di Angelo Gaccione
I lettori si chiederanno come mai questo
scritto sull’arte si trovi qui in Prima Pagina, e non in una delle preziose e
prestigiose rubriche del giornale (Quartiere
Latino, Campi Elisi, Il Pane e le Rose). La ragione c’è. Questa non è una
semplice nota d’arte, è qualcosa di più: è anche una riflessione morale che
intende registrare (questa volta in positivo), il comportamento esemplare di
una persona ammirevole per il grado di sensibilità, di professionalità, di civiltà,
a cui forse non siamo più abituati. Dirò più avanti il nome di questa persona. Il degrado morale del nostro Paese ha molte cause. Il
comportamento indegno della maggioranza degli uomini politici è una di esse, ma
non è la sola: quello degli ambienti culturali (che conosco bene), è di gran
lunga più indegno e spregevole di quello dei politici. L’ho potuto constatare
nella mia lunga carriera di scrittore. Non parliamo di quello del settore
dell’informazione, che resta una casta chiusa affollata per il 99% di mediocri
ed ignoranti. È in queste mani che sta spesso la fortuna di un libro, di
un’opera teatrale, di un musicista, di un artista. Ma con i nostri consimili
non va meglio: lo possiamo verificare quotidianamente quando siamo costretti a
venire in contatto con Uffici Stampa, ospedali, centralini di ogni sorta, gente
che sta dietro una scrivania, uno sportello, o dentro la stanza di un ufficio. Il
più delle volte restiamo così mortificati e delusi del loro comportamento, che
disperiamo di un miglioramento del genere umano. Qualche volta (sempre più
raramente), avvengono dei piccoli miracoli e sono come delle epifanie; ci
imbattiamo in persone così delicate e civili che ci riconciliano con
l’esistenza. Allora torniamo a sperare e ci diciamo che forse non tutto è
perduto nella giungla urbana; che c’è rimasta qualche “isola felice” dentro la polis del XXI secolo.
La persona a
cui mi riferivo, all’inizio di questo scritto, si chiama Elisa Lissoni. Non ne conosco né il volto e tanto meno l’età. Il
nostro rapporto si è svolto in maniera anonima nei freddi circuiti di quello
che oggi chiamiamo Rete: attraverso lo scambio di alcune email, per concordare
una mia visita alla mostra di Andy Wharol, in corso al Palazzo Reale di Milano,
dove resterà fino al 9 marzo di quest’anno. La signora Lissoni mi era stata
indicata come una delle referenti di “24 Ore Cultura - Gruppo 24 Ore”, che
assieme ad altri sponsor e al Comune di Milano, ha reso possibile questa mostra
dell’artista americano. La pazienza che Elisa Lissoni ha avuto nei miei
riguardi, la disponibilità a tener conto dei miei impegni, a concordare giorno
ed ora per agevolarmi, sono stati davvero encomiabili, ed era per me doveroso
dargliene atto qui pubblicamente. È davvero una fortuna quando scopriamo una
persona giusta nel posto giusto.
Ed ora veniamo
alla mostra. Cominciamo con una serie di riflessioni: “Non ho mai desiderato diventare pittore, volevo fare il ballerino di
tip tap”; “Sono convinto di
rappresentare gli Stati Uniti con la mia arte, ma non sono un critico sociale.
Dipingo questi oggetti perché sono le
cose che meglio conosco”; “Fare soldi
è arte e lavorare è arte e i buoni affari sono la migliore forma d’arte”; “Non pensare di fare arte, falla e basta.
Lascia che siano gli altri a decidere se è buona o cattiva, se gli piace o gli
fa schifo. Intanto mentre gli altri sono lì a decidere tu fai ancora arte”.
In questo grumo di parole è racchiusa la concezione di
vita (e la pulsione estetica) di quello che è sicuramente il rappresentante
iconografico più appariscente della società dei feticci, dei miti e della
opulenza americana. Che non avesse desiderato fare il pittore possiamo credergli,
ma ad una scuola di Arte pubblicitaria si era tuttavia iscritto, così come
lavorerà da illustratore, a riviste di moda come Vogue e Glamour. Dipinse
oggetti comuni come bottiglie di Coca Cola e lattine di zuppa Campbell’s
riproducendole in serie da cui ricaverà molti soldi, con una ossessione simile
a quella di Morandi per brocche, tazze e bottiglie. Questi oggetti popolari,
quotidiani e domestici che Warhol riproduce e moltiplica sulle tele, sono il
contraltare di tante nature morte che artisti fra i più vari e in ogni tempo
raffigurano. Sono qui e ci appartengono, non sono scarti delle nostre vite; il
pittore conferisce loro una seconda vita, una effimera eternità.
Figlio di immigrati slovacchi (il cognome del padre era
Warhola), era nato a Pittsburg nel 1928. Aveva capacità creative da vendere:
pittore, scultore, fotografo, regista, sceneggiatore, produttore
cinematografico, attore e anche dandy, (Dandy
Warhol definirono il suo stile di vita e quello dell’entourage che lo
attorniava), il suo arrivo a New York è segnato da un notevole successo in
questi vari campi del fare artistico. E sebbene i suoi
aforismi non convincessero un poeta e critico come Giovanni Raboni (li aveva
definiti barzellette), non c’è dubbio
che Wharol era dotato di un singolare talento e di un’ottima mano di
disegnatore. Il visitatore di questa mostra milanese (sono opere provenienti
dalla Fondazione del suo amico collezionista Peter Brant, che gli fu vicino fino
alle fine), ne avrà subito la prova sostando davanti ai lavori realizzati negli
anni Cinquanta: il paravento intitolato “Attacca
la coda all’asino” (1954-55), “Uomo
in piedi” (1957, realizzato a penna su carta da pacchi), la spiritosissima
“Nativity” (che è dello stesso anno),
e dove un Gesù Bambino ben cresciuto e già carico di capelli, tiene in braccio
un enorme gatto che è il doppio della sua statura. Anche il ritratto a penna di
James Dean è di quegli anni, così come “Dead
stop” (Fermata mortale) e le scarpe a foglia d’oro con i ricami nobiliari e
barocchi che sembrano realizzate da uno stilista per una rivista di moda. Sono
tecniche e stili che Warhol non abbandonerà mai e che arricchirà via via di
nuovi materiali per le sue serialità, per le sue provocazioni.
Gli anni Sessanta sono fruttuosi dal punto di vista
creativo, ma sono altresì carichi di eventi politici e di trasformazioni
sociali e culturali enormi. Si fa strada il consumismo delle società opulente
(l’America con il suo capitalismo trionfante è all’apice), le merci invadono i
grandi magazzini, la pubblicità dispiega tutta la sua invadenza tentacolare, il
cinema, la televisione e la moda impongono e solidificano i loro miti, la
musica diffonde il suo messaggio in ogni dove, e i comportamenti di massa
uniformano le culture e gli stili di vita. I giovani europei vestono come i
giovani americani, ma nasce anche la
contestazione delle nuove generazioni, ci sono le guerre di liberazione e i
miti politici accanto alle minigonne e ai capelli lunghi. Warhol raffigurerà
alcuni di questi miti e di questi simboli che diverranno universali, come certe
merci divenute internazionali grazie alla estensione dei mercati e alla forza
invasiva della pubblicità. Alcune di queste merci si trasformeranno in vere e
proprie icone: forme, immagini e simboli di uno status, di una concezione, di
un dominio, di una libertà. Wharol è subito dentro questo mondo: tra il 1960 e
il 1961 riproduce 32 esemplari della Zuppa
Campbell’s, bottiglie di coca cola di ogni tipo e lattine di minestra.
L’anno successivo realizza una tela enorme riproducendo con inchiostro
serigrafico e pittura acrilica, 192 banconote da un dollaro. Il simbolo del
profitto e del dominio economico americano sui mercati del mondo. Il simbolo
gigantesco del dollaro tornerà in una tela del 1981, a conferma del suo
aforisma che fare soldi è arte e che i buoni affari sono la migliore forma
d’arte.
Non dimentichiamo
che l’America è divenuta la patria del cinema, dello star system, che ha
soppiantato la Ville Lumière, e la moda ha un peso notevole. Nel 1962 muore
Marilyn Monroe, icona del cinema americano e Warhol ne riproduce il volto nei
colori più diversi, spesso in sequenze multiple che si differenziano fra loro
di qualche dettaglio. Multipli e grandi ritratti acrilici che riguardano
personaggi fra i più diversi: da Mao a Che Guevara, da Liz Taylor a Mona Lisa.
“La Gioconda”
leonardesca, una tela gigante del 1963 intitolata “Trenta sono meglio di una”, viene riprodotta ben trenta volte,
usando la tecnica serigrafica e una pittura polimerica. Del 1962 è anche la
realizzazione in vernice alla caseina e matita su lino, di due silhouette che
riproducono le piante di due scarpe gigantesche su una tela altrettanto
gigantesca. Il fondo è lasciato bianco mentre i contorni delle scarpe sono
marcati da due lettere: la lettera L nera riprodotta sul sottoscarpa bianco; la
lettera R bianca sul sottoscarpa nero. Vengono in quegli anni realizzati
manifesti per film e opere seriali che hanno per tema incidenti d’auto: “Disastro verde/ Doppio disastro” (1963),
che non è altro che lo stesso incidente d’auto replicato. Ricordiamo la morte
di James Dean in un incidente d’auto, ma anche il trionfo della macchina nella
società americana, come simbolo di libertà. Sono quadri dallo stile freddo,
meccanico, tipico del mondo pubblicitario. Warhol non li inventa, gli sono
familiari e “li riproduce”, li “ripete all’infinito”, che siano oggetti della
realtà più banale (una banana) o strumenti sanguinari (la sedia elettrica) poco
importa, lui si limita a metterceli davanti, a dirci: “eccoli sono qui,
appartengono all’America”. Nel 1964 riproduce sulla stessa tela dodici sedie
elettriche, usando il colore giallo, rosso, verde, viola, bianco, nero. Ma la
presenza della morte si farà più pressante dopo l’attentato del 3 giugno del
1968, quando la militante femminista Valerie Solanas, l’autrice de “Il manifesto per l’eliminazione dei maschi”,
spara alcuni colpi di pistola a lui e al suo compagno Mario Amaya, alla
“Factory”, luogo divenuto ritrovo di artisti, attori, personaggi fra i più vari
ed anticonformisti dell’universo newyorkese. Warhol entra in coma e si salverà
miracolosamente. In seguito a quell’evento realizza una serie di teschi
(skulls). E un teschio si porterà in America, comprato durante un viaggio in
Europa nel 1976.
Provocatoria,
in questa esposizione, la vasta tela in orizzontale “Oxidation painting” (1978), realizzata impiegando pigmenti di rame
e schizzi di orina, suoi e dei suoi amici. Le “macchie” che vanno a comporre la
trama, realizzano un quadro astratto; macchie che ritorneranno nel 1984 nella
tela realizzata con il procedimento di Rorschach, e che titolerà proprio “Rorschach”; e macchie ritroveremo nella gigantesca tela “Camouflage” (Mimetizzazione) due anni
dopo, nel 1986.
Questa, e “L’ultima
cena”, coprono due intere pareti dell’ultima sala dell’allestimento: all’incirca
dodici metri, ho misurato a passi. “Camouflage”
è posta di fronte a “L’ultima cena”,
e come dice il titolo, richiama le macchie delle tute mimetiche militari. Anche
questa un’icona nella società americana imperialista, che ha fatto della sua
potenza militare e del suo esercito, il gendarme del mondo. “L’ultima
cena” (1986) è monocromatica: è una pittura polimerica su tela il cui fondo
bianco è marcato dai tratti neri, grossi, pastosi che disegnano il Cristo e gli
apostoli a grandezza naturale. Warhol ha realizzato più di un centinaio di
opere ispirate all’Ultima cena; la
cosa curiosa è che proprio da Milano gli era giunto l’invito (dal gallerista
Alexandre Jolas) per un ciclo ispirato al Cenacolo leonardesco da esporre nella
città meneghina assieme a quelli di altri artisti, chiamati a misurarsi sullo
stesso tema. Per uno strano e misterioso destino, quest’opera, l’ultima del
pittore americano, sarà esposta alle Stelline di corso Magenta a Milano, quasi
di fronte alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, proprio un mese prima della
morte, avvenuta il 22 febbraio del 1987.
Quello che non era riuscito a fare la pistola di Valerie
Solanas, faranno i bisturi dei medici: morirà a seguito di un banale intervento
alla cistifellea, all’età di 59 anni.
Contrariamente
alle sue pessimistiche previsioni la sua opera ha resistito. Era convinto che
non avrebbe avuto futuro e che avrebbe perso di significato. Ristabilite le
dovute differenze storiche e le proporzioni sociali, sono convinto che alcune
sue icone conserveranno la loro presa e la loro efficacia (come marchio di
un’epoca), allo stesso modo di alcune fotografie di guerra di Frank Capa e di
quelle di Lewis Hine, con i suoi operai volanti e sospesi nel vuoto, sulle
impalcature dei grattacieli di New York in costruzione.