di Franco Astengo
Questa nota è stata
ispirata da un’intervista rilasciata ieri dal capo di Stato Maggiore, Generale
Farina sulla ricorrenza del 4 novembre.
Si sono lette parole così dense di retorica bellicista e nazionaliste da
non poter essere lasciate senza replica. Ricorrono i 100 anni dalla conclusione
della prima guerra mondiale e naturalmente sono previste al riguardo cerimonie
e manifestazioni di ricordo. Mentre lorsignori celebreranno quella che D’Annunzio
poi appellò “vittoria mutilata” e che deve essere prima di tutto ricordata come
porta aperta sulla tragedia del fascismo, noi rammentiamo qui la memoria di
quante e quanti si opposero a un massacro durato quattro anni. L’Italia entrò
in guerra attraverso un vero e proprio colpo di stato come paese aggressore un
anno dopo lo scoppio del conflitto europeo.
L’Italia
sofferse 650.000 morti e un milione di feriti e nel corso dei 3 anni e mezzo di
conflitto.
In
quell’occasione si prepararono le condizioni per l’avvento del fascismo.
Questa,
ridotta in pillole, l’essenza storica dell’andamento e dell’esito della prima
guerra mondiale per cui si può ritenere che non ci sia proprio nulla di
trionfalistico da celebrare e che non ci sia nessuna grancassa nazionalista da
suonare. Il nostro primo pensiero però va rivolto ai soldati al fronte vittime
della decimazione imposta da un’assurda disciplina voluta in prima persona dal
generale Cadorna e dagli alti comandi. Un'apposita commissione parlamentare di
inchiesta su Caporetto istituita all'indomani della fine della guerra diede le
cifre ufficiali delle condanne a morte: 1006 delle quali 729 eseguite. Queste
cifre non comprendono le esecuzioni sommarie e l'applicazione della pena
capitale in trincea a discrezione degli ufficiali responsabili in caso di
emergenza, una stima di questi casi, che comprendono quelli di decimazione si
attesta a 300 soldati fucilati. Da ricordare ancora come I soldati che si
rifiutavano di uscire dalle trincee durante un assalto ad esempio potevano
essere colpiti alle spalle dai plotoni di carabinieri e di queste esecuzioni
non si ha menzione ufficiale. Va rammentato ancora che per la prima volta nella
storia che immense collettività furono coinvolte in una guerra totale, dove
l’intera popolazione visse un’esperienza comune di sacrificio e di dolore per i
familiari al fronte e per le nuove condizioni di esistenza imposte dalle
esigenze belliche. Ne furono sconvolte le comunità urbane come quelle rurali,
la vita familiare e la vita individuale, i rapporti fra uomo e donna, le
relazioni sociali, le abitudini civili. In tutti i paesi in guerra la
popolazione civile fu sottoposta a un’inaudita esperienza di disciplina
collettiva: il potere statale fece sentire la sua forza in una dimensione
addirittura di onnipotenza, investito della decisione di vita e di morte per
milioni di cittadini come mai era avvenuto in passato.
Le
manifestazioni di dissenso e di opposizione alla guerra furono perseguite come
atti di disfattismo.
Il
movimento operaio si scisse, probabilmente in una dimensione irreparabile.
Quanto
abbia pesato l’adesione dei due grandi partiti, quello francese e quello
tedesco nel terribile agosto 1914 sulla rottura storica del movimento operaio
deve essere ancora oggi tema di riflessione.
Probabilmente
la nostra sconfitta, come movimento operaio, non nacque dal fatto che in Russia
nel 1917 si sarebbe fatta una “Rivoluzione contro il Capitale” (quello di Marx
beninteso, come scrisse subito Antonio Gramsci che poi la sostenne così come
aveva riflettuto, ed anche oscillato, sul concetto di “neutralità attiva e
operante” al momento dello scoppio della guerra) ma proprio dalla scelta di
francesi e soprattutto tedeschi. La grande SPD cedette al nazionalismo, un
punto da considerare ancora, certamente non obsoleto rispetto alla nostra
riflessione di oggi. Il Partito Socialista Italiano fu l’unico dei grandi
partiti occidentali a non allinearsi alla logica nazionalistica e questo va
pure ancora ricordato. Durante la guerra continuarono le agitazioni popolari
avverso le sempre più precarie condizioni di vita che la condizione bellica
stava imponendo. In particolare nel 1917, in Italia, si svolsero scioperi
intensi, lunghi e partecipati. La classe operaia tornò a lottare nella sua
totalità, scoppiarono le rivolte a Torino, Livorno, Terni, Napoli, in
Lombardia. Il più importante fra questi atti di rivolta si verificò nell’agosto
1917 a Torino.
Fu
quella passata alla storia come “La rivolta del pane” .
Una
ribellione sfortunata, nel corso della quale il movimento operaio lasciò sulla
strada decine di morti e alla quale dedichiamo questo spazio in memoria di
quanti, donne e uomini, seppero lottare in quel momento difficile per affermare
le ragioni della loro sopravvivenza, della convivenza civile e della pace.
E’
passato un secolo: serve ancora ricordare, riflettere, analizzare e soprattutto
non piegarsi alla retorica nazionalista. Oggi più che mai è importante la
nostra autonomia di pensiero e la nostra capacità di visione dei fatti della
storia, al di fuori da ogni indulgenza e senza retorica.