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UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese
FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
Buon compleanno Odissea
mercoledì 11 dicembre 2024
LO VUOLE L’EUROPA?
PULZELLE
di Luigi Mazzella
Sta per uscire in
libreria il volume da me scritto, L’Occidente al tempo delle pulzelle (edito
da Avagliano). Conseguentemente, nella nota odierna, mi soffermerò sulle
protagoniste del mio libro, al fine di aggiornare, per così dire, la loro
immagine, per i destinatari delle mie e-mail. Il “girellismo” politico
della pulzella italica, icasticamente espresso dal motto “Francia o Spagna,
purché se magna”, ha trovato una sua più compiuta e ampia espressione
quando Giorgia Meloni, si è dimostrata capace di svenevolezze e
teneri abbandoni sulle spalle “a Dio piacenti” e, invece, “spiacenti agli
inimici sui”, (come potremmo dire, parafrasando il Dante Alighieri del III
Canto dell’Inferno, facendo subire alla “esse” del nostro alfabeto, nel
primo termine del verso, lo stesso destino di caduta del “sigma”
intervocalico della lingua greca antica). È divenuto chiaro agli italiani
che con una “pulzella” così ben disponibile a deporre l’ascia di guerra, da
poco imbracciata per compiacere Biden (quasi un’ultima sigaretta come quella
che si offre ai condannati a morte) e pronta a parlare di pace con
Donald Trump, i rischi per l’Italia di essere colpita da un missile a
lunga gittata in risposta a quelli “donati” dall’America a Volodymyr Zelensky,
diminuiscono e c’è la speranza che perfino l’incontro con Vladimir Putin, con
connessi abbracci e ammiccamenti, possa rientrare tra i prossimi
traguardi della Presidente italiana. Tempi meno chiari e limpidi sembrano
invece profilarsi per le altre due “pulzelle”.
La seconda, italiana
anch’essa (pur se di gotico nome: Schlein) potrebbe essere tentata anche
lei di sfoderare il suo non proprio accattivante sorriso per piacere a Trump…
ma la precedente e quasi uguale “chiostra dei denti” mostrata (anche nelle
circostanze meno allegre) della Kamala ridens e la vicinanza
ideologica (si fa per dire, trattandosi solo di condivise banalità
pauperistiche) tra i due partiti (italiano e statunitense) entrambi sedicenti
(molto sedicenti) “democratici” non gioca a suo favore. E ciò anche perché
quell’intesa ricorrente con un uomo del nostro firmamento politico cui
il Presidente americano ha reso plurale in nome di battesimo per fare
intendere, al colto e all’inclita, di aver compreso la “doppiezza” del suo
gioco politico e capito il suo poco noto ma consequenziale (per le sue
simpatie) collegamento con ambienti americani non proprio a lui vicini
non è certamente d’aiuto alla “pulzella rosso-sbiadita”.
Resta da considerare la
pulzella teutonica, Ursula Von der Leyen. Orbene, io credo che, a
dispetto di una sua eventuale, tendenziale propensione al cambio di
casacca, la nostra guerriera in gonnella dovrà starsene alla finestra per
un po’ di tempo, con l’ascia di guerra ben nascosta. “America first”
potrebbe riservare delle sorprese, alla sua “Europa”, quella che comincia a
piacere meno a tutti (eccetto che a CIA, FBI, Pentagono e Lobby bancaria di
Wall Street e della City).
martedì 10 dicembre 2024
IL MONDO
MULTIFORME DI BAJ
di Angelo Gaccione
Enrico Baj
Prima di
andare a vedere la mostra di Enrico Baj alla Sala delle Cariatidi di Palazzo
Reale qui a Milano, ho voluto andare a rileggermi l’intervista che gli avevo
fatto oltre un ventennio fa, confluita poi nel volume pubblicato nel 2001 dalla
Viennepierre edizioni sotto il titolo: Milano la città e la memoria.
L’ho fatto per almeno due ragioni: perché il rapporto dell’artista Baj con le istituzioni
pubbliche della città in cui era nato il 31 ottobre del 1924 (giusto un secolo
fa), non era stato dei migliori; e perché volevo rinfrescarmi la memoria a
proposito di quella che lui stesso nell’intervista definisce “una grande messa
in scena di dodici metri di larghezza per 4 o 5 di altezza, più cinque di
sporgenza”.
Baj in una foto giovanile
Mi sto riferendo alla gigantesca installazione realizzata nel 1972 dal titolo I funerali dell’anarchico Pinelli, perché è proprio con la creazione di quest’opera di denuncia sull’omicidio del ferroviere e partigiano Giuseppe Pinelli, che il rapporto fra Baj e Milano sarà destinato a divenire conflittuale e insanabile. L’opera avrebbe dovuto essere esposta nella Sala delle Cariatidi di quell’anno, in occasione della mostra che il Comune aveva fissato a Palazzo Reale, ma un evento tragico e inaspettato farà saltare tutto. Ecco come Baj lo racconta nella mia intervista: “L’inaugurazione della mostra doveva aprirsi il 17 maggio del 1972, il giorno stesso in cui alle 9 del mattino una mano misteriosa sparò al commissario Calabresi…”. Per i lettori più giovani ricordiamo che era stato il commissario Luigi Calabresi a convocare in questura Pinelli da cui uscirà cadavere.
“La mostra, preparata con gli auspici e con l’accordo del Comune di Milano, fu censurata e mai più riaperta, per via di quella magnifica coincidenza dell’inaugurazione con la soppressione del commissario Calabresi”. Il Comune “era stato sopraffatto dagli eventi”, continua Baj “la destra indicava in me uno dei principali agenti della sedizione, se non addirittura l’ispiratore di quel gesto delittuoso”. Insomma, niente mostra a Palazzo Reale, e l’installazione non venne più esposta a Milano; in compenso venne, nel corso degli anni, ospitata nelle città principali di mezzo mondo. Non andò meglio con quello che era stato battezzato “Spazio Baj”. Era stato aperto a Palazzo Dugnani in via Manin, “uno dei più bei palazzi di Milano” che contiene anche “un affresco meraviglioso del Tiepolo” mi diceva orgoglioso Baj, nel 1986-1987, con una forte donazione: “Ottocento incisioni, cento multipli, una decina di pezzi unici”, ma ha avuto vita breve, “Ha funzionato un anno o due”. I giudizi negativi che allora esprimeva Baj nei confronti della gestione pubblica dell’arte a Milano, erano molto severi, e ne aveva pienamente ragione.
Questa mostra compresa sotto il titolo “Baj chez Baj” messa in piedi a distanza di oltre mezzo secolo, suona come un vero e proprio atto di risarcimento. Una tardiva riparazione della città, nei confronti di uno dei suoi artisti più geniali ed inventivi. L’installazione del Pinelli arriva nella Sala delle Cariatidi a ridosso dell’anniversario della strage di piazza Fontana e della morte dell’anarchico. E ci arriva con tutta sua forza dolente e drammatica per ammonirci e farci riflettere, come voleva il suo artefice. Ci arriva accompagnata dall’altra gigantesca installazione dal titolo Apocalisse (1978-1983) affollata di mostri divoratori, di occhi, di mani mozzate, di bisce, di arti monchi, di volti umani grotteschi, di teschi, di visceri, di animali, e da un corpus di circa una cinquantina di opere, se non ho contato male. Tra queste spiccano le figure picassiane, i generali che l’artista prende di mira e mette alla berlina appuntando contro le gerarchie militari e il militarismo la sua critica e il suo sarcasmo; gli otto Meccani costruiti negli anni Sessanta con strutture metalliche di colore verde, posizionati su un basamento a specchio che ne amplifica la presenza attraverso il rimando delle immagini nel fondo, dove anche la splendida volta del Salone è andata a conficcarsi creando una suadente rifrazione visiva.
Strutture che evocano corpi umani e che nella loro immobilità ci danno anch’esse l’idea di una pattuglia di militari posizionati sull’attenti. Le dame idrauliche, o donne fiume, costruite con gli assemblaggi tipici di Baj che non rinuncia a nessun oggetto o parte di esso, se appena appena la sua forma si presta a diventare un occhio, un naso, un seno, una testa o una parte anatomica purchessia che dia eleganza, decorazione, slancio, alle figure che si appresta a comporre. Bottoni, cordoni, stoffe con ricami, medaglie, rubinetti, prese, tubi di plastica, bulloni, dadi, pomelli, e quant’altro.
In questa fantasmagoria tutta giocata sull’occhio e sullo stupore, Baj ci dice che l’arte si è emancipata dal classico concetto di bellezza e della anatomia come le abbiamo conosciute; ci si presentano invece come sfida ironica in cui non c’è più posto che per la sorpresa, per come gli oggetti, anche i più comuni e abusati della nostra quotidianità, la genialità visionaria dell’artista, la sua capacità manipolatoria sa comporli su una tavola, una tela, un cartone, un pezzo di compensato, per dar loro nuove forme, nuove figure in grado di sorprenderci.
Due bottoni collocati ai lati di una spirale di cordoncini che diventa una testa, non sono più dei semplici bottoni, sono due pupille, due occhi; così come due pomelli possono diventare un seno, una ferma tende con nappe diventare un collo, la circonferenza di una testa e così via. Allo stesso modo di come i peperoni, le zucchine e ogni tipo di frutta possono comporre una testa vegetale, come ci ha insegnato Arcimboldo.
Uno specchio frantumato, e in questo allestimento ce ne sono due, può diventare una scultura geometrica astratta da ammirare, ma anche il riproduttore del volto di colui che vi si avvicina per guardare e rimirarsi. Lo stesso vale per i “mobili” che non poggiano su una superficie solida, né hanno una struttura tridimensionale; occupano il limitato spazio di una tavola, o di una tela, che nessun pennello ha dipinto, assemblati come sono da stoffe, e dal repertorio affollato di oggetti da cui Baj attinge.
Fedele e consapevole come pochi alle sue concezioni teoriche e alle idee che è andato via via elaborando nel corso degli anni, Baj ha dato corpo a quelle idee e a quelle concezioni incarnandole in manufatti estetici di indubbia originalità, costruendosi una cifra personale fantasiosa, ironica, e insieme riconoscibilissima.
P.S. Con enorme soddisfazione ho
appreso che, finita questa mostra, I funerali di Pinelli saranno
collocati in pianta stabile nel Museo del Novecento al Palazzo dell’Arengario
di Piazza del Duomo. Baj ne sarebbe stato felice, e anche noi.
Scheda tecnica
Titolo: BAJ. BajchezBaj
a cura di: Chiara Gatti e Roberta Cerini Baj
sede: Palazzo Reale Milano Piazza del Duomo 12
Mostra: Comune di Milano-Cultura Palazzo Reale
Electa
in collaborazione con: Savona, Museo della
Ceramica e Albissola Marina, MuDA Casa Museo Jorn
progettazione dell’allestimento: Umberto Zanetti,
ZDA Zanetti Design Architettura
sponsor tecnico: UniFor
lighting: Viabizzuno
Con il supporto di: Vinavil, COOP
media partner: Lucy sulla cultura, Radio Popolare
catalogo: Electa
aperture speciali
Martedì 24 dicembre 2024 (Vigilia di Natale): 10.00 -
14.30
Mercoledì 25 dicembre 2024 (Natale): 14.30 - 18.30
Giovedì 26 dicembre 2024 (Santo Stefano): 10.00 - 22.30
Martedì 31 dicembre 2024 (San Silvestro): 10.00 - 14.30
Mercoledì 1° gennaio 2025 (Capodanno): 14.30 - 19.30
Lunedì 6 gennaio 2025 (Epifania): 10.00 - 19.30
LE POESIE DI CURTO
di
Mauro Pichiassi
Francesco Curto
Sono profondamente grato a Francesco Curto per il suo Gravidanze del cuore, di cui gentilmente
mi ha fatto omaggio, perché non solo mi ha fatto scoprire in un caro amico di
lunghissima data un poeta raffinato e profondo che mi ha fatto provare,
attraverso la lettura, sensazioni ed emozioni. Questo piccolo volume è
diventato per me uno scrigno di splendidi gioielli che ti catturano per la loro
grazia e lucentezza. Sono poesie diverse per tema e spessore l’una dall’altra,
ma tutte ti colpiscono per la loro incisività, per il modo in cui mettono a
fuoco un momento di gioia o di dolore, di speranza o di paura, o focalizzano un
problema generale o un tema sociale, oppure descrivono situazioni,
comportamenti e persone. Poesie che finiscono per piacerti così tanto da
tornare a rileggerle più volte in momenti e tempi diversi, allo stesso modo in
cui in certi momenti torni a riascoltare un disco di canzoni del cantante
preferito. Rileggere più volte la stessa poesia di Francesco vuol dire tornare
a riprovare e rivivere le emozioni e anche le riflessioni sperimentate alla
prima lettura con in più, talora, la scoperta di nuovi sensi e significati non
colti al primo incontro.
Nel
titolo è riassunto il senso della raccolta: la Poesia, quella con la P
maiuscola, nasce dal cuore di chi guarda il mondo intorno a sé con gli occhi
del disincanto, dell’empatia e dell’amore. Non importa se molte volte dal
travaglio del cuore non nascono delle poesie; la sconfitta ci può stare. Anche
se si resta a mani vuote il sogno vero del poeta resta (v. La poesia p. 33). In
fondo il poeta è un “sognatore venditore di sogni che non costano nulla”, un
“paroliere ambulante senza fissa dimora”; due immagini bellissime che colgono
l’essenza della poesia di Curto, che con i suoi versi ti accompagna nei suoi
sogni e si serve delle parole per rappresentarli, per costruire arcobaleni e
comunicare gioia e amore.
Francesco Curto |
Curto
ha piena consapevolezza del suo essere poeta e del ruolo che la poesia può
svolgere nella vita e nella storia dei singoli uomini. Se è vero che “i poeti non cambiano il mondo”
è anche vero che senza la poesia il mondo è più vuoto e triste e la vita senza
poesia è insipida e vuota come un pane senza lievito. Ma essere poeta e fare il poeta non è facile.
Curto riconosce di avere una cartella dove infila alla rinfusa “foglietti di carta con versi presunti”,
versi che vorrebbe dimenticare, che invece rimangono lì, nella coscienza,
scottano e rumoreggiano. E la difficoltà dell’essere poeta sta proprio nel
mettere ordine in quella cartella che porta sempre con sé. Quello dei poeti è un destino crudele: è
amato dalle persone innamorate che ritrovano nei versi dei poeti le espressioni
più complete dei loro sentimenti e delle loro passioni, e allo stesso tempo è
odiato dai potenti perché non trovano nelle poesie la celebrazione o
l’esaltazione delle loro presunte imprese. I potenti cercano servi e adulatori
e il poeta non può esserlo perché i suoi versi nascono dalla sua anima, dal suo
cuore, e sono espressione di libertà. Curto poeta si descrive attraverso una
serie di immagini vivide e incisive: si sente un vecchio bambino che gioca tra
le macerie del mondo, un profeta che parla per chi non può parlare, un
costruttore di sogni che raccoglie come fiori nei campi della vita; si sente
come uno di quei tanti versi infilati nella cartella, che è la sua coscienza,
rimasto confuso e sperduto. Non è interessato a quello che diranno di lui, che
era un innamorato della vita, perché la morte mette tutto a tacere, per questo
egli sente la morte come la sua unica amica, che non guarda in faccia a nessuno
e non fa privilegi a nessuno.
I
poeti, si dice, sono i più grandi sognatori, i veri costruttori di ponti
sospesi sul nulla che portano a realtà diverse da quelle che ci stanno a
fianco. I poeti ci regalano sogni e di sogni abbiamo bisogno tutti e per questo
leggiamo poesie, perché vogliamo sognare una realtà diversa, magari presi per
mano e guidati da qualcuno che ha una sensibilità maggiore e ci fa provare
speranza, amore, felicità ma anche di tristezza e dolore. Con i suoi versi
Curto ci regala sogni, che lui raccoglie di notte e “conduce come treni inesistenti”. In una sua poesia confessa che la
sua missione è “gonfiarti l’anima di
sogni/ per farli sbocciare come rose / all’alba domani senza giorno”. Ma il
sogno del poeta non è pura fantasia ma è trasfigurazione della realtà o forse
osservazione della realtà da una prospettiva insolita, è l’espressione di un
desiderio intimo e profondo che ricorda tanto i sogni che si fanno quando si
dorme. Il sogno è quanto di più personale il poeta possiede, e tuttavia lo
condivide con gli altri; nel sogno il poeta trova la sua libertà più vera,
quella che nessuno mai potrà togliergli.
Un ritratto di Curto
Con
i suoi versi Curto non ti accompagna solo tra i suoi sogni, ma ti porta a
guardare la realtà in cui viviamo, dove si alternano, in un ciclo continuo,
gioie e dolori, allegria e tristezza, amore e odio. Ecco allora il poeta
soffermarsi a guardare le immagini drammatiche dei tanti disperati che sbarcano
sulle nostre coste per inseguire un sogno, una speranza o per sfuggire a una
sciagura certa. Ma troppo spesso quel sogno è quasi sempre tristemente
accompagnato dalla morte di quanti non sono riusciti a trovare un approdo
amico. Oppure ricorda le donne della sua terra che tornano la sera stanche e
sfigurate dopo un’intera giornata passata a raccogliere le olive. Quello che
viviamo è un tempo duro, grida in alcuni versi che, pur scritti anni addietro,
sembrano descrivere la realtà di oggi sconvolta da focolari guerra accesi in
diverse parti del mondo. Eppure, si tratta di una realtà immutabile, è anzi il
sempiterno tempo del mondo dove, ieri come oggi, “non hanno più lacrime né pane gli ultimi della terra”. Dolore e
disperazione canta nel vento il poeta, un dolore che nessuno può lenire o
alleviare, neppure le stelle che tutto osservano.
Quella
che viviamo è una realtà complessa e difficile, nella quale ogni tanto ti fermi
per capire dove ti trovi e a che punto sei arrivato, per interrogarti se il
momento o il luogo in cui sei è quello di arrivo o quello di partenza. Questi
interrogativi emergono nei versi di “Allora
a che punto siamo?”. Dietro un apparente virtuosismo giocato con le
espressioni in cui occorre la parola punto, il poeta descrive il disagio di
trovarsi, pur tra i tanti punti fermi, a un punto morto. Per questo, in modo
sconsolato conclude che tra tutte le incertezze non ci resta che puntare sulla
morte.
Dalla
lettura dei versi di questo volumetto emerge il mondo interiore ed
esperienziale del poeta, i suoi sentimenti, le sue passioni, i suoi sogni, le
sue speranze e i suoi ricordi. I ricordi della terra d’origine con la fatica e
le pene delle donne e degli uomini impegnati nel duro lavoro dei campi o dei
vecchi che al termine della giornata seduti in fronte al sole rievocano i
giorni terribili della fame e delle tribolazioni della loro gioventù. Ora
guardano verso i monti dove tramonta il sole immaginando al di là di quelli un
mondo diverso. Il ricordo della terra d’origine fa da contraltare alla terra
d’elezione dove il poeta oggi vive, in sintonia con il santo umbro di cui
condivide il nome e con il poeta perugino Sandro Penna di cui condivide sia le
vie della città che le vie della poesia. Amori e ricordi di persone che hanno
segnato la vita del poeta; e al primo posto quello della madre, alla quale
dedica la tenera e appassionata lirica che apre l’intera raccolta.
Sono versi
di amore di una tenerezza struggente quelli in cui evoca i luoghi e i momenti
in cui madre e figlio comunicavano allora e comunicano ora anche senza parlare:
tanto intesa era ed è la loro relazione. E altre figure e altri amori che hanno
accompagnato e scandito la vita del poeta si intravvedono in tanti versi, che
sia la sposa di maggio o la donna sognata per la quale raccogliere ranuncoli
per coprirla di festa.
In
sintesi, un’antologia di poesie dense di significati e immagini che fanno bene al
cuore di chi leggendole prova emozioni e suggestioni forse simili a quelle del
poeta ma anche molto distanti.
domenica 8 dicembre 2024
CENSIS 2024: IL
NAZIONALISMO SENZA NAZIONE
di Franco Astengo
Di seguito si troverà una sintesi giornalistica delle principali
proposizioni emerse dal rapporto del Censis 2024 presentato oggi 6 dicembre. In precedenza siano
consentite poche righe dettata da un’analisi personale:
1) il Censis ha
fotografato un’Italia dove la politica, l’azione pubblica, il senso del
collettivo ha ormai raggiunto il minimo storico almeno dal secondo dopoguerra
in poi;
2) L’analisi di
questa sintesi che presentiamo adesso ci dimostra che la passività sociale
viene intesa e sfruttata come varco perché si apra il fianco a qualche
avventura pericolosa, considerato anche il vento che spira per il mondo;
3) Dovrebbe essere
fondamentale il recupero di alcuni concetti-base che tra l’altro stanno dentro
per intero alla Costituzione Repubblicana nell’idea dell’uguaglianza, di una
democrazia rappresentativa, di una partecipazione popolare al governo del
Paese;
4) Alla
frantumazione corrisponde quindi l’acquiescenza di massa nell’omologazione
della perdita di valori che si verifica
mentre si sta smarrendo il senso del “pubblico” in settori decisivi come il
lavoro (in un Paese privo di struttura e di politica industriale) la scuola e
la sanità che dovrebbero essere considerati non semplicemente come elementi del
“welfare” ma come fattori fondamentali
della coesione sociale;
5) questo governo
punta su di un antistorico nazionalismo senza nazione puntando tutto sulla
paura. L’idea di una Europa democratica sembra ormai smarrita dentro a una
crisi profonda delle relazioni internazionali;
6) Tutti questi
elementi giustificano ampiamente la tanto criticata affermazione sulla “rivolta
sociale”. Abbiamo bisogno urgente di una gramsciana “rivoluzione intellettuale
e morale” tale da funzionare come presa di coscienza collettiva.
Ecco la sintesi
come ce la stanno offrendo le principali fonti di stampa in queste ore: “Si galleggia e ci si crogiola in una ‘sindrome italiana’ che ci intrappola perché non si
arretra e non si cresce. La fotografia del Rapporto Censis 2024 restituisce una stasi che nasconde anche opportunità,
slanci che sarebbero dietro l’angolo. Sempre che si decida di non galleggiare,
appunto, nel tradizionale problema solving all’italiana che, scrivono ancora
quelli del Censis, non basta più. «Ci flettiamo come legni storti e
ci rialziamo dopo ogni inciampo, senza ammutinamenti. Ma
la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata», si
legge nel Rapporto 2024 in cui si dice che negli ultimi vent’anni (2003-2023)
ci si è impoveriti perché il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto in
termini reali del 7,0%. E nell’ultimo decennio (tra il secondo trimestre del
2014 e il secondo trimestre del 2024) anche la
ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%.
In un flash: c’è
più lavoro ma meno Pil, il settore del turismo è molto vivace mentre l’industria
soffre nonostante l’aumento netto della produttività, manca personale in
diverse realtà e il welfare è ipotecato. Tutto questo succede mentre c’è un nuovo scenario
mondiale e un nuovo scenario tecnologico «nei quali le barche non salgono e non
scendono più tutte con la stessa marea». I
dimenticati che scontano la deindustrializzazione, non sono solo nel Midwest, l’ottimismo
autentico, dell’era della globalizzazione arrivate ormai al capolinea. L’Italia
sta attraversando profonde trasformazioni che, avverte il Censis, rischiamo di
non padroneggiare al meglio. Soprattutto se si sceglie il galleggiamento senza
meta di «sempre meno famiglie e imprese che competono», e che a mano a mano
saranno «sempre meno abili al galleggiamento». Ecco perché la fotografia del
Censis assume i contorni di una trappola se si considera che l’85,5%
degli italiani è ormai convinto che sia molto difficile salire nella scala sociale”.
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