LA LEGALITÀ
REPUBBLICANA E LA CLASSE OPERAIA
di Franco Astengo
A 16 anni dal G8 di Genova: un
ricordo del 9 gennaio 1950.
Il previsto reintegro in servizio
di una buona quota dei poliziotti responsabili delle tragiche vicende legate al
G8 di Genova 2001 (oltre alle posizioni assunte da altri attraverso le nomine
negli Enti di Stato come nel caso di Gianni De Gennaro) rappresenta l’ennesima,
profonda, irreversibile incrinatura tra gli apparati dello Stato, in particolar
modo della Polizia, e la vita sociale, civile, culturale, economica del Paese. Una
situazione storica non certo risolvibile con le scuse postume e inutili del
prefetto Gabrielli, mentre nessuno di lorsignori, Ministri e Prefetti di
Polizia, ha mai pensato di rivolgere una parola di ricordo agli operai uccisi
nei tanti conflitti a fuoco durante gli scioperi degli anni ’50 e ’60.
Un’incrinatura
che ha una storia lunga e passaggi molto aspri il cui elenco risulterebbe molto
lungo da compilare: basterà ricordare Piazza della Fontana e il volo di
Pinelli, Ustica e quant’altro.
Il G8, la
Diaz, la “macelleria messicana” un altro di questi passaggi, una ferita aperta
che oggi rincrudisce con questa aberrante storia del reintegro. La legalità
repubblicana nel rapporto tra la Polizia e il Paese però fu messa in
discussione da subito, nell’immediato del post Liberazione. Prima di tutto con
il reintegro (altro che quello che dovrebbe avvenire adesso) dei funzionari
fascisti, compresi alcuni incriminati per crimini di guerra avvenuti specialmente
nel territorio della ex Jugoslavia: testimonia di questo inaccettabile stato di
cose il volume di Davide Conti “ Gli uomini di Mussolini: prefetti, questori, e
criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica Italiana” uscito poco tempo fa
per Einaudi. Volume cui si rimanda per gli opportuni approfondimenti. Successivamente
con l’allontanamento dei Prefetti nominati dal CLN. Soprattutto la rottura
immediata tra gli apparati dello Stato e buona parte della società italiana
avvenne con la classe operaia e i contadini attraverso la repressione che negli
anni’40- ’50 si verificò al momento dell’occupazione delle terre e degli
scioperi in difesa delle fabbriche colpite dal processo di riconversione
dell’industria bellica. Per il movimento operaio la prima metà degli anni '50
costituì quello che in seguito sarà conosciuto come gli anni duri. Gli
imprenditori mossero un prolungato attacco al potere sindacale che si era
sviluppato negli anni immediatamente successivi alla Resistenza e alla
Liberazione.
I
licenziamenti di massa furono all'ordine del giorno in ogni grande fabbrica e contemporaneamente
furono silurati gli attivisti più conosciuti. Quando il miglioramento economico
creò una nuova richiesta di forza-lavoro, gli imprenditori assunsero lavoratori
anagraficamente giovani, spesso provenienti dalla campagna, sicuramente troppo
distanti cronologicamente per avere partecipato alle lotte del 1943-1947.
Le piccole
fabbriche erano in aumento e furono libere di imporre le proprie condizioni sui
livelli salariali, sulla sicurezza e sul pagamento dei contributi. Questa
offensiva padronale fu intimamente legata a un clima di esplicita repressione
politica fomentata dalla guerra di Corea, che aveva drammaticamente acuito la
divisione politica interna e mostrava comunisti e socialisti come nemici e
traditori della causa della democrazia e della libertà. Gli USA erano ancora
visti come integrali difensori di questi sacri valori e le contestazioni del
conflitto vietnamita dovevano ancora venire.
Tra il 1949
e il 1951 il PCI, il PSI e la CGIL rischiarono seriamente di essere messi al
bando e la repressione poliziesca in tutta Italia fu devastante. Eppure i più
gravi tormenti per le classi popolari non venivano dalla repressione politica o
dall'offensiva padronale ma dalla disoccupazione di massa e dalla miseria: Nel
1951 si contavano più due milioni di disoccupati.
I caratteri
e l'estensione di questa privazione vennero dettagliatamente descritti
nell'inchiesta parlamentare sulla povertà: quindici volumi, pubblicati nel
1953, che tinsero di nero un quadro già parecchio scuro. Il 12 ottobre 1951 la
Camera dei Deputati deliberava un'inchiesta parlamentare «sulla miseria e sui
mezzi per combatterla»; parallelamente veniva avviata anche un'inchiesta sulla
disoccupazione.
Per vent'anni, il regime fascista aveva abolito lo studio e il
dibattito sui problemi sociali: le due inchieste -come scrive Paolo Braghin segnavano
il ritorno del Parlamento a una tradizione prefascista di indagini svolte dal
potere legislativo sulle realtà economiche e sociali del nostro paese:
tradizione che aveva prodotto i risultati più brillanti con l'inchiesta di
Stefano Jacini sull'agricoltura. Avvennero gravissimi episodi in occasione di
scioperi e di iniziative contadine: Melissa, Montescaglioso.
Nel solo
1948 l’anno del 18 Aprile sono 17 i lavoratori uccisi, centinaia i feriti,
14.573 arrestati: tra essi 77 segretari di Camera del Lavoro. L’impiego della
polizia nelle vertenze sindacali è una prassi costante. L’episodio simbolo di
quel periodo rimane però l’eccidio di Modena del 9 Gennaio 1950 Si dedica a un
ricordo di quelle vittime una ricostruzione dei fatti a monito quanto mai
attuale di quella frattura della legalità repubblicana da parte della Polizia
cui più volte ci siamo richiamati. Una frattura con la parte più nobile,
avanzata, politicamente impegnata dell’Italia di allora: la classe operaia
verso la quale va ancor oggi il nostro commosso riconoscimento per aver difeso,
in quelle circostanze e pagando prezzi di sangue, la democrazia appena
conquistata con la lotta di Liberazione.
Questa la cronaca di quella
giornata, veramente fatidica nella storia d’Italia.
Poco dopo le
dieci di mattina una decina di lavoratori si trovavano all’esterno della
fabbrica vicino al muro di cinta, cercando di parlare con i carabinieri
schierati. Un carabiniere sparò con la pistola, a freddo, uccidendo Angelo
Appiani [30 anni, partigiano, metallurgico] colpito in pieno petto.
Immediatamente dal terrazzo della fabbrica altri carabinieri spararono con la
mitragliatrice sulla folla di lavoratori che si trovava sulla Via Ciro Menotti
oltre il passaggio a livello chiuso per il transito di un treno.
Arturo Chiappelli [43 anni, partigiano, spazzino]
e Arturo Malagoli [21 anni bracciante, la cui sorella Marisa fu poi adottata da
Nilde Iotti e Palmiro Togliatti] vennero colpiti a morte, molti furono feriti,
alcuni gravemente. La gente scappava, cercava riparo dai colpi della mitraglia
che continuava a sparare, altri cercavano di assistere i feriti con medicazioni
improvvise e li trasportavano al riparo.
Roberto Rovatti [36 anni, partigiano,
metallurgico] si trovava in fondo a Via Santa Caterina, vicino alla chiesa, dal
lato opposto e distante 500 metri dai primi caduti, aveva una sciarpa rossa al
collo. Mezz’ora era passata dalla prima sparatoria veniva circondato da un
gruppo di carabinieri scaraventato dentro un fosso e massacrato con i calci del
fucile, un linciaggio mortale.
Ennio Garagnani [21 anni, carrettiere] veniva
assassinato in Via Ciro Menotti dal fuoco di un’autoblinda che sparava sulla
folla. Lo sciopero generale partì spontaneamente appena si diffuse la notizia
del massacro. Un’automobile della Cgil con l’altoparlante avvertiva i lavoratori
di concentrarsi in Piazza Roma.
Poco dopo
mezzogiorno Renzo Bersani [21 anni
metallurgico] attraversava la strada a piedi, in fondo a Via Menotti,
all’incrocio con Via Paolo Ferrari e Monte grappa, un graduato dei CC distante
oltre un centinaio di metri si inginocchiò a terra, prese la mira col fucile e
sparò per uccidere. Sei lavoratori assassinati, 34 arrestati, i numerosi feriti
trasportati in ospedale vennero messi in stato di arresto, piantonati giorno e
notte e denunciata alla magistratura per «resistenza a pubblico ufficiale,
partecipazione a manifestazione sediziosa non autorizzata, attentato alle
libere istituzioni per sovvertire l’ordine pubblico e abbattere lo Stato
democratico».
Era questa l’Italia “democratica” ricostruita dopo il fascismo da
padroni e democristiani. Ricostruita sulla pelle dei proletari e dei lavoratori
che venivano sfruttati ferocemente nelle fabbriche e nei campi e, quando si
ribellavano, venivano massacrati nelle piazze. Ma cosa stava succedendo a
Modena e nel resto del paese in quegli anni? Era in corso dal 1948 una reazione
padronale per azzerare la forza dei lavoratori nelle fabbriche e la tenuta dei
sindacati e partiti di sinistra, una forza costruita nella resistenza e
nell’immediato dopoguerra. I padroni
volevano abbassare il costo del lavoro e aumentare la produttività per
orientare la produzione verso l’esportazione. Gli strumenti che usarono: la
serrata e i licenziamenti collettivi e selettivi per ridurre il potere
contrattuale dei sindacati e delle commissioni interne, l’aumento del ventaglio
retributivo, salario sempre più legato alla produzione (cottimo e premio di
produzione differenziato), intervento della polizia per sciogliere i picchetti
e le manifestazioni; scioglimento dei “Consigli di Gestione”.
Nella città
di Modena nei due anni 1947-49, ben 485 partigiani furono arrestati e
processati per fatti accaduti durante la lotta di liberazione. 3.500 braccianti
arrestati e denunciati per occupazione delle terre; 181 volte la polizia
intervenne nei conflitti di lavoro.
Le
maestranze delle Fonderie Riunite, con 480 lavoratori – la metà erano donne-
nel 1943 parteciparono agli scioperi contro la guerra e per il pane. Dopo la
“liberazione” i padroni “tornano proprietari”, è questa la scelta
democristiana. Anche il padrone delle Riunite, il fascista Adolfo Orsi amico di
Italo Balbo.
Orsi è
padrone non solo delle Riunite, ma anche della “Maserati Alfieri”, delle
“Candele accumulatori Maserati” e delle Acciaierie. Come altri padroni fascisti
ringalluzziti dalle vittoria democristiana del ’48, padron Orsi inizia con tre
giorni di serrata, chiamando la polizia a sgombrare i picchetti. È la prima
volta, dopo la liberazione, che a Modena la polizia interviene nel conflitti di
lavoro. Sarà la prima di una serie di interventi sempre più aggressivi. L’anno
prima del “massacro” è il 9 gennaio 1949, è domenica e si tiene a Modena un
comizio sindacale in piazza Roma, Fernando Santi, segretario generale della
Cgil denuncia i licenziamenti e la serrata alla fonderia Vandevit e alla
carrozzeria Padana.
Al termine
della manifestazione, mentre la gente rientra a casa mescolandosi con chi esce
dalla chiesa, si scatena una selvaggia e inspiegabile aggressione poliziesca
con camionette e manganellate e perfino colpi d’arma da fuoco. Il cambio di rotta era stato deciso
dall’alto: colpire senza sosta il movimento operaio e sindacale per
interromperne l’avanzata e ridurne la capacità contrattuale. Alla fine di quel
’49, padron Orsi regalò ai “suoi” dipendenti la seconda serrata e il
licenziamento di tutti i 560 lavoratori.
L’idea di Orsi era di assumere nuovi lavoratori non sindacalizzati né
politicizzati. Le “rivendicazioni” di padron Orsi erano di revisionare in
peggio il premio di produzione, abolire il Consiglio di gestione, far pagare la mensa ai lavoratori, togliere le bacheche sindacali e politiche, eliminare la
stanza di allattamento che le operaie si erano conquistate per poter andare in
fabbrica con i figli.
Dopo un mese
di serrata venne la risposta operaia: sciopero generale di tutte le categorie
proclamato per il 9 gennaio1950 in tutta la provincia. Ma il prefetto e il questore
[non dimentichiamo mai che prefetti e questori erano stati traghettati in
blocco dal regime fascista a quello democratico/democristiano] negano alla
Camera del lavoro qualsiasi piazza per la manifestazione sindacale. Si racconta
che il questore rispose alla delegazione di parlamentari e dirigenti sindacali
che chiedevano una piazza: “vi stermineremo tutti”. Dal giorno prima arrivano a
Modena ingenti forze di polizia, si dice 1.500 con autoblindo, jeep, camion.
Occupano la fabbrica e si dispongono sul tetto con le armi. Da quel tetto
spararono con la mitraglia sui lavoratori per uccidere.
“Affoga nel sangue il governo del 18 aprile“,
titola a tutta pagina l’Avanti! del giorno dopo.
Modena non
fu un fatto isolato. In quegli anni iniziava una repressione antioperaia feroce
e sanguinosa [nel 1948 sono stati uccisi 17 lavoratori in conflitti di lavoro,
centinaia feriti e 14.573 arrestati]. Il sindacato di classe fu buttato fuori
da moltissime aziende, oppure ridotto ed emarginato. Dopo quella dura sconfitta
che dal ’48 si protrasse per tutti gli anni Cinquanta la classe operaia riprese
l’iniziativa all’inizio degli anni Sessanta e risultò determinante la reazione
al governo Tambroni appoggiato dal MSI e cacciato in piazza dopo scontri a
Genova, Roma, Reggio Emilia, Catania, Palermo e tante altre città che costarono
ancora 9 morti, decine di feriti e di arrestati compresi parlamentari del Pci e
del Psi.
Una storia
da non dimenticare, anzi della quale rinnovare ogni giorno la memoria con il
pensiero ai nostri Caduti avendo ben presente da quale parte stava la volontà
di violare la legalità repubblicana garantita dalla Costituzione: Costituzione
che è stata difesa ancora una volta dal popolo anche nell’occasione del voto
del 4 dicembre 2016 e non certo dagli apparati dello Stato. Da Portella della
Ginestra alla Diaz, passando per Modena, Reggio Emilia, via Fatebenefratelli a
Milano fino alle cariche della Polizia che si rinnovano ancor oggi a ogni
manifestazione sindacale è teso il filo nero di una storicamente ingiustificabile
repressione verso chi difende il proprio lavoro, la propria dignità e la
democrazia repubblicana.