Le
due porte
di
Giovanni Bianchi
Bangui
Ha
stupito la decisione di papa Francesco di aprire due porte – tra tante – per il
giubileo. Oltre che in San Pietro a Roma, a Bangui nella Repubblica Centrafricana:
anche lì una porta santa. Una capitale africana di cui molti non
sospettavano l’esistenza, con un conflitto in corso, con non pochi morti e
feriti. Nel disegno di papa Francesco anche questo episodio e questa
scelta si inseriscono nel percorso di periferizzazione della Chiesa, dal
momento che il “giubileo diffuso” invita ad attraversare le porte anche “in
uscita”, secondo un lessico e un’abitudine introdotti da papa Bergoglio. Anche
in questo caso si tratta di interpretare più i gesti che le parole, in un papa
che aborre quello che lui stesso ha definito l’eccesso diagnostico e che d’altra parte non cessa di produrre
pensiero progettuale, al punto che non possiamo prescindere dal suo magistero
mondiale per provare a ricostruire un punto di vista in una fase storica nella
quale le politiche appaiono “senza fondamenti”.
Proprio
il papa argentino con l’enciclica Laudato
Si’ ha fornito il primo pezzo teorico (per ora) di quella che ha definito
l’ecologia integrale. Non è un
progressista papa Francesco. Neppure un ottimista. È uomo di speranza. Eppure è
stato proprio lui a ricordarci che la terza guerra mondiale è già cominciata,
“a pezzi e capitoli”.
La
stessa affermazione intorno a una terza guerra mondiale la troviamo negli anni
Sessanta in Carl Schmitt: una terza guerra mondiale già allora presentata come
“una guerra civile combattuta da terroristi”. In un quadro nel quale il
giurista tedesco, fondatore del decisionismo, nelle Categorie del politico, definisce l’Europa “detronizzata”, e quindi
diventata periferica, come ci sollecitano a riconoscerci oramai non pochi
intellettuali asiatici.
Un punto di vista sul
Medioriente
Credo
che la cosa di cui più soffriamo sia l’assenza di un punto di vista europeo sul
Medioriente. Il Mediterraneo è diventato the
Med (e non Mare nostrum) nell’ottica
unificante anglosassone. Quella che funziona anche in questo caso, non soltanto
lessicale, è dunque la logica imperiale Usa e quindi la logica della Nato. Una
logica che sempre più stride e confligge con l’esigenza che avrebbe l’Europa di
elaborare una propria linea di politica estera mediorientale. È curioso che la
linea di divisione che ancora attraversa i paesi dell’Unione sia quella che
vede da una parte i “fondatori” e dall’altra l’infornata di paesi dell’ex
blocco sovietico che sono entrati prima nella Nato e poi in Europa, e sono
approdati nell’Unione pensando di andare in America… Chi per tempo poneva nelle
sedi deputate la difficoltà di continuare a conciliare logica della Nato e
logica della nuova Europa (tanto più dopo gli ingressi favoriti da Romano
Prodi) era Giulio Andreotti. E infatti pesa tuttora in maniera fin troppo
evidente la mancanza di una politica mediterranea della UE.
Il peso di una rimozione
Abbiamo
sprecato una grande occasione di riflessione quando abbiamo rimosso la
guerra, tutta europea, nei Balcani
occidentali. Sarajevo forse nel cuore di qualcuno, come cantava la canzone, ma
non nella testa dei responsabili d’Europa. Dieci giorni prima dello scoppio
delle ostilità ero con Roberto Formigoni, allora vicepresidente del Parlamento
europeo, dal vescovo di Sarajevo mons. Pulic, al termine della grande
manifestazione dei pacifisti italiani guidati dalle Acli e dall’Arci di Tom
Benetollo. Il vescovo era molto inquieto e stizzito. Era di ritorno da un
santuario mariano della regione. Le ragioni del disappunto consistevano nel
fatto che alla cerimonia per la Madonna erano presenti gli islamici, ma assenti
gli ortodossi.
Giunse
nel mezzo del colloquio con il vescovo un inviato di Izetbegović
che ci invitò ad
incontrare con urgenza il leader islamico, per la seconda volta nella stessa
giornata dal momento che già in mattinata gli avevamo fatto visita. Izetbegović ci attendeva sulla scala del suo
palazzo. Il suo messaggio fu sintetico e drammatico: “Fate intervenire l’Onu.
Qui salta tutto”! Ovviamente nessuno ci dette retta e dieci giorni dopo quella
che era stata per decenni una convivenza riuscita si trasformò in un crudele
mattatoio, facendo di Sarajevo la città martire della Bosnia-Erzegovina. Un
laboratorio di successive prove di destabilizzazione e crudeltà, ivi inclusa la
prima armata internazionale islamica composta di reduci e transfughi afghani,
libici e caucasici. E adesso pover’uomo?
Le conseguenze
Abbiamo
rimosso la guerra in Bosnia Erzegovina, con i suoi 250.000 morti, quasi fosse
un problema dell’impero turco. Continuiamo a scrivere sui nostri testi
scolastici che le guerre in Europa sono fortunatamente terminate nel 1945:
l’ultimo fiume insanguinato dal sangue fraterno europeo sarebbe il Reno conteso
tra francesi e tedeschi. Il Danubio e la Neretva non fanno parte della nostra
geografia politica.
Abbiamo
sprecato le primavere arabe non essendoci impossessati in casa nostra dei
rudimenti dell’alfabeto che ci avrebbero consentito di leggerle. E adesso ci
confrontiamo con Daesh. Le ipotesi di soluzione prevedono una nuova geografia
politica della regione. Dopo quattro anni e 250.000 morti (lo stesso numero,
per ora, della ex Jugoslavia) e milioni di feriti e di profughi, siamo alle
prese con migrazioni bibliche che ci trovano impreparati a gestirle. Probabilmente
la situazione più emblematica è ancora quella dell’Iraq, che non esiste più in
quanto Stato unitario. L’ipotesi che si fa strada infatti è quella di
ridisegnare la geografia politica di tutta la regione. Accanto al Kurdistan –
che vede finalmente i curdi conquistare in tanto caos uno scampolo di patria,
con le truppe più combattive sul terreno rappresentate dai peschmerga
– quelli che potremmo chiamare uno Sciistan e un Sunnistan (Maurizio Salvi su “Rocca”, 1 gennaio 2016): insomma un
trattato e una pace di Westfalia in salsa islamica.
Almeno
gli studenti più diligenti ricorderanno i due trattati che a partire dal 1644
per approdare al 1648 posero fine alla guerra dei trent’anni, dopo una lunga e
complessa serie di negoziati tra Impero, Svezia e Nazioni Protestanti a
Osnabrück (sede delle delegazioni protestanti) e tra Francia e Impero a Münster
(sede delle delegazioni cattoliche).
Westfalia
segnò la decadenza della Spagna, accrebbe la potenza di Svezia e Francia e
riconobbe l’indipendenza delle Province Unite della Spagna e della
Confederazione Svizzera dall’Impero. Ratificò la fine delle guerre di religione
in Europa affermando l’ambito della libertà di coscienza (Google), a
dimostrazione storica che Religione e Stato sono in grado di incontrarsi,
trattare e addirittura commerciare tra di loro.
L’Islam
c’entra? Sì, l’Islam c’entra, e non solo perché terroristi e kamikaze urlano
Allah Akbar, e non viva l’Iraq o la Siria. Ma perché storicamente le religioni
e gli Stati si occupano della convivenza sul piano privato come su quello
pubblico, e in questi spazi contendono tra loro. Le opportune forme di laicità,
delle quali godono l’Europa e gli Stati europei, sono un frutto storico, non
piovuto dal cielo, ma conquistato da cittadini, di differenti confessioni e
diverse fazioni, che hanno fatto progressivamente i conti con una religione e
una coscienza civica che sono venute chiarendosi e consolidandosi nel tempo,
non senza costi gravi e sanguinosi conflitti.
Distinguere
Non
c’entra il Corano. Anche il Vangelo non c’entra: quello che usa e interpreta
papa Francesco, e che appare così stellarmente distante dalle crociate e
dall’inquisizione.
Il
cardinale Bellarmino – il più autorevole teologo del suo secolo e il
teorizzatore della Chiesa cattolica in quanto societas perfecta – era della medesima compagnia di Gesù dalla
quale viene papa Francesco. Bisogna dunque tornare ad usare una scienza
laicissima come l’ermeneutica: gli
strumenti della geopolitica e le analisi socioeconomiche della globalizzazione
sono indispensabili per intendere la complessità della fase, ma insufficienti.
Bisogna ritornare al protestante Bonhoeffer -martire antinazista della Chiesa
Confessante- che ci ha insegnato a distinguere tra fede e religione. Perché la
religione legittima l’ethos e talvolta incorpora l’idolatria. E la fede ha il
compito di progressivamente purificare e purificarsi dalla religione. Perché
l’idolo uccide, come scrive la Bibbia. Qui si evidenzia l’assenza di un
processo culturale come quello compiuto dall’Europa illuministica. Qui anche il
diritto annaspa e mostra tutte le distanze che ci sono tra diverse concezioni
della donna, i diritti che le devono essere riconosciuti, con conseguenze che
si rivelano così spinose nella vita quotidiana.
Si
faceva sesso consenziente a gogò anche a Trento-Sociologia o alla Statale di
Capanna durante il formidabile Sessantotto, ma non c’erano gli stupri di piazza
Tahrir. E più fatica a farsi strada l’idea dei diritti della donna (ma anche
dei gay) nelle masse cattoliche che in quelle laiche. A dimostrazione che
un’etica di cittadinanza, che implica un processo di laicità, è costruzione
faticosa di tutte le parti, così come si è verificato nel nostro Paese.
Così
pure va inteso il passaggio che le politiche arabe hanno compiuto dal
panarabismo al panislamismo. Nasser, Saddam Hussein, ma anche Assad padre, si
muovevano nell’orbita del panarabismo e del partito Baath, che, come è
risaputo, ha avuto due fondatori: uno islamico ed uno cristiano. Il panarabismo
insieme all’unità araba recuperava quella della nazione. Il panislamismo agita invece la bandiera nera
della Umma islamica. Il Baath aveva
al suo interno un seme patriottico e illuministico. Il panislamismo no. Così
come ignora l’attitudine negoziale.
La
statistica qualche volta sorregge il ragionamento. Per questo ricordo che nei
decenni in cui le Acli e l’Arci (con il silenzio favorevole della Farnesina di
Andreotti) invitavano in Italia il leader palestinese dell’OLP Arafat, tra i
palestinesi i cristiani raggiungevano il 12%; adesso sono l’1,2%, come informa
padre Raed, attivissimo responsabile della Caritas palestinese.
I
nodi tra religione e politica chiedono di essere conosciuti e sciolti, proprio
per la loro complessità. E perché in qualche modo il cammino verso la libertà e
la democrazia delle popolazioni arabe non ci veda dalla parte opposta della
barricata.
Le
tappe difficili ma necessarie verso “una
comunità mondiale con un governo mondiale” (che era il sogno esplicito di
De Gasperi e Spinelli) chiedono questa consapevolezza politica. All’Europa in
particolare che, quando abbandona questo sogno programmatico, finisce per
regredire essa stessa.
Se
non conosci e non gestisci il limes
europeo, se non lo rafforzi per aprirlo all’accoglienza dei rifugiati e
profughi e migrantes (per ragioni drammaticamente ambientali) finisci per
regredire ai vecchi confini nazionali, come infatti sta accadendo in molti
Paesi Europei: i più egoisti perché meno lucidi. Che vanno ripristinando e
rafforzando e rilegittimando i vecchi confini nazionali (che si stanno
rivelando tutt’altro che superati) in nome della paura, figlia della mancanza
di progetto politico. I confini dell’Europa che amiamo non si abbattono, ma si
allargano progressivamente, per ragioni interne all’Europa medesima e per
quelle che pone il disegno di un governo mondiale. All’Onu nel dopoguerra e a
Bretton Woods la pensavano così. Per questo la nostra Costituzione è scritta in
quel modo e continua a ricordarci che l’Italia ripudia la guerra. Per questo se non cammini avanti, non stai
fermo, ma regredisci. (E il limes ti
segue come un’ombra nella marcia a ritroso.)
Vale
per l’Europa e per il mondo globalizzato.
[Sesto
San Giovanni, Febbraio 2016]