MEDIAZIONE
POLITICA
di Franco Astengo
Si sta pericolosamente
affermando l’idea che il Governo coincida con lo Stato (L'État, c'est moi!), in
una visione assolutistica, che non concede nulla oltre il bianco al nero: dal
“vaffa” direttamente alla corona imperiale in un rovesciamento che trova il suo
discrimine soltanto tra il vecchio che muore e il nuovo che avanza. Ciò che sta
accadendo in Italia, in questi giorni, può assumere valenza epocale: Steve
Bannon, il pericoloso “guru” della destra mondiale ha dichiarato di considerare
“Roma al centro del mondo”.
Attenzione
però nella storia abbiamo trovato tante volte l’occasione nella quale “il morto
ha afferrato il vivo”.
In
precedenza l’idea era quella del decisionismo inteso come necessaria velocità
di assumere le scelte di governo per stare al passo con il vertiginoso
procedere dei tempi dell’economia e dell’innovazione tecnologica, della
comunicazione. Per arrivare al massimo possibile nella velocità e nella
semplificazione delle scelte si era, così, pensato di risolvere il problema
allargando a dismisura il concetto “maggioritario” attraverso la concessione di
spropositati premi elettorali.
Il
modello scelto era quello della fascista “Legge Acerbo” (1923).
Si era pensato addirittura, senza porre una
soglia minima di raccolta di consenso, di regalare il 55% dei seggi della
Camera alla Lista (beninteso Lista e non Coalizione, si è verificato anche
questo passaggio) che fosse arrivata “Prima”; come se si stesse trattando di
una gara podistica. A questo tipo di filosofia politica assolutamente “malata”
ha posto rimedio la Corte Costituzionale smantellando (per due volte)
l’impianto di leggi elettorali, l’una sperimentata e l’altra mai entrata in
vigore, che rappresentavano un vero e proprio monumento alla faciloneria e
all’insipienza dominanti nel ceto politico italiano.
Terminata
questa stagione con l’esito del referendum del 4 dicembre 2016, adesso siamo
arrivati al tentativo di coercizione delle regole costituzionali in nome
dell’applicazione meccanica e di pedissequa di una non meglio precisata
“volontà popolare” considerata vincente in una dimensione che non può esitare
nel definire totalitaria. In sostanza, come abbiamo verificato, nel corso di
questi mesi, in occasione della complicata vicenda riguardante la formazione
del nuovo governo, si è preteso di applicare il principio maggioritario alla
presenza di una formula elettorale per il 64% proporzionale addirittura
adattando proprio il principio maggioritario a una sorta di surrettizia
elezione diretta.
Un
partito con undici milioni di voti (certo un bel gruzzolo, per carità) su
cinquanta milioni di elettrici ed elettori iscritti nelle liste, pretendeva di
avere il proprio “Capo Politico” (una definizione orrenda, conveniamone) issato
direttamente attraverso l’esito di un voto il cui scopo era quello di
determinare la rappresentanza politica, sulla poltrona di presidente del
Consiglio.
Il
salto della “mediazione politica” da realizzarsi attraverso la presenza di
soggetti organizzati come i partiti, è stato il guasto più grave che è stato
prodotto dalla semplificazione dovuta alla crescita esponenziale del concetto
individualistico in politica, del presentarsi della “vocazione maggioritaria”,
dell’idea totalizzante dell’occupazione del potere in nome del “popolo”.
Tra
l’altro c’è da ricordare che, in occasione delle ultime vicende italiane,,
reclamando il richiamo diretto al “popolo”, sia sortito alla fine un governo a
forte controllo presidenziale, quasi a evocare problemi costituzionali opposti
a quelli che i vincitori delle elezioni pensavano di affrontare e risolvere.
Come
si può invertire la rotta rispetto a
questo processo che può ben essere definito di “degenerazione progressiva”?
A
mio giudizio partendo da un punto: la ricostituzione di soggettività democratiche
nelle quali si realizzi un nuovo rapporto tra cultura e pratica politica,
riesplorando fino in fondo il concetto di democrazia. I partiti, infatti, si
sono trasformati in luoghi di selezione per le liste elettorali (beninteso: non
di selezione della classe dirigente). Selezioni che avvengono ormai con i
metodi più strampalati e individualistici, tanto più che in occasione delle
elezioni politiche le liste sono bloccate ed elettrici ed elettori non hanno
nessuna possibilità di scelta, almeno per il 64% dei seggi, mentre per il
restante ci sono i collegi uninominali (anche lì prendere o lasciare tanto più
che il voto si trasferisce automaticamente dal candidato alla lista).
In
verità anche alle Regionali abbiamo i “listini” dei Presidenti.
Torniamo
comunque al filo centrale del nostro discorso. La democrazia, secondo
l’etimologia, è il governo del popolo. Ma cosa è il popolo?
Giovanni
Sartori, che al suo tempo al tema aveva dedicato una delle sue più attente
analisi (Democrazia e Definizioni” IL Mulino 1967), sottolineava giustamente
che il concetto di popolo si presta a molte interpretazioni: il popolo si può
intendere come totalità ma si può anche intendere come pluralità espressa dal
principio maggioritario, assoluto o moderato; il popolo si può intendere ancora
nel senso dei “molti”.
E’
evidente che secondo l’interpretazione che si dà al concetto di popolo si può
giungere a regimi politici molto diversi.
Si tratta di partire dal principio che la titolarità del potere non
risolve il problema del suo esercizio effettivo. Il problema della democrazia
si intreccia dunque con quello dei soggetti politici che la organizzano e la
animano e del ruolo dei partiti. Oggi il ruolo dei partiti non è più stato da
tempo posto in rilievo nel dibattito pubblico, oscurato dall’idea della
democrazia diretta esercitata soprattutto attraverso il web e poi interpretata
-nei suoi esiti- da un Capo.
Arriverà
però il momento nel quale sarà necessario cominciare a distinguere tra protesta
e governo, poiché l’assolutismo della prima non potrà trasferirsi direttamente
nella dimensione del secondo senza causare sconquassi sociali di grande
portata. E’ evidente che il sistema dei partiti, in Italia (la “Repubblica dei
Partiti” secondo Scoppola) è caduto per il peso di una grande responsabilità
dei suoi principali attori, più ancora che dal mutamento delle condizioni
complessive nelle quali il sistema agiva.
Non
c’è stata capacità di conservazione / rinnovamento, nella convinzione che
l’esercizio del potere trattenesse in sé un valore intrinseco da conservare. Si
trattava della logica della “governabilità” come ragione esaustiva dell’agire
politico. Un concetto sulla base del quale erano sorti Ulivo e PD, luoghi di
incubazione del cambiamento da partito di massa a partito meramente elettorale;
mentre Forza Italia avanzava per la strada del “Partito Personale”.
Le
principali componenti del sistema politico italiano erano andate così
autonomizzando il loro sistema di reciproche relazioni prescindendo dal mutare
delle realtà sociali, anzi non riconoscendole proprio.
Si
è così creato un “vuoto” riempito come abbiamo visto da forze che sono state
definite empiricamente come “populiste”. Come può essere contrasta
radicalmente, almeno sul piano politico, questa vera e propria deriva? A questo punto sembra proprio il caso di recuperare collettivamente coscienza del
tema della complessità dell’intreccio tra rappresentanza, potere e governo.
L’idea
della pluralità politica deve essere portata ancora in primo piano proprio per
affermare le ragioni di una evidente “necessità storica” della sua
articolazione. La necessità storica dell’articolazione politica deve diventare
più forte di qualsiasi, pur giustificata, consapevolezza critica del recupero
di un ruolo dei partiti come sede di elaborazione e pedagogia politica a
livello di massa. Alla luce dell’oggi e della prospettiva che si apre, si
tratta di un altro elemento dell’eredità del passato sul quale a sinistra
conviene riflettere pensando all’intreccio da realizzare tra rappresentanza
immediata della complessità dei bisogni sociali e realtà dei grandi movimenti
politici di massa che, in forma organizzata, hanno caratterizzato la storia
delle trasformazioni realizzate dalla nascita del movimento operaio in avanti.