Per Mario
Vegetti
di Fulvio Papi
Mario Vegetti |
È sempre molto difficile
trovare per un intellettuale di primo piano una definizione che sia, almeno
approssimativamente, adeguata. E questo accade pure nel caso del mio carissimo
amico perduto Mario Vegetti, ellenista di fama, filosofo per una fine
educazione intellettuale. Mario Vegetti avrebbe potuto essere compreso alla
luce dell’inattualità. Significato che non serve per nostalgie di altre epoche
costruite con una immaginazione perita, ma che vuole indicare solo lo stile di
uno studioso della cultura greca che ha saputo ereditare le virtù fondamentali
della modernità, abbandonando il superfluo, il manierato, l’esibizionismo, il
catastrofico, lo spettacolare, per valorizzare - al contrario - il lavoro
tenace e amato, la coerenza morale della propria vita, il necessario riserbo
critico della ricerca, i risultati storici controllati con un metodo in via
continua di perfezionamento: una figura pubblica costruita su questo sfondo. Né
va trascurata la sua sensibilità etica per le sorti collettive e sociali che
furono di un comunismo privo di compromessi, sino a una razionale saggezza che
era il modo per rispondere alle trasformazioni del mondo che invitano a
complesse dimensioni analitiche della conoscenza e a una figura completamente
trasformata della soggettività nella sua capacità potenziale.
Naturalmente
ci sono eccezioni, e anche pregi e ricerche che hanno trovato il loro spazio,
ma il mondo culturale della contemporaneità, nei suoi effetti più rilevanti,
sembra divaricato tra un uno specialissimo puntiglioso fine a se stesso - che
quindi studia i fenomeni della cultura come fossero raccolte di minerali - e,
al contrario, un costume dominante che desidera proseguire solo l’effetto del
consenso, il battimani pubblico con i vantaggi che ottiene l’abilità dello
spettacolo. “Taglia e incolla”, ho letto in una importante rivista. Le culture
hanno sempre avuto i loro luoghi dominanti, i poteri conformisti, le loro
pratiche condivise. Ci vuol poco a immaginare che cosa accade in uno spazio
dominato dal mercato e dalla comunicazione di superficie. Si diffonde una
innocente corruzione.
Mario
appartiene, all’ opposto, a quelle virtù della modernità che sono il rigore nel
proprio lavoro, il desiderio che esso sia comparato a un “meglio possibile”, a
un amore e a una dedizione a questi compiti, a una presenza sociale laddove
questo stile veniva apprezzato per i suoi risultati, e l’autore era un
personaggio pubblico stimato per quanto aveva saputo dare di se stesso.
Sembrano banalità, ma - al contrario - segnano uno spazio positivo che ha
salvato se stesso dalle tragedie, dai conflitti, le violenze, le imposture, i
ludi del Novecento e della sua crisi. Sapere conservare questo spazio nel mondo
attuale richiede una scelta di sé che diviene una spontanea e quasi
inconsapevole virtù. Mario era fatto proprio così, e la sua frequentazione era
un’offerta di senso che doveva avere qualcosa di simile…
Il
soggiorno al mare era la forma di riposo amata nel suo semplice privilegio,
come per Banfi, Cantoni, Paci, Fornari, Sereni, Fortini e (si parva…) io stesso. Mario era un poco più moderno e voleva vivere
il mare con una condivisione più intensa. Si era comperato una barca che non ho
mai visto, ma che mi è stata presentata all’Università in un modo sconcertante.
Mario mi disse: «d’ora in poi chiamami ammiraglio».
La
sua filosofia nasceva certamente in un ambito razionalista. Non l’ho mai
sentito discutere il mondo greco “alla Nietzsche” e secondo i suoi non
entusiasmanti epigoni toccati dall’onda verbale di Heidegger.
La sua tesi su Tucidide voleva mostrare, tra l’altro, il processo di
razionalizzazione della narrativa storica greca. Questa misura razionalistica
non lo lasciò mai, comunque fu il modo
sapiente attraverso cui Mario ampliò e perfezionò con successo il suo stesso
comprendere storico attraverso i nuovi strumenti che nascevano nella cultura
contemporanea: la complessa riflessione sul linguaggio, il patrimonio
semiologico, una sociologia capace di ascoltare il timbro vivente dei suoi
oggetti, una trasformazione della ricerca storica molto meno “categorizzante” e
sempre più prossima alle forme, alle istituzioni, alle consuetudini, agli stili
della vita quotidiana, alla distribuzione sociale dei poteri, alla diffusione
delle credenze. Era da questo panorama complesso che prendeva esistenza e forma
la parola filosofica.
Ho
sempre pensato quanto fosse difficile lavorare storicamente su un testo facendo
centro su tutte queste prospettive. Ne derivava un tessuto obiettivo e vivente,
quel tessuto che, in luoghi diversi, mantiene sempre la sua figura di senso ed
evita quelle interpretazioni che fanno solo una storia delle idee e non della
soggettività vivente che rende possibile trasferire il discorso in uno spazio
ideale, anch’esso vittima inevitabile del tempo, anche se, attraverso il tempo
stesso, poteva far giungere la sua voce, simile in questo alla trasformazione dei miti.
Mario Vegetti |
È
molto facile, sulla scorta di indiscutibili classici (Hegel, Husserl, se non
sbaglio Russell) sostenere che Platone segna la nascita della filosofia, ma più
arduo compito è indagare come nasce, attraverso quali processi, quali
domande, quali personaggi, attraverso quali saperi - dalla matematica alla
medicina - quali eredità, quali fini, quali conseguenze “scolastiche”, quali
appropriazioni o dispute politiche. Nel complesso una pluralità di “sentieri”
da percorrere e da coordinare. E questo era il pregio dello straordinario libro
di Mario di saggi platonici al termine della cui lettura veniva spontaneo
pensare che la filosofia fosse la modalità intellettuale che sapeva discorrere
su una pluralità di esperienze di una cultura ampia, complessa, anche
professionalizzata secondo un proposito di verità - non la verità, ma al fine
della verità.
Eppure,
come un’abitudine un poco perversa ma difficilmente ignorabile, anche quella sera
alla Casa della Cultura, quando si discuteva il libro di Mario, risorse la
domanda: ma quale è la filosofia di Platone? Come se esistesse il rapporto tra
un oggetto e una mente con un suo nome. Quando toccò a me rispondere feci il
nome di Natorp quale interprete più
attendibile. Mario mi rispose con un sorriso che voleva dire: «che altro ci si
poteva aspettare da te che in fondo non hai mai abbandonato il neo-kantismo di
Banfi». Certamente parlavo più della filosofia contemporanea che di Platone.
La
lettura della Repubblica nell’edizione
critica di Mario con la sua scuola, era, detta in breve, una lezione sui “come”
si debbano leggere le opere di filosofia, ciascuna nella sua differenza. E
quindi la Repubblica come un testo
dove appaiono dottrine, personaggi, stilemi letterari, momenti narrativi,
professioni, pregiudizi, potenze e tant’altro. Per non pochi è un avvertimento
contro l’effimera felicità della generalizzazione.
Sul
demos - spregevole per Platone - non c'è molto da discutere, ma sulla impresa
costruttiva della polis, ordinata
secondo una costituzione che impedisce il conflitti interni, c'è sempre il
solido e motivato giudizio dell’utopia. Ebbene, Mario ci portava a leggere con
attenzione per comprendere che Platone voleva dire che “per ora” il suo
progetto non era attuabile, ma forse un tempo…Devo dire che se il “forse” è
molto problematico: non provo una grande simpatia per autori come Popper (Mill
è un’altra cosa) che oppongono la libertà individuale delle democrazie allo statalismo
del filosofo greco. Mario non amava la democrazia liberale. E anch’io, visto
dove è finita la democrazia alla prova di un capitalismo mondiale e della
formazione di élite politiche impresentabili, ne
apprezzo solo il fatto che il privato si può difendere sia dal mercato che
dalla comunicazione. Fino a quando? A che prezzo? Qui si apre una voragine che
Mario aveva valutato positivamente in un mio breve e lontano studio. Preferisco
concludere dicendo che “il Vegetti” con la sua edizione della Repubblica ci ha regalato una dei più
preziosi gioielli della nostra biblioteca.
Mario
era comunista, com’era probabilmente suo destino poiché proveniva da una
famiglia nella quale il padre, negli anni Venti, fu uno dei primi militanti del
nuovo partito della sinistra, il fratello un valoroso partigiano, la sorella
(che Franco Fergnani mi presentò nel ‘50-‘51) godeva già di un prestigio personale
nel partito. A me, all’origine del nostro sempre felice rapporto, il suo stile
militante richiamava più il radicalismo bordighiano dei primi anni Venti,
piuttosto che la riflessione gramsciana che apprendevamo dalla prima e
scorretta (come sappiamo tutti) edizione di Einaudi. Ma di questi problemi in
realtà non ne abbiamo parlato mai. Forse la politica quotidiana copriva il tessuto
della vita. Mario sapeva della mia appartenenza socialista, anche se non è mai
stato attento alla sconfitta che nel ‘64 avevamo subito noi del gruppo dei “riformisti
rivoluzionari”, come qualcuno poi ci chiamò. Fummo sconfitti da una potente
coalizione (politici, potere industriale, apparati dello Stato), ma certamente
ne esageravo le proporzioni, e sono certo che già da allora il PCI non vi diede
gran peso nella sua visione storica.
Il
comunismo di Mario era una fede rigorosa, militante e identitaria, e ogni tanto
mi regalava qualche battuta ironica, ma priva di qualsiasi animosità. In realtà
della condizione storica della nostra sinistra non parlavamo mai. Il perché
forse porterebbe lontano; vale di più dire che tra di noi c’era un silenzio
sotterraneo che comunque sottintendeva un “insieme”. Così avvenne al tempo
della contestazione studentesca, anche se Mario era molto più esposto, con una
positiva partecipazione politica che l’aveva allontanato dalla posizione del PCI
per assumere le posizioni più rigorosamente marxiste dei “radiati” del Manifesto.
Fu una linea e una elaborazione politica che segnò una considerazione della “verità”
marxista per molti anni. A me ora quell’esperienza fa venire in mente lo stile
del primo «Ordine nuovo», quello torinese del 1919: una rinascita. Nella
contestazione fummo insieme soprattutto per mantenere la conflittualità nell’interno
dell’Università senza interventi autoritari o polizieschi, contro qualche
imbecille che avrebbe desiderato applicando le “leggi vigenti” come se non si
trattasse di una complesso fenomeno sociale, ma di un episodio di comune
delinquenza. Tra noi c’era qualche differenza strategica, Mario più radicale,
io molto più prudente. Il fatto era che “il Vegetti” ci metteva l’animo di un
comunista rivolto alla speranza, io quella di un riformista sconfitto che
rifletteva sulle ragioni della disfatta. Altri tempi, altre passioni.
Quale
qualità d’anni passò da allora ad adesso (quasi mezzo secolo!) in qualche modo è
noto. Mario però la sua partita con il senso della vita la vinse del tutto. Ampliando
la sua ricerca, con lo stile che ha cercato di ricordare, divenne un maestro
della cultura ellenistica che varcava le nostre frontiere: era il suo modo di
mantenere la sua intransigente virtù dell’inattuale. Non ho mai sentito un suo discorso
che varcasse quella soglia: “plebeo” era un aggettivo suo che segnava un altro
confine, dove trionfavano gli eccessi ludici, le falsificazioni culturali i
narcisismi sfrenati, gli individualismi ottusi. Personalmente era l’interlocutore
cui forse tenevo di più, proprio perché sapevo che avrebbe condiviso il mio
fare filosofico, anche se molto meno i soggetti della “crisi” con i quali dialogavo.
Sarà così. Ma per il tempo che resta Mario è rimasto con me, con noi. «Non
essere noioso, Fulvio».