UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

venerdì 26 luglio 2024

TACCUINI
di Angelo Gaccione



Tenersi alla larga
 
È difficile, se uno non ne sa nulla, che possa notare la via Gian Giacomo Mora seminascosta dai cartelli stradali. Figuriamoci capire che quella altrettanto seminascosta attaccata al muro di un palazzo moderno lì all’angolo, scolpita da Ruggero Menegon, richiami seppure lontanamente la Colonna infame. Già leggere il testo della targa commemorativa è difficoltoso di per sé, se poi i teppisti l’hanno imbrattata, non ne parliamo. La scritta recita così: Qui sorgeva un tempo la casa di Gian Giacomo Mora, ingiustamente torturato e condannato a morte come untore, durante la pestilenza del 1630. 



Più sotto ci sono le dure parole di Alessandro Manzoni tratte dalla sua Storia della Colonna infame che non assolvono: È un sollievo il pensare che se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a piacere, e non è una scusa, ma una colpa”. 



Una mia amica tutti gli anni in agosto, passa a ripulire la targa e la scritta. Non se ne tiene lontana come ammoniva il Senato cittadino a conclusione del provvedimento con cui fece abbattere la casa di Mora ed erigere la famigerata Colonna. Leggiamolo per intero questo provvedimento inciso su lastra e in lingua latina (ma chi tranne ecclesiastici e letterati conosceva il latino nella Milano del Seicento?). 



“Dove si apre questo spiazzo sorgeva un tempo la bottega di barbiere di Gian Giacomo Mora che, con la complicità di Guglielmo Piazza commissario di pubblica sanità e di altri scellerati nell’infuriare più atroce della peste aspergendo di qua e di là unguenti letali procurò atroce fine a molte persone. Entrambi giudicati nemici della patria. Il Senato decretò che issati su un carro e dapprima morsi con tenaglie roventi e amputati della mano destra avessero poi rotte le ossa con la ruota. E intrecciati alla ruota fossero trascorso sei ore, scannati quindi inceneriti e perché nulla restasse d’uomini così delittuosi stabilì la confisca dei beni e ceneri disperse nel fiume. A perenne memoria dei fatti lo stesso Senato comandò che questa casa, officina del delitto venisse rasa al suolo con divieto di mai ricostruirla e che si ergesse una colonna da chiamarsi infame. Gira al largo di qua buon cittadino se non vuoi che da questo triste suolo infame essere contaminato. [1630 alle Calende di agosto]”.



La Colonna sarà abbattuta di notte nell’agosto del 1778; probabilmente il Senato del tempo ne provava orrore. Per la rimozione di questa targa infame bisognerà invece aspettare il 1803. Ma pare fosse divenuta così sporca e illeggibile che oramai da tempo nessuno la notava più. Ad ogni modo ora si trova al Castello Sforzesco sotto
il portico del Cortile della Rocchetta. Non me ne tengo lontano nemmeno io, in verità. La decisione municipale di dedicare la via proprio a Gian Giacomo Mora a risarcimento della sua memoria e della sua innocenza, era un atto doveroso. Tardivo, ma è arrivato. Era il 17 dicembre del 1868: Pietro Verri e Alessandro Manzoni avevano seminato bene. Se ad agosto resterò a Milano darò una mano alla mia amica a ripulire.
 

 

 

  

NON FOSSI MAI NATO…


 
28 luglio 2024. Perché un presidio davanti alla Base NATO Solbiate Olona
 
Viviamo in un mondo in cui la disumanizzazione sta crescendo e nemmeno le Nazioni Unite sono più un riferimento nella risoluzione dei conflitti internazionali. Un mondo devastato da numerose guerre, in cui lo scontro tra le potenze dominanti ed emergenti, pur con responsabilità molto diverse, colpisce prima di tutto le popolazioni civili (vedi ad esempio il genocidio in atto del popolo palestinese perpetrato dalle Forze Armate israeliane). Un mondo con milioni di migranti, rifugiati e sfollati ambientali costretti ad attraversare confini gravidi di ingiustizia e morte. Un mondo in cui si ricorre al massacro per accaparrarsi risorse sempre più limitate. Un mondo in cui la concentrazione del potere economico nelle mani di pochi compromette, persino nei paesi sviluppati, ogni speranza di realizzare una società basata sul benessere per tutte e tutti.
In sintesi, questo è un mondo in cui la giustificazione della violenza, in nome della “sicurezza di parte”, porta alla crescita di scontri bellici di proporzioni incontrollabili, che distruggono in maniera generalizzata e pervasiva, nei corpi, nelle menti e negli spiriti, quanto in ciascuno di noi vi è di umano. Eppure nessun blocco di potere, nessuna alleanza tra Stati, può oggi vincere una guerra senza che l’abisso inghiottisca ciascuno dei contendenti. Ci stiamo avvicinando a grandi passi, per via di scelte insensate, all'Apocalisse, sia per il genere umano sia per tutte le altre creature che abitano il pianeta Terra. Sono due anni consecutivi che gli scienziati atomici americani ammoniscono che siamo a soli 90 minuti (su 24 ore = 86.400') dalla mezzanotte nucleare. E noi dovremmo ancora tenerci le bombe termonucleari custodite a Ghedi ed Aviano? Dovremmo essere ancora disponibili a dispiegare nuovi euromissili e a puntarli contro la Russia?
In sintesi, questo è un mondo in cui la giustificazione della violenza, in nome della “sicurezza di parte”, porta alla crescita di scontri bellici di proporzioni incontrollabili, che distruggono in maniera generalizzata e pervasiva, nei corpi, nelle menti e negli spiriti, quanto in ciascuno di noi vi è di umano. Eppure nessun blocco di potere, nessuna alleanza tra Stati, può oggi vincere una guerra senza che l’abisso inghiottisca ciascuno dei contendenti. Ci stiamo avvicinando a grandi passi, per via di scelte insensate, all'Apocalisse, sia per il genere umano sia per tutte le altre creature che abitano il pianeta Terra. Sono due anni consecutivi che gli scienziati atomici americani ammoniscono che siamo a soli 90 minuti (su 24 ore = 86.400') dalla mezzanotte nucleare. E noi dovremmo ancora tenerci le bombe termonucleari custodite a Ghedi ed Aviano? Dovremmo essere ancora disponibili a dispiegare nuovi euromissili e a puntarli contro la Russia?
Siamo persone e realtà organizzate contrarie alla guerra e a tutti gli strumenti che la rendono possibile: concetti strategici e alleanze aggressive, spesa militare, ideazione, produzione ed esportazione di armi (nucleari, biologiche, chimiche e convenzionali), economia di guerra, eserciti ed esercitazioni, basi, servitù e poligoni militari. Facciamo questo presidio oggi per contestare la promozione a Quartier generale ARF (Allied Reaction Force) della Base NATO di Solbiate Olona, che già è sede della NRDC - Ita, cioè di uno dei comandi NATO per il dispiegamento rapido. Una scelta, maturata nel summit di Vilnius nel 2023, che consente al SACEUR (Supremo Comando Alleato in Europa, massima autorità militare della ACO – Comando delle Operazioni Alleato) di disporre di forze prontamente impiegabili (in tutti i domini: aria, acqua, terra, sottomarino, spazio e cyberspazio) per interventi immediati in tutte le circostanze - opinabilmente definite di “crisi” - ovunque nel mondo.



La crescita dell’importanza strategica della Base aumenta il coinvolgimento italiano, e in particolare l’area a nord di Milano, nel rafforzamento delle capacità belliche, anche aggressive, della NATO. La Base e il territorio circostante divengono così un bersaglio primario dei cosiddetti nemici del Patto Atlantico: una minaccia che non possiamo assolutamente tollerare. Così come troviamo altrettanto inaccettabile che il nostro Paese, le terre in cui abitiamo, diventino luogo di elaborazione, pianificazione e gestione di attacchi nei confronti di popoli presupposti nemici. Siamo dunque per la rimozione della Base e per lo scioglimento della NATO, l’Alleanza più potente e - almeno dal 1999 - aggressiva della storia umana. Una Alleanza che si comporta come fuorilegge (vedi ad es. gli attacchi alla ex Jugoslavia e alla Libia), ma che al contempo si investe unilateralmente del ruolo di tutore della legge internazionale, anche in sostituzione dell'ONU. Ci dicono che dobbiamo aumentare le spese militari, ma, considerando anche i Partner della NATO, la spesa militare di questa coalizione nel 2023 era il 72% della spesa militare mondiale, mentre quella della Russia era il 4,5% e quella della Cina il 13%. Ci dicono che dobbiamo aumentare le esportazioni belliche, ma i Paesi NATO sono responsabili del 73% del mercato mondiale delle armi, seguiti dalla Russia al 16% e dalla Cina al 5%. Ci dicono che Russia e Cina stanno incrementando il loro arsenale nucleare, ma da anni in questo settore gli USA spendono 4,5 volte più di quanto spende la Russia.
La NATO è una delle principali cause dell’instabilità internazionale, non certo una soluzione ad essa. Abbiamo poco tempo a disposizione. Unisciti a noi per contestare il potere militare e per creare condizioni per una pace vera e feconda, fondata sulla sicurezza comune, sull’impiego socialmente utile delle risorse e sulla tutela dell’unico pianeta che abbiamo. Noi ci proponiamo di proseguire la mobilitazione sia partecipando ad iniziative analoghe a livello nazionale, come ad esempio la manifestazione nel capoluogo toscano organizzata da “No Comando NATO né a Firenze né altrove”, prevista per il 21 settembre 2024, sia organizzando sul nostro territorio un corteo ad ottobre.
Siamo altresì intenzionati a cooperare con tutte le realtà che, accomunate dal riconoscimento dei principi fondamentali della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza e, in particolare, dal ripudio della guerra così come è prescritto dall’Articolo 11, volessero opporsi con noi alla NATO e alla presenza della Base a Solbiate Olona.


Contattaci per condividere questo impegno! Restiamo umani!
abbassolaguerra@gmail.com
 
Adesioni
Abbasso la Guerra OdV Venegono, Comitato promotore nazionale della 3a Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza,  Comitati promotori milanese e Alto Verbano della 3a Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza, Punto Pace di Pax Christi  Tradate, Assemblea Popolare di Busto Arsizio, Tavolo per la Pace dell’Alto Verbano, Argonauti - Mondo Senza Guerre e Senza Violenza di Milano, Comitato intercomunale per la Pace del Magentino, ATTAC Saronno, ResQ People Equipaggio di Terra Saronno, Kinesis Tradate, Rete Mobilitazione Globale per la Pace Varese, Osservatorio Contro la Militarizzazione delle Scuole e delle Università Varese, Circolo Laudato Si’ S. Francesco Busto Arsizio, BiciPace Turbigo, Donne e Uomini Contro la Guerra Brescia, Centro Sociale 28 maggio Rovato, Laici Missionari Comboniani Venegono. All’iniziativa partecipano alcune “Donne in cammino per la Pace”. Aderiscono PaP Brescia, Carc Milano.

Libri
MUTO VOLO
di Giuseppe Puma


 
Durante il mio recente soggiorno a Modica la mia cara amica poetessa Silvana Blandino mi ha offerto il suo ultimo testo di poesie intitolato Muto volo (Silent flight) bilingue: testo in italiano con traduzione a piè di pagina in inglese. Muto volo è qualcosa di più di una sequenza di liriche: è un viaggio d’amore dell’anima e del corpo, della mente e dei sensi in cui ogni poesia è un pezzo di vita vissuta, sperata e spesso sognata. I suoi versi - di facile interpretazione - si affidano all’ascolto di lettori sensibili e disposti a coltivare i sogni: “A fatica negli anni/ho imparato a sognare/anche quando i sogni/erano cocci da ricomporre/anche quando i sogni/erano lacci da annodare”.
Nel filo della precarietà dell’esistenza si scopre una luce: “nella sera s’accende/ un raggio di luna”: il poter andare avanti nonostante l’illusione radicata nell’essere umano; una luce essenziale ed esistenziale che, se saremo in grado di cogliere e seguire, ci regalerà il dono dell’“abbraccio di Dio” nel momento in cui “i tuoi occhi stanno per chiudersi”.
Vorrei definire “civili”, alcune poesie di Silvana Blandino: sono le liriche che affrontano le tematiche che giornalmente viviamo, dove la poetessa indaga sul valore della vita. In “No War” mette in evidenza quanto a vuoto parlano i governanti: “Di giorno /si parla di accordi/di notte/si lanciano missili”; e ancora: “Il nemico invisibile/il fuoco che vuole/invade il corpo/Torniamo a pensare/Torniamo ad essere/umani”.
Il libro si legge volentieri ed ho avuto modo di apprezzarne sia l’armonia dei versi che i collegamenti che intercorrono tra poesia e riflessione. Spesso si nota un’associazione tra parola-immagine o tra parola-stato d’animo e una propensione all’ascolto e alla visione. Nella poesia “La Cava” è in evidenza un’immagine molto significativa, che diventa essenza quando piove, quando il torrente “grembo della Terra” è attraversato da un “rivolo d’acqua” (…) che scorre /sulle pietre /ora arse dal sole”, altrimenti, quando “è asciutta… è triste”.
Silvana Blandino è una voce poetica autentica: è sincera, accurata, non artefatta, in grado di parlare a tutti con bei versi e riflessioni genuine che ci aiutano a capire il senso della vita e di noi stessi: leggendoli è come ascoltare lei che li ha scritti, in quanto proposti in modo garbato, senza presunzione, ma con l’intento di condividere. “Mentre io affranta/rimango all’ombra/seduta sul muro/duro e a secco/nel mio tramonto”.
                                                               

 

 

 

giovedì 25 luglio 2024

25 LUGLIO: RICORDARE IL FASCISMO
di Franco Astengo

 
Nel ricordo del 25 luglio, giorno del colpo di stato monarchico che abbatté Mussolini e aprì la strada al momento più drammatico della storia d’Italia è’ il caso di rammentare non semplicemente cosa è stato il fascismo ma di sottolineare quanto persiste: veri e propri rigurgiti fascisti si avvertono anche a livello di schemi culturali, di comportamenti a livello di massa, di opzioni politiche concrete portate avanti da soggetti che si collocano al governo del Paese e appaiono incontrare fortune elettorali e di consenso da parte dell’opinione pubblica, senza ricevere quel contrasto che meriterebbero.
Ricordando che il fascismo salì al potere pur rappresentando un’esigua minoranza parlamentare sulla base proprio di una mancata opposizione e di un accompagnamento “furbesco” attuato da chi pensava di addomesticarlo anestetizzandolo nella gabbia del potere. L’attuale situazione, nella quale si stanno riproducendo soprattutto i temi più deteriori del razzismo deve essere affrontata attraverso l’espressione costante della negatività dei principi che il fascismo ha rappresentato realizzandone la costante comparazione con ciò che sta concretamente accadendo.
Il fascismo tese a presentarsi come squisitamente “italiano” e “romano”: torna qui il tema ricorrente del nazionalismo-bellicista. L’alleanza con la Germania hitleriana e l’intervento nella seconda guerra mondiale, accentuarono i caratteri ideologici propri del fascismo degli esordi, come il bellicismo e, di converso, fecero emergere tratti ideologici propri di quella successiva fase rimasti in ombra quali il razzismo e l’antisemitismo. Alcuni di questi caratteri, ma soprattutto il rifiuto della democrazia consentì di identificare un ruolo internazionale del fascismo, attivo in Europa, e felicemente definito da Palmiro Togliatti come “regime reazionario di massa”.
Una definizione che ha consentito, anche dopo la caduta del regime, di leggere il fenomeno del fascismo in senso transpolitico, come una sorta di cesarismo tipico del XX secolo basato su di un capo carismatico.



Un capo carismatico che portava avanti la ricerca del consenso delle masse attraverso una strumentazione di tipo propagandistico attraverso l’adozione di slogan rivoluzionari (intesi per lo più in una direzione aggressivamente nazionalistica) con la democrazia come nemico esclusivo, nella logica schmittiana. Il fascismo impose un modello autoritario sulla base di un rapporto gerarchico di sfruttamento tendendo a tradursi in un atteggiamento orientato verso il potere e di dipendenza portandolo a un attaccamento disperato a tutto ciò che appare “forte” (il gruppo, il partito, la legge, lo stato, la razza ecc.). Quali contro-misure posso essere adottate per uscire dell’atteggiamento del pregiudizio? Un tema di grande attualità se osserviamo attentamente ciò che accade. Il nazionalismo che rimane la matrice diretta del fascismo di allora e di oggi, rimane prodotto dell’organizzazione totale della società, che può essere mutato soltanto trasformando la società.
Il maieutico della democrazia e delle riforme sociali rimane quello dell’aumento nella capacità culturale complessiva. Una capacità di espressione culturale fondata soprattutto sulla memoria e rivolta alla complessiva articolazione sociale. È necessario contrastare prima di tutto sul piano della conoscenza, attraverso la ripresa di una funzione pedagogica dell’organizzazione politica prima ancora della semplice concorrenza elettorale l’idea oggi, purtroppo ricorrente, che il fascismo ritorni come “autobiografia della nazione”, ineludibile destino di appagamento degli egoismi più retrivi. Un’operazione culturale da condurre nel segno di un ritorno al concetto gramsciano di egemonia.

NEL CUORE DELLA BRIXIA FIDELIS
di Marco Vitale

Marco Vitale
                                                           

Lucia e gli altri due “pellegrini” forzati (Renzo e Agnese) amavano il loro paese, le loro casette e le loro montagne. L’Addio ai monti di Lucia, accompagnato dalle sue lacrime silenziose e pudiche è una delle pagine più profonde e commoventi della letteratura italiana. Ma quando, al termine di tutte le traversie, Renzo ritrova Agnese, a Pasturo, indenne dalla peste e le porta la buona novella di Lucia guarita e liberata dal suo voto da Padre Cristofaro, l’esito dell’incontro non lascia dubbi: “La conclusione fu che s’andrebbe a mettere su casa tutti insieme in quel paese del bergamasco dove Renzo aveva già un buon avviamento. E anche quando Lucia si riunisce a loro non c’è in nessuno il minimo dubbio su questa scelta verso “il paese adottivo e senza nostalgie per “il paese natio” ed il sopravvissuto Don Abbondio dirà: “codesti giovani, e qui la nostra Agnese, hanno già intenzione di spatriarsi (e io non saprei cosa dire: la patria è dove si sta bene).
Manzoni proprio nell’Addio ai monti sottolinea la differenza tra chi è obbligato da “una forza perversa” a lasciare il borgo natio (come erano Renzo, Agnese e Lucia al momento della fuga) e chi parte volontariamente, spinto dalla speranza di fare altrove fortuna (come sono Renzo e Lucia dopo il matrimonio quando partono verso “la nuova patria”, carichi di speranze che, pur con qualche difficoltà, troveranno felice realizzazione).



Ma molti di noi si trasferiscono in un’altra città o nazione per libera scelta, alla ricerca di qualcosa che non sempre è chiaro a noi stessi. È in questi casi che si pongono delle domande sulla nostra identità: ma qual è allora la mia città, quella nativa o quella dove ho sviluppato i miei studi o dove ho svolto la mia attività? Quella dove sono nato io o quella dove sono nati i nostri figli, dove ho messo famiglia? E quanto conta il luogo e la cultura del luogo dove sono nati e cresciuti i miei genitori, e dove è nata e cresciuta mia moglie, la madre dei miei figli? Esiste un’identità personale legata alla cultura della città o paese dove sono nato e cresciuto? O è più corretto parlare di una pluralità di identità e di culture, che possono convivere nella stessa persona ed anche mutare nel tempo?
Io, padre napoletano, madre camuna, moglie toscana, nato a Brescia, liceo a Brescia, Università al Collegio Ghislieri di Pavia, borsa di studio in Germania e negli USA, primo lavoro breve a Roma, secondo lavoro stabile a Milano, da oltre 50 anni, dimora sia a Milano che a Brescia, mi trovo in una situazione di questo tipo, del resto come tanti altri italiani che conosco, esuli volontari dalla città natia. 


Mio padre, napoletano, uno dei primi laureati alla, allora nuova, facoltà di economia e commercio della Cà Foscari, subito dopo la laurea si trasferì a Brescia, dove un ramo della famiglia Vitale si era insediato sin dalla fine dell’ ’800 e qui si sposò ed ebbe tre figli. Fu bene accolto dalla città di elezione ed ebbe un buon successo professionale. Collaborò anche a parecchie attività culturali e sociali cittadine, ma non amò mai Brescia e la sua cultura. Non l’ho mai sentito pronunciare una parola in dialetto bresciano. Ci trasmise, invece, una forte cultura napoletana: canzoni, poesie, teatro, cucina, tutto era soprattutto napoletano a casa nostra, sicché ho ereditato una notevole biblioteca e discoteca di classici napoletani, che ho di recente donato a un centro sociale di Napoli.



Mi ha colpito, in un’intervista di Ruggero Cappuccio, l’affermazione nella quale mi ritrovo totalmente: “Posso stare a Parigi ed essere abitato da Napoli. Una città sta dove la porti” (Il Fatto Quotidiano 6 - 1 - 2022). Dalla famiglia materna, originaria di Montisola (Lago d’Iseo) e Darfo (Valle Camonica), formata da artigiani onesti e laboriosi, incominciai invece a cogliere alcuni aspetti fondamentali della cultura bresciana del lavoro, sulle sue radici e sulla sua importanza. Io sono nato in città, in Via Musei, nel cuore della Brixia Fidelis, la Brescia romana, a pochi passi dal Tempio Capitolino dedicato a Vespasiano nel I secolo dopo Cristo e dall’attuale Museo Civico di Santa Giulia, uno dei musei civici più importanti e genuini d’Europa. Ma quando ero ragazzo il Monastero di Santa Giulia era poco attivo e gran parte del terreno oggi dedicato al Museo era l’ex Opera Balilla, un imponente complesso sportivo (due campi da pallone e una pista di atletica) abbandonati, liberi e in disuso, come del resto abbandonati erano anche i ruderi di gran parte dell’attuale parco archeologico. L’attuale via Musei corrisponde al decumano romano ed è oggi parte del parco archeologico, splendidamente ricostruito, valorizzato e visitato da una presenza turistica crescente. Ma allora era una via molto trascurata e popolare con al centro un’osteria antica (Pergolina) animata da personaggi popolari affascinanti, con i quali imparai a giocare tutti i giuochi popolari di carte e la dama, dove divenni un campioncino. Le nostre giornate passavano tra lotte fra bande tra i ruderi romani con lanci di pietre che oggi farebbero allarmare i benpensanti e finirebbero diritti su qualche giornale (ma allora i genitori avevano altro cui pensare), partite a briscola e scala quaranta alla Pergolina e infinite partite a calcio all’ex Opera Balilla. Erano attività che potevamo svolgere in totale libertà, ogni tanto con qualche ammaccatura ma con un enorme senso di libertà, di autonomia e di autoformazione. Qui presi consapevolezza del grande valore della libertà, della cultura popolare, dell’autoformazione, dell’amicizia. Furono anni molto felici. La scuola, una pessima media, non ci interessava. Eravamo alla ricerca di noi stessi e del carattere della nostra città. I primi bagliori di orgoglio bresciano nacquero, allora, tra i ruderi romani, all’Osteria Pergolina, sugli smisurati e liberi campi di calcio dell’ex Opera Balilla che la guerra aveva, temporaneamente, reso liberi per noi.



Questi primi barlumi di brescianità trovarono un inquadramento più solido subito dopo le medie, grazie ad un ginnasio e liceo classico di alta qualità ma soprattutto grazie alla frequentazione di un centro educativo di grande spessore, che ha influenzato tante generazioni bresciane: l’Oratorio della Pace dei padri Filippini, centro di cultura religiosa, civile, generale di altissimo livello. Anche qui si giocava al calcio ma ben inquadrati, con tessera (F.I.G.C. Squadra Gymnasium N. 80516) ed una guida capace e appassionata. Ma insieme potevamo ascoltare le lezioni di veri maestri come padre Giulio Bevilacqua, padre Carlo Manziana, padre Cittadini, padre Marcolini e altri. Capimmo allora che non c’è conflitto tra spirito religioso e spirito libero (la Pace fu un centro antifascista militante), così come non c’è conflitto tra spirito religioso e scienza, mentre c’è conflitto profondo tra spirito religioso e clericalismo. Sentiremo questi temi ritornare, con forza, nei testi del Concilio Vaticano II, ma noi li avevamo ascoltati e interiorizzati dieci anni prima da parte di grandi maestri, la cui vita era testimonianza autentica di quello che dicevano. Nel frattempo, lo studio della storia veniva a incrociarsi con queste esperienze di vita e mi convinceva che questa religiosità profonda ma non clericale è caratteristica propria, fondante e duratura delle radici bresciane.



I tre pilastri della brescianità: “Liberi homines Brixiam habitantes”. Profonda religiosità. Grande capacità di lavoro e rispetto per la dignità dello stesso. 

     
Il primo pilastro è una spiccata vocazione alla libertà ed alla autonomia temperata dal realismo e dal buon senso. Non è un caso che il primo documento certo della comunità di Brescia in formazione, datato gennaio 1038, si intitoli: “Liberi homines Brixiam habitantes”. In quel documento il vescovo Olderico I si obbliga solennemente nei confronti dei “liberi homines Brixiam habitantes” a non costruire sul colle Cidneo e a consentire l’uso dei monti Degno e Castenedolo per il pascolo, il taglio della legna e altri bisogni. L’atto ha ancora la forma di una concessione feudale, ma nella sostanza traspare l’assunzione di un’obbligazione precisa alla quale il vescovo dovette essere costretto con metodi decisi. Olderico infatti precisa che per: «(…) vivere in pace e in letizia come un padre con i suoi figli, ho deciso di eliminare ogni occasione di litigio e di contesa». Ma i bresciani non si fidarono della soave prosa vescovile e con sano realismo pretesero che l’obbligazione fosse garantita da una somma di 2000 libre di oro puro, una cifra enorme, a fronte della quale essi ringraziarono offrendo l’omaggio simbolico di una pelliccia, secondo la tradizione longobarda. Questo episodio di Olderico I è particolarmente significativo per iniziare un discorso sull’identità dei bresciani. Sono i primi segnali di un sistema dove la proprietà, e la disciplina del suo corretto utilizzo, cominciano a diffondersi tra la popolazione con il fine dello sviluppo, della mobilità sociale, dell’elevazione economica e culturale. Rileggendo la storia di Brescia viene in mente l’interpretazione della storia italiana di Vasco Pratolini, che scrive: “Le cronache d’Italia sono un susseguirsi di faide, di scontri di fazioni, di lotte civili… Se di tali cronache si giovasse la storia, il volto d’Italia apparirebbe mutato. Ma è pur questo, mascherato, il voto dell’Italia. È il segreto della sua forza, per cui il più ignorante e sprovveduto degli italiani non si sente, ma è, cittadino del mondo. E consiste [tale volto, ndr] nella capacità del suo popolo di ricominciare sempre daccapo”.



Brescianità è forza di ricominciare sempre da capo. È in questa chiave che vanno riletti: il rinnovamento dell’agricoltura bresciana all’inizio dell’Ottocento, nella fascia pedemontana e collinare; lo sviluppo, nella stessa epoca, dell’industria in Val Trompia e Val Sabbia; lo sviluppo dell’industria del cotone dopo la grande crisi della sericultura del 1846; il poderoso sviluppo industriale del ventennio 1890-1910, dopo la prolungata recessione del primo periodo unitario. L’attuale forza economica bresciana viene dunque da lontano. E viene, non da questo o quel ceto, ma da tutta la popolazione, dal saper fare diffuso, frutto di lotte molto dure. È quindi forza vera.



Il secondo pilastro è quello di una profonda religiosità non clericale e sempre accompagnata da un forte impegno per i temi dell’assistenza sociale e della formazione. Basti pensare a quattro figure fondamentali: il vescovo Gaudenzio (366-420 d.C.); il monaco Petronace  (670-750 d.C.); Arnaldo da Brescia (circa 1100-1155; Albertano da Brescia (circa 1194-1250).
Il terzo pilastro è un grande rispetto per il lavoro e la dignità del lavoro e una grande abilità manuale ed organizzativa di risolvere i problemi pratici apparentemente più difficili. Qui il rinvio è alle tante testimonianze contenute nel mio libro: Città di Brescia. Culla d’intrapresa.



Questi erano i tre pilastri dell’orgoglio bresciano che si erano andati formando ed organizzati in me sia attraverso la conoscenza di persone di eccezionale qualità che attraverso lo studio della storia. Sicché quando in una mattina dell’autunno 1955, il sindaco di Brescia Bruno  Boni, giovane proveniente dalla Resistenza (a venti anni era nella cella 101 di Canton Mombello insieme ad altri prigionieri politici tra cui mio padre e sulla parete della cella era scritto: “quando nel mondo l’ingiustizia impera la patria degli onesti è la galera”)  e che guiderà mirabilmente la città come sindaco dal 1948 al 1975, mi telefonò per informarmi personalmente che ero stato ammesso al prestigioso Collegio universitario storico Ghislieri di Pavia (fondato nel  1567  da papa Pio V Ghislieri), grazie a una borsa di studio del Comune di Brescia, intitolata a Zanardelli, ne fui lieto e commosso ma non intimidito. L’orgoglio bresciano che avevo, pian piano, consapevolmente, sentito crescere in me mi dava conforto e coraggio.  Il sindaco Boni chiuse la breve telefonata con queste parole, che mi hanno sempre accompagnato: “ed ora lavori sodo e si faccia onore, anche per la città”. Ed è soprattutto questo terzo pilastro che mi fa sentire più legato a Brescia che ad altre città che pure ho amato e amo.

mercoledì 24 luglio 2024

IL RITIRO DI BIDEN 
di Luigi Mazzella


 
Sono anni che mi ostino a sostenere la tesi secondo cui  una vera democrazia è incompatibile con la cultura occidentale fondata su un groviglio di assolutismi religiosi e filosofici. So bene che i fautori della tesi opposta (peraltro quasi universalmente condivisa) si richiamano alla democrazia ateniese ritenendola all’origine di quella attuale. Essi sostengono che risulta solo  ampliata la portata  numerica del diritto di scegliere  i propri rappresentanti in Parlamento e i governanti,  estesa a tutti i cittadini di uno Stato (suffragio universale) e non soltanto a una parte di essi. Ritenere il sistema di governo di Atene  legato  da un fil rouge al nostro, è solo un ignobile artificio da rigettare. La democrazia ateniese era figlia di un pensiero monistico empiristico, concreto e razionalista, radicamente annullato e distrutto  dagli autoritarismi  dualistici, assolutistici, astratti, metafisici  congiunti del seguaci del filosofo iperuranico Platone ( e della sua schola, l’Accademia, giunta, con l’obbligo del giuramento  in verba magistri, a bloccare lo sviluppo del pensiero, sino all’idealismo tedesco di fine Ottocento) nonchè dei “fedeli”, seguaci delle tre religioni monoteistiche mediorientali. Gli uni e gli altri hanno consentito, in Occidente per circa due millenni solo un sfliza di monarchie, tirannidi, dispotismi di varie forme (laiche o religiose) e diverse denominazioni che di democratico avevano ben poco.
Solo nel 1893, infatti, la Nuova Zelanda ha introdotto, primo Stato al mondo, in  maniera stabile e solida il suffragio universale (id est: maschile e femminile e indipendente dal censo); e ciò, dopo i vari conati e fallimenti di Pasquale Paoli in Corsica (nel 1755 e nel 1769), dei Rivoluzionari francesi (nel 1792) e dei fautori della Repubblica Romana (nel 1849). Inoltre, negli Stati del mondo Occidentale, e soprattutto negli Stati Uniti d’America, grazie alla riforma della pubblica Amministrazione operata da Colbert per il Re Sole, i meccanismi dell’esercizio del potere di governo della polis risultano, secondo testimonianze sempre più insistenti e diffuse, profondamente alterati dal potere conquistato da pubblici dipendenti di particolare qualificazione (agenti segreti, militari, magistrati, poliziotti e diplomatici) rispetto a quello dei cosiddetti rappresentanti del popolo, eletti nelle pubbliche elezioni. Alcuni fatti storici (il Pentagono che impedisce a Trump il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan negli utili tempi del suo mandato presidenziale, i processi cui è stato sottoposto il medesimo Trump per impedirgli di ripresentarsi alle prossime elezioni) e numerose denunce del cinema statunitense  sul coinvolgimento della CIA e dei servizi segreti Occidentali ad essa strettamente collegati (se non del tutto dipendenti) nel narco traffico con favoritismi, aiuti logistici ai contrabbandieri in cambio di informazioni e finanziamenti occulti e fuori del bilancio pubblico, fanno dubitare molto seriamente che gli strumenti interpretativi tradizionalmente adottati per valutare la democraticità di un Paese conservino ancora un loro residuo valore. Sotto questo profilo, infatti, a parte le ipotesi di utilizzo della droga come strumento per favorire ribelli e sovversivi contro i nemici degli statunitensi (quelli del momento e sono stati tanti a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale) tutti citati con dovizia di particolari in Wikipedia (V. sotto la voce CIA e traffico di Droga: i comunisti in Afghanistan, i guerriglieri nazionalisti in Birmania, e ancora in Bolivia, ad Haiti, in Italia con l’Operazione Blue Moon per fini di destabilizzazione dei movimenti di contestazione giovanile, nel Laos, in Messico, in Nicaragua, a Panama, in Turchia e in Venezuela), lo scambio di accuse tra i servizi segreti americani e russi circa le ultime elezioni presidenziali americane dimostrano che l’intervento degli opposti servizi segreti per il risultato delle elezioni, è tutt’altro che marginale. Questa lunga premesssa per dire a una destinataria intelligente ed acuta delle mie mail (che mi ha chiesto se il ritiro di Biden dalla competizione elettorale non complichi ancora di più l’esito già incerto delle prossime “presidenziali  Statunitensi”) che non mi è facile risponderle. Una volta nelle democrazie occidentali (non ancora definibili “cosiddette”) era possibile capire, nel corso delle manifestazioni della competizione elettorale, da che parte tirasse il vento popolare e azzardare delle previsioni sui risultati. Ora, a parte gli hackeraggi digitali già di per sé di enorme rilievo per lo strapotere di particolari pubblici dipendenti più potenti dei loro committenti (come gli agenti della Cia, dell’FBI del Pentagono), c’è da aggiungere che in quel mastodontico Paese, già caratterizzato da un melting pot etnico e culturale, è straripante, più che in altri Paesi dell’Occidente, la massa di un’aurea mediocritas dei self made men che rende un vero e proprio handicap la presenza di una personalità eventualmente prorompente in un contendente e favorisce, di converso, l’uomo comune di media intelligenza (Truman, Carter, Biden ne sono gli esempi più eclatanti). Et de hoc satis!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PSICOLOGIA E FILOSOFIA  
Vinicio Busacchi e Roberta Guccinelli




martedì 23 luglio 2024

SCONFINAMENTI
di Angelo Gaccione


Carlo Cassola

Le terre lontane di Cassola
 
O
ttimo lavoro questo su Carlo Cassola messo assieme da un robusto gruppo di ammiratori ed estimatori dello scrittore romano, ma come ha sempre egli stesso rivendicato, toscano di adozione. Questo prezioso volume dal titolo Sconfinamenti. Le terre lontane di Cassola (Effigi edizioni pagine 208) è una miniera preziosa. Curato da Alba Andreini (di Alba Andreini è anche il ponderoso Meridiano Mondadoriano) annovera diversi contributi: Mimma Carratù che firma l’introduzione, Stefano Montefiori che ci informa sui rapporti fra Cassola e la Francia, Leonardo Vilei che ci documenta sulle traduzioni in lingua spagnola de La ragazza di Bube e su questo romanzo fissa l’attenzione anche Manuel Carbonell Florenza, mentre la stessa Andreini firma un contributo dando ragione dei materiali contenuti e della “indiscutibile popolarità mondiale di Cassola”. Per i materiali si è attinto all’Archivio personale di Cassola, di Barbara e Valeria Cassola, del Centro Fortini, della Fondazione Mondadori e della vedova Pola Natali. Sono stati, altresì, necessari ben venti traduttori perché le lingue in cui le opere di Cassola sono state tradotte sono davvero tante. Ma di cosa si compone esattamente questo volume? 


La copertina del volume

Si va dalla riproduzione delle copertine dei libri cari a Cassola e che lo hanno influenzato nel suo itinerario artistico e nella sua poetica: da Lawrence a Thomas Hardy, da Joyce a Tolstòj a Flaubert… alle copertine dei libri di autori stranieri di cui ha scritto l’introduzione. Sono presenti molte fotografie che lo ritraggono all’estero e in Italia, articoli di giornali stranieri (recensioni e interviste, soprattutto), copertine dei suoi libri pubblicati nei vari paesi del mondo e nelle varie lingue: giapponese, coreana, vietnamita, francese, inglese, croata, greca, spagnola, portoghese, russa, bulgara, tedesca, bosniaca, cinese, svedese, finlandese… che danno la misura della notorietà e dell’apprezzamento di questo singolare autore italiano il cui percorso è stato tanto più solitario quanto più personale. Sono riportate anche alcuni fogli manoscritti su cui Cassola annotava le traduzioni dei suoi libri nei vari paesi e il quaderno dalla copertina rossa dove registrava in ordine cronologico e progressivo tali traduzioni con accanto le lingue. 


Cassola con Claudia Cardinale

Appare singolare questa rigorosa registrazione e la conservazione dei ritagli dei giornali, perché da un certo punto in poi Cassola tentava di eliminare e aveva dato ordine alla signora che si prendeva cura della casa di buttare tutto ciò che lui lasciava cadere a terra. Ne fece le spese anche un dattiloscritto che a terra c’era finito in maniera involontaria. Diverse le lettere dei suoi traduttori stranieri e quelle dell’editore Giulio Einaudi, ma anche alcune arrivate dai responsabili delle varie case editrici italiane e delle Collane come quelle del poeta Vittorio Sereni, di Giansiro Ferrata, di Marco Forti, di Evaldo Violo. Ne esce un ritratto profondo, dell’uomo e dello scrittore, e quasi tutti i critici e i giornali stranieri ne sottolineano il carattere serio, gentile, misurato, lontanissimo dall’esibizionismo e dall’impetuosità italiana. Un carattere quasi nordico. E, per contro, un autore che pur non riconoscendosi in alcuna definizione e linea letteraria, viene percepito come un precursore della poetica dello sguardo, del Nouveau roman italiano, antiretorico, cantore dell’esistenza e della vita di personaggi comuni, e addirittura, in anni molto più tardi, come antesignano dei minimalisti. 



Scrive di lui James Ramoni: “(…) egli descrive lo spessore di un’esistenza riportandone lentamente, con una fedeltà scrupolosa, i mille e un momento di cui tale vita è intessuta. Nessuna concessione alla letteratura. Certi capitoli non sono che dialoghi in cui è inutile cercare la benché minima belluria stilistica. Vi è un costante obiettivo di realtà…”. E Joseph Bertrand: “(…) ciò che si apprezza di più è il pudore dello scrittore […] Se Carlo Cassola ci commuove, è grazie a questo dono di riservatezza, di allusione, che accenna un’ombra di tragedia sull’apparente banalità del quotidiano fatto romanzo”. Alieno al romanzesco e sempre attento a non concedere nulla all’intellettualismo, in favore di una più profonda ed umana verità, Franco Fortini gli riconosce, invece, “la più sottile e furiosa formazione intellettuale che si possa incontrare in Italia”. Sugli aspetti esistenziali aveva invece insistito il poeta Mario Luzi: “Il meglio di Cassola si ha quando il respiro e il flusso esistenziali passano all’interno dei suoi personaggi, identificandosi con la loro umile consapevolezza umana e con il loro destino”; personaggi umili, si è detto, spesso dimessi che “misurano gli acquisti e le perdite della loro vita sul metro della vita stessa, così come è stata e sarà per tutti, così com’è in se stessa”, secondo l’acuta e puntuale osservazione di Luzi. 



Di lettere autografe di Cassola ce n’è solo una, quella riprodotta a pagina 43. È indirizzata all’amico Franco Fortini, è datata 20 febbraio (1956) ed è stata spedita da Grosseto dove allora abitava. Di sicuro recuperata presso il Centro Fortini. In quella stessa pagina un curioso disegno a penna di Fortini del 1955 che ha ritratto l’amico Cassola mentre dorme. Ma torniamo alla lettera perché vale la pena riportarne qualche stralcio: “(…) Ma intanto non posso fare a meno di scriverti per esprimerti la mia (la nostra) gioia per quanto sta avvenendo al congresso del PCUS. Le aperte critiche a Stalin, al culto della personalità, al conformismo soffocante, alla mancanza di democrazia, alle falsificazioni storiche ecc. Ti saresti aspettato niente di meglio?”. Come il piccolo gruppo di letterati ed intellettuali di sinistra nemici delle dittature e del militarismo comunista, Cassola e Fortini guardavano con speranza ai mutamenti che avrebbero potuto verificarsi in Unione Sovietica. Ne rimarranno presto delusi: pochi mesi dopo quello stesso anno, il 23 ottobre, i carri armati sovietici invaderanno l’Ungheria schiacciando nel sangue il tentativo di riforme e di cambiamento.   

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