PROGRAMMAZIONE ECONOMICA
di Franco Astengo
Enrico Mattei |
L’inserto economico del
“Corriere della Sera” ha ospitato, lunedì 12 novembre, un importante articolo
di Riccardo Gallo dal titolo: “IRI, io ci sono stato, credetemi non si può rifare”.
L’autore
è stato un protagonista della fase conclusiva del ciclo delle PPSS, prima come
consigliere dell’Efim tra il 1985 e il 1990 e successivamente vicepresidente
dell’IRI nel 1991: IRI trasformata in SPA l’anno successivo per l’avvio del
piano di privatizzazioni.
Si
è discusso molto in questi mesi d’intervento pubblico in economia e alcuni
hanno proprio accennato alla ricostituzione di un soggetto tipo – IRI,
all’interno del quale concentrare le risorse di un rinnovata iniziativa
pubblica in grado di avviare una una ripresa di capacità industriale del Paese.
Rammentato
il quadro generale nel quale ci stiamo muovendo caratterizzato dai vincoli
europei, dall’enormità del debito pubblico e dalla presenza di un governo che
da un lato si muove sul terreno dell’assistenzialismo (reddito di cittadinanza)
e di una nuova ondata di privatizzazioni (cioè in pieno regime di confusione) è
il caso di riprendere alcuni temi sollevati nell’articolo di Gallo e di
sviluppare contemporaneamente alcuni punti di discussione. Nell’articolo Gallo
ricostruisce la storia dell’IRI nelle sue tre fasi: dal 1933 l’istituzione
voluta dal fascismo (affidandone però le sorti a un manager socialista come
Beneduce) per reazione alla grande crisi del ’29 e per salvare le banche nazionali;
nell’immediato dopoguerra quando l’ente fu mantenuto in vita e non sciolto
(com’era stato deciso anche all’ENI e al CONI, posti in liquidazione e poi ricostituiti) per
realizzare le infrastrutture indispensabili per uscire dal disastro della
guerra. Così l’IRI gestì autostrade, telecomunicazioni, mezzi di trasporto
terrestri, aerei e navali, sistemi di difesa, materiali da costruzione
(cemento, acciaio) e credito (banche).
Poi
dagli anni’70 la fase dello “scambio politico”, attraverso l’acquisizione
d’imprese private realizzate in funzione clientelare rispetto alla politica.
Negli
anni’80 le compensazioni delle perdite avvennero a spese dei contribuenti
(ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione del debito pubblico e
all’inizio degli anni’90, finiti i soldi dello Stato, dichiarati
incostituzionali i prestiti, l’UE imposte di trasformare l’IRI in S.p.a. Il
governo a quel punto si vantò di aver privatizzato ma sostiene Gallo era tutta
una finta. Fin qui il Bignami ma l’articolo tocca un punto di grande interesse
al riguardo del quale proprio oggi è necessario recuperare non soltanto una
capacità riflessione ma anche di proposta e d’iniziativa politica.
La
fase dello “scambio politico” infatti, si attuò in una condizione di totale
assenza di un piano industriale per il Paese, mentre stavano verificandosi
almeno quattro fenomeni concomitanti:
1) L’imporsi di uno
squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori di
qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;
2) La perdita da parte
dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della produzione
industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica. Quei settori
dei quali a Genova si diceva con orgoglio “ produciamo cose che l’indomani non
si trovano al supermercato”;
3) A fianco della crescita
esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il mancato aggancio
dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione tecnologica.
Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi
all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto
quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la conseguente
“fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore questo della progressiva
incapacità dell’Università italiana di fornire un contributo all’evoluzione
tecnologica del Paese assolutamente decisivo per leggere correttamente la
crisi;
4) Si segnalano infine due
elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza delle principali
infrastrutture, in particolare le ferrovie ma anche autostrade e porti e un
utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in molti casi
scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo
moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio.
Sono
questi riassunti in una dimensione molto schematica i punti che dovrebbero
essere affrontati all’interno di quell’dea di riprogrammazione e intervento
pubblico in economia completamente abbandonata dai tempi della “Milano da Bere”
fino ad oggi.
Sarà
soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo che si potrà tornare
a parlare d’intervento e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che
una sinistra rinnovata dovrebbe porre all’attenzione generale senza tema di
apparire “controcorrente”. La stessa questione del “deficit spending” andrebbe
affrontata in questa dimensione.
Nel
quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata definita
“globalizzazione” e dei processi dirompenti di finanziarizzazione
dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione industriale hanno
pesato in maniera esiziale sulle prospettive di crescita dell’Italia.
Oggi
ancora una volta ci si sta muovendo in direzione osticamente contraria,
recuperando il “peggio” degli anni passati: dall’assistenzialismo, alla
subordinazione delle scelte al clientelismo elettorale arrivato, proprio in
occasione delle elezioni del 4 marzo 2018, a codificare su scala di massa il
“voto di scambio”, come pure era già avvenuto su scala numericamente più
modesta negli anni scorsi: ricordando “meno tasse per Totti” e il solito
“milione di posti di lavoro”. Ma forse, da questo punto di vista, ci trovavamo
ancor in una fase artigianale.
Oggi
verrebbe da scrivere che siamo ben infilati dentro il tunnel.