LA LOGICA DEL
POTERE
di Franco Astengo
La domanda è di grande
attualità: come si determinano i meccanismi di accesso all’effettiva gestione
del potere politico in tempi di società complessa, dove appaiono evidenti i
limiti dei “corpi intermedi” e delle stesse formazioni di governo? Come può
essere possibile non confondere potere e governo, tanto più che il governo
appare ormai esprimersi attraverso la formula a “bassa intensità” dell’obbligo
alla governabilità quale fine esaustivo dell’agire politico? L’interrogativo è
d’obbligo, proprio in una fase in cui due soggetti come Lega e M5S, già
etichettati a livello di analisi politica come “populisti”, hanno aperto una
fase di confronto che dovrebbe, alla fine, sfociare nella formazione del nuovo
governo della Repubblica (sempre che il M5S abbia davvero l’intenzione di
provarci al governo: ma questo discorso farebbe parte, oggi come oggi, di una
dietrologia che non deve far parte di un tentativo serio di analisi politica).
Da
notare che in entrambi i soggetti in questione, Lega e M5S, non pare esprimersi
una “volontà di governo” ma piuttosto una sorta di “bramosia del potere” (che
poggia su di una concezione dell’agire politico che c’è più volte capitato di
definire dell’“individualismo competitivo”).
Partiamo
quindi dall’idea (al momento tutta da verificare) di un governo per la
formazione del quale si misurino le due forze emergenti dal dato elettorale del
4 marzo 2018: Lega e M5S. Un
governo che, almeno nelle intenzioni dei
possibili proponenti e stando al loro livello di proposta esplicitato in
campagna elettorale, rappresenterebbe un vero e proprio punto di cesura
rispetto alle dinamiche politiche che si erano espresse nel corso dell’ultimo
ventennio. Ultimo
ventennio che, a partire dalla prima modifica della legge elettorale, era
trascorso prima attraverso l’alternanza tra centro destra e centro sinistra,
poi avendo al centro dell’azione dell’esecutivo la logica “modernizzante” del
PD.
Il
PD, nato a suo tempo sull’idea della “vocazione maggioritaria”, si è mosso in un primo tempo, sul piano del
governo, all’indomani della “non vittoria” delle elezioni 2013 orientandosi in
senso “europeista” e in un secondo tempo incentrando la sua azione sulla
riforma delle istituzioni nel senso di uno spostamento dalla centralità del
parlamento a quella del governo.
Un
processo di riforma del resto già in atto da tempo (la cosiddetta” Costituzione
materiale”) anche per via dell’emergere di una vocazione presidenzialista
accentuata nel centro destra tra la fine degli anni’90 del XX secolo e del
primo decennio del XXI. Vocazione presidenzialista ulteriormente definitasi con
la gestione della Presidenza della Repubblica nei 9 anni di Giorgio Napolitano.
L’iniziativa
del PD sulla riforma istituzionale posta sullo stesso terreno dove aveva già
fallito la grande riforma del PSI negli anni’80, la commissione bicamerale
presieduta da D’Alema alla fine degli anni ’90 e il progetto del centrodestra
del 2006, è stata poi bocciata dal corpo elettorale anche per via di un’incauta
manovra del gruppo dirigente democratico che portò, nell’occasione, al
coagularsi di un fronte avversario sicuramente eterogeneo ma in grado di
lasciare lo stesso PD assolutamente isolato.
Progetti
falliti e comunque ormai superati dalla logica inesorabile del modificarsi
delle condizioni politiche, quindi non
più riproponibili (non soltanto per ragioni “tecniche”).
Torniamo
allora alla domanda iniziale: quale potrebbe essere la “logica del potere”
sulla base della quale potrebbe nascere non tanto e non solo un nuovo governo,
ma un’intera fase politica mossa da logiche affatto diverse, se non
alternative, rispetto al recente passato?
Per
rispondere efficacemente è necessario ricostruire subito il quadro generale,
ponendoci un ulteriore interrogativo: è ancora valido il fenomeno della “personalizzazione” della
politica che appariva ormai giunto a sfiorare livelli preoccupanti in un
rapporto tra il “capo” e le “masse”. Rapporto tra “capo” e masse” veicolato
soltanto dal mezzo televisivo e/o dal web?
Un
processo di personalizzazione della politica attraverso il quale sembrava
realizzarsi un inquietante e per certi
versi paradossale “dialogo” diretto tra il “politico” e la folla (uso il
termine “folla” non a caso. Lo adopero nello stesso senso in cui lo usò Luigi
Longo intervenendo alla prima direzione del PCI riunificato tra Sud e Nord,
all’indomani della Liberazione; nel senso cioè di “folla indistinta”.)
Contestualmente
all’emergere di questo fenomeno, e ci sarebbe da aggiungere quasi naturalmente,
apparivano cambiati profondamente i partiti politici, ormai svuotati dalla
partecipazione di iscritti e militanti ridotti al rango di “fruitori di eventi”
(nel caso le cosiddette “primarie”).
Partiti
politici trasformatisi in alcuni casi in “partiti personali elettorali” e in
altri in una forma particolare del “partito acchiappatutti”: un modello questo
che nella realtà del caso italiano appare molto più informe nella sua struttura
e molto più caotico nella sua organizzazione di quanto non fosse stato immaginato
nel momento della sua teorizzazione quale punto possibile di superamento del
“partito di massa”.
Mentre
la Lega mantiene le caratteristiche del partito incentrato sulla
personalizzazione raccolta attorno al leader (senza però le caratteristiche del
“proprietario”), il M5S appare come il prototipo di un ritorno all’all catch
party, con la variante dell’uso della democrazia diretta realizzata attraverso
il web quale vero e proprio “imprinting” del nuovo soggetto politico (“imprinting”
offerto anche come modello all’intero sistema). Sarà bene intenderci subito su
di un’affermazione essenziale: la democrazia non è possibile senza partiti
politici, perché il “pluralismo si esprime anche in organizzazioni stabili,
durature, diffuse, che si chiamano, appunto, partiti” (Kelsen 1929, trad.it.
1966.) I partiti svolgono funzioni non
assolvibili da nessun’altra organizzazione e non soltanto dal punto di vista
della promozione elettorale, ma anche
nei compiti oggi largamente disattesi se non del tutto ignorati della
partecipazione alla vita pubblica, della formulazione di programmi, ai compiti
di acculturazione di massa e di vera e propria integrazione sociale.
Partiti
che, invece, oggi sembrano vivere (anche a livello locale) ormai soltanto
attorno a due fattori determinanti: il potere si spesa e quello di nomina.
Potere
di spesa e potere di nomina questo il vero e proprio crocevia sul quale
realizzare, nei tempi moderni, l’incontro di governo: potere di spesa limitato,
nella fattispecie, dal quadro europeo che comunque nel corso di questi anni
attraverso la BCE e il suo Quantitative Easing ha offerto una sponda molto
rilevante, imponendo però restrizioni nette su di altri versanti. In questo
senso Lega e M5S si trovano davanti alla loro strada la necessità di costruire un’élite in grado di dialogare con
quei livelli di potere “esterno” che condizionano potere di nomina e potere di
spesa: nel primo caso le lobby operanti all’interno (lobby di varia natura,
anche occulta) e all’esterno, nello specifico sul piano europeo, nel secondo
caso. Servirebbe
scoprire l’elemento fondante di un possibile aggiornamento della “teoria delle
élite”, da ricostruire come soggetto di riferimento verso la società da
riordinare nel senso del “blocco storico”.
L’idea
di recupero della soggettività politica, del partito, dovrebbe proprio
ripartire da lì: dall’èlite riconosciuta da un blocco sociale di suo effettivo
riferimento.
Un
orientamento, in questo senso, lo indica
già, per tornare agli autori “classici”, lo stesso Vilfredo Pareto, allorquando
individua nell’eterogeneità sociale il costruirsi di una dicotomia ”stabile”
tra una classe superiore e una classe inferiore e indica l’unica possibilità
per ritrovare i migliori nelle posizioni di vertice nel continuo ricambio delle
élite e al passaggio di individui da una classe all’altra (Sola, 2000).
Tocca
però ad Antonio Gramsci costruire sul piano teorico la nozione di élite,
partendo dall’insoddisfazione per la definizione coniata da Gaetano Mosca di
“classe politica”.
Al
pensatore sardo (Quaderni del carcere
volume III, edizione Einaudi 1975) la definizione “classe politica” (concetto
contro il quale sia Lega, sia M5S hanno costruito parte della loro fortuna
elettorale, riducendolo nel contrasto al tema dei vitalizi e dell’andare alla
Camera in autobus: quindi pericolosamente semplificatorio) appare “elastica e
ondeggiante”, dal momento che “talvolta essa sembra sinonimo di classe media,
altre volte è impiegata per indicare l’insieme delle classi possidenti, altre
volte ancora fa riferimento alla “parte colta” della società o, più
restrittivamente, al “personale politico” inteso come ceto parlamentare dello
Stato”.
Per
ovviare a questi inconvenienti e per ancorare la teoria delle élite alla
metodologia marxiana e alla teoria delle classi, Gramsci, che pure utilizza in
diverse occasioni il termine élite, propone di distinguere tra classe dirigente
e classe dominante. Ed è su questo punto che i due soggetti emergenti
nell’Italia del 2018 rischiano un punto di deleteria confusione (deleteria
almeno dal punto di vista dei loro progetti): il PD sotto quest’aspetto aveva
ben scelto schierandosi nettamente dalla parte della classe dominante, anzi
proponendosi come facilitatore nel sostegno delle logiche di dominio della
stessa classe egemone almeno dal punto di vista della detenzione della
ricchezza e del potere di indicare nominativamente quella che insistentemente
si era auto definita come “classe dirigente”.
È l’intreccio tra “forza”
e “consenso” che appare il punto debole della logica, sicuramente populista in
termini classici, che ha portato Lega e M5S fino a realizzare il loro confronto
sul tema del potere.
Premesso
quindi che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come
“dominio” e come “direzione intellettuale e morale” Gramsci propone di chiamare
classe dirigente quel gruppo che s’impone attraverso il consenso, ovvero
esercita l’egemonia sugli altri gruppi sociali. Viceversa è classe dominante
quel gruppo che s’impone esclusivamente con la forza, con cui tende a liquidare
o a sottomettere i propri avversari ( forza che si può esercitare anche
attraverso forzature costituzionali e non necessariamente attraverso la
violenza). Una classe può essere dominante e non dirigente oppure dirigente e
non dominante. Per Gramsci una classe politica può essere veramente tale se
riesce a stabilire un corretto equilibrio nell’esercizio dell’egemonia: ed è
questo un tema di grandissima attualità che sarebbe bene sottolineare con forza
davanti all’opinione pubblica (non basta il 32% per sentirsi investiti
direttamente dal “popolo” al destino di un esclusivo dominio). Può così
verificarsi facilmente lo “scivolamento in avanti” di una classe che intende
essere dominante e non dirigente verso forme che sono state definite “fascismo
senza dittatura” o “salazarismo soft” (come cercò di fare il governo Monti
/Napolitano imponendo soluzioni
unilateralmente drastiche proprio sul piano della materialità della vita
quotidiana di larghi strati di popolazione pur non disponendo di alcuna forma
di legittimazione popolare).
Il
tema della costruzione delle élite è quindi strettamente connesso al tema
dell’egemonia come conferma anche lo stesso teorico del “governo” Robert Dahl
(1958) allorquando indica che: ” l’élite deve costituire un gruppo ben
definito; le opinioni di questa élite debbono essere in contrasto con quelle di
ogni altro possibile gruppo analogo; in tali casi, implicanti questioni
politiche fondamentali le scelte dell’élite prevalgono regolarmente”.
È proprio l’ultima
affermazione che ci riporta all’attualità perché è proprio l’assenza di
capacità nell’individuare le questioni politiche fondamentali che impedisce la
formazione stessa delle élite (mancando il presupposto indispensabile del
“gruppo”) e di conseguenza la possibilità di far prevalere una tesi sull’altra
proprio per l’assenza di definizione precisa dei termini di alternatività tra
le tesi stesse.
Il
tema del “reddito di cittadinanza”, indefinito per natura, è proprio quello più
indicativo circa la difficoltà nel costruirvi attorno un confronto reale tra
élite governante e soggetti sociali di riferimento.
Gli
assunti di paradigma sui quali può poggiare il rinnovamento di una ricerca
attorno alla costruzione di un’élite possono essere così definiti:
1)la politica è lotta per
la preminenza e il potere va concepito come “sostanza” e non come “relazione”;
2)è necessario avere
ben presente la distinzione tra potere
reale e potere apparente; la lotta per il potere e l’attività politica in
generale è fatto “minoritario” nella società;
3)la conquista, il
mantenimento, la gestione del potere corrispondono alla capacità di
coordinazione dei gruppi politici;
4)la società è una realtà
irrimediabilmente eterogenea, gerarchica e conflittuale che non può essere
raccolta e compresa nella genericità di indistinte (nel riferimento sociale)
parole d’ordine.
Ci si deve, invece,
soffermare sul ruolo che le idee, i miti e le dottrine assumono nel processo di
legittimazione dell’autorità (a proposito, per esempio, della mistificante
dottrina della “fine delle ideologie” propagandata fin dagli anni’80 dai gruppi
conservatori statunitensi e britannici). In definitiva, il tratto essenziale
della struttura di ogni società consiste nell’organizzazione dei rapporti che
intercorrono tra governanti e governati, tra minoranza organizzata e
maggioranza disorganizzata e nelle relazioni che si stabiliscono tra i diversi
gruppi che detengono ed esercitano il potere: con buona pace di chi pensa come
realistiche proposizioni quali quelle della “democrazia diretta” e della
“democrazia del pubblico” mediate attraverso o le grandi adunate di massa o
l’uso esaustivo del web in una compulsazione frenetica delle opinioni cui
adeguare la logica di governo. È su questo punto che
appare particolarmente debole l’impostazione sulla quale sembra poggiarsi il
M5S: la “democrazia diretta” in particolare agita pressoché esclusivamente
attraverso il web potrà risultare utile per una raccolta immediata di consenso
ma non consentirà la costruzione di una vera e propria élite dirigente in grado
di proporre egemonia.
Sono
questi gli elementi che debbono essere sottoposti alla riflessione politica
nell’attualità del disfacimento del sistema cui stiamo assistendo: una
riflessione da portare avanti attraverso un lavoro di studio che punti, proprio
per citare nuovamente Gramsci, alla riunificazione tra teoria e prassi con
un’ipotesi complessiva di trasformazione sociale collegata a un’élite
ricostruita nell’interezza della sua identità di gruppo.
Naturalmente
molte questioni sono state sottintese nell’elaborare questo intervento:
l’analisi delle diverse specie di élite presenti in una stessa società, il tema
delle relazioni tra le élite stesse e le masse, l’approfondimento circa i
meccanismi di legittimazione che debbono essere attuati nell’acquisizione,
nell’esercizio, nella detenzione e nel rovesciamento del potere. Si tratta di
punti essenziali da sottoporre, prima di tutto, a un non facile lavoro di vera
e propria “ricostruzione intellettuale”, quello al quale pensiamo ci si debba
dedicare con grande impegno in questa fase, senza dimenticare però l’attualità
drammatica dei fenomeni di vero e proprio arretramento di massa in corso sul
terreno delle condizioni di vita, del venir meno nella disponibilità di diritti
individuali e collettivi, nel restringimento dei termini di esercizio della
democrazia. Un lavoro di “ricostruzione intellettuale” sul quale dovrebbe
impegnarsi una sinistra legata alle soggettività apparentemente “dominate”
principiando dal rappresentarne i bisogni immediati, ma muovendosi subito
nell’idea di costruzione di un’alternativa fondata sulla riaggregazione di una
dimensione politica delle differenze sociali nel senso della formazione di un
blocco sociale: forse Gramsci avrebbe, a questo punto, usato il termine
“classe”.