di Franco Astengo
L. Di Maio in una elaborazione grafica di Giuseppe Denti |
Non è vero quello che
scrive oggi Giovanni Belardelli in un commento apparso sul “Corriere della
Sera”: “Rappresentanza in crisi. La classe dirigente tende sempre più a seguire
passivamente le opinioni della maggioranza (forse soltanto quelle di chi urla
di più).”.
Intendiamoci
bene: non c’è nessuna maggioranza che urla, bensì un esercizio anche piuttosto
rozzo ma favorito dalle circostanze storiche dell’autonomia del politico estesa
fino a non contemplare più il meccanismo di adesione o di rifiuto da parte del
pubblico.
Tutto
questo avviene in tempi di sbandierata “democrazia diretta”, del resto
principio mai disatteso come in questo momento. Anzi negato completamente
proprio da chi la sta proponendo. In realtà attorno alla vicenda, non ancora
conclusa, della manovra finanziaria abbiamo fin qui visto l’emergere di due
fenomeni:
1) La miglior
rappresentazione della “democrazia recitativa” da quando questa forma di agire
politico si è imposta sulla scena per il tramite dei fenomeni emersi nel corso
degli ultimi 30 anni: dalla fine cioè di quella che Scoppola aveva definito
“Repubblica dei Partiti”;
2) Ci troviamo di fronte
ad una vera e propria disarticolazione nelle espressioni sia di consenso, sia
di dissenso portate avanti da minoranze in un quadro di complessiva
passivizzazione sociale.
La
passivizzazione sociale, il presentarsi di un’enorme “zona grigia” pare
rappresentare il fenomeno saliente di questa fase: masse indistinte che
attendono provvedimenti calati dall’alto. Questo, ad esempio, il senso del
rapporto tra voto al Movimento 5 stelle e proposta del reddito di cittadinanza
che ha rappresentato la vera novità in atto trasformando addirittura in un
fenomeno di massa il “voto di scambio”.
Per
converso gli elementi di attivizzazione sociale hanno assunto appunto la
caratteristica di una reciproca disarticolazione tra il consenso e il dissenso,
senza assumere mai la dimensione di una iniziativa politica.
Ne
è prova di quest’affermazione la tipologia delle diverse manifestazioni
organizzate su vari fronti ma tutte destinate a una “single issue”, (“madamine” e NO TAV, artigiani, Confindustria, pro
migranti, anti migranti) nessuna in grado di esprimere una qualche ipotesi
d’interesse generale.
Fa
fede di questo stato di cose la totale assenza dall’agone del Sindacato.
La
maggiore delle tre sigle confederali- la CGIL - appare impegnata quasi
esclusivamente sul fronte delle proprie dinamiche interne al riguardo
dell’elezione del nuovo segretario generale. Il Sindacato, un tempo il soggetto
principalmente portatore di quell’interesse generale cui si è fatto cenno, è
stato presente alle cronache soltanto per iniziative riguardanti momenti di
sacrosanta difesa del posto di lavoro in diverse situazioni di difficoltà
evidenziatesi in tutto il Paese. A questo punto diventerebbe stucchevole
rimarcare l’assenza della soggettività politiche e sottolineare ancora come il
luogo del massimo di passivizzazione espressa sia stato il Parlamento. Anche in
questo caso, all’interno del Parlamento, la maggior forza di opposizione al
governo appare del tutto ripiegata nella ricerca di nuovi equilibri interni e
di conseguenza in una lotta che appare caratterizzata dalla pura dimensione del
potere fine a se stesso. Ci sarebbe da rispolverare un discorso riguardante
l’estensione delle contraddizioni sociali e la necessità di rivolgersi a esse
per il tramite di una capacità di sintesi e proposta politica, ma anche
muoversi in questa direzione apparirebbe anacronistico. Forse il nocciolo vero
della questione sociale e politica di questa fase è stato colto dal filosofo Maurizio
Iacono sulle colonne del “Tirreno”: si è scollato il rapporto fra conoscenza,
critica e politica”.
Insomma
è prioritario il nodo tanto evocato e mai affrontato della cultura politica che
non si esprime in un Paese in evidente crisi.