Palestina
occupata.
In morte di un
soldato israeliano...
di Patrizia Cecconi
Nella martoriata terra di
Palestina altri ragazzi in questi giorni sono morti. Uno era quasi un bambino,
aveva 15 anni ed è morto in seguito alle ferite riportate durante la
manifestazione per la Nakba, in Cisgiordania, mentre chiedeva il rispetto delle
legge internazionale. Disarmato. Si chiamava Odai Akraam M. Abu Khalil, aveva
gli occhi azzurri, un sorriso aperto al mondo, era bello. Gli ha sparato un
soldato dello Stato occupante, probabilmente di pochi anni più grande di lui,
il quale per questo e forse per altri omicidi, presumibilmente verrà premiato
per aver svolto egregiamente il suo lavoro. Esattamente come il suo collega,
quello che ha ferito a morte Hussein Abu Aweida che aveva un carrettino di
gelati in uno degli accampamenti della Grande marcia del ritorno. Era anche
distante dal border, ma il cecchino lo ha centrato lo stesso e dopo un’agonia
di diversi giorni oggi è morto. Anche lui ucciso da un soldato che faceva bene
il suo lavoro. Un lavoro non nobile, ma pur sempre un lavoro. Quel tipo di lavoro
che il poeta cristiano padre Turoldo, in un verso di una sua poesia,
sintetizzava scrivendo “dove finisce l’uomo comincia il soldato”.
La
libertà e il rispetto della legge che chiedevano, in luoghi diversi, Odai Akram
e Hussein Abu Aweida davanti ai loro assassini sono rimaste istanze rivolte al
cielo. Altri seguiteranno a chiederle e a camminare sui loro passi, ma saranno
passi sempre più duri perché poggiano su un terreno troppo imbevuto di sangue.
Un
altro ragazzo di nome Ronen Lurbasky è morto a pochi chilometri da Hussein ma
molto vicino a Odai, perché in fondo la Palestina tutta, anche quella parte che
oggi si chiama Israele, non ha grandi distanze. Potevano essere fratelli Ronen
e Odai, solo cinque anni di differenza, Ronen aveva infatti 20 anni ed anche
lui è morto non subito, ma in seguito alle ferite riportate mentre entrava,
armato, insieme ad altri soldati israeliani, nel campo profughi di Al Amari,
vicino Ramallah, in territorio a tutti gli effetti palestinese, per una delle
continue retate che l’esercito occupante compie quotidianamente nei campi
profughi in Cisgiordania. Entrano le jeep blindate e seminano un po’ di
terrore, di solito i soldati vanno per arrestare qualcuno, a volte vanno ad
arrestare addirittura bambini di sette, otto anni accusati di aver tirato dei
sassi, ma più spesso ragazzi di età variabile tra i 16 e i 25-30 anni rei di
resistere all'occupazione.
Come
succede regolarmente in questi casi, la comunità del campo, che non sa neanche
chi sarà il prossimo arrestato, cerca di respingere i soldati occupanti con
l’unica arma che ha: le pietre. Ne nascono scontri. Sono scontri impari, è
ovvio, infatti spesso ci scappa il morto, ovviamente palestinese, spesso il
ferito, sempre palestinese com’è ovvio visto che i palestinesi non hanno armi,
ne hanno caschi o giubbetti antiproiettile. Comunque di solito i soldati
dell’IDF - quell’esercito che Israele ha definito il più morale del mondo,
locuzione che tutti ormai hanno fatto propria per coazione a ripetere -
devastano qualche abitazione e arrestano qualcuno anche senza una precisa
accusa, basta essere stato notato come resistente all’occupante per finire in
prigione per un mese, un anno, venti anni, dipende. Stavolta, al rituale lancio
delle pietre da parte dei palestinesi, si è aggiunta la caduta, probabilmente
voluta per evitare l’arresto da parte dei soldati, di una lastra di cornicione
dal terzo piano della casa in cui i soldati stavano facendo irruzione e questa
ha colpito Ronen Lubarsky sulla testa. Ronen, 20 anni, è morto mentre faceva il
suo dovere. Un brutto dovere, forse lo avevano convinto che i palestinesi non
hanno diritto a nessuna forma di rispetto e se alzano la testa li si può
arrestare o uccidere, forse invece non aveva avuto il coraggio, che alcuni
ragazzi israeliani hanno, di dire “NO, io il servizio militare contro un popolo
illegalmente occupato non lo faccio”. Non lo sappiamo. Quel che sappiamo per
certo è che nessuno parlerà di eccesso di difesa rispetto al lanciatore della
grossa pietra, ma in tanti, come pappagalli ammaestrati, ripeteranno le parole
di Netanyahu e chiameranno eroe il soldato che andava, sebbene sotto comando, a
svolgere il suo dovere di oppressore, e chiameranno terrorista chi ha lanciato
la lastra di pietra che lo ha ucciso. Ora più famiglie piangono i loro ragazzi
e per pietà umana auguriamo che tutti riposino in pace. La morte è una livella,
recitava il grande Totò in una sua poesia, è vero, ma prima della morte
qualcuno era l’oppresso e qualcun altro l’oppressore. Dimenticare questo non
aiuta né la comprensione della questione israelo-palestinese, né tantomeno
aiuta il difficile percorso verso una giusta pace, quella che non potrà mai
essere possibile finché Israele, incommensurabilmente più forte tra le due
parti, seguiterà ad occupare la Palestina in violazione di tutte le norme del
Diritto internazionale. Finché distruggerà scuole e distruggerà villaggi,
finché ucciderà e ferirà centinaia e migliaia di inermi, come ha fatto in
queste settimane alla Grande marcia del ritorno, avanzando perfino il diritto a
non essere giudicato. Che riposi in pace il soldato israeliano, nella stessa
terra in cui riposano gli oltre 115 palestinesi, tra cui diversi bambini, di
cui forse qualcuno ucciso anche da lui o da qualche suo amico con la stessa
divisa, convinto che gli ordini vanno eseguiti.