Pennellate di
vita comune dalla Striscia di Gaza
di Patrizia Cecconi
Ieri era festa grande a
Gaza, come in tutti i paesi a prevalenza musulmana. Una festa che non si
ignora neanche laddove cadono senza
sosta bombe devastatrici di vite e di intere comunità. Ieri era il primo giorno
dell’Eid fitr, quello che segue la fine del Ramadan e che ha ancor più
importanza di quanto ne abbia il Natale nei paesi a prevalenza cristiana.
L’Eid
fitr è la festa in cui i bambini hanno gli abiti nuovi e girano felici per le
strade e le famiglie si fanno visita l’un l’altra. Anche nelle case dei recenti
martiri si festeggia l’Eid ed è un’occasione per onorare il martire e ricordare
che la sua morte è benedetta sebbene dolorosa. Molti gazawi hanno deciso di
passare questi giorni negli accampamenti della grande marcia lungo il confine.
Israele, che non cessa mai di far sentire la sua presenza con il ronzio
ossessivo dei droni-spia, ha partecipato all’Eid non solo con l’onnipresenza
dei droni ma anche con alcuni missili lanciati su uno degli accampamenti in cui
i ragazzi preparavano i temibili aquiloni diventati simbolo della grande
marcia. Per fortuna niente vittime e l’Eid fitr continua per altri due giorni
come previsto dal rito coranico.
Nei
giorni precedenti l’Eid, cioè durante il Ramadan, è normale essere invitati
all’iftar, cioè alla cena che interrompe il digiuno dopo il calar del sole.
Queste cene sono un’immersione totale nello spirito del luogo. Uno spaccato
sociologico che toglie ogni dubbio su quanto ci sia di falso negli stereotipi
forniti dai media i quali, a parte pochissime eccezioni, si gingillano in
cosiddette analisi di situazioni che non conoscono neanche per un affaccio
veloce alla finestra. Essere invitati all’iftar, in quanto stranieri, è una
forma di rispetto e di affetto in tutta la Palestina. Essere invitati all’iftar
nella Striscia di Gaza è anche qualcosa di più: è un ringraziamento per
esserci, perché in una prigione come Gaza, in cui per gli stranieri è molto
difficile entrare e per i gazawi è quasi impossibile uscire, anche se feriti o
malati, esserci significa vedere e testimoniare. Testimoniare dal vivo e
raccontare il vero, sempre che si abbia l’onestà intellettuale per farlo e non
si dipenda dal libro paga di chi stabilisce cosa sia opportuno scrivere.
Quindi,
stante la condizione di assoluta libertà di espressione, ecco una cronaca da
Gaza arricchita dalle tante interviste informali raccolte durante questi
incontri conviviali. Due o tre sono le cose particolarmente rilevanti emerse in
queste conversazioni ed una di queste è che, nonostante il taglio
dell’elettricità da parte di Israele, ogni casa visitata è illuminata da luce
elettrica e non da candele. Come mai? Forse che Israele, detentore dell’assedio
e anche dell’elettricità, ha concesso più ore di luce? No. Il motivo è che i
gazawi, in questi 11 anni di illegale assedio, hanno sviluppato su vari fronti
la loro creatività. Mentre gli ospedali o le grandi strutture usano i
generatori e, chi può, usa i pannelli solari, le singole abitazioni, spesso
appartamenti arrampicati l’uno sull’altro in uno degli 8 campi profughi, o
piccole case ricostruite alla meglio dopo l’ultimo terribile massacro del 2014,
non hanno la possibilità di usare un generatore, sia per il costo dello stesso,
sia per il costo del carburante, e allora qualcuno si è inventato l’uso
alternativo della batteria dell’automobile. Qualche piccola modifica per
poterla alimentare nelle due o tre ore in cui Israele fa passare l’elettricità,
cioè verso mezzanotte quando normalmente la famiglia ormai dorme, e qualche
altra modifica per alimentare gli impianti domestici con l’energia accumulata
nella batteria et voila, il gioco è
fatto: Israele vuole lasciare al buio Gaza e Gaza si attrezza sviluppando
sistemi alternativi.
In
questo periodo sembra che la scelta di rispondere in modo non violento alla
negazione dei propri diritti abbia scatenato, in questa comunità di
prigionieri, una grande fantasia creativa che ha preso il posto di frustrazione
e rabbia. Lo si è visto nelle manifestazioni della Grande marcia del ritorno in
cui ai micidiali lanci di tear gas un gruppo di manifestanti aveva organizzato
il “rilancio” nel campo nemico usando racchettoni e racchette da tennis, o nel
tentativo vagamente pitagorico di utilizzare gli specchi per confondere i
cecchini, o nell’incendio dei copertoni il cui denso fumo nero impediva ai
cecchini di prendere la mira, riducendo così il numero delle vittime che,
comunque, sono state circa 130 alle quali si aggiungono oltre 13mila feriti. Ma
l’idea principe è stata sicuramente
quella delle mini mongolfiere e degli aquiloni con la codina accesa da far
volare oltre la rete dell’assedio, spiegando così all’assediante che i gazawi
non si arrendono e pretendono il riconoscimento dei loro diritti. Seguitano anche a spiegare, inascoltati
dall’occidente, che dietro a queste decine di migliaia di uomini donne e
bambini che si radunano lungo il confine non c’è il coordinamento di Hamas, né
di altri partiti politici, bensì la riedizione di un tentativo già sperimentato,
ma fallito, nel 2011 e cioè un movimento di base che scavalchi i partiti senza
negarli, ma senza lasciarsi irretire dalle rivalità tra i vertici, e che tende
a richiamarsi al concetto di fronte unico
per ottenere i diritti affermati dall’ONU ma negati da Israele.
Questi
i discorsi generali che hanno accompagnato le belle cene dell’iftar nell’ultima
settimana del Ramadan. Ma a questi vanno
aggiunti spunti e suggestioni che offrono inquietanti motivi di riflessione.
In
parte per caso, in parte per scelta, nessuno degli incontri ha avuto come
interlocutori militanti o simpatizzanti di Hamas, il partito al potere, il
quale in passato ha scelto la lotta armata, compreso l’uso di kamikaze per
ottenere senza mai riuscirci – il rispetto dei diritti del popolo palestinese
da parte di Israele. Ormai Hamas ha preso un’altra via sebbene Israele trovi
molto comodo nella sua propaganda con l’occidente attribuirgli la
responsabilità di qualunque azione ostile, violenta o meno, ottenendo in tal
modo due risultati: uno verso l’esterno, quello di screditare ogni azione
legittima, quale la richiesta di applicare le Risoluzioni ONU, ammantandola di
un falso velo di terrorismo grazie ai buoni servigi dei tanti opinion maker
israelo-dipendenti. Verso l’interno, invece, quello di ottenere l’accredito di
Hamas come organizzazione capace di muovere le masse dei gazawi anche se non
sempre questo risponde al vero, restituendogli un carisma che ad un’analisi
orientativa sembrava essere in caduta ibera.
I
due argomenti più interessanti, oggetto delle interviste informali realizzate
in questi giorni, hanno riguardato: 1)
il comportamento dell’Anp, che qui viene regolarmente riportato al solo
presidente Abu Mazen, considerato come responsabile unico della punizione
collettiva imposta ai palestinesi di Gaza attraverso il taglio degli stipendi e
2) l’uccisione di bambini e teenager da parte di Israele. Questo secondo
argomento creerà sicuramente disappunto e verrà attaccato brutalmente dalle
organizzazioni sioniste, se questo articolo verrà letto, come già successo per
altri lavori che sono stati oggetto di attacchi rabbiosi ma non destrutturanti
di quanto affermato, visto che scriviamo solo ciò che è dimostrabile e
documentabile.
Per
quanto riguarda il taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza in
carico al governo di Ramallah, taglio dovuto al tentativo di fiaccare Hamas
accrescendo a dismisura la povertà nella Striscia, sperando in una qualche
forma di sollevazione pro Anp, l’effetto si è dimostrato un boomerang dal punto
di vista politico e un baratro dal punto di vista morale. A nessuno sfugge
l’altissimo livello di vita di Abu Mazen e dei suoi figli, ricchi imprenditori
probabilmente per loro proprio merito, ma tacciati di corruzione da tutti gli
intervistati. L’amaro senso di tradimento probabilmente porta a queste risposte
esasperate, ma queste sono comunque le risposte offerteci. Gaza è assediata,
Israele tra i tanti crimini passati sotto silenzio commette anche quello di
irrorare di glifosato le coltivazioni gazawe per impedirne il raccolto, e
l’Autorità palestinese invece di sostenere i propri figli li getta in un’ancor
più nera miseria! Questo non è percepito da nessuno dei miei interlocutori come
un errore politico, ma da tutti come un crimine commesso contro i fratelli gazawi
per un odio contro Hamas tanto cieco da favorire Israele. Questo dicono i
Gazawi.
Agli
occhi di un occidentale che non conosce la cultura palestinese tutto questo
sembra confliggere col fatto che la Striscia sia piena di Università (nessuna
completamente gratuita) e che le
università siano piene di studenti e studentesse i quali vengono spessissimo da
famiglie in cui si sopravvive grazie ai sussidi dell’Unrwa. Studenti che solo in bassa percentuale hanno
partecipato alle manifestazioni al confine ma che plaudono alla grande marcia e
che mostrano l’icona dell’infermiera Razan Al Najjar, o dell’artista Mohammed Abu Amr che scolpiva
sulla sabbia, o del giornalista Yaser Murtaja, tutti resi martiri da Israele.
Studenti che pur non partecipando direttamente alla grande marcia, plaudono
alla geniale idea degli aquiloni che è stata capace di mettere in crisi il
potentissimo apparato bellico israeliano. Si riconoscono in quelle figure di
combattenti disarmati capaci di far vacillare l’immagine di Israele come
onnipotente e danno il loro sostegno ideale anche se raramente hanno raggiunto
i manifestanti al confine.
Uno dei miei intervistati, padre di alcuni studenti e prima persona che mi ha mostrato con un’espressione vagamente divertita l’apparato elettrico alternativo che illumina la sua casa, lo stesso che mi ha fatto avere come regalo un paio di quei bellissimi aquiloni, che difficilmente potrò riportare in Italia, è uno dei tanti dipendenti legati a Fatah e rimasto senza stipendio per la “lungimiranza” dell’Anp. Tra le tante cose dette, mi dice una frase che riporto testualmente: “Hamas non brilla per creatività, sono i nostri giovani la nostra forza e questo Israele lo sa e per questo li uccide”. E’ lapidaria e terribile la sua affermazione, la contesto. Statistiche alla mano non ho difficoltà a contestarla, non perché voglia difendere Israele, conosco bene la gravità dei suoi crimini e l’ancora maggior gravità del fatto che questi restino regolarmente impuniti, ma mi sembra un’affermazione impropria. Gli faccio notare che per ragioni statistiche, essendo la popolazione gazawa mediamente giovane dato l’alto numero di figli che arricchisce ogni famiglia, è normale che vengano uccisi più ragazzi giovani che popolazione matura. Non è così. Alla conversazione partecipa uno dei medici degli ospedali che hanno fatto miracoli per provare a salvare vite e arti e mi chiede se ricordo che durante la mia visita nel suo ospedale ben tre ragazzi erano stati colpiti ai genitali e resi sterili oltre che invalidi. Mi dice che altri hanno avuto lo stesso destino e che sono troppi perché il fatto possa essere considerato pura coincidenza. Israele ha paura della crescita demografica del popolo palestinese, questo lo sappiamo, ma questo non può significare lo sterminio scientifico di una generazione. Sinceramente mi sembra troppo e insisto nella mia posizione.
Ho
davanti a me un uomo che ha conosciuto (come il 90% degli uomini palestinesi)
le galere israeliane da quando aveva 16 anni. Arrestato mai per crimini, ma per
la sua militanza in Fatah, cosa che ora forse non succederebbe più. Un uomo che la mentalità israeliana e il
cinismo scientifico che l’accompagna li conosce bene. Accanto a lui ho un
medico ospedaliero che nei suoi tanti anni di professione ha avuto non solo
malati ma molti feriti dall’esercito detto il più morale del mondo. Anche lui
mi dice che c’è grande scientificità, perfettamente mirata, nei crimini
israeliani. Ho di fronte a me anche dei ragazzi che ancora non hanno avuto
modo, per fortuna, di conoscere le galere israeliane ma che mi dicono di aver
perso un gran numero di amici della loro età nei bombardamenti del 2014. Mi
viene ricordato un episodio avvenuto in Cisgiordania negli anni “80 in cui
vennero rese sterili circa duemila ragazze. Quattro conti e viene fuori che in
un colpo solo Israele ha ridotto la popolazione potenziale di circa 16.000
persone che oggi, per effetto del moltiplicatore generazionale ne avrebbero
probabilmente fatte nascere già almeno altre
32.000.
È spaventoso oltre che
inquietante. Faccio ancora qualche obiezione ma poi mi faccio qualche conto
veloce. Prendo in esame solo i due massacri maggiori degli ultimi dieci anni:
Piombo fuso e Margine protettivo. Non so quanti diciottenni o ventenni o
venticinquenni siano stati ammazzati ma so che sono stati la maggioranza dei
circa 1450 morti di piombo fuso e dei 2260 di margine protettivo. So però
quanti bambini sono stati ammazzati. Ben 318 nei soli 21 giorni del primo
massacro e 570 più un migliaio resi invalidi a vita nei 49 giorni del secondo.
A parere dei miei intervistati tutto questo fa parte della lungimiranza
strategica, tanto intelligente quanto cinica, dei governanti israeliani. Non solo di Netanyahu, ma di tutti i
governanti israeliani e mi invitano a ricordare che molti di loro erano stati
feroci terroristi prima della nascita dello Stato di Israele di cui poi
sarebbero diventati onorevoli statisti. Mi ripetono che questo rientra nella
mentalità israeliana e che nessuna uccisione di palestinese in grado di
procreare è casuale. “Sono i nostri giovani la nostra forza e per questo
Israele li uccide” ripete il mio ospite. Però, con uno spirito assolutamente
palestinese, aggiunge “ma non potrà ucciderli tutti e gli interessi che
sostengono Israele non saranno eterni. Assaggia la zuppa di verdura che è
speciale”. Si cambia registro così, qui a Gaza. Se non fosse così fosse
sarebbero stati assuefatti e addomesticati. Qualcuno la chiama resilienza.
Mentre
scrivo queste riflessioni dalla mia finestra entrano tre cose: l’insopportabile
ronzio dei droni al quale non riuscirò mai ad abituarmi, un caldo che fino a
poco fa pare abbia toccato i 42 gradi all’ombra e che mi ha tenuta bloccata in
casa, e il rumore di clacson misto a tante voci che vengono dal porto. Tra un
po’, appena spirerà un po’ di brezza scenderò sulla spiaggia che ho davanti al
mio ufficio e che sarà piena di palestinesi in festa. La spiaggetta in cui nel
2014 vennero fatti a pezzi 4 bambini mentre giocavano a pallone. Ho sempre
pensato si trattasse di crudeltà e sadismo, ma dopo le ultime interviste ho
cambiato idea: Israele non ha soltanto bisogno di uccidere, come già scritto
alcuni giorni fa, per una sindrome non superata dovuta all’olocausto, Israele
ha anche l’obiettivo di uccidere per fermare la crescita del popolo palestinese.
Lucidamente, scientemente, criminalmente.
Ripensando
ad alcuni articoli di Gideon Levy, una delle firme più prestigiose del
giornalismo israeliano progressista, mi rendo conto che Levy questo orrendo obiettivo lo denuncia da tempo. Ma solo l’impatto vis à
vis con chi è direttamente colpito da questo progetto mi ha dato consapevolezza
della sua mostruosità. Se Israele si salverà da se stesso sarà anche perché
quella piccola minoranza di cui Gideon
Levy fa parte e che rappresenta la parte sana del paese, riuscirà ad ostacolare
questa deriva razzista o peggio. Per oggi è tutto, la festa continua comunque,
nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica
dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta
entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano
in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.”
Per
oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di
Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i
tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere
che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti
che riempiono i muri.