FARE L’INDIANO
Pensieri forse oziosi e forse no
Su di un detto popolare di grande attualità
di Paolo Maria Di Stefano
“Fare l’indiano”
“Ce l’ho”
Ricordo di una
scenetta impostata su di un personaggio che coltivava l’hobby della collezione
di proverbi e dei modi di dire.
Quasi la
preistoria del cabaret. Almeno credo.
I vecchi
adagi e i detti della tradizione popolare, riconosciuti come “pillole di
saggezza” da non dimenticare, hanno da sempre significati alcune volte
assolutamente chiari, altre volte accettati in modo acritico e citati senza
essere compresi a fondo, quasi una voce dell’istinto.
Vi è mai
capitato di capire d’improvviso, quando meno ce lo saremmo aspettato, il
significato recondito di una parola, di una espressione, di un detto popolare?
A me sì.
“Non tutto il male viene per nuocere” è
un esempio. Non si tratta di una mera manifestazione di ottimismo, quasi
espressione consolatoria e d’un’ombra di speranza. Significa qualcosa di molto
più concreto: un invito a guardare a fondo il fenomeno per scoprirne i lati
positivi che in qualche modo illuminano quelli giudicati negativi e per qualche
ragione evidenziati dalle circostanze di tempo, di luogo, di ambiente.
E allora, la
vicenda dei nostri due militari ostaggi in India di una giustizia al confronto
della quale la nostra appare fulminea ha, intanto, proprio il vantaggio di
dimensionare le critiche di cui da più parti gli italiani fanno oggetto il
nostro sistema giudiziario e l’attività dei nostri giudici.
Che è
tutt’altro che un male, dal momento che ogni critica, ogni giudizio emesso
sull’onda dell’immediato sono probabilmente dimensionati in modo scorretto, per
difetto o per eccesso.
E chi ci può
assicurare che il comportamento dei magistrati indiani non sia (anche) un modo
per comunicare l’invito ad esaminare meglio la situazione, ad approfondirne
ogni aspetto in modo tale da consentire alla giustizia di svolgere il compito
che le è proprio?
Con qualcosa
in più. Gli indiani rivolgono questa esortazione innanzitutto a se stessi,
anche in forza di un altro vecchio adagio, “presto
e bene raro avviene”, quando si tratta di assumere decisioni importanti,
quali quella di individuare correttamente la materia e quindi la o le norme che
ad essa si possono o si devono applicare. In questo caso, è bene non aver
fretta. Meglio pensare e ripensare e costruire quella certezza che, proprio
perché “certa”, ridurrà al minimo le probabilità di errore.
E Giustizia –
quella con la “G” maiuscola – sarà fatta.
D’altra
parte, non è forse vero che “la libertà è
una questione di limiti”? E dunque,
che senso hanno le critiche di coloro che sembrano stigmatizzare il
comportamento di uno Stato che tiene prigionieri due militari, quando si pensi
che la limitazione oggi imposta alla loro libertà è nulla di fronte alla
possibilità di un ergastolo o, addirittura, della pena di morte?
Che sono,
entrambi, limiti ben più pesanti.
Foto di Paolo Maria Di Stefano |
Dice: ma
mentre per l’ergastolo un rimedio è sempre ipotizzabile, la morte non ha vie di
uscita.
Balle. E la
reincarnazione, allora?
La morte è
simile ad una condanna a termine da scontare altrove, con un effetto non
trascurabile: il colpevole si reincarnerà in un essere inferiore; l’innocente,
in uno superiore.
E ancora una
volta Giustizia – quella con la “G” maiuscola - sarà fatta. Per di più, con
l’intervento diretto di Dio.
In pratica:
se colpevoli e condannati a morte, i militari italiani rinasceranno nella casta
– se va male- dei “paria”, dei servi; se va bene, in quella dei cittadini
liberi. Se innocenti, le probabilità di rinascere come facenti parte della
casta dei guerrieri o addirittura dei bramini non sono assolutamente
trascurabili.
Corollario:
ma siamo proprio sicuri che i giudici indiani non vogliano condannare a morte i
nostri militari perché convinti – i giudici- di far loro un piacere? Sono
innocenti? Rinasceranno al vertice della società!
Dice ancora:
sì, ma si tratta di italiani, e dunque di appartenenti ad una società diversa
da quella indiana, e ad una fede diversa dall’induismo...
È vero, ma
volete mettere il vantaggio di rinascere come indiani, e quindi al vertice
delle civiltà mondiali?
Sarà, ma
frattanto da oltre due anni non si riesce a capire bene di che cosa i militari
potrebbero essere accusati.
E allora? Non
è forse vero che “il tempo è un grande
medico?” Perché “alla lunga tutto si
risolve”. E non solo, a pensarci bene.
Un medico,
per diventare “grande” ha bisogno di anni di studio e di altri anni di
esperienza. Perché per un giudice dovrebbe esser diverso? Anche un giudice, per
“fare Giustizia” (sempre quella con la “G” maiuscola), ha necessità di studiare
per anni e di aggiungere decenni di esperienza e di pratica.
E non é forse
vero che le aspirazioni di ogni individuo sono, se ammalato, di essere curato
bene; se imputato, che la
Giustizia trionfi ?
E allora, che
aspetti!
Ma non è
finita.
C’è ancora
che un giudice deve essere assolutamente super
partes, e non è possibile dubitare che per essere oggettivi i casi sono
sostanzialmente due: si ascoltano e si discutono le opinioni di tutti, oppure
ci si isola, possibilmente su di un albero oppure in un eremo, in modo che il
molesto vociare della gente non turbi il lento e costruttivo elaborare del
pensiero vincente.
Nel primo
caso – ascoltare- il formarsi di un’opinione oggettiva è reso problematico e
difficile, perché se è vero – e lo è – che quot
homines tot sententiae, come anche da noi insegnavano i padri latini,
sarebbe assolutamente impossibile conoscere tutte le opinioni in materia, e
dunque i casi sarebbero ancora due: o tutto va all’eternità, oppure alcune
(molte) opinioni non potrebbero essere ascoltate e tanto meno valutate, e
dunque la Giustizia
stessa sarebbe messa in forse.
Nel secondo
caso – isolarsi - meditare su di un albero o in un eremo implica comunque non
solo un periodo non breve di “acclimatazione” fisica, ma anche il tempo per
“fabbricare il pensiero e la convinzione”. Il tutto complicato, soprattutto se
si sceglie l’albero, da problemi di equilibrio anche fisico non del tutto
trascurabile. Figuriamoci dunque cosa accadrebbe se i giudici indiani in ritiro
su di un albero dovessero anche ascoltare e meditare sulle opinioni di
stranieri, italiani o europei che siano!
Foto di Livia Corona |
Che suona
anche come avvertimento ai nostri: se un giudice indiano decide di ascoltare le
voci di noi italiani o – peggio – di noi europei o - peggio ancora - del resto
del mondo che noi definiamo occidentale, potrebbero passare secoli…! D’altra parte, Simeone lo Stilita il Vecchio
– che è uno dei nostri santi – trascorse trentasette anni su di una colonna,
con un problema in più: non bastandogli, per esser lasciato in pace, quattro
metri di altezza, si dovette occupare di sopraelevare la colonna fino a
raggiungere i quindici metri. Pare.
Come pare che
abbia detto alle donne – per le quali in terra non godeva di particolare simpatia
(sempre “pare”!)- “ci vedremo nell’altro mondo”. E allora, perché censurare i
giudici indiani dei quali è sempre possibile ipotizzare non solo l’emissione di
una sentenza diciamo tra trentasette anni, ma anche che siano l’espressione
coerente di una civiltà che risponde alle donne – che in India si dice siano
violentate una ogni venti minuti – che chiedono giustizia “ne parleremo
nell’altro mondo”.
O no?
Dunque, “fare
l’indiano” vuol dire essere talmente saggi da riuscire a non ascoltare nessuno,
dare a se stessi il tempo di pensare e di approfondire e di concludere,
riconoscere che anche il tempo ha bisogno di tempo e che il tempo degli uomini
è nulla a confronto dell’eternità.
E immagino
che i giudici indiani in qualche modo si siano isolati non su di una colonna –
pessima e pericolosa abitudine dei popoli occidentali – ma più tradizionalmente
su di un albero, in qualche modo più sicuro e confortevole. Comunque, su di una
colonna o su di un albero, il pericolo è che il supporto per qualche ragione
possa cadere, mettendo così a repentaglio la vita stessa dei santoni e degli
stiliti di turno.
E allora,
ecco la preoccupazione dei giudici che si occupano dei nostri militari: che si
tratti di terroristi, inviati da uno Stato, terrorista a sua volta, con il compito
di tagliare l’albero, così colpendo uno dei capisaldi della società indiana?
Legittimo
dubbio, e forse anche giustificato terrore. Ma alla verità i giudici
arriveranno tra qualche anno, forse tra molti anni. Nel frattempo, rassicurano
noi italiani: “ci stiamo pensando, e alle
idi di febbraio del 2014 vi comunicheremo le conclusioni. Tutti coloro che
vorranno ascoltarle saranno i benvenuti. E se non saremo ancora convinti, vuol
dire che stiamo pensando, e probabilmente decideremo alle calende di maggio. E
voi ne avrete vantaggio, dappoichè avrete la possibilità di approfondire la
conoscenza del nostro Paese e della nostra gente.”
E il loro
senso della signorilità li spinge a non sottolineare che, nell’attesa non tanto
e non solo di una sentenza, ma di una imputazione e dunque del riferimento ad
una legge precisa, anche il turismo indiano ne beneficia. Perché più il
processo “di pensiero” è lungo, e più esso dura, più si parla dell’India; più
si parla dell’India, più si fa pubblicità; più pubblicità si fa, più aumentano
le probabilità di fare affari.
Gli indiani
sembrano credere fermamente ad una delle più grandi stupidaggini sostenute dai
pubblicitari, appunto, e da qualche economista di bocca buona: se ne parli,
magari anche male, purché se ne parli! E poiché essi – gli indiani- sono saggi,
lasciano che a parlare siano gli altri.
Loro fanno
gli indiani. Appunto.
Una nota
importante: sembra che “fare l’indiano” affondi le sue radici nel comportamento
degli indiani d’America, e che dunque l’estenderlo agli indiani dell’India
possa esser considerato un’indebita e gratuita estensione a popolazioni e civiltà
e culture tra di loro diversissime. Solo in apparenza, però, perché nella
realtà il concetto di eternità e quello di tempo sono assolutamente comuni all’essere
umano in quanto tale, e per tutti gli esseri umani il trascorrere del tempo
sembra la più concreta speranza di sistemazione delle cose.
Sarà per
questa consapevolezza che delle reazioni “occidentali” e in particolare
italiane si parla in termini esclusivamente teleologici, senza peraltro
concretarne e descriverne neppure una?
In una
commedia di Eduardo, il figlio in tono minaccioso avverte “mo’ vidimm int’a sta casa!..” suscitando la reazione di Eduardo in
un’irata domanda: “c’avimm a vede’?”. Sembra l’atteggiamento
dell’Italia e – in parte, ma solo in parte – dell’Europa: “mo' vidimmo!”, al quale gli indiani non chiedono neppure cosa si
dovrebbe vedere.
Fanno gli
indiani.
Foto di Paolo Maria Di Stefano |
È probabile
che gli indiani non avrebbero cambiato atteggiamento se noi e l’Europa avessimo
indicato esattamente che cosa l’India dovrebbe aspettarsi in caso di
applicazione della legge antiterrorismo e soprattutto in caso di condanna. Senza contare che il tempo trascorso di
sostanziale privazione della libertà dei nostri militari già di per sé
richiederebbe una ritorsione.
Il problema
sta, forse in una “contraddizion che no'l
consente”: da noi “la vita è sacra”, ma cosa volete che sia la vita di due
militari, per di più esponenti di un Paese che va perdendo anche il diritto
all’iniziale maiuscola, di fronte alle esigenze dell’economia?
Che è una
opportunità per dare un contenuto a quel
“mo’ vidimm” che andiamo
ripetendo: una Europa (ed una Italia) che si rispetti a questo punto potrebbe
troncare ogni rapporto economico con un Paese – l’India- che chiaramente
dimostra di non rispettare l’Italia e neppure l’Europa, spingendosi fino ad
accusarle di terrorismo.
Ma vogliamo,
per una volta, metter da parte gli interessi di bottega e attuare sanzioni che
convincano l’India a chiedere scusa?
Scuse dovute,
io credo, ad un Paese che è stato costretto a difendere le proprie navi dai
pirati dai quali l’India non riesce o non vuole liberare i mari di competenza,
e i cui militari sono stati attirati in India con l’inganno, approfittando
della buona fede di chi sa di compiere il proprio dovere e crede nella
educazione e nel rispetto reciproco.
Che è una
delle debolezze della democrazia e, forse, anche un elemento di stupidità.