TERRITORIO E
BARBARI
di Fulvio Papi
Se si facesse la
storia materiale dell’uso del territorio italiano,
pochissimi
potrebbero ritenersi innocenti.
Il cardinale
Federico Borromeo che tanto si prodigò durante la famosa peste descritta da
Manzoni, disse anche che questo flagello derivava dai nostri peccati. Anche se
per la verità sarebbe stato difficile dire quali peccati di gente laboriosa e
pacifica quali erano i milanesi sotto il dominio spagnolo. La stessa tesi fu
diffusa da ecclesiastici in occasione del terremoto di Lisbona del 1755 che si
avvertì in larga parte d’Europa. Fu questa una chiacchiera colpevolizzante
ironizzata dal poema di Voltaire. Nello stesso periodo si poteva leggere su un
modesto giornale di Königsberg la spiegazione che il giovane professore Kant
dava dell’origine dei terremoti, anche se il filosofo, educato al pietismo
della mamma, aggiungeva che non siamo nati per “costruire capanne eterne in
questo teatro della vanità”.
Naturalmente
sono d’accordo anch’io contro quello pseudo-umanesimo che vedeva la prova
dell’assoluto potere dell’uomo sul mondo sostanzialmente attraverso la
moltiplicazione del profitto. Quindi non era necessario costruire case dove le
piogge possono far franare il terreno proprio perché disboscato o dove corsi d’acqua
come barbari crudeli e impazziti possono invadere spazi urbani. I peccati del
cardinale Federico Borromeo o quelli degli ecclesiastici del ’700 sono oggetti
storici. Ma la domanda sulle possibili colpe, non peccati, resta attuale. Gli
esperti che ancora considerano il rapporto stretto tra scienza e verità (non
gli “scienziati” che per anni, per ragioni non nobilissime, hanno sempre
voltato la testa) hanno previsto che ampliandosi l’area produttiva del mondo
con le stesse energie attuali, vi sarebbero stati seri mutamenti climatici: in
prospettiva ipotetica, ma non immaginaria, la trasformazione di zone fertili in
una desertificazione e, per essere aggraziati, i mandorli in fiore in Siberia.
È il caso di un tempo naturale che diventa tempo storico. In tedesco, per
esempio, quello naturale è Wetter, e quello comunemente storico è Zeit. Ma non
esiste alcuna parola che indichi il passaggio dall’una all’altra perché
l’umanità di cui conserviamo la memoria scritta, non ha mai vissuto questa
esperienza.
Di fronte ai
disastri che conosciamo è molto più semplice convenire che è il caso, che
esiste certamente e talvolta in modo crudele, ma che non può essere imputato
dalle colpe dell’incuria, della trascuratezza, dell’ignoranza, dell’ingordigia
economica che, questo sì, almeno in coloro che hanno la diretta responsabilità
del territorio, non dovrebbero essere in alcun modo diffuse.
“Vietato proibire” è un detto demagogico,
pseudolibertario, delirio piccolo borghese. Mettere limiti e veti sensati fa
parte della intelligenza, della prevenzione, e della conoscenza. Fare finta di
niente attraverso complicità di interessi è invece una colpa, anche se forse ci
sono difficoltà a stabilire il reato. Quando sento un geologo di primissimo
livello dire che per sanare il disastro idrogeologico del paese ci vorrebbero
11.000 miliardi, allora penso subito come sono stati spesi i pubblici denari
per decine d’anni attraverso cricche mafiose, bande di profittatori della
doviziosa rete politica (l’assalto ai soldi non la modestia morale del servizio
sociale). E ricordo le decine e decine di casi di opere, per lo meno, di
incerta utilità, a povera gente che avrebbe poi dovuto riconoscenza ai potenti.
Si potevano o no spezzare queste situazioni? Chi avrebbe dovuto avere cura del
territorio come bene comune? Chi avrebbe dovuto impedire, per prendere un altro
caso, che venisse intossicato il territorio con tonnellate di rifiuti? E
siccome non mi va di stare nel giardino della demagogia, desidero anche
domandarmi: dove era la gente che adesso giustamente protesta? Meno passioni
futili e più di attenzione di quel “se stessi” che è il nostro territorio.
Perché non curarsi di sé? Perché credere che la salvezza consiste solo nel
chiudere la porta? E adesso?
Un capro
espiatorio con nome e cognome non c’è. C’è tutta una storia. E si tratta di
quella storia d’Italia che non è stata quella delle elevate chiacchiere dei
palazzi politici, delle conflittualità e delle
Solidarietà di basso raggio. C’è tutta un’altra storia da
scrivere. Ed è quella per cui dalla “materia” viene fuori lo “spirito”. E qui
temo che forse pochi, degnissimi, coraggiosi, donativi, si salveranno.
Gli altri troveranno un poeta che designerà loro
l’inferno.