IL TRADIMENTO DELLA
LIBERTÀ
di Fulvio Papi
È molto
facile stabilire in generale il rapporto tra diritti e doveri. Più complicato è
affrontare il rapporto quando si tratta di prendere una decisione in una
situazione concreta. Non che siano vane le dichiarazioni relative ai diritti
dell’uomo universalizzando il problema. Esse sono molto importanti per
stabilire una linea corretta degli uni e degli altri, tra un trattamento dove
prevale una finalità e quello che stabilisce dei mezzi per determinare degli
scopi specifici. Anche un limitato sguardo storico ci insegna che questa
distinzione nella realtà genera questioni importanti e difficili. Basti
pensare, per esempio, al concetto di
“guerra giusta”, rifiutato da Erasmo e condiviso da altri eminenti personaggi
della tradizione cristiana. Molto spesso è accaduto che gli esseri umani
fossero sottoposti a criteri di obbedienza (o valori) che contrastavano con la
loro autonoma possibilità di valorizzazione dell’esistenza. Dal punto di vista
del soggetto sottoposto a questa opposizione vale ancora la disamina si Simmel
sul “conflitto dei valori”. Di solito tuttavia non si tratta di valori che
possono creare una situazione difficile nell’equilibrio di una personalità. Per
esempio: che della obbedienza teologica, del potere politico, della
subordinazione economica e produttiva, dello stesso costume sociale dominante,
l’essere umano diventasse mezzo per l’attuazione di finalità proprie di quei
poteri. Naturalmente questa è una opposizione che sottintende una forma di
libertà che si sottrae al criterio di un dovere determinato e che, anch’essa
andrebbe valutata e considerata in una dimensione relativa. Per fare un esempio
del tutto ovvio: nella economia politica di tradizione accademica è difficile
trovare una critica così radicale come quella di Marx al lavoro nel sistema
capitalistico di produzione. Tuttavia Marx ha sempre ricordato che il salario
non avrebbe mai potuto corrispondere al valore prodotto dal lavoro, dato che
con quella ricchezza era necessario restaurare ed ampliare i mezzi di
produzione, rimunerare gli addetti ai servizi sociali che sono importanti per
la vita civile, sia per disporre di una ricchezza pubblica necessaria. Non può
esistere in una società moderna alcun rapporto diretto tra valore e salario. È
vero che senza un capitale anticipato non esiste alcuna possibilità di lavoro,
ma è anche vero che senza un lavoro produttivo, all’altezza della condizione di
mercato, non può avere luogo una riproduzione allargata del capitale. In un
processo, oggi lo sappiamo, che però non può essere indeterminato. E questa
indeterminatezza fa nascere naturalmente nuovi diritti.
Sappiamo
anche che il progressivo processo di mercificazione del mondo, al punto da
creare una situazione in cui l’incremento del capitale produttivo (esonero qui
dal discorso le famose “bolle” del capitale finanziario), se non viene regolato
da criteri di compatibilità con l’ambiente naturale, che comprende la biologia
antropologica, condurrà ad un disastro planetario: opinione ormai comune come
appare dai trattati sottoscritti, con l’esclusione di tangheri intellettuali e
di irresponsabili morali. L’espansione della prassi sociale capitalistica ha
determinato nel tempo trasformazioni rilevanti nel contesto sociale che appare
dominato da un incorreggibile individualismo, e da una degenerazione, in questo
senso, di quella larghissima parte delle iniziative sociali che hanno luogo con
denaro pubblico. È quasi incredibile che ogni giorno si apprenda
l’incriminazione, l’arresto, l’indagine intorno a malversazione di probabili
personaggi che hanno compiti di natura pubblica. Così come sono convinto che
nel paese agiscono corporazioni che godono di privilegi di eccezione e della
possibilità di difenderli tramite ideologie, corrette al tempo della loro
istituzione, ma, oggi, da rivedere senza nulla toccare della dimensione morale
che, se c’è, è loro propria.
Ma più che
questi casi, colpisce la dimensione di “acculturamento” (uso la parola in senso
contrario rispetto a quella che si usava in antropologia) che la prevalenza del
valore economico ha creato a livello sociale. A questo livello si può dire (con
tutti i limiti che hanno queste generalizzazioni) che la libertà, che è un
reciproco riconoscimento dei valori e dei disvalori tali da costituire una
comunità, è diventata arbitrio individuale, regola soggettiva di comportamento,
competitivo con gli altri, ma soprattutto in pieno dispregio di quello che
dovrebbe essere proprietà, valore e simbolo di una comunità coesa. C’è un
comportamento collettivo (per fortuna con valide eccezioni) che, con
l’attenzione del voto, sottolinea che l’élite (è una parola descrittiva non
etica) politica è un gioco che non riguarda il senso (quale che sia) sul quale
appoggia la propria vita. E ci sono critici radicali i quali sostengono che, se
anche l’elettorato calasse al dieci per cento, l’importante sarebbe che non
mutassero i privilegi di cui gode appunto questa “élite”. Vorrei avere le prove
che tutto ciò è profondamente sbagliato. Ha ragione uno dei maggiori esponenti
a sostenere che non si vive di nostalgia. Ma si vive male, e un po’ a caso e
per banali opportunità, se si dimentica il passato, e non si sa più chi si è.
Quando i
padri costituenti scrissero un testo su cui la libertà (e la giustizia) era il
criterio “ontologico” di ogni norma, avevano in mente un paese rinnovato capace
di identificarsi con questo spirito., dopo la catastrofe della guerra. La
guerra fredda, impostata in Italia, non consentì questo sviluppo per il quale
sarebbe stato necessario lo stesso concorso politico che vi fu nella scrittura
della Costituzione. Storia passata. Oggi tocchiamo con mano la degenerazione
privata, individualistica, della libertà. Della bassa legalità ha parlato il
presidente del Senato. Oggi in una parte considerevole è caduta una
collaborazione tra l’iniziativa pubblica e il comportamento personale. Chiunque
può fare l’elenco delle micro truffe, dei vandalismi insensati, del disprezzo
diffuso per ciò che non è personale, di trasformazione di luoghi della città
per angoli per spacciatori, o per usi impropri di ritrovi giovanili che pure
potrebbero aver luogo dove non costituiscono degenerazioni della città, e le
violenze più o meno gravi, la catastrofe diffusa dei rifiuti urbani, la
diffusione del gioco d’azzardo tra i giovani, e via dicendo. A questo proposito
la parola “sicurezza” sottolinea, ancora una volta, un criterio psicologico, ma
non un’analisi della realtà.
La terapia di
questa degenerazione dei valori fondamentali, purtroppo non sembra venire dalla
politica, ma da aggregazioni e iniziative spontanee della società che mostrano
una sensibilità, di cui v’è scarsa traccia nel gioco politico tra alcuni
palazzi di Roma. Vi è uno scollamento tra la percezione di un “se stesso” e il
senso di sé relativo alla istituzione pubblica. Problemi di educazione, di
famiglia, di lavoro, e disoccupazione, di indifferenza a ciò che non è nel cerchio
percettivo del se stesso, il discredito che ha una larga parte
dell’informazione comunque realizzata, e la mancanza di esempi pubblici come
mimesi educativa, ai quali si sostituiscono i modelli dei grandi privilegiati.
Tutto ciò può portare allo spreco della gioventù che è lo spreco del paese. E
poi?