di Franco Astengo
“Il valore complessivamente prodotto dalla
forza-lavoro è la forza lavoro stessa”.
Le vicende riguardanti la
Piaggio a Villanova e a Sestri Ponente stanno segnando la pagina conclusiva di
un lungo processo di dismissione dell’industria nella provincia di Savona e più
in generale in Liguria.
Si
sta cancellando definitivamente uno dei lati del “triangolo industriale”.
Quel
“triangolo industriale” tracciato tra Torino, Milano e Genova all’interno del
cui perimetro si erano sviluppate le più importanti capacità tecnologiche e
organizzativa nel corso della rivoluzione industriale in Italia e
successivamente nel periodo della ricostruzione dalla tragedia bellica e ancora
nella costruzione del “miracolo economico”.
Nel
tempo si è verificata una mutazione profonda nella vita quotidiana, nel modo di
pensare, in una composizione sociale nella quale ormai prevalgono elementi di
conservazione e - addirittura - di” grettezza dell’isolamento”, di sconsolato e
sconsolante individualismo. È inutile contrabbandare
la trasformazione delle grandi città che fanno parte di quest’angolo del Paese
vantandone doti turistiche, commerciali e quant’altro: i segni del declino sono
evidenti, forse nemmeno sufficientemente emblematizzati dalla caduta del ponte
sulla via d’accesso alla grande Genova.
Scriviamo
di fenomeni che risalgono a decenni passati, questo declino non nasce certo da
oggi.
Ci
si può interrogare sulle origini.
Sotto
quest’aspetto un solo punto posto in relazione alla frase iniziale.
Si
può essere convinti che l’arretramento della presenza industriale almeno in
Liguria sia avvenuta per il dispregio che le classi dominanti hanno avuto per
la “forza del lavoro”.
Classi
dominanti che hanno amato e amano il denaro, ma hanno storicamente disprezzato
chi ha prodotto la loro ricchezza. Classi dominanti che hanno sempre preteso di
spezzare questa presenza della” forza del lavoro” perché la sua orgogliosa
compattezza, non solo politica ma anche rispetto alle proprie qualità proprio
come produzione di beni, metteva in discussione - appunto - il loro dominio e
la loro smania di accumulazione non solo di denaro ma anche (e forse
soprattutto) di potere.
Grandi
responsabilità toccano anche a coloro che hanno deciso, a un certo punto, di
alienare i soggetti che rappresentavano politicamente quella “forza del lavoro”
cedendo ai richiami di un’omologazione che è ancora possibile definire come
“borghese”. Naturalmente esistono tanti e complessi fattori da indagare per spiegare
quanto è avvenuto nel corso degli anni: la mancata innovazione tecnologica,
l’internazionalizzazione delle produzioni e dei mercati, l’obsolescenza di
determinati prodotti, il forte richiamo alle compatibilità ambientali come
fenomeno di più recente acquisizione di coscienza da parte dell’opinione
pubblica, la spinta verso la finanziarizzazione dell’economia, l’allargarsi a
nuove frontiere del quadro di riferimento delle contraddizioni sociali. Tutti
elementi analizzati, spiegati, riproposti in tante occasioni ma che non
colgono, pur nella loro complessità, il punto di fondo: quello dell’espressione
da parte dei padroni del dispregio del lavoro e di chi, materialmente il lavoro
lo sostiene con la propria fatica quotidiana. È
stata questa la ragione di fondo, la motivazione arcaica, che i padroni hanno
sostenuto per far sì che la Liguria sparisse nella sua essenza sociale così
come questa si era dimostrata nel corso degli ultimi 150 anni. Nascono da
questo vero e proprio dispregio la speculazione finanziaria, lo scambio
politico, la separatezza quasi come incomunicabilità tra le classi sociali, la
cui divisione non è mai stata così netta come in queste condizioni di vero e
proprio deserto assieme economico, culturale, politico, sociale.
Si
è così arrivati all’esplosione di una filosofia politica che nega totalmente
soltanto l’idea della “forza del lavoro” non solo la comprime, ma cerca di
stroncarla. L’obiettivo è quello di sciogliere il nodo tra “forza del lavoro” e
“condizione di classe” per convincerci definitivamente che “siamo tutti sulla
stessa barca” e vale la pena adagiarci sulla “decrescita felice” aggiustandoci
con il reddito di cittadinanza e i “lavoretti”.
Bisognerebbe
fare in modo che non ci riuscissero: ma per contrastarli serve idea del futuro
e organizzazione, elementi non facili da trovare in questa società disossata e
ripiegata sul singolo.