Rane al governo? Perché no?
Sono parte del creato…
di Paolo Maria Di
Stefano
Forse è vero che non c’è null’altro da
fare, se non attendere lo sviluppo degli eventi.
E prendere atto, anche, che
mentre gli eventi, la cronaca, sono frutto immediato delle nostre azioni e
quindi in qualche modo “dipendono” da noi (almeno in quanto attori), il loro
sviluppo sembra essere regolato da leggi che a noi sfuggono, e che quindi -non
conoscendole se non da un punto di vista puramente formale, epidermico quasi- non
ci mettono in grado di prevedere gli effetti e le evoluzioni di quanto abbiamo
fatto o non fatto più o meno consapevolmente.
E forse è anche vero che non si
possa dubitare della veridicità della pillola di saggezza popolare che nega
ogni valore a quell’“historia magistra
vitae” che Cicerone proclamava nel suo De
Oratore.
È diffuso almeno quanto cretino il
sostenere che la storia non abbia mai insegnato niente a nessuno: la verità
sembra, piuttosto, che solo pochi riescano ad imparare dalla storia la quale
insegna e come e quanto, ma sempre di più parla a sordi e mostra a ciechi.
Salvo le debite e concrete
eccezioni, anche in forza di un altro “sentire” generale che si esprime “non c’è regola senza eccezioni”
dimenticando – fece notare qualcuno – che anche questa essendo una regola ha le
sue eccezioni. O dovrebbe averle.
Significa che da qualche parte
esistono regole senza eccezioni.
E se una di queste fosse quella
che recita “la moneta cattiva scaccia la
buona”? Regola antica di duemilacinquecento anni, se è vero – e lo è – che Aristofane
ne Le Rane faceva dire al Corifeo:
“ Antepirrema
Agio avemmo spesse volte d’osservare come Atene
A quel modo coi più onesti cittadini si contiene
Ch’usa pur con le monete vecchie e il nuovo princisbecchi.
Tutti sanno che fra quante mai n’usciron dalle zecche,
vuoi d’Elleni, vuoi di barbari, dappertutto, quelle sono,
e non altre, le più belle: quelle che rendono buon suono,
hanno quella buona impronta, sono prive di mondiglia
Pure, Atene non le adopera, e ai bronzini oggi s’appiglia,
dalla zecca usciti appena ieri, perfidi nel conio.
E così pei cittadini. Quelli ch’ànno comprendonio,
nati bene, equi, modelli d’onestà, cresciuti in mezzo
a palestre, a danze e musiche,
non riscuoton che disprezzo:
servi, poi, facce di bronzo, vagabondi, paltonieri,
e figliuol di paltonieri, tutta roba intrusa ieri,
li ficchiamo dappertutto! Quei che avrebbe disdegnati
un dì Atene come vittime a espiare i suoi peccati!
Tempo è dunque che si cambi tal sistema, o gente stolta,
e s’adoprin galantuomini, come l’uso era una volta.
La va bene? E’ vostro il merito. La sbagliate e nasce un danno?
Che patiste a nobil croce quei che intendono diranno.”
Duemila cinquecento anni! Le Rane sono del 405 a .Cr.n.! Già a quel
tempo, Aristofane sosteneva che la legge oggi nota come “di Gresham” -che ne
parlò attorno alla seconda metà del 1500- si applicava non soltanto alla
moneta, ma investiva e regolava i rapporti tra gli uomini.
E non è a dire che l’Italia -maestra
di civiltà- non abbia appreso ed applicato le parole di Aristofane, il quale
oggi -2014!- avrebbe potuto tranquillamente scrivere le stesse cose senza tema
di smentita.
Anche togliendomi l’illusione di
aver innovato – io, orgoglioso di aver cercato di affrancare dal “comune
sentire” di tutti coloro che ne parlano nel nostro Paese quella specie di araba
fenice che è il marketing per la stragrande maggioranza degli italiani,
imprenditori e docenti – quando ho
sostenuto che la legge di Gresham si applica anche agli esseri umani: non era
che l’eco della voce di un corifeo di duemilacinquecento anni orsono, tradotto
in opinabile rima baciata da un grecista, certamente per mia colpa a me ignoto.
Una cosa è certa: da almeno
duemilacinquecento anni la moneta cattiva scaccia dal mercato quella buona.
Così, nella società, in politica e sul mercato rimane il pattume, la cultura e
l’etica restando tesaurizzate lontano dal quotidiano, e molto spesso raccolte e
conservate invano da predestinati all’oblio.
In Italia, la conferma è di questi giorni, assieme a quella
relativa ad un altro principio, che “legge” propriamente non è, ma che non per
questo appare meno reale e praticato: mai dimettersi dalla carica ricoperta,
per nessuna ragione al mondo, a meno che non si tratti di una questione di vita
o di morte (fisica, perché quella morale non ha più senso) oppure (accade molto
più spesso di quanto non si possa supporre) , di uno scambio vantaggioso. Che
può anche consistere nella impunità.
Corollario: le dimissioni
volontarie e irrevocabili sembrano patrimonio esclusivo delle persone perbene.
E dunque di una minoranza – in politica,
certamente, ma non soltanto - che crede in quelle strane cose che si chiamano
“valori” e che ha ancora il senso della dignità della persona e della carica.
Il problema (uno dei problemi) è
che le dimissioni di una persona perbene e capace lasciano libero un ufficio
che viene immediatamente occupato da qualcun altro, in genere molto meno capace
e molto meno perbene.
Il quale, magari, gabella come
“valore” l’ambizione smodata e trova sostenitori sufficienti per fargli da
piedistallo.
E naturalmente eleva a sistema la
menzogna, ancora una volta vendendola per “opportunità politica”.
Il giusto sentire della società,
comunque, molto più spesso di quanto non si creda, smentisce il detto che
afferma che la giustizia non é di questo mondo. Non lo è, forse, in modo
compiuto e brillante, e forse neppure immediatamente avvertibile, ma molte sono
le probabilità che almeno in parte si realizzi. Per esempio, facendo in modo
che chi tradisce sia a sua volta tradito da qualcuno che gli è simile e che
egli ha scelto come collaboratore forse anche fidato, ignorando proprio quanto
somigliante gli fosse, e magari giustificando la scelta in base ai risultati da
quello raggiunti proprio con l’ambizione smodata, con il disprezzo per gli
altri e con la disponibilità ad utilizzare tutte le armi a disposizione.
Pugnalata alle spalle compresa.
Perché, anche, è proprio di chi è
accecato dall’ambizione dimenticare l’analisi delle attività altrui e dei modi
con i quali l’alleato ha gestito e amministrato l’ufficio che gli ha procurato
la qualifica di cui si fregia.
Salvo eccezioni, sempre lodevoli
ma – anche - sempre più scarse. E quindi, ancor di più degne di lode.
Memento per il Presidente
incaricato.
Ancora, un pensiero non del tutto
peregrino.
Nella mia oramai lunga vita
professionale (e non solo) non ho mai conosciuto un giovane, magari appena
laureato in una qualsiasi delle dodicimila discipline nelle quali oggi è
possibile conseguire il diploma, che non affermasse “se mi dessero il potere,
io in tre giorni risolverei il problema dell’economia” (o qualsiasi altro di
moda). Quando ero giovane, un amico appena iscritto alla facoltà di medicina e
chirurgia ebbe a giurare che, se fosse dipeso da lui, il tumore lo si sarebbe
vinto in tre giorni; io molto più avanti con gli anni, un laureato in
matematica, responsabile del sistema informativo di un circolo milanese legato
alla sinistra, ha messo per iscritto che se gliene avessero dato il potere i
problemi della economia sarebbero stati risolti in tempi brevissimi.
Anche perché assolutamente
impreparati a stilare pianificazioni di gestione operative, a mia conoscenza
nessuno, grazie a Dio, ha avuto questo potere, e nessuno è riuscito ad
appropriarsene. Sono bastati i danni dei praticoni della Politica.
Fino ad ora.
Che è un secondo “memento” per il
Presidente incaricato: occorre stilare una o più pianificazioni di gestione –
meglio, una per ogni materia - e comunicarle agli italiani e non solo.
Ripeto: pianificazioni di
gestione e non mere dichiarazioni d’intenti, arricchite al massimo dal nome di programmi.
E infine, terzo memento: il
lavoro è un prodotto fatale. Significa che lo si crea pianificando le materie,
i settori, i relativi cicli di vita: dall’attuazione delle pianificazioni e
quindi dalle singole gestioni operative nasce fatalmente il lavoro.