazione italiana
presenta sostanzialmente tre punti da evidenziare che qui elenchiamo
raccogliendo le fila del ragionamento:
a) deficit strutturale nei
settori strategici della produzione industriale e delle infrastrutture;
b) Intensificazione dello
sfruttamento nel segmento occupato del mercato del lavoro: sfruttamento
realizzato attraverso essenzialmente la leva del precariato che il Job Act ha
assolutamente ingigantito;
c) Assenza d’investimenti
pubblici rivolti soprattutto all’innovazione tecnologica, mentre la gestione
delle principali aziende italiane appare in forte ritardo (permangono anche,
com’è ben noto, forti frizioni nel rapporto tra industria e ambiente, anche
esse derivanti dal deficit d’investimento, come è ben dimostrato dal caso della
siderurgia).
In
sostanza il tema dello sfruttamento può essere affrontato elevando la qualità
del lavoro. Qualità del lavoro da elevarsi soprattutto sotto l’aspetto
tecnologico dell’innovazione, dell’estensione nella certezza delle condizioni
materiali di lavoro e di vita, di promozione delle professionalità in un’entità
collettiva e non meramente di competizione individualistica, in una dimensione
complessiva d’iniziativa e gestione pubblica dei settori strategici
dell’industria: solo così può essere possibile mettere in discussione
radicalmente i parametri europei, si può ricostruire i termini di un’idea
d’iniziativa capace, attraverso le lotte e senza demandare al puro gioco
istituzionale e legislativo, di contrastare il precariato materiale e morale
che avviluppa questa fase di declino della società, si può cominciare a
lavorare alla costruzione di un’alternativa insieme sociale e politica.