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UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese
FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
Buon compleanno Odissea
sabato 12 ottobre 2024
ASMODEO
venerdì 11 ottobre 2024
IL VERZIERE E LA SUA
COLONNA
di Angelo Gaccione
Angelo Inganni
Veduta del Verziere 1852
Ora che Largo
Augusto è stato ristrutturato, divenuta una piazza chiusa al traffico, ha
acquistato l’importanza e la nobiltà che gli era dovuta. Già l’avevano offeso
cambiandogli nome: che necessità c’era di mutare il suo bellissimo nome che si
estendeva all’intera area? Si era sempre chiamato coerentemente rione del Verziere
perché per secoli vi si era tenuto il mercato ortofrutticolo, e i milanesi
dicevano nella loro bella lingua: “andemm al Verzée”. E il loro più importante poeta
vernacolare, il grande Carlo Porta, che al Verziere ha la sua bella statua, non
aveva forse pubblicato nel 1814 La Ninetta del Verzee? Il dipinto del
1852 di Angelo Inganni con i suoi luminosi colori e le foto in bianco nero fino
a tutto il Novecento ce ne restituiscono fascino e poesia. La colonna con il
Cristo Redentore vi compare presente e svettante, e gli anziani milanesi me la
indicavano senza fallo come la Colonna del Verziere. Segno che la colonna era
venuta dopo.
Angelo Inganni Veduta del Verziere 1852 |
Monumento a Carlo Porta
Anche se di nomi gliene hanno
affibbiati più di uno: Colonna di San Martiniano, Colonna del
Redentore, Colonna della Vittoria, Colonna infinita… E uno
glielo avevo dato ironicamente anche io: Colonna rotatoria, perché era
diventata una sorta di colonnina girevole per autobus, tram e macchine, ed era
un vero deliro di rumore e di caos, per le tante vie che vi confluiscono.
Che si sia voluto conferire alla
colonna una funzione commemorativa, lo sappiamo dalla storia più lontana; ma ha
avuto una funzione anche di tipo decorativo e si è evoluta attraverso il passaggio
da uno stile all’altro, soprattutto quando si è deciso di farne il sostegno di
edifici e di templi. La verticalità, tuttavia, già di per sé era indice di
potere e potenza (lo dimostrerà la sfida delle famiglie mediante la edificazione
delle torri in epoca medievale, come lo dimostrano oggi i grattacieli delle
multinazionali e delle grandi holding finanziarie). E, prima ancora gli
obelischi, che hanno anticipato le colonne e hanno trovato la loro collocazione
in spazi e luoghi altrettanto fortemente simbolici. Ovviamente l’aspetto
religioso ha avuto il suo peso e lo slancio verso il Cielo, luogo delle
divinità e del Theòs non va assolutamente trascurato.
1905
La colonna isolata al centro di una piazza fa memoria, ricorda ai contemporanei e ricorda ai posteri. Commemora eventi, imprese di eroi, esprime voti, ammonisce. Chissà quante di esse sono andate definitivamente perdute nel corso della storia: abbattute dai nemici, sommerse da catastrofi naturali, sbriciolate dal passare impietoso dei secoli. Dallo storico Vitruvio sappiamo che i prototipi venivano realizzati originariamente in legno, materiale facilmente reperibile, e che poteva essere lavorato (e perché no?), inciso e decorato dalle mani abili di artigiani-artisti. Ancora oggi ammiriamo questi manufatti architettonicamente di grande fascino, dispiegati in luoghi divenuti parte della memoria collettiva. Basti pensare ai quindici presenti a Roma: dalla celeberrima Colonna Traiana all’obelisco di piazza San Pietro in Vaticano. Ma chi non ricorda quello di Parigi in Place de la Concorde o quello del Central Park di New York che i telegiornali ci rimandano di continuo? I newyorkesi lo hanno battezzato “ago di Cleopatra” per la forma appuntita della cima e per la provenienza egiziana.
La Ruvida Colonna
Naturalmente non possiamo paragonare
la colonna del Verziere a quelle più blasonate sparse per il mondo, ma anch’essa
fa la sua bella figura nello slargo. Purtroppo di colonne in giro per Milano ce
ne sono rimaste poche. Sono colonne votive, quasi tutte nate a seguito della
terribile peste del 1576-1577; le aveva volute il cardinale Carlo Borromeo.
Anche questa innalzata al Verziere, come le altre, inizialmente non era che un semplice
altare. A far fuori quelle scomparse era stato l’architetto austriaco Leopoldo Pollack a cui Giuseppe II aveva dato incarico di migliorare
la viabilità cittadina. Quella del Verziere era scampata all’abbattimento del
1786, alle cannonate austriache del 1848 e persino ai bombardamenti
anglo-americani.
La Ruvida Colonna |
Se pensate però che ebbe vita facile vi sbagliate. Trent’anni per progettarla e sessanta per completarla: il nome di Colonna infinita se l’era proprio meritato! Nel 1580 furono raccolti i fondi, nel 1581 si ordinò il materiale, nel 1611 prima inaugurazione dopo vicissitudini fra le più incredibili, la peste del 1630 bloccò tutto, il 1763 seconda inaugurazione con la statua del Redentore finalmente issata sulla cima (disegno del Richini, scultura del Vismara), primo restauro nel 1860 e in ricordo delle Cinque Giornate le fu dato il nome di Colonna della Vittoria: trentacinque anni dopo verrà inaugurato il monumento di Giuseppe Grandi a ricordo di quegli eventi. Nel 1927 il Cristo di arenaria in cima alla Colonna verrà sostituito con uno di bronzo. Se ci passate adesso dal Verziere, vi accorgerete che oltre alla Colonna col Cristo ce n’è un pezzo di una seconda.
Dagli operai del cantiere ho appreso che l’hanno trovata
durante lo smontaggio per spostare la colonna e sistemare la piazza. Era all’interno,
e si crede che sia la base più antica, la ruvida colonna ricordata dagli
storici. Ora all’interno della colonna è stato messo un supporto in
calcestruzzo moderno, e questo antico convivrà sulla piazza per ricordare a
tutti noi la sua vetusta età. Appena gli alberi faranno ombra tutt’intorno alla
piazza, verrò a sedermi sulle sue panchine, anche se i rumorosi tram su un lato,
e il traffico delle quattro ruote sul fianco opposto verso la via Battisti, non
sono certo una rilassante melodia.
MUSICA E SOLIDARIETÀ
Giovanni Baglioni
Lanciano. Strepitoso successo di
pubblico per il concerto di Giovanni Baglioni tenutosi giovedì 12 settembre al
Teatro Fenaroli di Lanciano. Giovanni Baglioni, virtuoso della chitarra
acustica, ha incantato gli spettatori con la sua performance artistica
dall’evocativo titolo “Roots”, Radici, eseguendo brani tratti dai suoi album
“Anima Meccanica” e “Vorrei bastasse” nonché pezzi di celebri solisti
internazionali di chitarra acustica. Le originali accordature e il sapiente
utilizzo anche percussivo dello strumento hanno accarezzato, scosso e fatto
vibrare i sensi del pubblico, trasportandolo nell’ affascinante e singolare mondo
musicale di Giovanni Baglioni. Il concerto, tra l’altro incluso nel cartellone
delle Feste di settembre, è stato organizzato dall’Associazione Culturale Punto
d’Incontro e l’incasso della serata sarà devoluto a favore dell’Associazione La
Conchiglia OdV che si occupa di servizi per i pazienti oncologici e i loro
familiari.
Stefania Vignetti
Giovanni Baglioni |
mercoledì 9 ottobre 2024
TACCUINI
di Angelo Gaccione
Voghera
Probabilmente sapete tutto sull’autore della famosa locuzione: “casalinga di Voghera”, lo scrittore Alberto Arbasino, che a Voghera era nato nel gennaio del 1930, ma è morto a Milano nel marzo del 2020. Arbasino non ne aveva data una connotazione negativa, come di frequente si sente dire, tutt’altro. Vedeva in essa il simbolo di un sano buon senso lombardo, di concretezza e attaccamento al proprio dovere. E i vogheresi avevano persino esposto, per un certo tempo, una statua che la raffigurava. Arbasino le aveva anche dedicato una poesia, e un’associazione che ne ha assunto il nome è ancora attiva in città, come mi ha confermato Antonella Sicbaldi dell’Anpi locale, a cui devo un invito per un incontro letterario e un giro amichevole per le vie del centro storico. Sapete poco o nulla, invece, sul fatto che Voghera ha dato i natali a una lunga lista di personalità di primo piano fra cui il grande intellettuale antifascista Franco Antonicelli e la scrittrice Carolina Invernizio.
Il Teatro Sociale di impronta ottocentesca realizzato su progetto del piemontese Gioacchino Dell’Isola nella via Emilia, ha di recente cambiato nome ed è stato dedicato ad un altro cittadino di Voghera: a Valentino Clemente Ludovico Garavani. Quando ho chiesto perché c’era stato questo cambiamento, mi è stato risposto che Garavani altri non è che lo stilista Valentino. Glielo hanno intitolato perché pare (e spero sia vero) abbia contribuito con una sostanziosa donazione pecuniaria alla ristrutturazione e alla riapertura. Il Cinema Teatro Arlecchino, inaugurato dalla Società Operaia di Mutuo Soccorso (S.O.M.S) nel 1914, non è stato reintitolato a nessuno e conserva il vecchio nome della celeberrima maschera bergamasca, e a me sta bene così. È in via XX Settembre ed è attaccato al palazzo dove ha sede la Società Operaia di Mutuo Soccorso nel cui salone abbiamo parlato di poesia e di antifascismo, di stragi e di morti innocenti.
Proprio a due passi del Castello Visconteo. Ad un lato del castello è stata posta una targa, vi sono incisi i nomi di sei fucilati, due hanno rispettivamente 16 e 17 anni e dunque io voglio essere rispettoso di questi morti e delicato verso la loro memoria. Ma mi sarebbe piaciuto trovare un’altra targa in cui si spieghi, a chi giunge nella città di Voghera, che nelle celle di questo castello venivano rinchiusi decine di antifascisti che troveranno la morte nei campi di sterminio come Giovanni Mercurio. Che al sacrario del cimitero inaugurato il 5 novembre del 1978 sono incisi i nomi di 40 caduti antifascisti, ed erano giovani e padri di famiglia come loro. Sono morti per essersi opposti ad un regime di carnefici, di razzisti e di guerrafondai, e la differenza non è di poco conto.
In un suo scritto, Antonio Corbelletti riporta tutti i nomi. È a lui che devo questo elenco: “Luigi Arcalini, Domenico Arcolaio, Pierino Balladore, Fioravante Barbieri, Luigi Barbieri, Andrea Bianchi, Angelo Calvi, Battista Caslotti, Angelo Cignoli, Carlo Covini, Giuseppe Dabusti, Giuseppe Ferrara, Franco Furini, Ermanno Gabetta, Leone Gazzella, Carlo Germani, Carlo Longa, Lucio Martinelli, Mario Martini, Anna Mascherini, Dorino Mazza, Angelo Montagna, Carlo Montagna, Tullio Morato, Umberto Negruzzi, Franco Quarleri, Walter Rigoni, Angelo Salvaneschi, Ermanno Sartori, Teresio Scovenna, Angelo Smeraldi, Carlo Sozzani, Emilio Sturla, Luigi Veronesi. All’ingresso una lapide onora Jacopo Dentici, Giovanni Mercurio, Renato Percivalle e Alessandro Tartara morti nel lager di Mauthausen Gusen (l’urna con le ceneri e il filo spinato portati dalla madre di Dentici) oltre a Cesare Mazzucco caduto a Vicaj con i partigiani albanesi e Teresio Rolandi”. Che la città può vantare tre medaglie d’oro al valor militare nella Resistenza: “il partigiano garibaldino Ermanno Gabetta ‘Sandri’, il partigiano azionista Franco Quarleri ‘Carli’ ed il colonnello Luigi Lanzuolo ucciso a Berat in Albania per aver combattuto i tedeschi dopo l’8 settembre 1943”, come si può leggere in un opuscolo dell’Anpi realizzato nel 2006 in occasione del 60° anniversario della Repubblica. Che per colpa del fascismo la città ha dovuto subire violenti bombardamenti e devastazioni dagli alleati che hanno causato 90 morti, circa 300 feriti e lasciato almeno 350 famiglie senza casa.
Il Sacrario partigiano
“Vicus Iriae”, “Vicus Eira”, “Viqueria”, cioè Voghera, ha una storia lunga e io non sono uno storico; sono un semplice scrittore e vi riporto le mie personali sensazioni. Posso però dirvi che la resistenza al nazifascismo per la libertà della nostra patria qui è stata durissima, e perciò la città che ha dato al referendum istituzionale del 1946 il 70,4% dei voti alla Repubblica, non dovrebbe dimenticarlo per andare dietro ai demagoghi e agli opportunisti. Come non dovremmo dimenticare la quantità impressionante di caduti nel corso delle varie guerre. Voghera ha una sfilza di lapidi che lo ricordano. Alla Stazione come in via Ricotti. Morti e dispersi, militari e civili, per malattia o incidenti di servizio. Da meditare il lungo elenco presente lungo il loggiato di quello che oggi si chiama “Monumento ai caduti”. Ce ne sono sull’edificio costruito ai primi del Novecento, divenuto per un certo tempo un Istituto dell’Ipsia; e ce ne sono sul suo prolungamento, quella che era stata una Casa del Fascio e realizzato negli anni Trenta in stile fascista.
Alla Gelateria tradizionale di via
Camillo Benso di Cavour ho trovato una commessa gentilissima e disponibile di
nome Sibilla; il gelato era ottimo e questo dispone sempre bene, nei confronti
del luogo, un goloso di gelati come me. Mi ha reso più indulgente anche verso
il Duomo dedicato a San Lorenzo e che credevo più antico. Il suo volume si fa
notare, come si fanno notare le due cupole ottagonali: la più piccola e la
maggiore. Se ci entrate non dovete trascurate il dipinto della Madonna del Soccorso che è del 1494.
I portici invece sono la mia passione e li ho sentiti subito accoglienti, ma è un vero peccato che non circondino per intero tutta la piazza come un tempo. Risultano interrotti e “la loro continuità, in alcuni punti, è spezzata da interventi urbanistici successivi”, come scrive in una nota Eugenio Clerici. Sempre da Clerici apprendiamo che i portici “iniziavano a lato del palazzo del Municipio e si congiungevano con quelli ancora esistenti in Via Roma, demoliti probabilmente nel 1865”.
Utilissimi sia durante la pioggia, sia d’estate per l’ombra che garantiscono, ospitano una lunga teoria di botteghe che ancora resistono. Per fortuna il Palazzo del Comune ha mantenuto delle arcate tipo portici, e l’Arco di Luigi Voghera – anch’esso ottocentesco e chiamato affettuosamente il Voltone – tutto sommato non offende l’occhio. Ma poteva andare molto peggio a questa piazza. Per fortuna si è salvato quello che ora si chiama Palazzo Nava; un’abitazione fascinosamente medievale costruita tra il XIII e il XIV secolo.
Sono questi manufatti che ingentiliscono piazza Duomo e che, come avviene dovunque esiste un centro antico, vi richiamano irresistibilmente per sostarvi.
martedì 8 ottobre 2024
LA NATO È UN PERICOLO
di Franco Continolo
Chris McCallion dà un nome alla non-politica NATO: teoria del
domino. Essa era in voga sessant’anni fa per giustificare l’aggressione al
Vietnam del Nord, ed era formulata così: se non fermato in Vietnam, il
comunismo dilagherà in tutta l’Asia orientale. Come si sa, le cose sono andate
molto diversamente, nonostante la sconfitta americana. Oggi la formula è simile
e altrettanto inverosimile: se non fermata in Ucraina, l’aggressione russa si
estenderà a tutta l’Europa orientale. Questo concetto lo si trova nei documenti
ufficiali NATO, da ultimo nella Dichiarazione emessa a conclusione del vertice
di Washington, in particolare nei paragrafi dal 15 al 20. Il militarismo, la
dottrina ufficiale NATO, è la negazione della politica, ma può essere anche
definito l’estensione al campo della politica del non-pensiero, avendo questo
la sua espressione più autentica nel manicheismo, nella divisione del mondo in
buoni e cattivi, in alleati e nemici. Il nemico ieri era
il comunismo, oggi è la Russia (più Cina e Iran).
Il compromesso con il nemico viene definito “appeasement”, il termine per bollare l’arrendevolezza del primo ministro britannico Chamberlain nei confronti di Hitler. Tuttavia, come viene inteso oggi, l’ “appeasement” falsifica la realtà: Chamberlain infatti non era motivato soltanto dalla consapevolezza dell’impreparazione delle proprie forze armate - un’impreparazione certificata a Dunkerque - ma dalla condivisione con Hitler dell’avversione all’Unione Sovietica, verso la quale egli intendeva spingere le armate tedesche. La politica dell’ “appeasement” fu condivisa negli anni Trenta da tutto l’establishment britannico - dal guerrafondaio Churchill all’illuminato Keynes - suscitando l’orrore dell’impolitico Thomas Mann. Conclusione: essendo il baluardo del non-pensiero, la NATO va sciolta, prima che combini guai irreparabili.
RICORDANDO PANZIERI
di
Franco Astengo
Raniero Panzieri
Nell’Ottobre del 1964
moriva, a soli 44 anni, Raniero Panzieri: figura ispiratrice di molte delle
idee degli anni sessanta, influenzò alquanto anche gli anni settanta. Fu
dirigente del PSI in Sicilia e a Roma. Diresse la rivista Mondo operaio del PSI. In questo periodo tradusse Il
Capitale. Trasferitosi a Torino collaborò con la casa editrice Einaudi.
Fondò la rivista Quaderni Rossi con
altri, tra cui Mario Tronti e Toni Negri. Nella rivolta di piazza Statuto a
Torino del 1962, intuì l’emergere della centralità della fabbrica e dell’operaio
massa. Posizioni e ricerche che lo avevano fatto allontanare dal PSI e dalla
sua corrente di sinistra nella quale aveva a lungo militato: un distacco che
gli impedì anche di aderire, nel Gennaio 1964 pochi mesi prima della morte,
allo PSIUP. Attraverso l’elaborazione sviluppata su Quaderni Rossi,
Panzieri riscoprì alcuni testi di Marx fino a quel punto largamente ignorati
come la IV sezione del I libro del Capitale, il “frammento sulle macchine” dei
Grundrisse, il Capitolo VI del Capitale (inedito), facendo emergere nel
dibattito i concetti di sussunzione formale e di sottomissione reale del lavoro
al capitale per indagare i processi di trasformazione economico-sociale e
per analizzare l’organizzazione taylorista e fordista del lavoro. Su quelle basi teoriche Panzieri elaborò i concetti di
“operaio massa” e di “composizione di classe”.
Raniero Panzieri |
Panzieri indicava la strada dell’alternativa in lotte di fabbrica che presentassero la richiesta di un controllo operaio sulla produzione (come produrre, per chi produrre). L’avanzamento di questa domanda “tutta politica”, di presa di potere “nella e sulla fabbrica”, fu disconosciuta dalle organizzazioni ufficiali del movimento operaio, tutte intente - in quella fase - a muoversi sulla linea delle politiche keynesiane indirizzate alla sfera dei bisogni e dei consumi (era il momento del cosiddetto “miracolo italiano”). Le lotte di fabbrica di quel periodo spiazzarono, però, l’analisi marxista ufficiale incentrata sulla arretratezza del capitalismo italiano, sulla necessità della ricostruzione nazionale e sull’esaltazione della capacità produttiva del lavoro. L’analisi di Panzieri incontrò il limite del non incrociarsi con la possibilità di realizzare, in quella fase, una adeguata rappresentanza politica. L’elemento dell’impostazione della lotta di classe dentro la modernizzazione capitalistica nel senso della costruzione dell’alternativa avrebbe dovuto costituire l’essenza dell’opposizione socialista al centro-sinistra che invece assunse la forma politicista dello PSIUP.
Forse lo PSIUP avrebbe potuto rappresentare un punto di coagulo intellettualmente all’altezza se all’interno di quel partito fosse stato possibile misurarsi con i temi della classe e del rapporto tra essa e la modernizzazione industriale in Occidente e le tendenze che essa avrebbe suscitato nel movimento operaio. Lo PSIUP, di cui Basso era stato tra i promotori mentre Panzieri morì nel dicembre 1964 quando il partito era sorto da pochi mesi, si rivelò insufficiente per eccesso di politicismo e di legame con lo schema bipolare (tema che non si è affrontato in questa sede e che rimane comunque fattore decisivamente insuperabile in quell’epoca se pensiamo a ciò che si verificò, pochi anni dopo, con l’invasione della Cecoslovacchia e la successiva radiazione del gruppo del “Manifesto” dal PCI).
Si
sarebbe dovuta rinvenire la capacità di uscire dall’egemonia dello schema
togliattiano di lettura di Gramsci del “Risorgimento incompiuto” e
dell’identità nazionale della classe operaia. I
due punti che Togliatti mutuò da Gramsci attraverso la
pubblicazione “ragionata” dei Quaderni e che rimangono
comunque le stimmate di identità peculiare del comunismo italiano
anche rispetto al materialismo dialettico sovietico. Un’identità consolidata ed egemone che poteva essere
affrontata attraverso la rilettura, assieme ai nuovi classici della sociologia
americana dell’epoca e dei teorici della Scuola di Francoforte anche dalla
lettura di un altro Gramsci: quello di “Americanismo e fordismo”. Rimane il “forse” che per quella strada si sarebbe
potuti uscire dallo schema del “bipartitismo imperfetto”. Dei “se” e dei “ma” però sono piene le fosse e in questo
caso ne ho compiuto un utilizzo colpevolmente abusivo ma Panzieri va ricordato
anche in questo momento in cui la sinistra appare in ritardo nel comprendere la
nuova complessità delle contraddizioni tra antico schema “materialista” e
novità “post-materialiste”, tra struttura e sovrastruttura.
SCALDASOLE
Una via di grandi passioni
politiche ed intellettuali.
Caro Angelo, in via Scaldasole, mi
pare al numero 5, ma sul civico non giurerei, si riuniva nella seconda metà
degli anni sessanta, già prima del ’68, quella che venne chiamata “La tendenza” ovvero
il raggruppamento semiclandestino (le correnti erano vietate), interno
alla Fgci milanese. Diverse figure sono passate da lì, oltre chi ti
sta scrivendo. Alcune delle quali non ricordo con piacere, come Aldo
Brandirali che diventò poi un uomo di Comunione e Liberazione strettamente
legato a Formigoni. Altri invece presero strade coerenti, come Massimo Gorla e
Luigi Vinci. Facevamo una rivista i grafici abitavano proprio in via
Scaldasole che si poteva definire una sorta di “comune”, che si chiamava “FALCEMARTELLO”,
(che non c’entra con quella attuale che ne ha copiato il nome).
Un caro saluto
Alfonso
Gianni
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