IL FRUTTO DELLE DISUGUAGLIANZE
di Franco Astengo
Questo è il sunto del
rapporto CENSIS sull’Italia 2018 reso pubblico oggi:
“Un'Italia
sempre più disgregata, impaurita, incattivita, impoverita, e anagraficamente
vecchia. Il 52° Rapporto Censis parla di "sovranismo psichico" e
delinea il ritratto di un Paese in declino, in cerca di sicurezze che non
trova, sempre più diviso tra un Sud che si spopola e un Centro-Nord che fa
sempre più fatica a mantenere le promesse in materia di lavoro, stabilità,
crescita, soprattutto futuro. "Il processo strutturale chiave dell'attuale
situazione è l'assenza di prospettive di crescita, individuali e
collettive", sintetizza il Censis”.
Quale
risposta, quale spiegazione?
Si
può accennare a un avvio di riflessione senza ritornare su di una, pur
necessaria, elaborazione riguardante la storia d’Italia (e d’Europa e del
Mondo) di questi ultimi vent’anni.
Secondo
i dati diffusi dall’Ocse alla fine del 2014, l’1% della popolazione italiana
possedeva il 14,3% della ricchezza nazionale, praticamente il triplo del 40%
più povero che ne possiede solo il 4,9%. Il 20% più ricco possedeva il 61,6% della ricchezza, dunque al restante
80% della società ne rimane solo il 38,4%.
Quale
significato si poteva attribuire a questi dati allora e ancora oggi con la
situazione ulteriormente aggravata come denuncia il rapporto del CENSIS? In
primo luogo quei dati significavano e significano che lo sfruttamento
capitalistico cresce continuamente e l’abisso tra la classe lavoratrice e
l’area sempre più ristretta delle élite economiche diviene sempre più profondo.
La legge generale dell’accumulazione capitalistica genera costantemente
concentrazione della ricchezza nelle mani di una minoranza sfruttatrice e
accrescimento della miseria, sia relativa sia assoluta, dei lavoratori che sono
la stragrande maggioranza della società. L’ampliamento del fossato fra le
classi è cresciuto senza soste e in questo fossato sono inghiottiti
un’articolazione di settori sociali dalla composizione complessa e si afferma
l’idea della disintermediazione da parte della rappresentanza sociale e della
rappresentanza politica.
Fino
a questo punto siamo alla classica fotografia dell’esistente, ma è necessario
scavare più a fondo e interrogarci su alcuni punti assolutamente fondamentali
per cercare di capire la realtà dentro la quale ci troviamo e trovare la
capacità e la forza di avanzare una proposta che prima di tutto è necessario si
collochi sul piano culturale. La crescita delle disuguaglianze, così vistosa ed
evidente, come si riflette sulla composizione e sulla stratificazione sociale?
Si tratta, prima di tutto, di capire come possa essere possibile ricostruire
una coscienza di questo stato di cose a livello di massa, in una società così
articolata e scomposta come l’attuale, in una sede di capitalismo avanzato. Una
società che si misura in maniera disordinata con “fratture” collocate ben
diversamente da quelle tradizionali, attorno alle quali si erano mossi i
partiti politici al momento dei successivi cicli di rivoluzione industriale tra
‘800 e ‘900.
Serve
forse, sul piano teorico, uno sforzo pari a quello che fu compiuto negli
anni’60 con la lettura critica del secondo libro de Il Capitale di Marx,
consentendo un’elaborazione più avanzata da quella derivante dall’analisi del
solo libro primo della stessa opera. È
necessario riflettere, infatti, sull’esigenza di ripartire non semplicemente
dal solo antagonismo sociale, ma da una ricostruzione di forma teorica che
contempli una proposta di egemonia per una visione di alternativa nella società
e nella politica.
Ci
troviamo in una fase di arretramento storico e d’isolamento dell’autonomia del
politico: una fase sulla quale pesa ancora l’esito fallimentare dei tentativi
d’inveramento statuale dei fraintendimenti marxiani del ‘900 e la realtà di una
pesantissima controffensiva reazionaria vincente fin dagli anni’80 del XX
secolo e che oggi, secondo analisi elaborate all’interno degli stessi ambienti
della politologia americana, punta a una secca riduzione del rapporto tra
politica e società in senso schiettamente autoritario facendo prevalere la
cosiddetta “democrazia esecutiva” su quella cosiddetta “deliberativa”.
Una
“democrazia esecutiva” che assume la maschera e il volto di una desolante
“democrazia recitativa” del tipo di quella delle cui pantomime assistiamo da
molto tempo in Italia.
L’applicazione
concreta, insomma, del programma elaborato da Huntington nel 1973 per la
Trilateral che, rispetto al “caso italiano”, ha avuto ampio riflesso nel
documento di Rinascita Nazionale elaborato nel 1975 dalla P2 e oggi in fase di
avanzata realizzazione. La sola risposta possibile, per quanto possa apparire
difficile da realizzare in questo momento di vero e proprio “vuoto del pensiero
politico”, com’è dimostrato molto bene dalla nuova qualità di governo emersa
dal voto del 4 marzo scorso, è quella di un’espressione di soggettività che
recuperi e riprenda un piano di cultura politica che non lascia alla sola
spontaneità della reazione sociale il compito del contrasto, limitandosi ad
agire nelle pieghe di una relazione marginale al riguardo del sistema. È necessario che il terreno del conflitto sia
occupato a pieno titolo dalla visione del cambiamento e dall’organizzazione
operativa nell’immediato partendo dalla piena comprensione dell’estensione
piena delle contraddizioni su di una società che ha bisogno di contrastare
collettivamente il durissimo attacco cui è sottoposta nelle sue fondamenta di
convivenza civile.