CIVITA DI BAGNOREGIO:
LA CITTÀ CHE MUORE
di Angelo Gaccione
Civita di Bagnoregio |
La cosa che
più mi stupì, arrivando una domenica di giugno (e precisamente il 25 intorno
alle 19, mentre il sole cominciava a declinare e nel cielo comparivano le prime
strisce colorate del tramonto) sulla piazza Cavour di Civita di Bagnoregio (come
si fa a dare il nome di Cavour alla piazza di un borgo etrusco medievale, è il
mistero dei guasti prodotti dell’eccessiva esaltazione risorgimentale), è
trovarvi l’allestimento di un coro e orchestra che si apprestava ad eseguire il
Requiem di Mozart. Non che qui Mozart
fosse stonato, anzi, ma proprio il Requiem
in quella che è stata definita “la città che muore”, mi colpì molto.
Probabilmente a nessuno del numeroso pubblico presente era venuto in mente
questo accostamento, ma il mio insano mestiere ha, fra le sue perversioni,
quella di una fantasia oltremodo eccitata.
Negli
ultimi tempi ho firmato più volte degli appelli promossi dal governatore del
Lazio Zingaretti, da Comitati e altre benemerite associazioni cui sta a cuore
la salvaguardia di questo splendido borgo arroccato su una roccia di tufo. Ora apprendo
che si sta cercando di sensibilizzare l’Unesco perché venga dichiarato
patrimonio dell’umanità. Speriamo. Da più parti si sostiene, tuttavia, che è
un’impresa disperata fermare il degrado di una materia la cui deperibilità sta
nella natura stessa della sua essenza. Il tufo è un materiale fragile e
delicato facilmente aggredibile dal variare degli agenti atmosferici. Lo
sperone su cui il borgo sorge, continua a franare e a produrre crepe. Un’agonia
lenta che angoscia tutti coloro i quali amano questo abbraccio di case,
fantasiose e bizzarre nel loro disporsi, i suoi angoli poetici, i suoi piccoli
giardini cintati, le sue pietre, il suo ricamo di viuzze. Non ho competenze per
dire se questa sfida per impedirne la definitiva scomparsa è possibile. Tutte
le volte che vado a Pavia a vedere la bellissima facciata della basilica di san
Michele Maggiore, mi accorgo che pezzi di arenaria si sono sbriciolati; che le
intemperie hanno prodotto altro guasto da un anno all’altro. E questo avviene
ovunque, e sempre me ne torno immalinconito. Resta la segreta speranza che
prima dell’inevitabile, la ricerca metta a disposizione degli studiosi, dei
restauratori e dei tecnici, altre possibilità e altri rimedi.
Un brutto ponte
sospeso nel vuoto, si è dovuto realizzare per arrivare dentro il borgo di
Civita dove risiedono un pugno di famiglie e alcuni esercizi necessari al
ristoro dei visitatori. L’impatto visivo non è dei migliori, ma è stato
necessario perché un’ambulanza vi possa arrivare, e così un furgone per le
merci. Si sarebbe potuto valutare se non si potesse farne uno con materiali diversi e soprattutto visivamente più armonico. Ma forse la questione è che non
si dovrebbe destinare ad altro, ciò che la storia, il tempo e le necessità,
hanno fissato in quel modo. Un eremo per mistici contemplativi, una rocca a
presidio militare di difesa e quant’altro, non possono essere trasformati in
luoghi dei nostri bisogni contemporanei, senza farli diventare altro. Di
innesti il tempo ne produce molti e le cose si stratificano come il terreno
delle ere geologiche. Fa davvero impressione, ad esempio, vedere sulla piazza
Cavour, incombere con tutta la sua mole, la cattedrale di san Nicola che è
della fine del Cinquecento, dentro il borgo medievale del teologo Bonaventura,
così piccolo e così raccolto. Ma il dominio cattolico dello Stato della Chiesa,
non poteva non marcare il territorio, non lasciare i suoi simboli e innalzare i
suoi campanili. Come oggi il potere finanziario con i suoi grattacieli, come
ieri le torri dei Signori.