di Franco Astengo
In un momento di grande
smarrimento generale sul piano etico, culturale e politico può valer la pena
cercare di suscitare attenzione verso il settantesimo anniversario della
Dichiarazione Universale dei diritti umani adottata dalle Nazioni Unite il 10
dicembre 1948. In questi giorni si sono moltiplicate le celebrazioni e gli
interventi su questo tema ma pare essere stato posto in secondo piano il senso
critico con il quale ci si dovrebbe confrontare con questa ricorrenza notando
che:
1) Appare in sicuro
ribasso (proprio per dirla con un eufemismo) proprio il ruolo delle Nazioni
Unite, ormai ridotte a pallida comparsa in una fase in cui le idee
universalistiche appaiono dimenticate e si sta ricomponendo con violenza il
primato della geopolitica con tutti i rischi che ben si possono prevedere e
ricordando come la guerra sia rimasta comunque presente ininterrottamente sulla
scena della storia ;
2) Si rileva una evidente
discrasia tra alcune delle proposizioni che sono espresse nella dichiarazione e
la mancata applicazione di norme adeguate sul piano legislativo nei vari Paesi
. Non pensiamo soltanto a quelli giudicati come governati da regimi illiberali
senza dimenticare che siamo giunti al punto di teorizzare la “democrazia
illiberale”. Non solo gli USA stanno
tenendo atteggiamenti ostili, ma anche Cina e Russia, alcuni membri
dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, l’Arabia Saudita, alcuni
paesi dell’Unione africana e nell’Unione Europea a Polonia, Austria, Ungheria
si sta aggiungendo anche l’Italia dopo l’approvazione della cosiddetta “legge
sicurezza”. Nel nostro Paese si è anche riaperto, in negativo, il dibattito sul
reato di tortura la cui regolamentazione legislativa era arrivata a compimento
soltanto nel 2017. L’Italia, ricordiamolo è anche il paese di Genova G8 2001;
3) Emergono, nel quadro
generale, le limitazioni nel campo delle libertà pubbliche dalle norme
antiterrorismo e il totale mancato rispetto dei diritti dei migranti;
4) Si mantengono ancora in
quasi tutti i campi evidenti disparità nel rapporto tra donna e uomo nonostante
che il preambolo della dichiarazione sancisca definitivamente l’uguaglianza tra
i sessi.
5) A questo va aggiunto
che l’incipiente crescita economica nei cosiddetti paesi del terzo mondo ha
dissodato le società contadine portando a 244 milioni i migranti internazionali
nel 2018. Il 3,3% della popolazione mondiale risiede in un paese diverso da
quello in cui è nata, per la maggior parte priva dei diritti elementari.
Tornando alla Dichiarazione appaiono di
particolare interesse gli articoli dal 4 al 21, dedicati ai diritti civili e
politici, divieto della schiavitù (vedi migranti raccoglitori nel Sud Italia ad
esempio), della tortura (caso Cucchi), di ogni trattamento inumano e degradante
(Abu Grahib, Guantanamo), diritto di ciascuno ad avere una personalità
giuridica e una cittadinanza, a non essere detenuto arbitrariamente (Cile,
Argentina, Grecia, Turchia, Spagna come esempi nel corso del tempo), a un processo
equo davanti a un tribunale indipendente e imparziale.
Questa
parte della dichiarazione stabilisce anche il diritto di cercare asilo fuori
dal proprio Paese: l’Italia recepì questo punto attraverso l’articolo 10 della
Costituzione, oggi violato dal già citato “decreto sicurezza”.
Gli
articoli dal 22 al 27 sono dedicati, invece, ai diritti economici, sociali e
culturali: se pensiamo, sotto quest’aspetto, alle condizioni materiali di vita
e di lavoro nella quale versa la maggior parte della popolazione mondiale non
possiamo che constatare il clamoroso fallimento della Dichiarazione.
Soprattutto
però sono mancati i due presupposti fondamentali per poter sviluppare una
strategia di adempimento del quadro di diritti enunciato nella Dichiarazione:
1) Il primo punto si
colloca attorno al tema dell’uguaglianza posto sul piano delle dinamiche
economico- sociali. Se si scindono le due questioni, dei diritti e
dell’eguaglianza, si rischia di cadere, come spesso accade, in un’astrattezza
indeterminata che finisce con il giustificare il perpetuarsi dell’ingiustizia e
dello sfruttamento.
2) Il tema della guerra è
rimasto all’ordine del giorno dell’agenda internazionale nel corso di questi
anni e adesso si presente come punto dirimenti di una situazione quanto mai
delicata a livello planetario. La spesa militare mondiale nel 2017 ha raggiunto
il nuovo record di 1.739 miliardi di dollari, il 2,3% del PIL mondiale. Le
grandi potenze sono in prima fila a mostrare i muscoli con parate e proclami
che vent’anni fa sarebbero sembrati parte di un romanzo su di un futuro
distopico. In questo 2018 la Russia ha schierato 300.000 uomini in una
esercitazione militare che è risultata la più imponente dal 1981,dai tempi cioè
della “dottrina Breznev”, ed era l’URSS. XI Jinping chiede alle forze armate
cinesi di “essere in grado di vincere qualsiasi guerra”. Attraverso la PESCO
l’Unione Europea chiede di “aumentare periodicamente e in termini reali i
bilanci per la difesa”. Gli USA stanno ragionando su testate nucleari a basso
potenziale: un’arma della potenza pari alla metà di quella sganciata su Nagasaki
che fece 70 mila morti. Non tira proprio una bella aria, insomma, se la prima
economia del mondo s’interroga sul come dotarsi di un’arma “estrema ma
credibile” com’è stato definito un ordigno capace da solo di massacrare 35.000
persone.
E’
quello della guerra il vero nodo scorsoio al quale è impiccata qualsiasi
possibilità di strategia dei diritti. In
conclusione l’elenco dei teatri di guerra presenti nel pianeta:
(Aggiornato
dall’autore rispetto a quello pubblicato da warnews.it e da hiik.de)
Aceh
Aceh
è una provincia autonoma dell'Indonesia, situata nell'estremità settentrionale
dell'isola di Sumatra. Dal 1976 è teatro di una guerra tra i ribelli del
Movimento Aceh Libero (GAM) e l'esercito indonesiano. I morti, secondo le fonti
più accreditate, sono almeno 12mila ma altre fonti parlano di 50mila, o
addirittura 90mila.
Afghanistan
Osama
Bin Laden è stato giudicato il responsabile degli attentati dell'11 settembre
2001 contro le Twin Towers e il Pentagono. La reazione degli USA e dei loro
alleati è stata di abbattere il regime del Mullah Omar e dei Talebani, accusati
di nascondere Bin Laden. Nonostante la morte del leader talebano, il conflitto
procede da 17 anni, e i morti sono più di 110.000, la maggior parte dei quali
civili. A oggi metà della popolazione afghana vive sotto il controllo dei
talebani oppure in un’area contesa al governo di Kabul dagli estremisti
islamici. Gli stessi americani ammettono che l’espansione territoriale dei
talebani è la più estesa dal 2001, quando l’Emirato islamico crollò sotto i
bombardamenti Usa dopo l’11 settembre
Algeria
Intorno
alla seconda metà degli anni '90 sanguinose stragi commesse dagli estremisti
islamici, si contrapponevano a violente controffensive da parte dell'esercito
governativo. Dopo 100.000 morti (150.000 secondo bilanci indipendenti) la
guerra non è ancora conclusa, sebbene attualmente stia attraversando una fase
di relativa tranquillità.
Birmania
Nella
Birmania di Aung San Suu Kyi non sono perseguitati solo i musulmani Rohingya.
Kachin e Karen, infatti, subiscono violenze da decenni dalle truppe di Rangoon.
Una violazione continua dei diritti umani già confermata dall'Onu. E che ha
provocato mezzo milione di sfollati interni. L’attenzione mediatica è ferma
sulla delicata questione dei Rohingya, la minoranza musulmana che, secondo le
Nazioni Unite, sarebbe la popolazione più perseguitata al mondo. Uomini e donne
costrette a scappare dalla loro terra a causa delle violenze dell’esercito
regolare e dei radicali buddisti. Ma in Birmania – ribattezzata Myanmar dalla
giunta militare nel 1989 – si consumano altri genocidi, meno pubblicizzati,
quelli contro le diverse etnie che compongono il complesso mosaico del Paese.
In particolare contro i popoli Kachin e Karen, perseguitati da decenni dalle
truppe di Rangoon.
Burundi
L'ultimo
decennio di guerra tra le due maggiori componenti etniche del Burundi, i Tutsi
e gli Hutu, iniziato nel 1993, ha provocato almeno 300.000 morti e un milione
di sfollati. Dopo un'interruzione nel 2004, sono ricominciate le guerre civili
etniche.
Colombia
Da
quasi quarant'anni la Colombia è sconvolta da una sanguinosa guerra civile tra
governo, paramilitari e gruppi ribelli di estrema sinistra. All'origine di
questo conflitto (300.000 morti) vi è un’enorme disparità sociale tra classi dirigenti
e popolazione.
Congo R.D.
Una
"Guerra Mondiale Africana", com’è stata definita, che vede
combattersi sul territorio congolese gli eserciti regolari di ben sei Paesi per
una ragione molto semplice: il controllo dei ricchi giacimenti di diamanti, oro
e coltan del Congo orientale. Almeno 350mila le vittime dirette di questo
conflitto, 2 milioni e mezzo contando anche i morti per carestie e malattie
causate dal conflitto.
Costa d'Avorio
La
Costa d'Avorio, ex colonia francese, conquistò l'indipendenza il 7 agosto 1960
e il 27 novembre dello stesso anno venne eletto presidente Felix
Huophouet-Boigny, che governò lo stato africano per sette mandati consecutivi
rimanendo in carica sino alla sua morte nel dicembre 1993. Dopo un decennio di
guerra civile nel 2003 sono stati firmati accordi di pace, ma la situazione è
rimasta instabile, nonostante le prime elezioni libere del 2010.
Egitto
Nella
penisola del Sinai, da alcuni anni a questa parte il governo egiziano si è
spesso scontrato con gruppi di fondamentalisti islamici armati.
Eritrea -Etiopia
Dopo
una guerra trentennale (1962-1991), l’Eritrea ottiene finalmente la propria
indipendenza dall’Etiopia nel 1993. Senza però stabilire confini chiari e
definitivi. Dopo un rapido deterioramento dei rapporti tra i due Paesi, nel
1998 le truppe di Asmara decidono di varcare il confine, dando inizio a una
guerra a tutto campo (1998-2000). Dopo 2 anni di conflitto e decine di migliaia
di vittime (più di 70.000), Etiopia ed Eritrea cessano le ostilità e si
affidano all’Onu firmando finalmente il 17 settembre scorso a Gedda un accordo
di pace del quale andrà verificata l’applicazione.
Filippine
Dal
1971 i musulmani di Mindanao hanno iniziato una lotta armata per l'indipendenza
dell'isola. La guerra tra l'esercito di Manila e i militanti del Fronte di
Liberazione Islamico dei Moro (MILF) ha causato fino ad oggi 150mila morti.
Yemen
La
situazione politica dello Yemen, attualmente il Paese più povero del mondo, è
molto complessa. Da una parte, vi è un conflitto tra i ribelli sciiti Houthi e
il governo di Abed Rabbo Mansour Hadi, appoggiato dall’Occidente. Ciò ha
prodotto l'intervento nel Paese dell'Arabia Saudita (sunnita) che una vittoria
dei ribelli possa portare a un rafforzamento della minoranza sciita nel
territorio saudita. Vi è poi un secondo conflitto, quello tra i terroristi di
al-Quaeda, che nello Yemen hanno la cellula più potente (AQAP), e il governo
yemenita, sostenuto dagli Stati Uniti.
Israele -Palestina
Un
lungo conflitto, che affonda le sue radici nel dopoguerra, il 14 maggio del
1948, quando Ben Gurion dichiarò l'indipendenza di Israele, dopo la decisione
delle Nazioni Unite di dividere la Palestina di uno Stato arabo e in uno Stato
ebraico. Dopo oltre mezzo secolo di guerre e di patti storici, di atti
terroristici e di speranze di pace andate in fumo, il sogno di "due popoli
due Stati" resta purtroppo ancora un'utopia.
Libia
Nel
2014 è scoppiata una seconda guerra civile tra due coalizioni. Poco dopo è
intervenuto anche lo Stato Islamico, con la conquista di Sirte. I morti sono
più di tremila, e la guerra civile non sembra fermarsi nonostante tentativi di
pacificazione falliti come quello recente verificatosi nella conferenza di
Palermo.
Kashmir
La
rivolta del Kashmir, ancora in pieno svolgimento nonostante le incoraggianti
iniziative di pace, è iniziata nel 1989 ed ha sempre rappresentato una guerra
per procura tra i due colossi asiatici Pakistan e India (che dispongono anche
di testate atomiche).
Kurdistan
È
più di mezzo secolo che i Curdi distribuiti tra Turchia, Iraq e Iran auspicano
la nascita di uno stato curdo. Nemmeno l’arresto di Ocalan, leader del PKK
Partito dei lavoratori curdi fondato nel 1973 su forte ispirazione marxista, ha
interrotto i conflitti ulteriormente aggravati dal conflitto in Iraq.
Nepal
I
guerriglieri maoisti del Nepal sono in lotta contro la monarchia costituzionale
del re Gyanendra (creduto l’incarnazione del dio Visnhu) dal 1996. 8000 le
vittime in tutto l’arco del conflitto. Scontri a fuoco, rapimenti, attentati ed
estorsioni avvengono quotidianamente.
Nigeria
La
Nigeria è divisa in oltre 250 gruppi etnici -linguistici diversi. Le religioni
principali sono il Cattolicesimo e l'Islam, ma anche molte religioni
tradizionali dell'Africa. Queste differenze religiose sono alla base dei
conflitti sviluppatisi in questo paese. Negli ultimi anni le violenze più
grandi provengono dal gruppo terroristico Boko Haram.
Repubblica Centrafricana
Dal
25 ottobre 2002 la Repubblica Centrafricana è stata dilaniata da una guerra
civile che oppone i ribelli di François Bozizé, ex- capo delle forze armate, al
presidente Félix Patassé, morto nel 2011.
La
guerra civile continua anche dopo la morte del leader.
Siria
Dal
2011 la Siria è dilaniata da una guerra civile, iniziata con l'obiettivo di
ottenere le dimissioni del presidente Bashar al-Assad. A questo conflitto si è
aggiunta la presenza e l'attività dello Stato Islamico. Secondo alcune stime, i
morti finora sarebbero più di 300.000.
Somalia
Dopo
l'uscita di scena del presidente Siad Barre nel 1991, è iniziata una
violentissima guerra di potere tra i vari clan del Paese, guidati dai
cosiddetti "signori della guerra”. Una spirale di violenze che, fino ad
oggi, ha provocato quasi mezzo milione di morti
Sudan
La
guerra civile in Sudan è in corso ormai da 20 anni. Nel Darfur, un'area grande
quasi due volte l'Italia, è in corso un violentissimo conflitto fra gruppi
armati locali e milizie filo-governative. Secondo l'Organizzazione Mondiale
della Sanità dal marzo 2003 sono morte circa 70.000 persone. Attualmente nel
Darfur muoiono circa 10.000 persone il mese.
Sud – Sudan
Nel
suo rapporto del 7 dicembre scorso, Amnesty International ha espresso
preoccupazione per l’escalation delle esecuzioni capitali nel Sud Sudan, il più
giovane Stato della Terra. Secondo la ONG con base a Londra, nel 2018 sarebbero
state giustiziate un maggior numero di persone da quando il Paese ha ottenuto
l’indipendenza nel 2011.
Dall’indipendenza
i tribunali sud sudanesi avrebbero emesso almeno centoquaranta sentenze
capitali, trentadue delle quali sarebbero già state eseguite. Nel 2018 sono già
state giustiziate sette persone, tra loro anche un minore. Centotrentacinque
persone, detenute nel braccio della morte, sono state trasferite recentemente
in altre due prigioni, tristemente note perché eseguono materialmente la pena
di morte.
Altri
trecentoquarantadue prigionieri si troverebbero attualmente nel braccio della
morte, tra loro anche una mamma con un bimbo piccolo e un minore
Uganda
Una
guerra civile che prosegue da più di 20 anni e che ha provocato una grave crisi
economica. L'LRA è la forza ribelle che terrorizza le province del nord
dell'Uganda fin dal 1987, abitate dagli Acholi, ai confini con il Sudan. Ed è
proprio in Sudan che gli Olum ("erba" così vengono chiamati in lingua
Acholi) hanno le loro basi e da lì partono molti dei loro attacchi.
Ucraina
Dal
2014 la situazione ucraina è sempre più complicata, a causa di una rivoluzione
violenta che vede contrapposti alcuni gruppi separatisti al governo. La Russia
è uno degli attori principali del
conflitto.