UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

domenica 6 ottobre 2024

IL LAVORO
di Anna Rutigliano
 
Marx

Dall’alienazione all’autoefficacia collettiva percepita: una prospettiva socio-cognitiva.
 
Un pomeriggio estivo, immersa nel paesaggio murgiano, a pochi chilometri dal nostro affascinante ed imponente Castel Del Monte federiciano, mi sono imbattuta nella raccolta di liriche del poeta e drammaturgo Zaccaria Gallo Come Lumaca amante di Ferula, in cui, a pagina 31, al settimo verso, il poeta così si esprime a proposito del lavoro: “Dannato lavoro! Mi traballa la speranza di far star buoni i pensieri…”. Se, però, attribuiamo al termine lavoro il significato che ne dà la psicologia sociale, esso risulta essere tutt’altro che dannazione: è un’attività complessa, indirizzata a raggiungere scopi significativi per le persone, che coinvolge il corpo e la mente, che implica costi energetici (ovvero fisici, mentali ed emotivi), che si fonda su relazioni tra una persona e altre persone, oggetti e informazioni, che produce ricchezza economica e sociale.
Quanto significative sono, dunque, le dinamiche nei luoghi di lavoro? Siamo davvero certi che vi sia un equilibrio, come in una equazione matematica, fra costi energetici fisico-mentali e benefici economico-sociali?
Quasi due secoli fa, un barbuto cittadino di Treviri, città della regione tedesca della Renania-Palatinato, a pochi chilometri dal Lussemburgo e dal confine francese, risalente ad un antico insediamento militare romano del 30 A.C. (Augusta Treverorum) affrontava il tema del lavoro da differenti prospettive, da quella filosofica a quella sociologica e politica sino a concepire, attraverso un assiduo studio, una vera e propria scienza nuova: l’economia politica.
Karl Heinrich Mordechai, noto al mondo come Karl Marx, giunge così a teorizzare l’alienazione del lavoro, la cosiddetta “Arbeitsentfremdung”, dapprima nei suoi Manoscritti economico-filosofici del 1844, prendendo  distanza dal pensiero astratto hegeliano e, successivamente, con un approccio più analitico, scientifico e socio-politico, ne Il Capitale, la più grande opera mai scritta prima, procede ad una analisi critica delle società capitalistiche fondate sul plusvalore, la cui pubblicazione del primo volume è datata al 14 Settembre 1867 ed i cui volumi postumi furono completati dai colleghi F. Engels e K. Kautsky.



Per Marx, il lavoro è alienante nella misura in cui la forza lavoro dell’essere umano si oggettivizza proprio durante il processo lavorativo materiale; tale forza diviene mera merce nel contesto capitalistico, che fonda sempre più la propria ragion d’essere sulla produzione e mercificazione e sul conseguente consumo smisurato dei materiali prodotti, una forza lavoro sempre più assoggettata alla logica del profitto. In tale circuito, il lavoratore sperimenta emotivamente la cosiddetta “Arbeitsentfremdung”( Alienazione del lavoro).
La risonanza del pensiero storico-materialista marxiano, nell’epoca attuale della globalizzazione e digitalizzazione è, a mio avviso, quanto mai di forte impatto e assolutamente non anacronistica. Se in una parte di mondo, le condizioni di lavoro sono migliorate, nell’altra, la povertà e lo sfruttamento sono all’ordine del giorno e crescono in dismisura e proporzionalmente all’arricchirsi delle società postcapitalistiche e del consumismo: tutto questo in nome del dio denaro. Basti pensare alla produzione di armi e alla totale indifferenza verso l’alfabetizzazione dei bambini, così come la noncuranza rispetto alle pessime condizioni sanitarie in cui versa gran parte della popolazione mondiale. La depersonificazione, l’alienazione del lavoro teorizzata da Marx pone, inoltre, una riflessione di natura socio-cognitiva e psicosociale. In alcuni ambienti di lavoro è ancora oggi presente, purtroppo, quell’atteggiamento di alcuni imprenditori, mi si perdoni il gioco di parole, i quali non prendono in considerazione un adeguato atteggiamento di cooperazione in ambiente lavorativo, attuando il più delle volte comportamenti non consoni ad un sano ed armonico sviluppo delle dinamiche di lavoro intese proprio secondo l’accezione psicosociale cui accennavo sopra. Se da un lato, l’alienazione del lavoro in senso marxiano comporta la consapevolezza per il lavoratore di oggettivarsi nell’oggetto prodotto secondo la logica capitalistica, dall’altro,  nell’era del world-wide-web e delle società di massa cambiano le modalità di produzione e di comunicazione, indubbiamente più veloci e affidate a sofisticati cervelli elettronici, in cui il lavoratore, se non inserito in un adeguato e armonico contesto lavorativo, potrebbe sperimentare un senso di estraniamento, definito in psicologia autoalienazione o “Selbstentfremdung”. Le conseguenze che ne derivano potrebbero minare negativamente il luogo di lavoro, sia sul piano psicofisico dei lavoratori (si pensi al fenomeno del “burnout”), sia dal punto di vista del rendimento economico aziendale.


Bandura

Gli studi in psicologia sociale hanno compiuto notevoli passi in merito alle strategie da attuarsi in ambito lavorativo, al fine di ridurre, se non risolvere, le problematiche ad esso connesso: si tratta della “strategia dell’autoefficacia collettiva percepita” proposta dallo psicologo canadese Albert Bandura.
Secondo questo approccio, l’azione individuale e le strutture sociali operano in modo interdipendente, influenzandosi a vicenda. La credenza di poter agire intenzionalmente allo scopo di modificare le circostanze ambientali in modo favorevole, rappresenta uno degli elementi chiave del costrutto di autoefficacia. Il costrutto di autoefficacia collettiva estende le credenze di autoefficacia nei confronti di uno specifico ambito di realtà, proprio di un individuo, alle credenze di un gruppo o di una collettività o organizzazione. Questa strategia potrebbe consentire al gruppo di produrre i risultati progettati, auspicati o attesi. In ambito lavorativo, dunque, i risultati di un gruppo sono il prodotto non solo delle conoscenze e delle capacità condivise dei membri che lo costituiscono, ma anche delle dinamiche interattive, del coordinamento e delle sinergie che derivano dalle loro transazioni. Secondo Bandura le credenze di autoefficacia proprie dell’intero gruppo inteso come entità meta-individuale o sistema, predice il livello di prestazioni raggiunto da quel gruppo e le strategie condivise ed appropriate da attivare in caso di avversità.
Nell’ottica di Bandura, e riprendendo i versi di Gallo, il lavoro non si porrebbe mai, come obiettivo, quello di minare “la speranza di far star buoni i pensieri”. L’atto stesso di sperare, riconducibile all’etimologia sanscrita della parola Speranza, che suggella nella radice “–Spa” il tendere verso una meta con un approccio positivo, ci invita a guardare sempre avanti. Si pensi alla parola latina “Spes-Spei”, rintracciabile nel verbo italiano “auspicare” così come nel sostantivo angloamericano “expectation”. Se per il nostro Divin Poeta la Speranza rappresenta la congiunzione fra Terra e Cielo, quale virtù umana e al contempo teologale: Spene”, diss’io, è un attender certo/ della gloria futura, il qual produce/ grazia divina e precedente merto (versi 67-69 -XXV Canto - “Paradiso”), affermando che essa non è soltanto dono della grazia ma è anche una conquista dell’uomo, perché dà ai viventi la prospettiva di un trionfo dei propri ideali, non solo religiosi ma anche politici, sociali e civili, così, auspico, a livello globale, maggiore dignità e rispetto degli ambienti e negli ambienti di lavoro, sulla base dell’autoefficacia collettiva percepita nell’accezione che ne dà Bandura, al fine di ridurre quanto più possibile fenomeni di alienazione e di autoalienazione del lavoro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’OPERA TRADITA
di Vincenzo Pezzella


 
L’Opera Musicale italiana non è costituita solo dalla musica della partitura e dalle parole del libretto bensì anche e soprattutto dal contesto storico, dal costume ambientale, dai modi, dal linguaggio del corpo, dalla intrinseca drammaturgia antropologica e sociale, tutti elementi irrinunciabili e intransitivi che ne fanno lo spirito del tempo e perciò l’Opera messa in scena, nel suo specifico tema e titolo, nella sua capacità di raccontarci di sé oltre le mode.
Le regie contemporanee che spostano i fatti storici ai nostri giorni tradiscono l’essenza stessa dell’Opera, in quanto non ne colgono la profondità drammaturgica non rispettandone il qui ed ora proprio del teatro. Le soluzioni intraprese degli allestimenti, ingiustificatamente tradotti nella storia che non è a loro originaria e dettata dalla necessità artistica del proprio tempo, risultano forzate, semplificate al ribasso, una maniera conformista e omologante della lettura critica del testo.
Perché questo impoverimento continua? Perché le direzioni dei teatri e l’insieme del cast chiamato a svolgere l’opera non dissentono, non si rifiutano a condividere l’imbruttimento dei modi dello stile e il depotenziamento del linguaggio teatrale?
La vera sfida non sarebbe provare a mettere in scena quel tempo a noi lontano, e proprio per questo ricco di fondamenti che ci sono propri, rispettandone l’assoluta identità di modi, riuscendo così ad evocare con le azioni e i sentimenti, il canto e le parole, la magia unica del teatro?
O è proprio la “Storia” che si vuole cancellare a poco alla volta, occultamente, le radici del nostro passato, per sostituirlo con un’atemporalità priva di riconoscimento dei conflitti delle identità e delle forze in campo tra sentimento e ragione?
Tutto sembra orientarsi a un appiattimento del senso critico a diminuirne il suo esercizio, rendendo quasi unilaterale la scelta di una condotta dominante per un modello culturalmente e vistosamente autoreferenziale.
I messaggi subliminali di massa finalizzati a che solo l’assoluto presente ha valore tendono a rimuovere la memoria e si insinuano nella condotta generale dei progetti culturali e della stessa pratica del fare. Queste scelte registiche tendono a creare un’abitudine conforme a una interpretazione dell’Opera che sarebbe più corretto chiamarla: “liberamente tratta da”. Può essere pigrizia, questione di fondi, generica provocazione, fatto è che ne risulta un avvallare mediocre dell’indagine critica necessaria e auspicabile che l’artista ( il direttore, l’orchestra, il regista ) deve compiere per la nuova messa in scena.
E il pubblico è come se non ci fosse, viene ignorato, deluso nelle sue aspettative di intraprendere un viaggio temporale e spirituale nelle sue origini, al cospetto delle scelte dei padri, dei loro conflitti e della loro umanità; non siamo più chiamati a partecipare, in quanto elemento indispensabile del dramma e della fruizione stendhaliana, parti di quella catarsi che ci mette in discussione nelle nostre azioni, solidali o antagoniste. Frustrando così l’esercitazione del nostro senso critico, questa condotta di una regia, che tradisce se stessa, rinuncia alla sua proprietà di linguaggio, ci inganna, contribuendo all’appiattimento indistinto dell’omologazione di massa; un prodotto da consumo da calendario dei cartelloni e delle recite senza più Storia. 

VINCENZO PEZZELLA
Alla Ticinese Art Gallery


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sabato 5 ottobre 2024

VIA SCALDASOLE
di Angelo Gaccione

 
Primo Moroni davanti alla Calusca
 
Via Scaldasole: il nome è bello, fa venire in mente uno spazio assolato e verdeggiante. Un tempo lontano deve esserlo stato poiché appena dopo le mura della città non c’erano che campi coltivati. Ora via Scaldasole è una traversa del Corso di Porta Ticinese, a due passi dalla Darsena e dalla Basilica di Sant’Eustorgio. Una traversa breve e stretta che sbuca sulla via Arena. Da dove gli deriva questo nome? Alcune fonti lo collegano ad una antica e minuscola chiesa di cui non si conservano tracce: si chiamava San Pietro al Caldo Suolo, e da caldo suolo a scalda sole il passo è breve. La lingua del popolo si sa: contrae, accresce, trasforma, deforma. Altre fonti lo fanno derivare dal termine longobardo “sculdascio”. Lo sculdascio era una specie di magistrato a cui ci si rivolgeva per intentare cause e riscuotere debiti. “Qui debitum requirit, vadat ad Sculdahis, et intimet causam suam” (Colui che vuole riscuotere il suo debito vada dallo sculdascio e intenti la sua causa). Gli sculdasci erano originari di Scaldasole, un paesino della Lomellina; oggi non arriva a mille anime ma vanta un bellissimo castello. È probabile che gli sculdasci risiedessero in quella via e la toponomastica abbia voluto conservarne l’origine. In genere chi riscuote denaro non è molto amato: gli sculdasci lo facevano per conto dei proprietari terrieri e i debitori non ne saranno stati contenti. Il nome non doveva suonare positivo. 


Primo Moroni

Del resto la zona non era fra le più blasonate: in via Scaldasole c’erano bordelli e il vicino vicolo Calusca (quelli della mia generazione lo ricorderanno come sede della libreria omonima fondata dal militante rivoluzionario Primo Moroni), pullulava di loschi figuri. Una Ca’ losca (casa losca) mal frequentata gli ha dato il nome. Per lunghi anni Scaldasole ha scaldato i cuori di tanti giovani libertari con il suo Circolo Anarchico. Della via il circolo prendeva il nome, ma dalle idee di quel circolo la via veniva illuminata.

 

 

POETI
di Patrizia Gioia


Patrizia Gioia

A chi non abbiamo saputo amare

non ricordo la tua voce
i tuoi occhi sì
con quella ruga
sbilenca
che spezzava la retta
delle mai viste lacrime
nelle tue disgrazie
solo preghiera
 
mi aggrappavo a quella tua gonna
lunga a pieghe leggere
e il mio mondo
era salvo
 
ogni tuo gesto
era senza peso
eri una piuma
 
e su me sulle cose che toccavi
scendeva una grazia 
una benedizione antica
si rifaceva ogni volta vita
 
avevi capelli raccolti
in una retina sottile
eri una farfalla
catturata
dai tanti che non hanno saputo amarti
 
anch’io
sono stata una di quelli?
 
[Dedicata a mia nonna Isolina, 3 ottobre 2024]

 

MUSICA E LETTERATURA
di Anna Lina Molteni


 
Debussienne e Il colore turchino di Francesca Pilato: la musica incontra la letteratura.
 
Che brani letterari, soprattutto poesie, siano stati tradotti in musica è storia vecchia. Neppure è inusuale raccontare sulla spinta della suggestione musicale che, soprattutto se indefinita, suscita immagini, pensieri e associazioni, avvolgendo chi scrive in una sorta di aura ispiratrice, pericolosissima ai fini della tenuta e della chiarezza della scrittura. La medesima influenza ruffiana che può far sembrare bella una pagina che tale non è, semplicemente leggendola ad alta voce con un sottofondo musicale adeguato. Era perciò un terreno più che scivoloso, quello sul quale Francesca Pilato si è avventurata con la sua raccolta di racconti Debussienne (Florestano Editore 2022, pubblicati prima in francese (Harmattan Editions 2018) e solo successivamente in italiano che ne è la lingua originale, ma due fattori hanno concorso a farla uscire indenne e a far sì che i 12 pezzi - tanti quanti sono i Préludes del Premier Livre di Claude Debussy (1910) - siano una lettura affascinante.
Il primo è il fatto che Pilato è linguista e saggista. Conosce il linguaggio e ne maneggia regole e significati con consapevole destrezza. La lunga pratica saggistica che ha alle spalle le ha poi creato una sorta di habitus scientifico severo che la pone al riparo dalla tentazione di inutili abbellimenti stilistici, magari suggeriti dall’ “onda emotiva” generata dalle note. Il secondo è che conosce la musica e le sue strutture, ne vede anche l’armatura portante, oltre a gustarne il piacere dell’ascolto. Così, e sono parole sue: “Le variegate modalità di esecuzione indicate da Debussy, lento e grave, capriccioso e leggero, molto calmo e dolcemente espressivo o, all'opposto, animato e tumultuoso e molte altre ancora, sono stati altrettanti stimoli per accostare i racconti ai preludi rispettandone le varietà stilistiche, in sintonia, per quanto è possibile, con il timbro, con l'intima voce che li percorre”. E la narrazione diventa così un’eco, restituita con un linguaggio diverso, ma cristallino tanto quanto le note di Debussy, “l’aereo inventore”, come lo definiva l’amico Gabriele D’Annunzio. A sottolineare ulteriormente il legame inscindibile tra musica e parola scritta il fatto che in Debussienne i titoli dei racconti siano gli stessi dei Préludes.


Claude Debussy
 
Nel recente romanzo Il colore turchino (Florestano Editore 2023), la musica torna ancora ad accompagnare la vicenda di una donna siciliana, Aloisa, raccontata nell’arco di tempo tra il 1866 e il 1911. L’ambientazione è dapprima una Sicilia “gattopardesca”, dove ancora non si sono spenti gli echi dell’impresa dei Mille e le idee mazziniane e liberali hanno prodotto una generazione di giovani in aperto contrasto con tradizioni secolari di privilegi feudali e soprusi  - tra questi i fratelli della protagonista, ma anche il padre, proprietario di una miniera di zolfo -; successivamente la Napoli a cavallo di Otto e Novecento, con un retaggio ancora vivo di città colta e cosmopolita, pur nelle sue annose e mai risolte contraddizioni. È qui che Aloisa, che a tratti può ricordare memorabili figure femminili tratteggiate da Henry James, trova rifugio da un matrimonio difficile e, tramite la musica che da passatempo di signora della buona società diventa lavoro, realizza il suo compimento come donna libera e come artista.
Montato come un melodramma, con il susseguirsi di 3 atti, introdotti come fossero fondali di scena, ma che rimandano a luoghi reali: la basilica di San Leone ad Assoro, via Etnea a Catania, il teatro San Carlo a Napoli, la “voce” del romanzo è un continuum nel quale fluiscono, armonizzandosi, cambi di punti di vista e passaggi dal discorso indiretto a quello diretto senza la necessità di segni grafici che li indichino. E in questo gioco di agilità stilistica, l’autrice affida l’esposizione della sua poetica alle parole di padre Luigi, bibliotecario dei Girolamini, che fa riferimento alla lingua greca: “Non c’è distinzione in questa grande cultura, tra suoni e significati: le sacre e nobili parole di aedi e rapsodi commuovono e convincono solamente se portate dall’onda carezzevole di appropriate eufonie”.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

MUSICA NELLA SALA DELLA BALLA


Anne Marie Dragosits

In occasione del recente arrivo al Museo degli Strumenti Musicali di un clavicembalo appartenuto al Maestro Laura Alvini, in Sala della Balla si esibirà Anne Marie Dragosits in una mise en scène di brani tratti dal repertorio tastieristico francese. La nota clavicembalista tradurrà Les liaison
dangereuses, romanzo epistolare di Choderlos de Laclos (1782) che trasporta nell’atmosfera decadente in cui viveva l’aristocrazia francese poco prima della Rivoluzione, in una sequenza drammatica di pièces de clavecin dell’epoca di Laclos. I brani verranno eseguiti in parte sul clavicembalo Pascal Taskin (Parigi, 1788) appartenente alle collezioni del Castello Sforzesco e in parte sulla copia di questo strumento fatta realizzare dal Museo degli Strumenti musicali qualche anno fa. L’esibizione sarà preceduta dall’esecuzione di alcuni brani del repertorio seicentesco italiano (Michelangelo Rossi, Giovanni Girolamo Kapsperger, Girolamo Frescobaldi) eseguiti su un clavicembalo da pochi giorni arrivato in museo: si tratta di uno strumento appartenuto al Maestro Laura Alvini, nota essere stata tra i pionieri dell’esecuzione filologica della musica tastieristica barocca in Italia.


Sabato 12 ottobre 2024
ore 16-17,30
Sala della Balla
Ingresso libero a partire dalle ore 15 dallo scalone del cortile della Rocchetta, fino a esaurimento posti disponibili.

TURANDOT AL POLITEAMA
XXI Festival d’autunno



Tutto pronto per “Turandot” che andrà in scena questa sera sabato 5 ottobre al Teatro Politeama. È una coproduzione del Festival con il Festival Teatri di Pietra.
 
Saranno 150 le persone - tra Orchestra, Coro, solisti e Coro di voci bianche – che sabato 5 ottobre, saliranno sul palcoscenico del Teatro Politeama per il ritorno della lirica a Catanzaro con “Turandot”, l’ultima opera del compositore toscano Giacomo Puccini. Già questa numerosa presenza in scena la dice tutta sull’imponente allestimento realizzato dal XXI Festival d’autunno - sostenuto da Regione Calabria/Calabria Straordinaria, attraverso i fondi Pac 2014/20; dalla Camera di Commercio di Catanzaro, Crotone e Vibo Valentia, dal Comune di Catanzaro, oltre che da vari Enti privati -, ideato e diretto da Antonietta Santacroce, in coproduzione con il Festival Teatri di Pietra.  



«Turandot conclude il primo weekend di questa edizione del Festival – ha affermato Santacroce - dedicato a Giacomo Puccini per i cento anni della morte. Farlo con la sua ultima opera, forse la più bella, ci è sembrato il modo migliore per celebrarlo: proprio per rispetto nei confronti del grande compositore, infatti, la versione che andrà in scena sarà quella originale, fin dove l’aveva scritta Puccini, vale a dire fino alla morte di Liù».
Ambientata “nella Cina al tempo delle favole”, è la fiaba della principessa Turandot che propone ai suoi pretendenti enigmi irrisolvibili per evitare il matrimonio, e del principe Calaf che tra lo stupore generale invece riesce a risolverli, il tutto tra grandiose scene corali e di ampio coinvolgimento per il pubblico, grazie alla presenza in scena di due importanti realtà italiane: il Coro Lirico Siciliano diretto da Francesco Costa e l’Orchestra Filarmonica della Calabria, già acclamato da pubblico e critica al debutto del 9 agosto nel Teatro greco di Taormina. Maestro concertatore e direttore dell’Orchestra sarà Filippo Arlia, considerato dalla critica internazionale uno dei più brillanti e versatili musicisti italiani della sua generazione, ha diretto alcuni dei musicisti e cantanti più noti del nostro tempo: Dimitra Theodossiou, Barbara Frittoli, Sergej Krylov, Michel Camilo, Sergej Nakariakov, Danilo Rea, Giovanni Sollima, Stefano Bollani.



Nel ruolo della protagonista Turandot, il soprano italo francese Chrystelle Di Marco, stella acclamata dalla critica europea e considerata tra le voci drammatiche di maggior spessore al mondo. Il tenore spagnolo Eduardo Sandoval, elogiato dalla critica internazionale per la sua estensione vocale, la tecnica e le interpretazioni drammatiche, darà voce al principe Calaf; mentre nel ruolo di Liu ci sarà il soprano bulgaro Leonora Ilieva; Viacheslav Strelkov sarà Timur; Ping, Pang e Pong saranno rispettivamente intrepretati da David Costa Garcia, Federico Parisi e Davide Benigno. La mise en espace è di Salvo Dolce, giovane autore e regista palermitano, con alle spalle collaborazioni importanti con registi come Vincent Schiavelli, Michele Perriera, Vincenzo Pirrotta e Franco Scaldati, tra gli altri.



La mattinata di venerdì è stata dedicata agli studenti degli istituti cittadini Grimaldi, Siciliani, Chimirri, De Nobili, Vittorio Emanuele II, e gli Istituti comprensivi Pascoli, Galluppi, Patari e Sabatini di Borgia che hanno potuto assistere a una sorta di prova generale, con tanto di indicazioni e spiegazioni fatte appositamente per loro, oltre che dal direttore artistico Santacroce, anche dal regista della messa in scena di questa sera, Salvo Dolce: i ragazzi hanno potuto comprendere le dinamiche, i personaggi, e anche conoscere qualche aspetto del teatro in generale, che non si vede in scena, comprese le fasi di trucco dei tanti personaggi sul palco.
«I ragazzi sono stati molto curiosi, hanno scaricato dal QR CODE presente in teatro il libretto dell’opera – ha commentato Santacroce -, l’hanno seguita tutta e sono stati davvero esemplari, attenti e curiosi a ciò che succedeva in scena. Uno degli obiettivi del Festival d’autunno è del resto di avvicinare i più giovani a quella cultura, come la lirica, che non ascoltano perché non la conoscono. Il risultato di questa mattina, perciò, non può che farci enormemente piacere».


 
Info
tel. 351. 7976071
www.ticketone.it/artist/festival-autunno/
facebook.com/festivalautunno
instagram.com/festivaldautunno_official
www.festivaldautunno.com

A SAN CARLINO  

 

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A SAN CRISTOFORO SUL NAVIGLIO


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