di Franco Astengo
Il caso è molto delicato
e va trattato con il massimo dell’attenzione.
Succede
che a Carcare, cittadina industriale della Val Bormida, l’amministrazione
comunale conceda a Casa Pound l’aula magna dell’Istituto Scolastico
comprensivo, per una manifestazione del movimento che possiamo ben definire
come neo-fascista.
Naturalmente
ci sono già state levate di scudi e proteste nel merito, alle quali non è il
caso di aggiungere altro se non di segnalare come l’attivismo delle “tartarughe
frecciate” almeno in provincia di Savona si stia intensificando fortemente. Alle
proteste che stigmatizzano la presenza di Casa Pound ci si deve unire non
stancandosi mai di denunciare i pericoli di infiltrazione ideologica di tipo
razzista.
Non
è questo però il punto che s’intende toccare attraverso questo intervento.
Pare,
infatti, necessario far prendere le mosse a un ragionamento serio partendo da
una frase contenuta dalla dichiarazione del Sindaco di Carcare, rilasciata allo
scopo di rintuzzare le proteste e giustificare la concessione a Casa Pound.
Ecco di seguito:
“Questa
Amministrazione, apartitica, non pone veti a nessuno, purché operi nel rispetto
delle regole e della legalità”.
A
parte il richiamo alle regole e alla legalità colpisce in queste parole la
definizione di “apartitica” attribuita all’Amministrazione. Una definizione
evidentemente intesa quale “aggiunta di valore” per una presunta (e
impossibile, è questo un punto di vera e propria mistificazione) equidistanza.
Questa
dell’”amministrazione apartitica” sì che è un’affermazione pericolosa perché
contiene un attacco alle strutture portanti della democrazia repubblicana. Proclamare
un’equidistanza rispetto a un soggetto come Casa Pound non può che significare,
nella sostanza altro che l’espressione di una vocazione qualunquista che posta
in relazione al giuramento sulla Costituzione Repubblicana che anche il sindaco
di Carcare ha svolto, finisce con il violarla ponendo sullo stesso piano il
fascismo e l’antifascismo.
Questo
elemento va sottolineato con forza all’attenzione di tutti.
Proclamare
un’amministrazione comunale come “apartitica”, in particolare in un’occasione
come questa, significa dare spazio a un’idea individualistica dell’agire
politico e considerare la gestione di un Comune come un fatto meramente
burocratico e non politico.
Preoccupano
due cose:
1) l’individualismo,
difatti la dizione “apartitica significa in sostanza una forma di democrazia
rappresentativa in cui i rappresentanti vengono eletti a titolo personale.
2) Il tener lontano l’idea
del “partito” come se si trattasse di una forma negativa dell’azione politica.
In
particolare questo secondo punto del dispregio verso l’idea del “partito”, è
stato alla base della degenerazione che la democrazia italiana ha subito nel
corso dei due decenni precedenti.
Una
degenerazione che ha avuto al centro i temi della personalizzazione,
dell’individualismo, della concezione proprietaria della politica,
dell’indistinguibilità rispetto ai temi dei valori portanti dell’eguaglianza e
della solidarietà che stanno alla base della Costituzione Repubblicana.
Costituzione
Repubblicana che, ricordiamolo per inciso, alla XII disposizione transitoria e
finale fa piena professione di antifascismo, impedendo la ricostituzione di
simulacri del Partito Fascista. Disposizione, del resto, poco e male applicata
nel tempo per esigenze di mera tattica politica a partire dalla presenza del
MSI nel quadro politico italiano. Rammentando ancora come la Liberazione
dell’Italia dall’invasione nazi-fascista fu condotta, tra il 1943 e il 1945,
dal Comitato di Liberazione Nazionale formato dai sei partiti antifascisti
(Partito Comunista, Partito Socialista, Democrazia Cristiana, Partito d’azione,
Partito Liberale, Partito della Democrazia del Lavoro) si riporta di seguito
l’articolo 49 della Costituzione che sancisce il ruolo dei partiti nella
Repubblica Italiana: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente
in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica
nazionale”. Se il 9 settembre 1943 in una casa di via Adda a Roma: Giorgio
Amendola (Pci), Mauro Scoccimarro (Pci), Meuccio Ruini (Democrazia del lavoro),
Alcide De Gasperi (Dc), Pietro Nenni (Psiup), Giuseppe Romita (Psiup), Ugo La
Malfa (Pd’a), Sergio Fenoaltea (Pd’a), Alessandro Casati (Pli) sotto la
presidenza di Ivanoe Bonomi (Democrazia del Lavoro) avessero proclamato la loro
equidistanza l’Italia, abbandonata dal Re e dal Governo, sarebbe rimasta
completamente in balia dei nazifascisti e, successivamente, con la liberazione
da parte degli alleati non avrebbe più recuperato completamente la propria
possibilità di governarsi democraticamente restando (come accadde per il
Giappone) sotto completa tutela.
Altro
che il “sovranismo” proclamato oggi dagli eredi di chi trascinò il Paese nel
conflitto più rovinoso della storia! In tempi nei quali il qualunquismo
arrivare a teorizzare la chiusura del parlamento è il caso di porsi ancora una
volta un antico interrogativo: E’ possibile immaginare una democrazia senza
partiti?
La
risposta d’istinto è un fermo no, perché il contatto tra cittadini e istituzioni
e la loro partecipazione deve avvenire in forma collettiva e organizzata. Lo
scopo della formazione della struttura politica deve essere quella di fornire
una sintesi della “domanda sociale” al fine di favorire risposte orientate
all’interesse generale. Nelle sedi nelle quali si esercita questo dovere di
scelta, è necessario allora che siano presenti tutti gli orientamenti ideali e
culturali espressi nella società.
Questo
proprio perché le scelte non sono mai neutre ed equidistanti dalla vita quotidiana
in tutte le sue espressioni. Una lezione da non dimenticare, salvo non
preferire il “partito unico” vera culla dell’individualismo qualunquista che
sfocia nel regime degli interessi corporativi, come la storia d’Italia
purtroppo continua a insegnarci.