di
Franco Astengo
Carlo Rosselli |
Massimo
Cacciari, in un suo articolo dall’alto profilo culturale pubblicato da “la Repubblica”,
affronta il ricordo di Carlo Rosselli e il tema del “socialismo liberale”. Un
tema che l’autore colloca a fronte della sparizione della borghesia, o meglio
della grande tradizione culturale borghese.
Cacciari
richiama questa grande tradizione culturale individuandola ancora come fattore
fondamentale perché si torni ad esprimere una cultura del lavoro, della
responsabilità, dei sacrifici, dei diritti e dei doveri.
E
aggiunge “Chi sarà chiamato a funzioni di governo dovrà, secondo il
“socialismo liberale” essere stato selezionato secondo tali principi. E questi
dovranno valere anche per l’imprenditore-innovatore”.
Più
avanti il richiamo dell’ex-sindaco di Venezia si sofferma sulla perdita
complessiva di status del ceto medio (crollato nella distribuzione del reddito
e nelle sue attese di promozione sociale) e sull’impossibilità, in queste condizioni,
di superamento della fase che stiamo attraversando definita (giustamente)
“demagogico-protestataria”.
Ancora,
Cacciari attribuisce alla scomparsa della borghesia la crisi complessiva della
democrazia parlamentare rappresentativa, in Italia come in altri Paesi.
Crisi
della democrazia parlamentare rappresentativa che, nel nostro Paese, sarà
sottoposta tra poco tempo al giudizio dell’intero corpo elettorale tramite il
referendum confermativo sulla riduzione del numero dei parlamentari.
Si
tratterà infatti di un giudizio complessivo perché nell’occasione referendaria
lo scontro non verterà su 100 deputati in più o in meno ma proprio sull’essenza
della democrazia oggi: sulla concezione demagogico-protestataria della
democrazia versus una visione costituzionale della rappresentatività
parlamentare.
Sarà
proprio questo il confronto referendario misurato ben oltre il tema
dell’utilizzo delle tecnologie nell’agire politico e della promozione della
democrazia del pubblico trasformata in democrazia recitativa.
Il
punto sollevato dall’articolo non può però essere risolto invocando un avviato
processo di proletarizzazione dei ceti intermedi: questa analisi richiamerebbe
l’utilizzo di concetti ormai d’altri tempi.
Il
fatto è che non esiste neppure più il proletariato nelle sue varie definizioni
più o meno classiche.
Abbiamo
registrato, infatti, lo scompaginarsi di tutte le categorie e di ogni
individuazione di “frattura sociale”, in un affastellarsi di contraddizioni al
riguardo delle quali è mancata una capacità di lettura e di proposta politica.
In
Italia, lo scioglimento dei grandi partiti di massa su cui si era appoggiata la
fase della ricostruzione post-bellica, ha reso particolarmente accentuato il
divario tra esercizio dell’autonomia del politico ed evolversi delle dinamiche
sociali. È
venuto a mancare lo strumento che permetteva un intreccio tra questi due
elementi fondativi dell’agire politico: l’assunzione di responsabilità come
presupposto etico portata avanti attraverso i partiti politici.
Vinicio Verzieri "Discendenza" |
Ci troviamo, infatti, in una fase in cui si registra una sorta di
oblio nell’intreccio tra etica dei principi, etica della responsabilità, agire
politico.
In questo senso appare necessario confrontarsi al riguardo
dell’emergere della “contraddizione post-moderna” intesa con l’esaurimento dei
margini del dominio del genere umano sulla natura.
Un “esaurimento” da considerarsi storico al punto da porre
l’interrogativo se esso si presenti come emergenza tale da sostituire la
centralità di quella che è stata definita “contraddizione principale”
riguardante lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Mai come in questo caso, nella relazione che rimane ancora da
stabilire tra dominio del genere umano sulla natura e sfruttamento dell’uomo
sull’uomo, ci si propone il dilemma del come coniugare osservanza del principio
ed esercizio della responsabilità. Su questo punto emerge una necessità di
riflessione al riguardo dell’esistenza delle scansioni sociali da svilupparsi
in maniera affatto diversa rispetto al passato.
Fino ad oggi, infatti, la risoluzione della prima contraddizione
sul dominio della natura da parte del genere umano (dando per scontato il
superamento del “classico” schema elaborato da Stein Rokkan di cui, come si
accennava poc’anzi deve essere reclamato l’aggiornamento) stava dentro alla
risoluzione della seconda sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Una risoluzione che doveva avvenire per via storica attraverso il
superamento del capitalismo e la trasformazione del modo e delle finalità del
produrre.
Insomma: l’ape e l’architetto.
Il punto sul quale si intravedevano le distorsioni impedienti
questo tipo di soluzione era del tutto assegnato alla politica fattasi potere e
ancora da potere a dominio nella sua forma più evidente: lo Stato.
L’analisi riguardava le varie forme di dominio fattesi Stato
attraverso l’azione politica. Con grande vigore, giudicandone
impossibile una qualche riedizione, abbiamo criticato l’inveramento statuale
realizzatosi attraverso alcuni fraintendimenti novecenteschi dell’etica
marxiana: per intenderci al meglio quello che è stato definito come “socialismo
reale”.
Una critica molto più netta quella verso il “socialismo reale” (è
il caso di sottolinearlo) di quella che ha squilibrato, nell’occasione del
crollo del sistema raccolto attorno all’Unione Sovietica, quella rivolta verso
i cosiddetti regimi liberal-democratici, con le loro deviazioni colonialiste,
razziste, totalitarie.
La soluzione però non può essere quella che intende Cacciari nella
conclusione del suo intervento: quella di ridare un senso al “socialismo
liberale” invertendo la direzione di flusso “dell’impetuosa corrente della
proletarizzazione del ceto medio”.
Non può essere questa la soluzione perché, appunto, non siamo di
fronte a un processo di proletarizzazione perché tale non si può intendere
semplicemente la perdita di status e di reddito all’interno di questo tipo di
società caratterizzata, in particolare in Italia, dall’individualismo
corporativo, da un pesante assistenzialismo post-democristiano, da un richiamo
all’economia corporativa.
Serve, invece, la ricostruzione di una sinistra che
superi le logiche novecentesche almeno su di un punto decisivo, fermo restando
il richiamo alle grandi tradizioni del movimento operaio.
Ai protagonisti di quei “fraintendimenti dell’etica marxiana” che
avevano dato origine agli inveramenti statuali del ‘900 il rimprovero più
severo che, probabilmente, è stato loro rivolto è stato quello del “tradimento
dell’Utopia”.
Dimenticando che U-topos significa “luogo che non c’è”. Se non
c’è, però è soltanto perché non lo si è trovato e, dunque, bisognerebbe
continuare a cercarlo, senza far sfoggio di ottimismo ma anche al di fuori dal
ripiegamento da un pessimismo passivo.
In
esito a questa discussione, preso atto delle grandi difficoltà di espressione
delle grandi ideologie che hanno caratterizzato ‘800 e ‘900, forse è il caso di
riflettere su alcune categorie probabilmente fin qui non analizzate a
sufficienza.
È
il caso infatti di esaminare la materialità del crollo di molte parti dell’
“involucro politico” dentro al quale abbiamo vissuto le nostre esistenze di
militanti. “L’agire politico”, ben oltre le regole
dettate dalla politologia ufficiale, si è infatti trasformato in un confronto
ristretto tra l’etica e l’estetica.
Da un lato oggi, almeno nell’Occidente capitalistico sviluppato,
appare, infatti, egemone il rapporto tra l’estetica e la politica.
Un’egemonia che trova le sue fondamenta anche in relazione allo
sviluppo di una certa innovazione tecnologica destinata a stravolgere
l’utilizzo dei mezzi di comunicazione.
L’estetica
intesa come “visibilità” del fenomeno politico portato nella dimensione
pubblica. Meglio ancora, nell’esercizio di riti collettivi e consensuali
portati alla mostra della scena pubblica. La prospettiva è quella della teatralità
della scena politica e il ruolo di “attori” degli agenti politici.
Si
è così valorizzato l’agire comunicativo in luogo di quello strategico.
Una “forma del politico” armoniosa e composta nella cornice da un
conflitto al più agonistico: laddove anche la più stridente contraddizione
rimane “sovrastruttura” e il pubblico può essere oggetto soltanto di un
processo di una gigantesca “rivoluzione passiva” (altri più pratici
scriverebbero: le pecore al pascolo).
Un’estetica
il cui obiettivo è quello dell’anestetizzazione del “dolore sociale”, oggi
composto da entrambi gli elementi cui si accennava: quello del limite che
incontra il dominio umano sulla natura e quello dello sfruttamento dell’uomo
sull’uomo, comprensivo anche dell’ulteriore livello dello sfruttamento di
genere (sfruttamento di genere la cui risoluzione avevamo, erroneamente,
affidato all’ obiettivo del superamento del capitalismo).
Una
“anestetizzazione del dolore sociale” come fenomeno ancora reso più evidente
dal frangente dell’emergenza sanitaria che stiamo attraversando.
Un’emergenza
che ci ha fatto notare ancora di più la nostra difficoltà di dominio sulla
natura e allargato a dismisura il quadro delle disuguaglianze oltre i semplici
fattori di reddito.
Il
confronto, però, a questo punto non può davvero che avvenire tra l’estetica e
l’etica: l’etica intesa come il termine che designa le regole della condotta
umana relativamente alla sfera del dovere, di ciò che è giusto/lecito fare,
contrapposto a ciò che è ingiusto e/o illecito. È
soltanto attraverso il filtro dell’etica che può essere consentito di guardare
alla politica attraverso un costante confronto critico. La nostra tradizione ci dice, però, che i rapporti tra etica e
politica non possono essere soltanto necessariamente conflittuali, perché
l’etica può ricevere una incarnazione teorica nello Stato (Hegel) o nella
classe oggettivamente rivoluzionaria (Marx): nelle forme, cioè, che apparivano
mature del divenire storico.
Come
abbiamo visto l’esito del ‘900 ha dimostrato che tra Stato e Classe il nodo
teorico non è stato risolto. Un nodo che riguarda ancora la dimensione etica degli scopi del
“governo” cui anche Cacciari si richiama, poiché proprio l’esito del ‘900 ha
posto il problema di verificare fin dove potesse spingersi l’azione di un
governo che volesse salvaguardare non solo i diritti negativi (di non
interferenza: si può fare tutto quello che non è vietato) dei cittadini, ma
anche i diritti positivi, ossia l’estensione a fasce sempre più vaste della
popolazione dei diritti di tutela sociale, salute, istruzione, assistenza, fino
all’eguaglianza nell’accesso alle risorse disponibili (salvo il grande
interrogativo orwelliano, sugli alcuni più eguali degli altri).
La
domanda finale, riguarderebbe il chi espande e tutela i diritti della natura,
già così fortemente compromessi da un’antropizzazione esasperata che attraverso
la logica del consumo non riconosce più differenze di status e di scansione
sociale in una sorta di “omogeneizzazione al ribasso”? Come questi diritti
della natura possono intrecciarsi, o restare irrimediabilmente conflittuali,
con quelli della tensione al permanere della diseguaglianza versus la tensione
all’eguaglianza e alla fine dello sfruttamento umano (nell’interrogativo della
ricerca di Thomas Piketty in “Capitale e Ideologia”? Come può la
politica trasformare questi interrogativi in una nuova “incarnazione storica”? Le
risposte non possono star dentro al vecchio recinto della ricerca sulla
priorità delle contraddizioni ma nella ripresa del confronto tra etica ed estetica.
Ricostruire,
perché è il caso di ricostruire, l’idea dell’etica pubblica intesa come idea
portante dell’esistenza di criteri morali cui dovrebbe ispirarsi l’azione
pubblica, l’agire politico, quella “democrazia pubblica” che riguarda la
conduzione della vita dei cittadini.
Beninteso
una “democrazia pubblica” ispirata non a ideali generici, ma ad un “progetto di
società” che riguardi il rinnovato rivolgersi all’Utopia.
L’Utopia
può essere ricercata attraverso il conflitto, inteso come solo veicolo per
l’avanzamento delle idee sulle quali fondare l’identità dei soggetti destinati
a tramutarli in azione, tra i quali stabilire elementi di “etica della
collaborazione”. Una riconnessione, in sostanza, che
deve avvenire tra principi ispiratori e pratica corrente: ciò che oggi sembra
proprio essere venuto a mancare anche nelle stesse proposizioni di una
filosofia politica unicamente legata all’estetica che ci appare non solo
egemone ma addirittura dominante in una notte nella quale “tutte le vacche
sembrano nere”.