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UNA NUOVA ODISSEA...
DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES
Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.
Angelo Gaccione
LIBER
L'illustrazione di Adamo Calabrese
FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
Buon compleanno Odissea
mercoledì 11 settembre 2024
TACCUINI
C’era mezza
Milano ai suoi funerali: assieme alle autorità, i suoi diseredati e quelli che con
la sua opera filantropica e solidaristica aveva riscattato. Ecco, a voi non
parrà, ma questa è una lezione di economia. Di buona economia.
TRUMP FA PAURA
di Luigi Mazzella
L’uscita di Mario Draghi
che, gridando, all’improvviso, una sorta di “Al lupo! ”Al lupo!” per l’Europa
in caduta libera, ci esorta ad indebitarci ulteriormente con l’America (e per
essa con la Finanza di Wall Street e della City) per evitare una catastrofe di
cui non poteva non essere a conoscenza da tempo per i suoi alti incarichi europei e nazionali offre lo spunto
per molte considerazioni (purtroppo tristi):
a) Essa
ha trovato l’immediato consenso di Fratelli d’Italia (Foti) che pure di Draghi
era stata la forza di opposizione più accanita e tenace durante il periodo di
tempo in cui Giorgia Meloni non aveva ancora adagiato la sua testa bionda sui
capaci pettorali dello zio Sam e non si era lasciata convincere ad abbandonare
tutti i suoi cavalli di battaglia (anche elettorali) per sposare le cause d’oltreoceano
persino sugli scenari di guerra;
b) Essa
sembra adombrare la certezza di Draghi, fedele alla linea del Partito
Democratico Nordamericano, che la Harris ridens abbia
poche prospettive di vittoria alle prossime elezioni presidenziali statunitensi
e che le sue personali fortune e soggettive ambizioni di presunto grande
statista per il Vecchio Continente siano per lui in irreversibile declino a
causa dell’idea che Donald Trump ha di un’Europa non più colonizzata dagli
States attraverso l’interposta Unione Europea, attualmente ancora affidata all’Ursula
Von der Leyen & co;
c) Essa
mette ancora una volta in luce alternativamente o 1) l’incapacità,
l’improntitudine, il pressapochismo, la superficialità perniciosa,
l’inconcludenza, l’arrendevolezza
oppure: 2) la mala fede, la corruzione, il tradimento dell’interesse
nazionale, di una classe dirigente politica che o è incapace di “leggere” gli
eventi politici e si lascia incantare da pifferai venduti a Stati stranieri o
perpetua l’abitudine contratta ab immemorabili dagli
Italiani, di accontentarsi di governanti di mezza tacca.
martedì 10 settembre 2024
BIBLIOTECA OSTINATA
Dal fallito attentato a Napoleone Bonaparte il 24
dicembre del 1800, al massacro del Bataclan il 13 novembre 2015. Un romanzo coinvolgente
che apre molte questioni sull’uso della violenza e la sua legittimità. Ne discuteranno
venerdì 13 settembre 2024 alle ore 18 presso la Biblioteca Ostinata di via Osti
n. 6 a Milano Angelo Gaccione, Giuseppe Langella, Giorgio
Riolo alla presenza dell’autore Zaccaria Gallo. Letture di Anna
Rutigliano.
MEMORIA. CILE
1973
di Franco
Astengo
Finché i
popoli continueranno a lottare, là ci sarà un’idea di riscatto sociale e di
rivoluzione politica
L’11 settembre 1973 cinquantuno anni fa in Cile il golpe fascista
sostenuto dall’amministrazione USA, di cui segretario di stato Henry Kissinger,
col massacro di migliaia di cileni pose fine al Governo di sinistra, democraticamente
eletto di Unidad Popular guidato dal socialista Salvador Allende. Un’esperienza
politica avanzata di democrazia e socialismo, quella di Unidad Popular, che
avrebbe potuto cambiare il corso della storia del Cile, avere ripercussioni
internazionali, essere d’esempio per diversi altri Paesi del mondo. La
vicenda cilena, che pure diede origine a un ampio dibattito nel movimento
comunista internazionale, deve rimanere nella memoria collettiva come un
esempio e un monito incancellabili, in particolare in questi tempi dove davvero
si sta cancellando tutto quanto è stato fatto, tra luci e ombre, vittorie e
sconfitte, per il riscatto del proletariato di tutto il mondo.
L’11 settembre 1973, il giorno della “macelleria americana” resta
intatto nella nostra mente e nel nostro cuore accanto ai grandi passaggi della
storia del movimento operaio internazionale: dalla Comune di Parigi alla
Rivoluzione d’Ottobre, alla guerra di Spagna alla vittoriosa resistenza al
nazi-fascismo, alla rivoluzione cinese, cubana, vietnamita, alla liberazione
dei popoli dell’Africa e dell’Asia dal giogo coloniale, alla fine
dell’apartheid in Sud Africa.
L’11 settembre 1973, il giorno della caduta avvenuta a mano armata
con l’assassinio del “Compagno Presidente” ricorda il giorno di una sconfitta.
Per noi che continuiamo a credere nell’ideale, è uno dei giorni di
quello “Assalto al Cielo” verso il quale dobbiamo continuare a tendere con la
nostra volontà, il nostro impegno, il nostro coraggio.
MONTICHIARI
di
Federico Migliorati
Un
paese-città dalla lunga storia
Quando percorro viale Matteotti scendendo in direzione del centro
dal colle di San Pancrazio, il più alto dei sei che i millenni ci hanno
lasciato in eredità, magari in un’ora serotina autunnale nella quale il manto
di foglie giallastre colora strade e marciapiedi in un tripudio di festosi
mulinelli, sono preda di una felicità soffusa e gentile: tutto, nuovamente, mi
appare a fuoco, a portata di mano mentre la discesa avanza, come se certa
bellezza fosse in precedenza sfuggita improvvisamente, come se si fosse
diradata. Nei pressi dell’antica croce risalente al 1721, danneggiata e
ricostruita nel Primo Novecento, là dove la città si erge sul punto più alto
nei pressi della Pieve che affonda le radici nei secoli, imperituro segno del
Romanico puro e gentile, si perdono infatti i dettagli e in compenso è
possibile osservare buona parte della Montichiari urbanizzata, il paese
divenuto città. Nelle giornate limpide l’occhio arriva a spaziare sino al Garda
e alle Alpi, abbracciando una vasta plaga tra terra e acqua. Se lo guardo da
qui, l’antico e grosso borgo che dir potrebbesi città, appunto, è proprio un
conglomerato maestoso, una serie quasi ininterrotta di strade e di case
punteggiata qua e là da spazi verdi. Sull’altro lato del parco è il vecchio
borgo di sotto, sorto sotto le mura del castello, cuore e nucleo primigenio
dell’antica Montechiaro (uno dei numerosi toponimi succedutisi nei secoli, fino
all’attuale, definito nel 1877).
Da qui, da questo paese cresciuto esponenzialmente nel giro di poco più di trent’anni, non me ne sono mai andato se non per brevi periodi: come diceva Calvino, vi sono scrittori che restano attaccati alla propria piccola patria come patelle allo scoglio, altri che girano l’universo, come fece lui, per poi ritornare all’origine. Io, che scrittore non sono, semmai un semplice e modesto scrivente, percepisco Montichiari col passare del tempo come un mondo piccolo e resiliente a certe dinamiche da città (come pure ufficialmente è, sulla carta, dal 1991) ma con l’identità ancora borghese e spesso provinciale di un paese: vizi e virtù, insomma. E allora scendendo verso il centro recupero alla memoria le antiche botteghe dell’ex Piazza Garibaldi (così chiamata in onore dell’Eroe dei Due Mondi che qui, come in millanta altre località, tenne un discorso da uno dei balconi ancora oggi presenti) gran parte delle quali ormai scomparse o qualche figura curiosa e simpatica che stazionava agli angoli della stessa pronta a sfoderare un sorriso che oggi mi appare quasi come un ariostesco viaggio nella fantasia.
La città dalle trenta chiese, ché qui la fede è cosa seria anche se la secolarizzazione ha battuto pesantemente come ovunque, vive soprattutto nel frastuono del mercato settimanale che occupa le due piazze, compresa quella intitolata a una delle glorie illustri della città, l’industriale e mecenate Giovanni Treccani degli Alfieri, quello dell’Enciclopedia Italiana e della Bibbia di Borso d’Este acquistata e donata allo Stato Italiano e oggi custodita alla Biblioteca Estense di Modena: ogni venerdì, da quasi 3 secoli, e ancora prima di lunedì per millanta anni si commercia e si vende, si fanno affari e si chiacchiera, si polemizza e ci si scambia confidenze, sorseggiando un caffè all’ombra del campanile della Basilica Minore i cui rintocchi battono il tempo delle nascite e delle morti, delle gioie e dei dolori.
Montibus in claris semper vivida fides, si legge sul cartiglio dello stemma, ma non si è mai ben compreso se la fides fosse la spiritualità o la fedeltà a Venezia, la Serenissima che dominò per quasi quattro secoli dopo l’epoca viscontea e malatestiana, o a Brescia, capoluogo a un passo da noi. Poco discosto dal questo “salotto buono” del centro, lungo via Cavallotti che negli ultimi anni del fascismo rabbioso il podestà intitolò a Italo Balbo, ecco la casa dei Pedini, anzi, di Pedini Mario, insigne politico degli anni Settanta, fervente uomo di cultura, finissimo intellettuale e provetto pianista il cui “Accento di paese” non è solo il titolo di un suo libro (il mio preferito e per molti il migliore) ma anche il senso di quella monteclarensità (l’Accademia della Crusca forse mi perdonerà questo neologismo improbabile e improvvisato) che, ovunque la si porti, in capo al mondo o dietro l’angolo di casa, persiste e resiste, ad onta di tutto e di tutti.
Sulla via per Brescia, a un passo dal confine con Castenedolo, si sviluppa un’area industriale che oggi poco o nulla dice al visitatore-turista che si trovasse per caso in loco: fino ad alcuni decenni fa, tutto qua era brughiera, campi non coltivati, qualche cascina e l’aura di un tempo glorioso dove tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento si svolsero prestigiosi competizioni motoristiche: il Circuito Aereo Internazionale del 1909 con l’epopea dei primi voli, alla presenza di Kafka (che vi realizzò un reportage “in gara” con l’amico Max Brod), Toscanini, Puccini, Marconi e di un D’Annunzio che non volle rinunciare a salire su uno di quegli improbabili mezzi volanti ante litteram. Nel 1921 toccò al 1° Gran Premio d’Italia: i bolidi a quattro ruote solcarono le strade tra la periferia e il centro del paese (dove i più anziani ancora ricordano via Marconi come “via del Circuito”, con l’accento rigorosamente sulla seconda i), prima che, l’anno successivo, Monza ci “scippasse” fasti e gloria. Ma è ancora il borgo di sotto che mi restituisce la bellezza che non muore, all’intero di dimore sontuose che ospitarono re e regine, uomini d’arme e autorità religiose, dall’Istituto Mazzucchelli a Palazzo Monti della Pieve presso il quale un giovane Napoleone I stabilì il quartier generale in vista della fruttuosa campagna d’Italia del 1796.
Se percorro la lunga via XXV aprile la vista del Castello Bonoris riporta idealmente le lancette dell’orologio al Medioevo: neogotica nelle fattezze, voluta da un conte danaroso e vanitoso, ma altresì attento alla solidarietà, la sontuosa dimora, acquisita al Comune solo nel 1996, è teatro di eventi ricreativi e culturali. Ma il mio è uno sguardo, come dicevo all’inizio, che spazia sull’intero borgo e non indugia troppo, perché tante e tali sono le meraviglie che sarebbe un peccato perdersi troppo qui o là: un tour a Teatro Bonoris dove di anno in anno i cartelloni accolgono fior fiore di attori e musicisti di calibro e dove un certo Celentano nel 1979 vi girò alcune scene di un film, il possente Museo Lechi adiacente, nato per volontà di benefattori insigni quali i conti Luigi e Piero Lechi (lontani discendenti dei generali di Napoleone).
Qui vicino nacque Umberto Benedetti Michelangeli, direttore
d’orchestra e nipote del pianista più geniale del Novecento, Arturo, e ancora
per spostarci nello spazio e nel tempo, magari dopo una rapida sosta presso
l’antico ospedale della vecchia Porta Inferi oggi moderna biblioteca-pinacoteca, l’antichissima chiesa di Santa Cristina
altomedievale dispersa nella campagna, la scenografica collina di San Giorgio
con i resti dell’antico luogo di culto d’epoca longobarda per arrivare sino al fiume
Chiese, corso d’acqua che dal Monte Fumo attraverso 160 km si adagia lento
nell’Oglio, tra Acquanegra e Canneto concedendo lungo le sue sponde uno spazio
per ritemprarsi, magari riscoprendo tra le pagine di uno storico, il compianto
Giovanni Cigala, quanta feconda bellezza ci ha tramandato il “nostro” Nicolò
Secco d’Aragona, il genio inquieto del Rinascimento, la cui dimora avita ahimè langue desolata e abbandonata lungo via Guerzoni. Questo rapido giro per il
paese-città, lungo le strade battute dalla storia, si chiude dov’era principiato:
risalgo a passi lenti il viale che riporta alla Pieve, nell’ombrosa e solitaria
via che rammenta i caduti di questo o quel corpo d’armata, affratellati da
sacrifici spesso vani. Mi perdo in un sogno, su una delle panchine del parco:
nel tempo gentile della memoria anche l’antico tram (dei desideri?) che
tagliava in due il borgo può tornare a fare capolino, solcando in lungo e in
largo con lo sferragliare sui binari il paese che non si è mai convinto di
diventare città.
lunedì 9 settembre 2024
GUERRA
BATTERIOLOGICA
di Jean Olaniszyn
Hirohito
Il grande segreto del Giappone:
gli indicibili crimini dell’Unità 731.
Circa un anno fa, nell’estate
del 2023, archeologi cinesi dell’Istituto di reperti culturali e archeologia
della provincia di Heilongjiang, identificarono nella Cina nord-orientale, i
resti di un grande bunker del famigerato “Dipartimento di prevenzione epidemica
e purificazione dell’acqua dell’esercito di Guandong, Gruppo dell’Esercito
Imperiale Giapponese, dal suo nome ufficiale, meglio conosciuto oggi con il
nome in codice usato negli anni ’30: Unità 731, guidata dal tenente generale
Shiro Ishii.
Durante l’occupazione giapponese della Cina dal 1931 al
1945, un centro operativo dell’Unità 731 a Pingfang (provincia di
Heilongjiang e amministrato dalla prefettura di Harbin) ospitò un
laboratorio sotterraneo segreto, da allora soprannominato “il Bunker dell’Orrore”,
dove i militari e gli scienziati giapponesi condussero raccapriccianti
esperimenti su soggetti umani.
L’Esercito imperiale del Giappone si macchiò di crimini
di guerra talmente orribili che osservatori dell’alleato
tedesco lo definirono “una macchina bestiale”, riferito in
particolar modo al noto “Massacro di Nanchino”.
In quel tempo Nanchino era la capitale della Repubblica
della Cina caduta in mano ai giapponesi il 13 dicembre 1937. In sei settimane i
soldati giapponesi uccisero oltre 300.000 persone, con torture, stupri di
donne, ragazze e anziane, ma anche di bambini in tenera età uccisi per
divertimento e in modi orribili a decine di migliaia dai militari giapponesi.
Già nell’agosto del 1937 l’Esercito imperiale giapponese
nell’avanzata verso la “Battaglia di Shangai” fu particolarmente crudele verso
i cinesi, sia militari che civili (seguendo anche le direttive dell’imperatore
Hirohito che impose di non rispettare i vincoli imposti dalle convenzioni
internazionali), ciò che fa pensare che il massacro di Nanchino non sia stato
un evento isolato.
Il Tribunale Militare
Internazionale per l’Estremo Oriente ha calcolato che vennero stuprate più di
20.000 donne, anche bambine e anziane. Gli stupri durante il giorno spesso
avvenivano in pubblico, il più delle volte di fronte ai mariti o a componenti
della famiglia, che venivano immobilizzati e costretti a guardare. Un gran
numero di tali atti fu frutto di un’organizzazione sistematica, con i soldati
che cercavano le ragazze di casa in casa, sottoponendole a stupri di gruppo. Le
donne venivano spesso uccise subito dopo lo stupro, non prima di aver inflitto
loro mutilazioni o sventrando quelle incinte. Ci sono testimonianze ancora più
raccapriccianti di episodi talmente orribili che in questo contesto evito di
raccontarne i dettagli.
Shiro Azuma col suo diario
Lager
dell’unità 731 a Pingfang
In un tale oceano di sofferenza durante l’avanzata
dell’esercito giapponese verso Nankino, la morte di circa 3.000 prigionieri
cinesi e in piccola misura russi, a Pingfang, vicino ad Harbin, potrebbe essere
vista come un epifenomeno. Ma
nell’inferno di Pingfang, nel cuore della Manciuria, furono commessi fra
i crimini più atroci della “Grande Guerra Asiatica”.
L’Unità 731 effettuò, su larga scala, esperimenti biologici
e vivisezioni su cavie umane (prigionieri cinesi, coreani, russi, ma anche
britannici e olandesi), testando i
limiti della sofferenza umana su uomini, donne e bambini, per fornire
alle forze armate giapponesi armi batteriologiche e chimiche.
Un sopravvissuto, Fang Zhen
Yu, in un’intervista a ‘Le Monde’ ha raccontato: “Era il 1941. Avevo diciannove anni e lavoravo come magazziniere, prigioniero
nel campo giapponese. Punito, fui rinchiuso in una cella, da dove potevo vedere
i treni arrivare e scaricare come animali i poveri disperati destinati agli
esperimenti; un giorno è arrivato un convoglio di vagoni merci, scesero degli
uomini con le mani legate, alcuni avevano capelli biondi” (…) “Dal magazzino portavano molto cibo al ‘laboratorio’, da dove provenivano perennemente urla strazianti di
uomini, donne e bambini”.
Il cibo era destinato per testare sulle cavie umane il
miglior vettore infettivo. Le verdure furono riconosciute come le più adatte
alla guerra batteriologica, in particolare quelle con molte foglie, seguivano
in ordine successivo: la frutta, il pesce e infine la carne.
Nel piccolo museo di Pingfang, inaugurato nel 1982, un
plastico ricorda quello che era l'immenso complesso (70 edifici) dell'Unità
731. Dietro il lungo edificio amministrativo a due piani, si trovava un
quadrilatero formato dalla prigione e dai “laboratori”, oltre agli alloggi per
i tremila giapponesi (medici, veterinari, infermieri, soldati) che gestivano
gli orrendi crimini.
All’epoca il campo di prova comprendeva anche
installazioni in superficie che non esistono più, ad eccezione di una pista di
atterraggio, perché nell’agosto del 1945 fu tutto fatto saltare in aria dai
giapponesi per cancellare ogni traccia di ciò che accadeva nel sottosuolo, in
locali destinati a contenere e controllare soprattutto la diffusione di agenti
infettivi. I documenti storici hanno rivelato che nei vari laboratori (Unità
731, Unità 1644, Unità 100) del famigerato
Dipartimento di prevenzione epidemica e purificazione dell’acqua dell’esercito Imperiale
giapponese, furono
almeno 12.000 cavie (uomini, donne e bambini) che furono uccise durante test con
agenti batterici e malattie mortali (sifilide, antrace, colera, febbre
tifoide), ma anche con altri perversi metodi: immessi in centrifughe rotanti,
iniettati con sangue animale contaminato, esposti ai raggi X, al freddo, alla
disidratazione, bruciati vivi con lanciafiamme.
I disgraziati venivano anche vivisezionati, senza anestesia ovviamente. Pulci infettate da Yersinia pestis e sviluppate in laboratorio per essere particolarmente letali, causa della peste bubbonica e polmonare, venivano lanciate anche da aerei a bassa quota sulle città cinesi del Manchukuo, uno stato conosciuto come “fantoccio”, territorio della Manciuria controllato dall’Impero del Giappone nel nord-est della Cina tra il 1932 e il 1945. L’avanzata dei sovietici in Manciuria e le bombe atomiche americane sganciate su Hiroshima e Nagasaki fermarono i folli progetti giapponesi per l’uso delle armi batteriologiche sviluppate dall’Unità 731. Tra questi il programmato bombardamento batteriologico di San Diego (California), nome in codice “Operazioni Fiori di Ciliegio nella Notte”.
Il governo giapponese cercò sempre
di nascondere l’esistenza e i crimini dell’Unità 731. Catturati dalle truppe americane al termine del
conflitto, il comandante Ishii e il suo stato maggiore, Darkum
Neik, Masaji Kitano, Yoshio Shinozuka, Yasuji Kaneki, ottennero l’immunità in cambio della
consegna all’OSS (precursore della CIA) di tutte le informazioni delle loro
‘ricerche’ sulla guerra batteriologica. L’accordo avvenne con il beneplacito del generale Douglas
MacArthur che ricevette
istruzioni di garantire ufficialmente la piena immunità agli scienziati
dell’Unità 731. All’infuori del
Giappone, solo gli USA avevano quindi le
prove dei crimini dell’Unità 731 in Cina, ma furono sottaciute. I crimini contro l’umanità commessi in Manciuria dai giapponesi, a
quanto pare, non avevano responsabili. L’Unione Sovietica protestò
veementemente, senza alcun risultato tangibile.
Anche altri scienziati coinvolti
nell’Unità 731 ricevettero nel 1946 l’immunità da ogni accusa dal Tribunale
internazionale per l’Estremo Oriente (Tribunale di Tokyo), avendo fornito agli
Stati Uniti tutti i dati - definiti dall’allora segretario alla Sanità Usa
“inestimabili” - della loro criminale
attività.
La documentazione e gli archivi
dell’Unità 731 furono trasferiti sul
continente americano, più precisamente a Fort Detrick, il famoso centro
biomedico militare americano, dove furono utilizzati per sviluppare armi
batteriologiche. I criminali giapponesi trasferiti negli Stai Uniti furono
utilizzati in vari laboratori, sia su territorio americano che in altri paesi,
ovviamente sotto il controllo del Pentagono.
Il documento rinvenuto nel 2023 |
Shiro Ischii
Dopo queste rivelazioni spuntarono
“dal nulla” altri indizi ed elementi dal valore probatorio e molti storici
iniziarono a chiedere informazioni ai governi giapponese e americano, ma solo nel 2018, gli
archivi nazionali giapponesi pubblicarono i nomi di 3.607 membri dell’Unità
731, su richiesta di Katsuo Nishiyama, professore all’Università di Scienze
Mediche di Shiga (Giappone), il quale aveva dichiarato che “la lista è una
prova importante che supporta le testimonianze delle persone coinvolte e la sua
divulgazione è un passo importante verso la rivelazione di fatti tenuti
nascosti per troppo tempo”.
Nel settembre del 2023, Seiya Matsuno, uno storico giapponese, ha scoperto presso
gli Archivi nazionali del Giappone dei documenti che
registravano le informazioni di base dei medici militari dell’Unità 731, nonché
la loro affiliazione, adeguamento, smobilitazione e alcune altre informazioni
dopo il 1944. Ufficialmente, tuttavia, molto resta secretato, anche in relazione al complesso rapporto del
Giappone con Washington. Come sintetizzato in modo eloquente da Daniel
Barenblatt, autore di “A
Plague upon Humanity: The Hidden History of Japan’s Biological Warfare Program” (2005), il “segreto
dei segreti” del Giappone è diventato il “grande segreto dell’America”.
UNA SITUAZIONE DIFFICILE DA ACCETTARE
di Luigi Mazzella
La sclerotizzazione della Ragione
in Occidente fa sì che chi abbia frequentato le scuole medie superiori e
l’università continui a usare il linguaggio appreso sui banchi di scuola e
nelle aule accademiche senza rendersi conto della sua inattualità e
obsolescenza. Si usano parole divenute prive del loro significato originario come
neo-liberismo, populismo, sovranismo e altre non capendo che la realtà politica
ed economica è talmente cambiata da richiedere un tipo di analisi ben diverso
da quello cui l’opinione pubblica era stata abituata, partendo dalla
convinzione di vivere in un regime democratico (con i suoi rituali elettorali
con effetti sul governo dei Paesi) presente sia nel vecchio e sia nel nuovo
continente. Oggi non è più così: c’è un blocco egemone anglo-americano (con
prevalenza del secondo termine sul primo) che elabora una politica definibile
approssimativamente “pauperistica” che impone nei propri Paesi e in quelle egemonizzati
e che prescinde totalmente da indirizzi scientifici di economisti, giuristi e
altri uomini del sapere accademico perché si sostanzia in una somma di
provvedimenti idonei a tenere buono il “popolo bue”, proprio ed altrui. Questo
blocco, al potere con continuità preoccupante, non crede più nell’alternanza e
vagheggia una linea politica che è quella del Partito Democratico Americano e
del Laburismo inglese, influenzato non a caso dal ritorno in auge del solito
Tony Blair, consulente bene inserito nel sistema finanziario
giudaico-americano. I tentativi Reaganiani, Thatcheriani, Trumpiani di
ribaltare la situazione sono divenuti oggi del tutto impossibili: respinti con
ogni mezzo, compreso l’uso politico della giustizia. La dipendenza politica
assoluta dagli Stati Uniti di tutti gli schieramenti Europei (con rare
eccezioni) garantisce inoltre che l’Europa, sostanzialmente obbligata dai voleri
degli Inglesi e dei Nord-americani, a non “infastidire” lo strapotere economico
anglosassone, “non muova foglia che Wall Street e la City non vogliano”.
Destra, Centro o Sinistra
che dir si vogliano non possono fare altro che attuare le linee
politiche del Partito Democratico Statunitense condotto in apparenza da un
Presidente eletto (cui il Pentagono può sempre opporre rifiuti, come nel caso
del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan disposto da Trump) ma super
controllato dai servizi d’intelligence, finanziati in un modo che molti
intellettuali del cinema ritengono, nelle loro opere, più occulto che palese.
Sentire, quindi, insigni notisti politici parlare di effetti catastrofici del
neo-liberismo e citare le conseguenze benefiche o malefiche di altri aulici
concetti economici fa una certa impressione.
Domanda: Siamo certi che
non s’invoca “la Scienza” per coprire una squallida guerra di strapotere
internazionale, combattuta ormai senza esclusione di colpi, nell’ignoranza o
con la complicità di politicanti di provincia, mandati al governo dei Paesi
subalterni, grazie ai suggerimenti di esperti d’oltreoceano circa l’uso
congiunto di sistemi elettorali truffaldini e quello politico della giustizia
che, insieme, tengono lontani dall’agone politico le persone dabbene e
competenti?
domenica 8 settembre 2024
LA MIA PIAZZA GRAMSCI A MILANO
di
Patrizia Gioia
Due personalità della
cultura milanese sull’indifferenza istituzionale verso il degrado della città.
Eh
sì, caro Angelo. Professionalità era una volta sinonimo di qualità, di
accuratezza, di cura di quel che era sotto la nostra responsabilità.
Ed
era gioia farlo, impegnavi testa, cuore e mano, senza separazione alcuna.
Vedere
Milano oggi così degradata, la mia piazza Gramsci lasciata all’abbandono è per
me dolore quotidiano. Adoro ogni piazza, luogo di incontro, di scambio, di
umanità.
I
sanpietrini staccati e diventati un cumulo di pietre, causa di cadute per gli
anziani che, per fortuna, sostano ancora sulle panchine, aiutando a non
lasciare la piazza ai vandali, nonostante nessun albero faccia loro ombra e il
canto della sua fontana è da anni stato zittito dall'incuria che l'ha
trasformata in un grande cestino di rifiuti.
Per
non parlare del degrado dell’autosilo, dove i proprietari dei box sotterranei
non riescono a trovare un dialogo con il Comune per il buon mantenimento del
complesso.
Invece
ci si affaccenda sempre più in settimane (diventate week!) del design, della
moda, dei mobili, dei vini e dei cibi, dove fiumane di turisti sono intenti
solo a guardare, non le bellezze della città, ma a fotografarsi davanti ai
marchi delle vetrine che ormai sono le stesse in ogni paese del mondo globalizzato.
Tutto questo vorrebbe davvero farci credere che Milano sia grande metropoli?
No!
Milano urla che la stanno violentando, ma la massa non ha più né cuore né
orecchi, i soli organi capaci di ascolto e di Rivelazione, ma solo cellulari, cuffiette
e “happy hours”. E le targhe poste sui muri, quelle che disegnano la mappa del
cuore di una città, non hanno più nomi leggibili perché non portiamo più nel
cuore i nostri avi, oltre ad esserci dimenticati di noi stessi, dell’umanità
che siamo e che vive di solidarietà, di valori, di sentimenti, di dignità. Sono
le loro lacrime che hanno sciolto il colore con cui i loro nomi erano scritti
e... il Porta, il Manzoni, la Cristina Belgioioso e la Contessa Maffei non li
vedete? Ci stanno guardando stupefatti chiedendosi: è questo che abbiamo
lasciato loro?
UN SEGNALE DI INCIVILTÀ
di
Giuseppe O. Pozzi
Caro
Angelo, ti sono grato come cittadino per questi memo. Un segnale di inciviltà
sociale ed istituzionale che ti stringe in una morsa mortale e sta lì inesorabile
a rappresentare l’impotenza del cittadino che passa e tira dritto perché non sa
più cosa fare per far rinascere un po’ di dignità e di rispetto.
Grazie.
UN RICHIAMO ALL’8 SETTEMBRE
di
Franco Astengo
Al
di là delle vicende contingenti l'assunzione dell'estrema destra al governo del
Paese ha riaperto il "caso italiano" ponendo in evidenza una crisi
particolare della liberaldemocrazia rispetto a quella in atto in Francia che è
crisi essenzialmente istituzionale e in Germania che è crisi del forzato (e
sbagliato) esodo della socialdemocrazia dal suo ambito naturale.
Da
anni la società italiana soffre di disgregazione strutturale, di eccesso di
fluidità e vive di individualismi reattivi e rabbiosi perché percorsi da grandi
disuguaglianze: la risposta è stata - assieme - quella del populismo,
dell'antipolitica, del vuoto di potere colmato dalla magistratura o dall'asservimento
alla tecnica di bilancio nel nome del "ce lo chiede l'Europa".
Una
società percorsa da paure universali e da una disordinata accettazione della
crisi dell'universalismo avviata nel post-globalizzazione dalle grandi crisi
prima del 2001 con le Torri Gemelle, poi nel 2007-2008 con la crisi dei
subprime a dimostrazione che era illusoria l'idea della "fine della
storia" avanzata al momento della caduta del muro di Berlino: tanto è vero
che è tornata la guerra ad occupare per intero proprio quella scena della
storia.
La
destra ha offerto un progetto che si basa su alcune indicazioni di facile
comprensione: una politica "forte" con una tendenza alla soluzione
penale delle questioni sociali intesa come scudo a difesa delle condizioni di
vita e di produzione di una società che si articola economicamente sulla
centralità degli egoismi individuali inseriti nel contesto ritenuto naturale
(la famiglia).
La
destra implementa sia l'avversità verso l'economicismo e il giurisdizionalismo
esterno, quanto l'uniforme acconciamento alla fluidità interna affrontati
attraverso concetti di identità religiosa civile, culturale (la
Patria/Nazione): la lotta della destra diventa allora quella per la tradizione
offesa per l'affermazione di valori ritenuti minacciati rifiutando così
l'accoglienza di stili di vita nuovi in un quadro generale di profonda
modificazione nel rapporto tra struttura e sovrastruttura che ignora il
trasformarsi culturale dei modi della produzione capitalistica (anche se ne
sfrutta in termini mediatici la ricaduta nell'innovazione tecnologica in
ispecie sul piano della comunicazione).
La
sinistra è chiamata a rispondere a questa radicalità ponendo mano a un progetto
di sistema che tenga conto della particolarità del caso ma riuscendo al tempo
stesso di tenere fermo il concetto di "spazio politico europeo" e di
impronta costituzionale.
Non
esiste lo spazio intermedio di "ponte" e neppure di adagiamento
nell'errore di considerare la governabilità quale punto esaustivo della
democrazia liberale.
E'
necessario pensare al rafforzamento dei corpi intermedi (opponendosi alla
visione corporativa di "elargizione del potere") rappresentati sia
dai partiti che da sindacati in grado di lottare per un riequilibrio economico
tra profitti e salari e di uno Stato forte al punto di saper riproporre servizi
sociali intesi come forma concreta e democratica di sicurezza e di uguaglianza
: oltre a una politica estera autonoma e al contempo capace di mediazione
partendo da un punto che si era sollevato nel corso della campagna elettorale
europea e poi abbandonato circa la non coincidenza tra UE e Nato.
La
costituzione italiana che rimane punto avanzato rispetto allo schema
liberaldemocratico classico per ragioni storiche e politiche garantisce la
cornice adatta per questa necessità di contrapposizione, a patto di difendere
la forma di governo fondata sulla ridotta e da recuperare centralità del
Parlamento (gioca qui il tema della legge elettorale) e la forma di stato
unitaria ripensando anche al ruolo delle Regioni che ha subito nel corso degli
anni una profonda trasformazione.
Nel
sistema politico italiano si ravvedono ancora tracce di questa identità
costituzionale ma siamo privi di una soggettività che le traduca in impatto
politico immediato.
Respingere
l'idea della Costituzione come anticaglia novecentesca; considerarla ancora
come fattore di transizione; ricordare sempre che si tratta del frutto di chi
l'8 settembre tra sacrifici immensi seppe stare dalla parte giusta della
storia.
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