UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

OFFICINA

LIBRI
IL RITORNO COME FALLIMENTO
di Angelo Gaccione

Appunti personali a proposito di un saggio di Fulvio Papi

La copertina del libro

Accanto alla sua attività di filosofo, Fulvio Papi coltiva da tempo una altrettanta forte passione per la letteratura. Broch, Roth, Thomas Mann, Svevo, una accanita rilettura di Musil, e di recente i saggi su Marguerite Yourcenar, Samuel Richardson, Henry Fielding e Cesare Pavese, compresi nel volumetto dal titolo “Come specchi del tempo*”. Di ciascuno di questi autori Papi indaga delle opere specifiche e ne  problematizza alcuni aspetti. Tutti molto interessanti, ma che attengono, a mio modo di vedere, molto di più al lavoro letterario degli scrittori, che a quello dei semplici lettori o della critica. Potrei citare ad esempio l’attenzione che lui rivolge all’happy ending di un’opera, o alla conoscenza oggettiva “delle condizioni storiche” colte in tutti i suoi risvolti (politici, sociali, psicologici, militari, religiosi, ecc.) ineludibili nella costruzione di una figura storica, anche se poi il narratore, per esigenze proprie del suo fare artistico, non può rinunciare alla sua soggettività “irriducibile” come la chiama Papi. E finisce per contaminare l’oggettività storica, con l’invenzione creativa propria della sua soggettività. Temi questi, assieme agli altri presenti nei vari saggi, di notevole interesse per chi pratica l’arte della scrittura, utili ad illuminare qualche crinale scosceso del proprio percorso. Il tema del ritorno,  (νόστος), presente nel romanzo di Pavese (La luna e i falò) preso in esame da Papi, e che egli giustamente individua come storia di fallimento, mi conferma quello che ho sempre pensato: l’emigrazione fa dello scrittore, di un certo tipo di scrittore, uno sradicato. Egli non mette radici da nessuna parte e il ritorno non può che deluderlo: il tempo muta inesorabilmente le persone e le cose, e seppure il suo luogo non è stato del tutto devastato, tuttavia “il desiderio del ritorno non può suturare l’abisso del tempo” perché “lo stesso spazio è mutato con il tempo”. Ho potuto verificare tutto questo su me stesso, ritornando dopo un significativo periodo di assenza nella mia terra di origine. Ho provato come un senso di vertigine, come se improvvisamente fossimo diventati estranei, io a lei, lei a me. La bellezza struggente dei suoi colori strideva col vuoto che il tempo aveva scavato in me; quel che si perde non si recupera più, come ciò che si cancella di fisico, fosse pure un albero, uno slargo che la nostra memoria aveva trattenuto. C’è un terremoto interiore che produce le stesse rovine del terremoto fisico che abbatte case e cancella luoghi, e rende meno stabile l’equilibrio psichico. Forse è per questo che i poeti che partono o si inaridiscono, o cadono vittima di quella “malattia dei ricordi” (espressione molto cara anche a Papi) da cui finiscono per restare imprigionati. 
Se “I ritorni non sono che inganni del cuore”, come si legge in un famoso romanzo di Piero Chiara*, e se come per Anguilla, il protagonista del romanzo di Pavese di cui conosciamo solo questo soprannome, non c’è possibilità di ricongiungersi, dopo essere andato in giro per il mondo, che cosa rimane se non il peso di una memoria che ci tiene a galla per non sprofondare del tutto? “Capii che quelle stelle non erano le mie” dice Anguilla tornando, ma il ritorno è un fallimento. È stato così per lungo tempo anche per me: nessun cielo mi apparteneva e le stelle mi apparivano ovunque meno lucenti. Poi ho smesso di guardare il cielo.

Note
*Una spina nel cuore, Arnaldo Mondadori Editore.

 *Fulvio Papi
Come specchi del tempo
Yourcenar, Richardson, Fielding, Pavese
Ibis edizioni 2016, pagg. 96 € 8,00.

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LIBRI
NON È UN PAESE PER ONESTI
di Angelo Gaccione

Elio Veltri nel suo studio

Biografia, diario, libro di memorie, saggio, messa a punto di una stagione storico-politica irripetibile? Questo nuovo libro di Elio Veltri è molte cose assieme perché è un libro multiforme in cui più generi e formule vi fanno irruzione, compreso un certo gusto per la narrazione e la letteratura. Qua e là affiorano descrizioni di visioni, scorci, profumi, sapori, umori, nostalgie, personaggi, che hanno a che fare con la poesia, e poetica è la lingua dialettale che fa capolino qua e là. Non è un paese per onesti, sottotitolo: Storia e storie di socialisti perbene, è un libro denso e pieno di fatti, ricco com’è di eventi e personaggi pubblici molti dei quali consegnati alla storia del secolo scorso. Perché attraversa un arco temporale di tutto rispetto, e perché la temperie dentro cui fatti e personaggi si situano, è stata una delle più esaltanti, drammatiche, scandalose e infine deludenti della storia politica italiana. Dal punto di vista in cui si situa Veltri e a consuntivo finale, può con fierezza dare conto di aver bene operato. Ma ha potuto ben operare non solo perché l’insegnamento del rigoroso ed onestissimo padre Agamennone (azionista prima e socialista per tutta la vita poi) è stato eticamente impeccabile, ma perché egli stesso ha concepito la propria esistenza e il proprio ruolo sociale come parte integrante di quelle idee e di quell’insegnamento ricevuti. Di quell’insegnamento verificato nel concreto della quotidianità minuta fatta di dedizione agli altri e di solidarietà, che da quel sentire e da quelle idee discendono e sono nutrite. Dedizione agli altri e alla propria comunità che finisce per divenire essenza umana prima che istanza politica. Su queste basi Veltri ha potuto ricostruire e forgiare il proprio io che è divenuto un abito consustanziale al suo sentire interiore e al suo stesso operare sociale.


Elio Veltri

La deriva di personaggi insospettabili, anche di indubbio valore intellettuale, nella conduzione della Cosa Pubblica, è dovuta al venir meno di questa tensione, dell’allentarsi di questi capisaldi. I soli che, restando a presidio del proprio operare e del proprio agire, ne possono preservare integra la moralità e la missione. Attraversare indenne da scandali un’intera vita pubblica, in un Paese che ha edificato su scandali e corruzione il suo DNA, può apparirci miracoloso. Si tenga conto che quando entra nel Partito Socialista Italiano nel 1957, Veltri non ha ancora vent’anni. Sindaco di Pavia lo diventa a 38, ma prima, già nel 1964, era stato eletto Consigliere comunale di quella stessa città e di anni ne aveva appena 26. E poi ci saranno gli anni da Consigliere regionale e quelli da parlamentare nazionale. Ripeto: attraversare a testa alta un excursus così lungo, circondato poi da un clima che vedrà una parte del PSI (il più antico e glorioso partito progressista italiano) immerso in quella cloaca maleodorante fatta di scandali e ruberie (quella da noi battezzata come la componente socialosca); che rema contro il tuo stesso programma, ostile alle tue stesse battaglie amministrative per la difesa degli interessi collettivi contro i particolarismi di pochi; per la salvaguardia del bene pubblico, di una qualità di vita migliore per tutti e con una attenzione vigile verso i più deboli, vuol dire avere introiettato in ogni fibra e in ogni idea il concetto che Licurgo, nel suo intransigente pamphlet Contro Leocrate, vuole imprimere nella coscienza dei suoi concittadini: “L’amministrazione di una città consiste nella custodia che ciascuno ne fa per la sua parte”. In questa cura consiste la nobiltà che un uomo pubblico può rivendicare a risarcimento, e di cui può andare fiero alla fine della sua missione. È questo onore che lo riscatta e lo rende prezioso agli occhi della città e dei suoi stessi avversari, se ha ben operato. Veltri questo onore lo ha avuto e i suoi concittadini lo ricordano con rispetto. Di quanti oggi possiamo dirlo? 

Elio Veltri

Chi si immergerà nella lettura di queste oltre 300 pagine, potrà vedere l’impegno quotidiano, le battaglie dell’Amministrazione per la custodia della città e dei suoi beni, per impedirne il sacco, lo stravolgimento, la cancellazione delle memorie che l’arte e la storia le hanno consegnato. I confronti pubblici, il coinvolgimento dei cittadini, gli scontri, fino a fare assurgere la materia del contendere, a bene prezioso che travalica gli stessi ambiti locali e nazionali per farsi bene prezioso, paradigma, modello a cui guardare. Ma non c’è in questa visione comunitaria e sociale, solo il terreno e il cemento; lo spazio urbano ed extraurbano da tutelare da una miope riduzione a pura merce e a profitti: c’è la scuola e ci sono i servizi, c’è il disagio e c’è la salute, c’è la qualità della vita e c’è la cultura. Si può resistere a tutte le intemperie e a tutti i rovesci alla sola condizione che chi Amministra non rivendichi nulla per sé, allora si diventa indistruttibili; dicendo le verità più scomode e non perdendo mai il contatto con gli uomini concreti e i loro bisogni. Finiranno sempre, quest’ultimi, per distinguere ciò che è sporco e ciò che sporco non è; ciò che utile a tutti da ciò che lo è solo per pochi. È stata qui la forza dell’uomo pubblico Elio Veltri e del suo successo, ed è per ciò che la lettura di questa straordinaria esperienza andrebbe resa obbligatoria a quanti, soprattutto di questi tempi, si trovano da neofiti ad amministrare la Cosa Pubblica a vari livelli.


Veltri con il libro in mano

Il titolo del libro è sconsolatamente tragico nella sua verità, e tuttavia non possiamo gettare la spugna. Come ci ammonisce Hannah Arendt un uomo rinserrato nel privato è morto per lo spazio pubblico e dunque non è di alcuna utilità al suo tempo, ai suoi simili e alla città. Un esempio luminoso per questa speranza può venirci dalle bellissime commoventi pagine che l’autore ha dedicato al padre scomparso. La sua vita pur costellata da mille difficoltà e ostacoli, in tempi oltremodo difficili, in una terra dura e scandalosamente bella, non è mai scesa a patti con la propria coscienza. Non se n’è giammai dovuto vergognare. Anche i momenti più bui non ne hanno potuto piegare lo spirito. Sono pagine, queste, piene di abnegazione, di un uomo e di un professionista che ha lasciato un ricordo indelebile di sé ad altri uomini e ad altre donne che continuano a ricordarlo con struggente affetto e devota riconoscenza. Agamennone ci ha insegnato col suo magistero che una vita operosa, dignitosa, onesta e morale (sono parole sue), non è mai sprecata, per quanto numerosi e protervi siano i suoi nemici. Troverà sempre il suo trionfo perché una vita così caparbiamente riaffermerà il suo valore.
Il libro di Veltri è godibile perché vive di tanti momenti anche privati. Racconta dei suoi affetti più cari e della donna che ha condiviso per questo lungo tempo, la sua passione pubblica. Questa donna è Tilde, sposa e madre da oltre mezzo secolo, conosciuta a Longobardi ancora adolescente. Si può dire che in loro si sono fusi passioni e destino, e forse è questo che rende possibile e straordinarie certe vite.      

Elio Veltri
Non è un paese per onesti.
Storia e storie di socialisti perbene
Falsopiano Edizioni 2016
Pagg. 314 € 18,00

    
La copertina del libro

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LIBRI
GLI “IMPROVVISI” DI VASSALLI
di Roberto Cicala
Sebastiano Vassalli a sinistra con Roberto Cicala

Serve ancora un bastian contrario come lui

Pubblichiamo la trascrizione dell’intervento di Roberto Cicala alla presentazione del volume postumo di Sebastiano Vassalli Improvvisi. 1998-2015 (curato da Cicala con prefazione di Paolo di Stefano, edito dalla Fondazione Corriere della Sera-Rizzoli Rcs Libri) avvenuta il 21 settembre 2016 nella sede del quotidiano di Milano con Massimo Gramellini, Aldo Grasso e Antonio Troiano.

Vassalli nel suo studio

In uno dei suoi Improvvisi Sebastiano Vassalli ha scritto: «Resteranno in circolazione pochi oppositori: tra loro, i bastiancontrari come chi scrive». Oggi sentiamo con commozione la mancanza di un «bastian contrario» come lui; e non soltanto sulla colonne del “Corriere della sera”, cioè nel diario in pubblico che teneva contro la banalità: è un diario che, grazie alla raccolta degli Improvvisi voluta dalla Fondazione Corriere della Sera, possiamo collocare accanto al palchetto che raccoglie i maggiori romanzi di questo «viaggiatore nel tempo», come si era definito scrivendo che la letteratura, come la poesia, è «vita che rimane impigliata in una trama di parole».
Anche le sue parole più giornalistiche non valgono un giorno solo, come il quotidiano, ma sono una riflessione sempre viva e attuale. Il “Corriere della sera”, nei giorni dell’annuncio della sua candidatura al premio Nobel, la primavera prima della scomparsa nell’estate 2015, gli aveva proposto di raccogliere i suoi corsivi, brevi e spesso fulminanti, ironici, scomodi. Mi aveva chiesto di curare la raccolta e all’inizio avevo pensato di raggrupparli per temi (politica, poeti, guerra…) ma poi aveva preferito seguire l’ordine cronologico di uscita. E ora, a rileggerli tutti insieme, gli devo dare ragione. Ancora una volta. Quei frammenti, quei tasselli, che sembravano occasionali, sono diventati un affresco, un mosaico unico dell’Italia di oggi, di noi stessi.
Improvvisi è un titolo che è un omaggio a Giorgio Manganelli, scrittore che gli aveva presentato il suo primo libro, di poesia sperimentale, nel 1968. E aveva scelto il titolo con Paolo Di Stefano, responsabile delle pagine culturali in via Solferino, tra altre ipotesi, come Prediche inutili oppure Cause perse. Era il 1998. Da quell’anno ha scritto fino all’ultimo (a parte una parentesi su “La Stampa”) mandando i fax al “Corriere” e battendoli sempre su due delle sue quattro macchine per scrivere, con titoli che spesso la redazione cambiava: Per esempio il suo titolo Vichingo o terùn diventa Quello della Sindone non è il mio Gesù. Oppure: Cinema e biancheria intima diventa Accadde una notte che la canottiera… Da Il Viagra dell’ego proposto da lui si passa a Siamo tutti poeti dato dal giornale. Titoli che fanno venire voglia di leggere. E non manca un titolo sui selfie: Selfie delle mie brame… Fino all’ultimo articolo sulla mafia e Bernardo Provenzano.

Vassalli tra i suoi campi 
Chissà che cosa avrebbe scritto di Nizza, Erdogan, della moda del Pokemon Go, della guerra tra le fiere del libro. Ma in queste pagine i veri protagonisti sono sempre i libri, definiti da lui «una merce povera e avida di infinito». Tra gli scrittori citati ci sono Calvino, Leopardi, il suo Campana, Saviano e Camilleri, che di recente gli ha tributato una bella citazione. In occasione del traguardo dei 100 libri e dei 91 anni, all’inventore di Montalbano è stata rivolta questa domanda: «Qual è il complimento che in assoluto, lungo tutti i suoi cento libri, le ha fatto più piacere e di chi?» Camilleri ha risposto: «quando Sebastiano Vassalli scrisse che non c’era bisogno di costruire un ponte sullo Stretto perché io ne stavo costruendo uno di carta, e che funzionava piuttosto bene». È un Improvviso contenuto nel libro e vi scrive: «Camilleri, primo tra gli scrittori nati sull’isola, ci racconta storie della sua terra come storie normali. La Sicilia del commissario Montalbano è un luogo pittoresco, dialettale e complicato quanto basta: ma è anche un luogo comprensibile, sia pure con qualche sforzo, dai non siciliani. Questo fatto assolutamente nuovo è, secondo me, il principale ingrediente del suo straordinario successo. Con Camilleri, che Dio lo benedica, cade l’antico pregiudizio (presente ancora in Tomasi di Lampedusa e in Sciascia) per cui al fondo delle storie siciliane ci sarebbe qualcosa che non può essere raccontato ma soltanto intuito, e soltanto dai siciliani. Viva il ponte di Messina Andrea Camilleri».
Le persone citate sono molte, da Dario Fo a Beppe Grillo, talvolta satireggiando, come quando immagina un «governo dei comici: Fo presidente, Grillo primo ministro, Crozza agli Interni e Benigni agli Esteri, Pozzetto alle Finanze tanto per non sbagliare)…», commentando: «Forse è l’unica via per tirarci fuori, ridendo, dal ridicolo. Petrolini, Totò e naturalmente anche Flaiano sarebbero d’accordo».  Molti altri personaggi frequentano le pagine degli Improvvisi: da Celentano a Vittorio Sgarbi, da Berlusconi al sindaco di Varallo Buonanno, tragicamente scomparso di recente, senza dimenticare Veltroni o anche Scilipoti, quando Vassalli scrive: «Duole dirlo ma, tra i politici italiani di oggi, l’unico avviato a diventare immortale non è Silvio Berlusconi né Matteo Renzi. È Domenico Scilipoti, ex Italia dei valori, ex Responsabile e ora chissà. I giornali parlano di “scilipotume” e “scilipotismo”; Renzi respinge l’accusa “di cercare nuovi Scilipoti” e Gentiloni quella di “pensare a maggioranze scilipotiche”; la Germania viene definita “il paese senza Scilipoten”; eccetera. Sa di avere un piede nell’immortalità e ne parla senza falsa modestia. Ancora un paio di giravolte e c’è dentro tutto».

Vassalli nel suo salotto

L’attenzione alle parole è poi dimostrata dall’opera da lui più citata negli Improvvisi, che è, curiosamente, il Vocabolario Zingarelli; ma cita anche Il Grande Fratello, i Righeira, Indietro tutta di Renzo Arbore, proprio perché vuole raccontare l’Italia vera e quotidiana. Ad esempio leggiamo: «L’estate sta finendo, come diceva una canzone-tormentone degli anni Ottanta, e può essere di qualche utilità riflettere su questa stagione, tra le peggiori della nostra memoria. Aerei dispersi e aerei abbattuti «per sbaglio»; popoli che vengono sterminati e popoli che fuggono; guerre che nascono dall’odio e producono altro odio. Non c’erano mai state, in anni recenti, tanta violenza e tanta disperazione a premere sui confini dell’Europa e sui nostri confini. Sotto un involucro più o meno consistente di civiltà, l’animale uomo è sempre lo stesso. Chi ha scommesso sulla sua bontà, come Rousseau, o sulla sua ragionevolezza, come gli utopisti dell’Ottocento, ha sempre perso. La mia personale speranza sul futuro non riguarda le donne e gli uomini in quanto individui, ma riguarda i popoli in quanto entità collettive. Il rifiuto della violenza deve venire da loro. La speranza è che questa estate terribile ci abbia avvicinati a quel limite anche in altre parti del mondo».
Sono parole purtroppo attuali. Le riflessioni sull’odio (definito «un continente ancora in gran parte inesplorato. […] la nuova frontiera del realismo») dimostrano la lucidità della mente e del cuore di Sebastiano Vassalli, che, discutendo sullo scrittore Ignazio Silone, scrive che qualcuno lo definiva un infame ma (aggiunge) «io non ci credo, e credo che per difendere la sua memoria non ci sia bisogno di prove. Bastano i suoi libri».
Ecco: abbiamo bisogno di ricordare il «bastian contrario» Sebastiano Vassalli con i suoi libri e soprattutto con uno nuovo. Da leggere. È davvero la maniera migliore di ricordarlo.


Sebastiano Vassalli
Improvvisi
Fondazione Corriere della Sera 2016
Pagg. 425 € 14,00

La copertina del libro

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LIBRI
LE ELEGIE ROMANE DI DANTE MAFFIA
di Anila Dahriu 

Dante Maffìa

È il libro di un pazzo, per più d’una ragione. Del resto Aldo Palazzeschi l’aveva capito più di quaranta anni fa e nello scrivere la prefazione al primo libro di Dante Maffia, Il leone non mangia l’erba, non ha esitato ad affiancarlo a Dino Campana.
Dicevo pazzo per più d’una ragione, la prima delle quali è l’invenzione della lotta tra angeli e chimere, i primi armati di spade acuminate e i secondi soltanto di sogni. Per dimostrare che cosa? Che i sogni sono destinati comunque a perdere, anche quando hanno a che fare con gli angeli? La seconda ragione è la puntigliosità con cui Dio viene redarguito e posto sotto accusa perché è innamorato della donna del poeta. Si paventa un’altra sconfitta del sogno e questa volta del sogno dell’amore. La terza è porre Matera al centro dell’Universo facendola diventare sede del Paradiso. La quarta è l’accensione di mille fuochi poetici che tra loro s’incrociano dando inizio a una bagarre di perdite infinite. La quinta è il linguaggio raffinato e troppo denso che destabilizza e mette angoscia. E potrei continuare. Ogni verso sembra contenere una quantità infinita di sbocci e di spunti che ne creano a loro volta altri, quasi che le realtà e le emozioni fossero delle matriosche illimitate.
Eppure non c’è nessun barocchismo, nessuna dilatazione di significato, perché Maffia resta rigoroso e non divaga, semmai entra ed esce dagli assunti e proprio per permettere al lettore di orientarsi.

Dante Maffìa

Opera che, se si ha la pazienza di addentrarcisi, cattura e fa sentire il fiato caldo della parola poetica scandita con perizia e convinzione. Maffia giunge a una scrittura come questa delle elegie dopo lunghe esperienze e maneggia quindi il verso come un prestigiatore però attento a non calcare troppo sugli aloni degli effetti. Un rischio calcolato che gli permette di entrare nei luoghi segreti della psiche umana quando si trova a lottare con cose più grandi di lui. Ci sarebbe voluto poco e invece che chiamare direttamente Dio in causa avrebbe potuto servirsi della mitologia che gli avrebbe permesso addirittura di azzerare i significati per poi ripristinarli fuori da ogni tentazione. No, preferisce che la finzione resti fuori, che tutto si svolga nella pregnanza di eventi visibili e verificabili. Così l’amore diventa patrimonio di tutti, diventa certificazione del vivere.
Del resto, dopo i suoi due ultimi poemi, Io, poema totale della dissolvenza e Il poeta e la farfalla, il primo uno sbalorditivo excursus su tutto ciò che riguarda l’uomo, compresa la morte e la dissolvenza, e il secondo un canto ininterrotto d’amore dall’innamoramento all’addio, che cosa ci si poteva aspettare da un poeta che non ha soste, che combatte di continuo come un cavaliere errante per cercare di scoprire che cosa avviene fuori dal realtà e dalla logica? Queste elegie, che si snodano con una complessità priva di angoscia, priva di paura, carica di incertezze e quindi ricca di possibilità.
Dante Maffìa

E sono queste possibilità di viaggio offerte al lettore che fanno delle Elegie materane un sussultare di eventi tutti racchiusi nelle mura materane per significare che città e donna sono un’unica cosa e che città, donna e Dio hanno lo stesso principio di vita e la medesima situazione da svolgere. Direi che la posizione di Maffia riguardo a Dio è qualcosa di inedito nel panorama della poesia e anche della teologia. Egli non è fuori dai parametri della Chiesa Cattolica, ma vuole imprimere loro una visione diversa, in cui conta il senso dell’umano innanzi tutto, e poi la salvezza dell’anima.
Come a dire che il corpo sia più importante? No, come a dire che il corpo può farsi anima e la terra diventare il luogo dove Dio sta insieme con gli uomini e non nella radura di luce dove si è confinato.
Discutibile quanto si vuole ma poesia fitta di rinvii, di richiami, di allusioni, di scoscendimenti e di voli; poesia ricca di verità che non sa rinunciare alla carne e alla passione e di dibatte in controversie indefinibili che rivoluzionano il senso della venuta di Cristo sulla terra. Maffia lo vuole perennemente qui, tra noi, in modo che debba sentire fisicamente il male che gli angeli hanno fatto e fanno alle chimere.
Poesia alta, comunque, che ci fa toccare con mano il male e il bene, senza nessun manicheismo, con sfumature che graffiano e fanno perfino sanguinare.

Dante Maffìa
Elegie materane
Lepisma Edizioni, 2016
Pagg. 120 € 12,99

La copertina del libro



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LIBRI
Notturno Canaglia a Milano
di Cataldo Russo


Alessandro Calabria


Notturno Canaglia a Milano è un romanzo sociale che ha anche tutte le potenzialità e gli ingredienti per essere un ottimo thriller o giallo, il genere che va di moda oggi e che trova gli editori più disponibili alla pubblicazione. L’autore avrebbe potuto risolvere la trama in diversi modi, ha scelto di risolverla raccontando l’esistenza, i sentimenti e l’agire dei protagonisti in rapporto ai cambiamenti sociali e politici che hanno luogo non solo in Italia e a Milano alla fine degli anni ’90, ma in Europa.
Appare evidente che i fatti trattati da Calabrìa non possono essere disgiunti da ciò che è accaduto in Europa dopo la caduta del muro di Berlino, che ha scandito la fine dell’Impero Sovietico nella cui orbita la Moldavia, la patria di Alicia, e la Romania gravitavano.
Dal punto di vista dell’intensità narrativa, questo libro rimane sospeso fra il lungo racconto e il romanzo, ma questo non è per niente un demerito. Anche “Il Vecchio e il mare” di Hemingway più che un romanzo è un lungo racconto dove la tensione narrativa è sempre alta e inchioda il lettore alla pagina.  Il fatto che la trama si dipani in un numero di pagine piuttosto contenuto fa sì che siano ridotti al minimo i pericoli di fasi di stanchezza narrativa, di digressioni inutili, di ridondanze linguistiche e ripetitività che avrebbero potuto comprometterne il ritmo narrativo martellante che caratterizza ogni pagina di questo libro.
Poche, quindi, le pause, quelle pause che sono più frequenti nel romanzo lungo, dovute alla necessità di legare insieme i vari episodi e i vari accadimenti.
Concordo con il prof. Strano circa l’abilità dello scrittore nel sapere usare i vari registri linguistici, passando con una certa naturalezza, a secondo delle situazioni e delle caratteristiche morali dei vari personaggi dal tono drammatico a quello discorsivo, dal tono serio a quello delle minacce e dei ricatti.  
I rimandi alle citazioni dotte e agli aforismi, che compaiono in questo libro e così cari a Oscar Wilde de “Il ritratto di Dorian Gray”, non rasentano mai la pura civetteria letteraria. Infatti, essi non sono mai giustapposti o stridenti con la narrazione, citati tanto per citare qualcosa, ma in sintonia con il clima del romanzo.
Calabria ci narra una storia dei nostri tempi, aprendo uno squarcio sui retroscena di un’emigrazione, quella dei paesi dell’est che ha avuto lati drammatici, che magari oggi appare lontana, ma su cui ha prosperato senza distinzione territoriale la delinquenza e lo sfruttamento.
Nel romanzo ci sono tutti gli ingredienti cari a Dickens per commuovere il lettore: lo sfruttamento della prostituzione, lo sfruttamento dell’emigrazione, lo sfruttamento del lavoro, ma c’è anche la delinquenza di oggi: il traffico di droga, la mafia dell’est europeo e la mafia e la ’ndrangheta italiana. C’è anche il problema dei minori che si trovano a essere orfani e che, come accadde al povero Oliver del capolavoro dickensiano, possono andare incontro a diversi destini. Ogni tanto l’autore sembra tentato dalla voglia di dare il proprio giudizio morale sui personaggi e i fatti, ma riesce ad evitare questa trappola perché lascia comunque che a parlare siano gli avvenimenti e non il narratore.
L’autore pur padroneggiando i fatti, le ambientazioni, le storie e i personaggi, lascia che la storia si dipani attraverso l’agire e la condotta dei personaggi e non con l’ausilio delle digressioni sociali o il moralismo.
Il mondo che mette in scena Calabrìa è il mondo dello sfruttamento, dei dannati, di coloro che la storia ha privato del diritto di potersi autodeterminarsi. È il mondo dove conta l’arricchimento facile e dove la vita sembra non avere alcun valore perché tutto è sacrificato al dio denaro.  Per strane coincidenze o alchimie gli sfruttati di questo romanzo si trovano a incontrare i loro sfruttatori e le vittime ad andare incontro ai loro carnefici. Il suicidio di Alice, non è un atto di vigliaccheria, ma una ribellione estrema a una situazione dalla quale sembra non esserci una via d’uscita.
Questo romanzo che si lascia leggere di getto ha anche un andamento cinematografico e il passaggio da una situazione all’altra ha quasi la rapidità della dissolvenza cinematografica. 
La Milano che emerge da questo romanzo non è quella della malavita quasi folcloristica di Porta Romana o delle bande della zona di Ortica, tanto meno quella descritta da Carlo Castellaneta o altri autori milanesi, ma quella segnata dagli anni ’70 del secolo appena trascorso in avanti da criminali incalliti come i Vallanzasca, i Francis Turatello, dalle varie famiglie ’ndranghetiste e dai tanti clan delinquenziali dell’Albania o della Romania.
I personaggi, tutti ben disegnati, sono coerenti nel loro agire con le loro caratteristiche morali e umane.  

Alessandro Calabrìa
Notturno canaglia a Milano
Ed. Nuove Scritture, 2016
Pagg. 80 € 10,00



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LIBRI
Lettere a Don
di Claudia Azzola  
La copertina del libro

Le tredici lettere di Mary- Lou a Don Burness che l’autrice scrive al marito lontano, in viaggio, si riferiscono a due successivi viaggi di lui in Europa, nel dicembre 1970- gennaio 1971,  e in maggio-giugno 1972, in era pre-web, quando nello spazio ontologico e simbolico c’erano gli epistolari e i carteggi. Non leggiamo le risposte del destinatario. Abbiamo quindi un epistolario composto da lettere di una donna a un uomo che  esprimono la natura di un amore, nel  riconoscimento e nel volere il bene  dell’altro (come leggiamo nell’introduzione di A. G.), e in  filigrana si delineano due  individualità, una  “in assenza”, quella di Don. Mary-Lou riconosce l’esigenza del viaggio in solitario (altri viaggi importanti li hanno compiuti insieme: il “nostro albergo”, ecc.), necessità vitale del poeta, dell’artista, del viaggio silenzioso che nutre l’immaginario, fatto di illuminazioni, di apparizioni mentali, di esperienze che si esprimono solo in arte. Viaggio silenzioso in cui il “camminatore” si porta anche le tristezze, e si parla anche di depressione… da gestirsi da solo.
Ho apprezzato il grido che Mary-Lou si lascia sfuggire nella lettera del 29 dicembre, martedì, 1970, “Non andare via nuovamente - odio tutto questo….- che si acquieta nell’accettazione della diversità e del diritto dell’altro. Si sente che ha fatto pressione su di sé, e in un’altra lettera scrive: “È una buona cosa che io non abbia il passaporto. (!)” e come in soliloquio, altrove scrive: “Si può regolare la solitudine, quando si tratta di una condizione temporanea”.
Mary-Lou resta a casa (sta “fuori” un giro), nella vasta e profonda provincia americana, nel New Hampshire, e si dedica ai fatti quotidiani, alla lettura (è una grande lettrice, di Proust, di V. Woolf,  Doris Lessing, Wilfred Owen…), autori che compiono una Odissea personale, come il giovane tycoon, protagonista del romanzo Cosmopolis di Don Delillo, del 2003, chiuso nella sua Limousine, bloccato nel traffico in tilt di una New York dove in una giornata hanno luogo la visita del Presidente, il funerale di una rockstar, e una violenta protesta antiglobal, in Times Square, metafora della débacle del sogno americano dell’efficientismo e dell’ottimismo. 
Il simbolico non è negato, nelle lettere di Mary-Lou, Odissea personale e Voyage autour de ma chambre, lo spazio piccolo ma immenso all’interno della mente, nella esatta valutazione di sé, dove tenere a bada l’incertezza, la debolezza, la realtà frattale dell’oggi. Dettaglio e particolare (Omar Calabrese). 

Un momento della presentazione del libro a "ChiAmaMilano"
il 22 novembre scorso

Non cronaca, ma narrazione a tocchi, a pennellate,  che delineano un ambiente, e dialogo sintonizzato con il destinatario del cuore e con se stessa (innerlook e outlook), nella fluttuazione del pensiero, nell’evocazione della realtà materiale, della politica sullo sfondo ma non tanto. Pragmatismo americano e “ostinazione” (cito dall’introduzione di A. G.) comprendono la passione amorosa schiacciante e gentile, fiducia nella comunità a due che vede anche l’inquietudine, l’integrità di ognuno che non deve essere infranta, la libertà di spirito e di scelte, a patto che non decada mai la condivisione.    
Ci sono le amicizie della vita, una partita a bridge, una cena cordiale, l’uscita per un teatro, la presenza della mamma, e c’è la neve da spalare, c’è la cura del giardino e degli animali, Gerhard e Gertrude,  i cani, e i gatti, che percepiamo attenti, curiosi, invadenti, giocherelloni, come le persone. Mary-Lou è il perno della vita in comune e della storia d’amore, mentre il “cavaliere errante” compie la sua avventura europea. La visione del mondo è tutta in soggettiva, sul vasto mondo. Mary-Lou non è povera di mondo. Tutto ciò che tocca diventa una piccola magia, un portento da condividere con Don che è lontano. Mentre Don compie la sua avventura, lei compie i doveri quotidiani, nello spazio quotidiano.  

Mary- Lou Burness
Lettere a Don
Ed. Nuove Scritture 2016
Pagg. 48 € 10,00

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PER MARISA FERRARIO DENNA
di Vincenzo Guarracino


Marisa Ferrario Denna

La morte della poetessa Marisa Ferrario Denna, avvenuta l’11 dicembre u.s., impone una riflessione sulla sua vita di scrittrice e animatrice culturale ed editoriale. Un riflessione che appare tanto più urgente e necessaria soprattutto alla luce delle sue opere e della sua passione letteraria, svoltasi in una feconda marginalità creativa ed operativa. Fedele a un’idea di poesia coerente con le ragioni dell’io sulla scena della contemporaneità ma attenta anche a responsabilità formali ereditate e radicate nella tradizione, come poetessa ha teso a dar voce nei suoi testi (editi con diversi editori, da Scheiwiller a Book Editore, a Amadeus, a Lietocolle) alla sua sensibilità di donna  e come responsabile di una raffinata collana di poesia, edita dalle edizioni Nomos di Busto Arsizio, ha fatto emergere  un gruppo notevole di poeti contemporanei (Alida Airaghi, Silvio Raffo, Gilberto Finzi, Silvio Ramat, Ottavio Rossani, tra i tanti), scelti con l’unico criterio della validità dei testi, al di là di generazioni e tendenze.
Per parlare comunque di lei e della sua opera, si può cominciare dall’epilogo, dai versi di un testo dal titolo emblematico, Ordine, contenuto nell’ultima raccolta di poesie Ritratti in controcanto, edito proprio da Nomos (2012), un libro in un certo modo emblematico e riassuntivo di una poetica e di una vita.
In Ordine, a partire da un dettaglio di un quadro di un pittore paesaggista del ‘600, Hoogstraten, si constata l’”inutile fatica / di volersi – dal disordine – salvare”, cui attraverso la scrittura, attraverso una pratica e una disciplina rigorose e appassionate, si è tentato di dare un senso approdando alla consapevolezza dell’inanità dell’assunto: come dire che l’”ordine”, che la scrittura assiomaticamente si prefigge, per salvare se non dalla casualità e dall’ingiustizia della vita, almeno dalla sua “malizia”, resta un miraggio che sposta i suoi confini sempre più avanti cedendo il passo alla vera essenza creatrice del mondo, al Disordine (ricordo un suo mirabile elogio tessuto da Goffredo Parise e comparso sul “Corriere della sera”, nel gennaio del ’76, alla vigilia della morte, intitolato “La vita è disordine”). Ma, questo è il messaggio del libro, la vita val la pena di impegnarla nello sforzo: ognuno deve compiere la sua parte, a seconda del talento, prima di “andarsene”, con semplicità (“E andarsene sarà, semplicemente, / lasciare le ciabatte sulla soglia, / varcare a piedi nudi un’altra stanza, / lasciare nel disordine le cose, / che – mute – resteranno per ridire / l’ordine vuoto dell’inconsistenza”).

La poetessa durante un incontro

È una condizione e un’attitudine nei confronti della vita, quella che l’autrice mette dunque in scena: se non ci si può salvare dal “disordine”, ebbene lo si accetti come un valore con cui confrontarsi, un’esperienza in grado di dare un senso alla vita, giusto come dice il testo d’apertura, dove l’eponima “matita” diventa l’emblema di un modo di concepire la scrittura come investimento, felice e doloroso al tempo stesso, delle risorse migliori dell’io, in un corpo a corpo senza reti con l’oggetto del desiderio.
Ho voluto descrivere questa sorta di cortocircuito, perché mi pare che contenga una chiave di lettura abbastanza precisa e chiara dell’operazione effettuata in questo libro dai risvolti molto particolari, nel quale si intrecciano a più livelli elementi di grande interesse, che possono dare una idea abbastanza fedele del “progetto” perseguito per tutta la vita dall’autrice. A livello concettuale, innanzi tutto, è significativo come tutto sembri situarsi in un ambito, concreto e metaforico, quello della casa, al cui “ordine” il mondo femminile sembra assiomaticamente votato (o condannato). A livello formale, poi, c’è una “concinnitas”, una discrezione e un’educazione espressiva, che si traducono in una scrittura limpida, rispettosa e “didascalica” ma anche densa in giusta misura, con un’attenzione all’Altro, al Lettore, a riprova di un bisogno, tutt’altro che acre o risentito, di parlare e di giovare, di “rifar la gente”, come diceva il Giusti. Un rispetto che si traduce a livello metrico nel ricupero di strutture consolidate dalla tradizione (sonetti, quartine, rime), e a livello retorico in un raffinato dispiegarsi di figure (di pensiero, di elocuzione, di costruzione).
Ma che cosa contiene esattamente questo Ritratti in controcanto? È una galleria di ritratti in versi di donne scrittrici o pittrici, interpellate ‘in controcanto’ ciascuna in due poesie: nella prima l’autrice si accolla il compito di guida alla scoperta ed evidenziazione delle loro peculiarità espressive ed esistenziali, nella seconda invece su ognuna distilla, come in un aforistico dono di parole, un commento riflessivo-filosofico.


Un primo piano della poetessa

Una struttura originale, dunque, in un libro originale: giocato tra presente e passato, tra storia e mito, si fa apprezzare, oltre che per il suo “ordine”, per l’impianto geometrico rigorosamente perseguito, che in certo senso riflette il bisogno “di volersi – dal disordine – salvare” attraverso l’ordine dell’arte, attraverso l’omaggio alla bellezza, per il suo pulsante contenuto. Le sessanta donne, tra storia e mito, donne che lo abitano – donne che spesso hanno pagato personalmente le loro scelte -, come sulla scena di un teatro, vengono evocate, in un dialogo serrato e appassionante, con l’autrice stessa che non si sottrae a mettersi in gioco come un personaggio pronto a stare in scena (della pagina, della vita) con la serena coscienza del proprio ruolo, come rivelano gli estremi dolenti versi del testo di chiusura (“E andarsene sarà, semplicemente, / lasciare le ciabatte sulla soglia, / varcare a piedi nudi un’altra stanza, / lasciare nel disordine le cose, / che – mute – resteranno per ridire / l’ordine vuoto dell’inconsistenza”).
Ecco, è proprio a quest’“ordine vuoto dell’inconsistenza” che il libro intende dare una risposta: una risposta di parole, sì, ma grondanti di vita, di sentimenti, di volontà di affermarsi da parte di donne che hanno conquistato la loro verità attraverso l’arte e la sofferenza. “Sorgo e tramonto; e in questo divenire / vado tracciando il cerchio della vita”, rivendica per sé orgogliosamente Elena: questo solo conta per la mitica eroina, la vita. È la sintesi migliore del libro, come nota la prefatrice Alida Airaghi. Come dire che l’“ordine”, ancorché ostacolato nella vita, trionfa nel segno di un’ansia di libertà, di luce, nella “verità” dell’arte.

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LIBRI
LA RAGIONE CON FREUD, DOPO FREUD
Ordine contrordine disordine
di Roberto Zanni

La copertina del libro di Maria Delia Contri

All’“opposizione” rispetto a una “maggioranza compatta” Freud raccoglie il testimone della fiducia illuministica nella ragione come facoltà di pensare, come facoltà positiva di legge, dell’agire e del rapporti, a condizione che la si riconosca come superiorem non recognoscens, come entità autonoma da qualsivoglia principio di causalità o di comando.
Col suo libro Ordine, contrordine, disordine. La ragione dopo Freud, Maria D. Contri lavora alla riscoperta di Freud, oltre Freud.
“Il sonno della ragione genera mostri”, diceva nel ’700 Francisco Goya. Non è la ragione in quanto tale - dice Freud - a essere distruttiva, ma la ragione in quanto concepisce, masochisticamente, come soluzione, la propria autodistruzione.
La ragione, il pensiero, può infatti produrre l’idea “viziosa”, difettosa, l’errore, della propria origine nell’obbedienza, nella sottomissione a un Altro totalmente Altro, a quell’Altro che Freud chiama Super-Io. Ne consegue il disordine anarcoide, e patologico, in cui ci si logora senza pace nel tentativo di un’obbedienza logicamente impossibile, di una ribellione impotente, della costruzione di un rapporto, di una legalità altrettanto impossibili. E il masochismo si rovescia poi nel sadismo di una volontà di potenza che di fatto è pre-potenza, la pre-potenza dell’impotente.
Freud lo si può leggere, o rileggere, così: con l’onestà, la competenza e il piglio di Maria D. Contri, nel suo “Ordine, contrordine, disordine”, pubblicato da Sic Edizioni: “La voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene udienza - scrive Freud, nel 1927, in L’avvenire di un’illusione -. Questo è uno dei pochi punti che consentono un certo ottimismo per il futuro dell’umanità [...] il primato dell’intelletto va collocato senz’altro in un futuro molto, molto lontano, ma probabilmente non infinitamente lontano”.
Maria D. Contri, psicoanalista che ha contribuito a fondare la “Scuola Freudiana”, finalmente rifondata in “Società Amici del pensiero”, ce lo fa incontrare come un amico del pensiero, frequentato da molto tempo, e di cui continua il lavoro. Con Freud, dopo Freud, appunto.
Il testo si apre come un ventaglio di temi centrati sulla questione del pensiero come facoltà legislante, questione antica, o meglio “moderna”, ma di una modernità che resta prigioniera di un antico errore. Ricordiamo come Theodor Adorno, in Minima moralia affermi che per quel “vecchio cinico” di Freud “la ragione è una semplice sovrastruttura”.
Tanta incomprensione, o riduzione, della novità freudiana, propria anzitutto dei  filosofi, copre la resistenza a non voler cedere sulla metafisica. I filosofi, in fondo, temono di perderla se passassero all’idea di un essere posto in essere, da un pensiero legislatore. I filosofi sono nostalgici della teoria di un essere che precede il pensiero e lo imprigiona.
“Credo che nel leggere Freud - scrive Maria D. Contri - si sarebbe avvantaggiati dal pensare che ciò che egli chiama ‘Super-Io’ alla fin fine altro non sia che la buona vecchia metafisica di cui già David Hume, nel settecento, parlava come di ‘malattia’ del pensiero”.
Si tratta di elaborare una “nuova dogmatica del pensiero”, sulla scorta dei principi che reggono il lavoro del pensiero elaborati da Freud, e sul modello di quella “dogmatica giuridica” che ricostruisce i principi con cui il Diritto statuale lavora, di un’attività intellettuale laica e libera da quelle scorie religiose che, come polvere d’oro, qua e là baluginano anche sulle metafisiche più spregiudicate. Metafisiche che non osano accedere all’idea delle condizioni di possibilità dell’autonomia del pensiero. Nell’alternativa tra religione e pensiero occorre collocarsi senza riserve dalla parte del pensiero, ma questa decisione ha delle conseguenze, la prima delle quali si può dirla con le parole di Heine, spesso citato da Freud: “Il Cielo abbandoniamolo agli angeli e ai passeri”.
Una seconda conseguenza è tutta politica: il pieno riconoscimento del pensiero individuale come “primo diritto”, a pieno titolo, impone un ripensamento del legame sociale e dei suoi fondamenti, e dei suoi rapporti con un diritto statuale, come “secondo diritto”, non conflittuale, anarcoide, ma di collaborazione.
Se c’è un pensiero forte, di cui siamo debitori a Freud, è proprio questo: la prudente fiducia nella possibilità di un nuovo ordine di rapporti in cui la civiltà non chieda all’individuo un costo libidico troppo alto, un “autosacrificio dell’io” fonte di odio e di guerra civile. Principio di piacere e principio di realtà, nella costruzione freudiana, non sono due principi in opposizione. La meta non deve essere un compromesso al ribasso tra i due principi, deve essere una collaborazione in vista della possibilità della soddisfazione individuale, nel corpo e senza rinunce. Esclusa quindi la via della “sublimazione”, della rinuncia.  
Maria D. Contri dedica a questi temi pagine nuove e illuminanti, contrappuntate da continui riferimenti ai canoni filosofici e letterari, a ciò che freudianamente chiamiamo “cultura”, riattivando temi rimasti irrisolti, aprendo strade inedite. Penso ai titoli di alcuni paragrafi: Barocco for ever, Quel maiale di Parsifal, ...e a chi non ha sarà tolto, Quel perfetto altruista di Narciso, Le interiora dell’uomo interiore, Finché amore non ci separi, Dal vizio della superbia al vizio dell’umiltà, per citarne alcuni.

Maria Delia Contri
Ordine, contrordine disordine
La ragione dopo Freud
Sic Edizioni 2016
Pagine 294 € 23,00     


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LIBRI
NOTTURNO CANAGLIA A MILANO
di Angelo Gaccione


Alessandro Calabrìa

Esordire letterariamente in età non giovanissima ha l’indubbio vantaggio di mettersi al riparo dalle ingenuità e di esibire, con sciolta disinvoltura, tutto quanto si è acquisito in termini di esperienza e di cultura. È quanto accade all’autore di questo romanzo, Alessandro Calabrìa, che ha appena dato alle stampe “Notturno canaglia a Milano” per i tipi delle Edizioni Nuove Scritture.
Ambientato nella Milano dei giorni nostri, “Notturno canaglia a Milano” racconta una vicenda di malavita che ha i suoi fulcri principali di azione fra il Palazzo di Giustizia e il carcere di San Vittore. I protagonisti sono diversi, come avviene sempre in un romanzo, e diversi sono i fatti che lo scrittore ci racconta. Il sipario si apre sul reclusorio di piazza Filangieri dov’è detenuto Walter Alessi, un avvocato amante delle citazioni colte e abile conoscitore del potere suasivo della parola. Siamo alla vigilia di Natale, e come gli anni precedenti si tiene un concerto per i detenuti; a introdurre la manifestazione musicale è l’avvocato Alessi che, ricorrendo alle sue risorse di comunicatore commuoverà i presenti,
-fra essi il magistrato Ester Grandini- raccontando la vicenda della sfortunata Alicia Mocanu. Alicia era una giovane detenuta moldava accusata di spaccio di droga, bravissima pianista, l’anno prima era stata lei a tenere il concerto in quel salone,  si era poi tolto la vita combattuta com’era fra le minacce dei magistrati che l’accusavano di spaccio e quelle del suo aguzzino, il serbo-croato Grigor Radu, che l’aveva costretta a prostituirsi, e che la ricattava minacciando di uccidere sua figlia Ilenia. Saranno proprio le appassionate parole dell’avvocato Alessi a spingere il magistrato Grandini a farsi strumento di giustizia, perché quel suicidio non resti impunito. Ma come la realtà spesso ci mostra, qualche volta la giustizia è costretta ad arrendersi davanti alla tracotanza dei criminali, alla loro omertà, non potendo uscire dai limiti che la legge assegna al suo procedere, ed è costretta a gettare la spugna. 
I confronti fra lo spacciatore e sfruttatore di carne umana Radu, strafottente e sicuro di sé, e la dottoressa Grandini, si risolvono sempre a vantaggio del primo. Dunque il crimine la farà franca?
Alessi non è solo un avvocato intelligente, le vicende che lo hanno portato in carcere ne hanno maturato la personalità e accentuato la sua sensibilità verso i più deboli. Il carcere si sa, è a suo modo un mondo a parte ma anche molto sfaccettato, e lui sa coglierne a volo ogni risvolto. Che il serbo-croato possa farsi beffe della giustizia egli non può accettarlo; la morte tragica di Alicia lo ha molto turbato, e deve essere vendicata. L’occasione ghiotta gliela fornirà il boss don Tanuccio, anch’egli detenuto a San Vittore, e che come tutti i boss che non hanno nulla da perdere e sperano in qualche guadagno che ne alleggerisca il peso della condanna. Come Grigor Radu pagherà i suoi misfatti non ve lo racconterò per non togliervi il piacere del risarcimento, dal momento che la lettura del romanzo vi farà propendere dalla parte della sfortunata ragazza e della sua giovane e delicata figlia. Vi dirò però che alla fine Walter Alessi uscirà da carcere e, con il magistrato, verso cui nutre una forte attrazione -e che non nasconde-, si metterà sulle tracce della figlia di Alicia e la rintracceranno. Il magistrato, un po’ per un personale senso di colpa, un po’ perché senza figli e notevolmente attratta dalla delicata sensibilità della ragazza, finirà per adottarla. Sullo sfondo, ma questo lo scrittore ce lo fa solo vagamente intuire, resta l’incertezza di una possibile storia d’amore fra i due adulti.
Calabrìa ha costruito il suo romanzo con lineare fluidità. Ha usato un normale fatto di cronaca (uno dei tanti che i giornali ci servono a iosa) per operare una riflessione morale precisa e senza ambiguità. Dalle sue pagine si possono cogliere i vari stati d’animo e le psicologie degli attori in campo, soprattutto quelli della dottoressa Grandini e quelli dell’avvocato Alessi; quest’ultimo intraprende un personale percorso che lo porterà verso il riscatto completo di uomo. Ricco di citazioni dotte, da Leopardi a Marx, da Goethe a Oscar Wilde, da Huizinga a Tacito, il romanzo di Calabrìa resta godibilissimo e questo sfoggio di cultura lo impreziosisce.

La copertina del libro

Alessandro Calabrìa
Notturno canaglia a Milano
Ed. Nuove Scritture 2016
Pagg. 80 € 10,00      

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LIBRI
 VENTO DI TERRA
 di Nelida Milani Kruljac

Una nota della scrittrice Nelida M. Kruliac sul nuovo libro 
del nostro collaboratore Christian Eccher. 
Alcuni saggi compresi nel volume sono apparsi sulle pagine di “Odissea”

Christian Eccher

Vento di terra di Christian Eccher è un libro-reportage. È un diario conciso e accattivante di viaggi compiuti percorrendo in solitaria le strade dell’Asia centrale e del Caucaso, cioè delle repubbliche dell’ex Impero Sovietico, del Kirghizistan, del Kazakistan, della Georgia, cercando sempre di arrivare fin dove consentivano il tempo, le forze e le possibilità. E ci sono anche Ekaterinburg, Mosca ed il Cremlino isolati e chiusi nelle tante paure, e c’è pure la Transiberiana con tutte le immagini e i sogni che la parola evoca. Dalla Russia alla Cina in treno, oltre novemila chilometri fino a Vladivostok: un viaggio che ha bisogno di tempo e predisposizione mentale agli incontri. Che a volte sono barlumi di nuove speranze e il più delle volte sono storie di disincanto e di caduta delle illusioni utopistiche.
Il libro di Christian Eccher, docente di lingua italiana alla Facoltà di Filosofia di Novi Sad e da lunghi anni collaboratore esterno per l’inserto Cultura del quotidiano istriano “La Voce del Popolo”, è uscito prima di tutto in lingua serba a Novi Sad nel 2015 col titolo Vetar sa kopna nella collana Lettera per i tipi dell’Editrice Mediterran publishing, con l’illuminante prefazione di Mirko Sebić. Si tratta di veri reportage perché sono fatti buttandosi in strada. E poi non sono solo reportage ma anche un insieme di pensieri, di riflessioni e appunti emersi -soprattutto nella seconda parte del libro- dalla frequentazione del Tanztheater di Pina Bausch e della compagnia della Societas Raffaello Sanzio di Romeo e Claudia Castellucci. Non per niente il sottotitolo dell’opera polifonica, ripubblicata in italiano dalla Sapienza di Roma ad uso degli studenti di Scienze del Turismo e Mobilità umana è Miniature geopoetiche. Si tratta dunque di un doppio viaggio, uno reale e l’altro culturale e artistico. 

Christian Eccher (al centro della foto)
durante un incontro culturale

Sono reportage narrativi, un ibrido fra saggio e narrazione, nati in uno spazio oggi poliarchico ad  un quarto di secolo dalla caduta del muro di Berlino e di tutta un’epoca scandita da falce e martello, scritti soprattutto su questioni dei margini, dei confini sorti fra ex consorelle socialiste, fra oriente e occidente, fra ideologia e Storia, fra comunismo e capitalismo, fra liberalizzazione e globalizzazione, fra stanzialità ed emigrazione, fra cristianesimo e islam. Forse ancora “terre di nessuno” ma intenzionate ad uscirne, perché la Storia insegna che se ne esce sempre quando si passa da un equilibrio ad un altro, magari a costo di conflitti e guerre utili a stabilire nuove egemonie e nuovi assetti, un nuovo sistema, dove “tutto si tiene” di nuovo. Perché tutto deve continuare.
Forte di una scrittura precisa ed evocativa, libera da qualsiasi esotismo e capace di raccontare la bellezza senza arretrare di fronte alle brutture e alle contraddizioni del mondo, le cronache di Eccher scoprono e registrano realtà sommerse, luoghi sconosciuti e abbandonati ai margini della storia, una galleria di popoli e di individui, una serie tetti di amianto, di marshrutke, di città leggendarie, di vestigia del passato e di segnali del nuovo che avanza. Proprio come nella musica di Mahler che accompagna sempre Christian nei suoi viaggi, troppo moderna per i tradizionalisti e troppo radicata nel passato per gli innovatori.

Christian Eccher con Claudio Ugussi

Arrivando nelle ex repubbliche socialiste si avverte, quasi sempre, una strana situazione: i regimi che sono caduti hanno lasciato dietro di loro, non solo “il sol dell’avvenir” ma -dopo un breve periodo di euforia- una desolazione profonda, tristezza e vuoto morale. Tutti gli antichi nodi sono venuti al pettine in questo crocevia di popoli e di culture: la sovietizzazione forzata che ha prodotto il meticciato e la crisi identitaria che a sua volta ha prodotto il fondamentalismo islamico volto a ricomporre, unitamente al nazionalismo, i resti identitari dei popoli attraverso gli attriti tra alcune popolazioni; i vertici pronti a rinnegare il proprio passato comunista e a cavalcare l’onda nazionalista; il disastro ecologico e il degrado diffuso del paesaggio, la bruttezza estetica degli edifici, l’architettura alienante, le difficoltà insorte in seguito all’interdipendenza economica tra le varie repubbliche che ora si guardano in cagnesco per inimicizia radicale e atavica; le mafie che infilano il neoliberismo e il capitalismo ruggente e globale nel vuoto legislativo e alimentano il mercato nero; le attese sfiancanti per ogni azione quotidiana che richiede l’intervento di una qualche istituzione; la difficoltà di comunicazione e di movimento all’interno delle repubbliche, la necessità di visti dalle condizioni proibitive per poter lavorare a pochi chilometri da casa dove si era sempre liberamente lavorato. Un viaggio tra le contraddizioni della globalizzazione neoliberista gestita dalla “demokratura”, arricchito di aneddoti, impressioni a caldo, racconti autobiografici dai quali emerge molta più verità che dal copione parziale dei media e dagli itinerari turistici obbligati. Per i lettori europei un mezzo per conoscere e per conoscersi, per vivere relazioni ed esperienze non consuete… Per noi istriani, anche troppo consuete.


Christian Eccher

So che Christian si porta sempre dietro, o meglio “dentro”, Pina Bausch (alla quale ha dedicato il libro) e Romeo Castellucci. Ma mi sfuggiva il nesso, mi arrovellavo e non riuscivo a capire perché uno nato in Svizzera come Eccher, e perciò razionale, ordinato, puntuale  come un orologio, avesse accostato nel volume  le vicende di quelle terre lontane al Teatro, a quel “gioco” strano che ci accompagna dall’Atene di Pericle in poi. Mi ci arrovello: penso di sapere e non so, cerco di capire e non capisco. Poi butto giù un’ipotesi di pensiero. La relazione tra la prima e la seconda parte del libro potrebbe risiedere nel valore morale. Intendiamoci: morale non nel senso di cattolico e tantomeno di bigotto. Semmai di religioso. Semmai una morale che affonda nelle contraddizioni della natura umana. Nelle lande dell’Asia centrale spazzate dal gelido vento di terra o nelle società europee informatizzate e ospedalizzate, il dramma dell’umanità ruota ancora e sempre attorno agli stessi temi: il bisogno di amore, la paura dell’abbandono, la necessità gioiosa di procreare, ma mai rassicurati da un modello da perseguire o da canoni definiti e garantiti a priori, ma sempre tra fragilità e forza, tra particolare e universale, tra complessità e semplicità, tra caos e armonia.
È possibile far meglio in tempi di radicale mutamento? Mutamento significa che la mente muta. È possibile uscirne meglio? Bisogna tentare di farlo, tentare di affrontare la sfida della trasformazione, che è sfida culturale, filosofica, politica, di pensiero. Quella già affrontata dai grandi artisti del nostro tempo che -non tutti- sono avanti dieci chilometri rispetto a noi, dal Tanztheater di Wuppertal e dalla Societas Raffaello Sanzio, da tutti quelli che contrastano le ipocrisie e i finti moralismi e si liberano degli abiti che li coprono e -liberandosene- liberano la sofferenza di un vita, di una persona, di un popolo. E con nuovi linguaggi ci fanno intuire qualcosa di universale che esiste in tutti gli esseri umani da sempre.

La copertina del libro

Christian Eccher
Vento di terra
Sapienza Università Editrice 2016
Pagg.132 € 16,00

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    LIBRI
LETTERE A DON
di Laura Cantelmo

Mary-Lou Burness

Solitamente la lettera d’amore, un topos romantico, è un genere facilmente destinato a scivolare nella retorica, spesso è ridondante, in sintonia con l’impeto della passione.  Oggi, è stato giustamente rilevato nella presentazione, il genere potrebbe ritenersi obsoleto, superato da un altro genere dall’effetto più fulminante, ma linguisticamente sciatto e destinato all’estinzione, insieme al mezzo che ne consente la trasmissione.
Nell’accostarmi a queste lettere scritte da Mary-Lou Burness, consegnatemi da Gaccione provai una spontanea riserva, nonostante Angelo me ne parlasse escludendo qualsiasi ombra di retorica. Lui poteva affermarlo con sicurezza, avendo avuto il privilegio di conoscere i due amanti e certamente le sue osservazioni mi hanno aiutata a cogliere la freschezza di una prosa semplice, eppure emotivamente intensa e insieme a provare nostalgia per quella forma letteraria intima e insostituibile che è la lettera.
Posso dire che l’immagine che mi si presentò alla lettura mi condusse presto a smentire i pregiudizi. Le lettere non sono affiancate dalle risposte di Don, eppure pare risuonare la voce di Don, talmente vivida è la prosa di chi scrive.
Innanzitutto dalle parole di Mary-Lou traspare la fisionomia dei due artisti, imponendo la loro singolarità di persone colte, creative, appassionate. Come donna, fui colpita dal ruolo “pedagogico” di lei, che si presentava come persona curiosa, anticonformista, profondamente immersa nella storia d’amore con Donald Burness, molto più giovane di lei e indubbiamente inesperto agli inizi della loro storia. Un ruolo che tuttavia non vede alcuna posizione di subalternità, bensì,  secondo la più moderna pedagogia, potremmo dire, un reciproco stimolo, una ricerca comune. Il terreno che Mary-Lou trovò nella relazione con Don fu estremamente ricco e fertile, tanto da far maturare una intesa profonda, totale, rara fino alla fine dei suoi giorni, quando ormai invalida e fragile continuò a manifestare in ogni forma il suo amore. La differenza anagrafica non pare emergere mai da queste deliziose lettere inviate da una donna innamorata all’uomo con il quale vive una magica sintonia intellettuale ed emotiva.

La copertina del libro

Nessuna nota sdolcinata, nessun cedimento al sentimentalismo. Le lettere di Mary-Lou  semplicemente annotano il quotidiano. Se vogliamo, la banalità del quotidiano, di cui si alimenta la vita di ciascuno di noi: gli animali di casa come persone di famiglia, la neve da spalare, la televisione che presenta i candidati alle elezioni, i piccoli fastidi con i vicini di casa, le partite a bridge. Potrebbero sembrare lettere di una comune casalinga, se  improvvisamente non si illuminassero di una fugace annotazione sulle letture, sulla musica ascoltata, sulla meraviglia ispirata dalle tappe del viaggio del suo “Duck”, come talvolta viene teneramente chiamato Donald.
L’amore, le allusioni intime, sono accuratamente evitati, eppure restano il sottofondo pulsante, il non detto, di una relazione profonda, assoluta, un tesoro da preservare gelosamente  che si svela quasi solo nel commiato: “ti amo”, “mi manchi”, “ti adoro”,  elevando la vita che scorre a esperienza unica, eccezionale, come eccezionale è il sentimento appassionato che li lega. La singolarità della coppia balza in primo piano nel constatare che Don è spesso in viaggio per l’Europa, mentre lei a casa lavora e custodisce con naturalezza la quotidianità. Segno di una libertà di movimento concessa a lui, quasi - si direbbe - volta a colmare il vuoto esperienziale del giovane Don, a sedarne la sete di conoscenza. In questo Mary-Lou  espleta un ruolo “pedagogico” e al contempo si arricchisce assorbendo dai racconti, dalle cartoline di lui, la bellezza di un viaggio che assume il sapore di un grand tour di settecentesca memoria.
L’unica lettera indirizzata a Mary-Lou da Don è l’estremo saluto di un amante alla sua amata. Scritta con profonda commozione negli ultimi istanti di vita di lei e letta poi davanti alla sua salma, è l’addio a una donna straordinaria per intelligenza, senso di libertà e amore della vita, che ha arricchito l’esistenza  di entrambi in una totale condivisione di emozioni e di passione. Ed è anche una lezione sull’amore, che non è in alcun modo scalfito dalle devastazioni del Tempo: “L’amore non muta quando trova mutamento! L’amore non è affamato di Tempo. I grandi poeti questo lo sanno.”

Mary-Lou Burness
Lettere a Don
Edizioni Nuove scritture,  2016
    Pagg. 64 € 10,00

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LIBRI
IL CONGRESSO FILOSOFICO DEL 1926
E LA VIOLENZA DEL REGIME FASCISTA
di Fulvio Papi
 
Fabio Minazzi

Già nella prima edizione dell’opera di Eugenio Garin (anni Cinquanta) sulle “Cronache della filosofia italiana” si faceva ampia menzione del congresso filosofico, organizzato a Milano da Piero Martinetti, e chiuso d’autorità dai fascisti. È una delle vergogne del regime, non delle più gravi, se si pensa ai morti dell’ascesa fascista e alle migliaia e miglia caduti sui vari fronti di guerra, ma idealmente era un provvedimento che mostrava alla cultura italiana quali fossero le condizioni di sudditanza alla dittatura di ogni forma di pensiero. A questo convegno Martinetti, così lontano da ogni forma storicismo, invitò Benedetto Croce che accettò, e svolse una lunga relazione sulla filosofia italiana dell’età barocca. Croce nel 1926, dopo il varo del manifesto degli intellettuali antifascisti, era diventato un simbolo della libertà filosofica nei confronti della vulgata fascista che derivava dall’antico sodale Giovanni Gentile. Cinque anni dopo il filosofo dell’atto, sollecitò Mussolini a stabilire che i professori dell’Università dovessero giurare fedeltà al regime se volevano mantenere la cattedra. Fu la vendetta di Gentile nei confronti di firmatari del manifesto antifascista, richiesta al capo del governo il quale nel ’29, con i patti lateranensi, si era rifiutato di rendere obbligatoria nell’Università l’educazione religiosa. Solo, ormai è nozione comune, dodici accademici si rifiutarono, tra i quali il solo filosofo Piero Martinetti con una lettera in cui negava ogni possibilità di fare violenza alla propria coscienza che era la condizione fondamentale perché il pensare filosofico avesse l’unica vera testimonianza, nella coerenza della propria identità personale. Ho riassunto molto velocemente la cornice dell’imponente studio avviato da Fabio Minazzi (cui deve andare il riconoscimento di qualsiasi studioso della filosofia italiana) intorno al famoso congresso del 1926. La novità assoluta che troviamo è nel reperimento di tutte le relazioni che non confluirono negli “atti” ma furono disperse in varie forme di comunicazione. Minazzi, con fervore morale e sapienza storica, ha raccolto gli “atti” del tristemente celebre congresso, oltre tutta la documentazione relativa alla sua preparazione da parte di un Martinetti, a dispetto dei tempi, rigoroso interprete della libertà di pensiero.
Il lungo saggio di Minazzi che, facendo centro sulla figura di Martinetti, è un documento storico di fondamentale utilità per entrare nella temperie filosofica e politica del momento in cui il fascismo diventava a tutti gli effetti un regime di polizia. Non va sottovalutato nemmeno il bel saggio di Rossana Veneziano che riassume i testi dei vari autori. A semplificare si può dire che Varisco faceva centro sullo stato come garante dell’eticità di ogni persona. Al suo opposto De Sarlo, in aperto antifascismo, sosteneva la libertà individuale come fondamento della “dignitas hominis. Martinetti concedeva, secondo la sua etica filosofica, la libertà di pensiero di ognuno, quale che fosse la sua tesi dominante. Fu un filosofo di rara mediocrità ma di ostinata fede fascista, come Carlini, che provocò l’incidente che Martinetti credette di risolvere con il suo tatto, ma che fu invece il pretesto per l’autorità fascista di chiudere il congresso. Fu Luigi Mangiagalli, podestà (illegittimo) di Milano e senatore del Regno ad assumere questa decisione che, condivisa dalle altre gerarchie statali o partitiche, mostrò come il regime considerava incompatibile con la propria identità, una libera espressione del pensiero.
Ricordavo il merito di Minazzi di aver raccolto le relazioni al convegno che ognuno oggi può leggere e interpretare secondo la congiuntura etica e teorica del momento. Un contributo prezioso. Una più che ragguardevole rassegna della stampa dell’epoca consente al lettore di risentire gli echi più immediati all’evento filosofico. La mia lettura (che ovviamente non è la sola) consente di raggruppare i contributi della stampa secondo tre ordini. I fogli fascisti o fascistizzanti mostrano disprezzo e arroganza aggressiva nei confronti di ogni forma di “pensiero” di natura filosofica. Altri giornali davano resoconti relativamente obiettivi senza sottolineare le tensioni etiche che si potevano percepire. Interessanti i giornali della sinistra. L’Unità recita la lezione sulla vera libertà che è quella economica senza la quale ogni altra libertà è secondaria. Il solito Marx in pillole. L’Avanti! Mostra comprensione filosofica intorno ai temi del congresso e una sua opportuna sensibilità sulla libertà di pensiero. Quale in epoca staliniana fu l’esito politico della concezione della libertà espressa nel 1926, è ormai una conoscenza comune. Come lo è anche il sacrificio per la libertà di molti giovani e meno giovani che guardavano alla sinistra comunista. Come si può vedere, quel drammatico congresso filosofico del 1926 mostra echi molto più lunghi e sensibili, che era bene ordinare nelle loro origini, ringraziando per il loro lavoro tutti i curatori.

La copertina del libro


A cura di Fabio Minazzi
con la collaborazione di Rossana Veneziano
I filosofi antifascisti. Gli interventi del congresso milanese
della SFI sospeso dai fascisti nel 1926.
Mimesis Edizioni 2016
Pagg. 598  € 38,00

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LIBRI
La resistibile invasione degli entomati
di Claudio Zanini

La copertina del libro

Nel recedente romanzo di Mariano Bargellini, La setta degli uccelli, il narratore è prossimo ad avere un rapporto amoroso con due fanciulle che, al culmine della seduzione, si trasformano, lasciandolo a bocca asciutta. L’una, la merla rubacuori, gli lascia un simulacro di ceramica vetrosa di cui deve scomodamente accontentarsi; l’altra vede svolazzare via tra la nebbia, nelle fattezze d’una cincia dal ciuffo biondo.
Qui, in Giocare a mangiarsi, “fantasia erotica d’un pazzo”, il fabulatore sembra prendersi la rivincita, mutandosi in minuscola cavalletta che, posata sulla spalla nuda della compiacente Olimpia, moglie di un editore, cresce a dismisura e, potenza dell’Eros!, s’ingrandisce a scala umana, mentre i suoi organi s’industriano in un paradossale atto sessuale. Paradossale, non solo perché consumato da un insetto e da una donna, ma anche perché l’ortottero è femmina, e il suo ovopositore funziona impropriamente ma, in modo efficacissimo, quale inesausto stantuffante organo maschile.
Il narratore, evidente paradossologo, vittima, in precedenza, dell’altrui metamorfosi, qui la scopre agire su di sé guardandosi allo specchio (33), dove vede riflessa l’immagine d’una pensierosa maschera di giada verde pisello, vale a dire la testa dell’ortottero fino a quell’istante virtuale, computerizzato, suo avatar digitale nel videogioco in voga, Giocare a mangiarsi. Schizzata nel mondo dal monitor del suo PC, la cavalletta prende il suo posto e, assalita da impulsi del tutto umani, si proietta in molteplici luoghi e vicende.
Il racconto, svolto nella densa e multiforme scrittura del Bargellini, innervato da una costante verve comica; e, scandito da una voce narrante e monologante - aulica e plebea, ricca di termini desueti e ricercati, spesso ironica, beffarda, poetica, disincantata, paradossale ma di logica affilata -, rivela la bizzarra e progressiva invasione degli insetti, una metamorfosi planetaria, fagocitante il mondo reale. Mutazione prefigurata nelle “plastificazioni” operate dal bisturi dei cosiddetti “image makers” - proclamanti che l’uomo è tecnologicamente superato - e di cui il narratore vede un esempio nella “ragazza cicala”, sinuosa cubista in un talk show (36).
 La stessa Olimpia, che, a sua volta, si trasforma in insetto, un ceràmbice con le manine a pinza, teorizza l’avvento della magnifica e progressiva trasfigurazione universale dell’umano - oramai inadeguato - in insetto: macchina perfetta ed efficiente, quantunque il narratore la metta in guardia da tal esito: un uomo automatizzato e funzionale a “un sistema di follia, d’iniquità, d’insignificanza”. L’insetto è l’immagine dell’automa, dei ròbot dal “funzionamento esatto infallibile spietato”, quali noi diventeremo (107).
Tali convinzioni, non impediscono la totale e definitiva trasformazione del fabulatore in cavalletta; il quale, tuttavia, sembra tutt’altro che dispiaciuto del suo sembiante d’insetto; anzi, da “cavalletta narcisista” qual è, pare molto apprezzare i suoi occhi d’ebanite e la lucida mascheratura di giada verde taglia XL; la sua efficienza sessuale, meccanicamente perfetta, messa alla prova con Olimpia; e la vittoriosa voracità nei confronti dei rivali. In aggiunta a queste qualità, a differenza degli umani, negli insetti non vigono ipocrisia né menzogna.       
Nel bestiario di questo Theatrum Insectorum compaiono altre e diverse figure “mostruose”. Oltre alla seduttiva Olimpia, della quale già abbiamo detto, c’è il marito editore: uomo indegno e contemporaneamente mosca colta e virtuosa, suo avatar nel videogioco di Giocare a mangiarsi. Ipocritamente, l’editore piange la moria degli autori di best-seller, sorta di scarabei stercorari ferocemente rivali. Questi producono palle di sterco per lettori di palato grosso: vale a dire, volumi con la mummia dell’autore cellophanata in copertina”. L’editore, che “stampa i libri che non gli piacciono, non quelli che gli piacciono”, consiglia, dunque, al nostro narratore di “ridurre in poltiglia l’italiano” per renderlo più digeribile; di adottare uno “(…) stile da copy; frasette brevi, vuote, frivole, un’aggettivazione rassicurante, la più triviale e dozzinale, meccanica e stancata dall’uso, da dépliant turistico. (…) Anzi, stile da baccalà, così stirato, secco, essiccato”(124).
Impietosa e sarcastica è la critica del presente mondo letterario in cui si persegue una devastante metamorfosi del linguaggio. Con lo stesso umore corrosivo si sbeffeggia il pervasivo sistema della pubblicità, dove spiccano le maschere grottesche (miserabili pulci) dell’art Adonis e della copy Troncia, (vespasiano da concerto, vaso di tutte le deiezioni e trionfatrice di una gara di peti); e del loro gatto pittore, di cui i due firmano i guazzabugli colorati venduti a caro prezzo.
 Il videogioco Giocare a mangiarsi, nel romanzo di Bargellini, non solo è nefasto gioco, ma, in trasparenza, figura della realtà; una realtà mascherata in cui ciascuno assume un sembiante artificiale dal quale è vissuto senza ipocrita finzione; mentre il testo è favola vera, che, parlando del mondo virtuale, spiega quello reale, dove la voracità è unica regola. Un bel paradosso, dove è lecito sostenere che la letteratura (la più onirica e fantastica, per citare lo stesso Bargellini), rivela la realtà nelle sue verità profonde; qui il virtuale, cioè il videogioco, mette a nudo il mero stato delle cose di una realtà ferocissima. Il mangiarsi del gioco virtuale, la voracità, non è solo una metafora: di fatto si divora o si è divorati. Anche il carnevale (la mascherata totale) è stato, in tempi lontani, un brutale rivelatore, come lo è spesso la follia. E questa fabula non è forse un folle carnevale, “fantasia erotica d’un pazzo”?
Il mondo virtuale e quello reale, come già detto, si sovrappongono sconfinando l’uno nell’altro con effetti di straniante e, a tratti, angoscioso, disorientamento. Le categorie fondamentali della realtà sono stravolte; mentre tempo e spazio subiscono dilatazioni e contrazioni, come le corna d’una lumaca (162), anche le identità individuali sono ridotte, appiattite alla dimensione degli entomati.
Come sostiene Olimpia, siamo inadeguati, inefficienti, il nostro universo umano ci permette scelte limitate e sofferte; tuttavia, l’illusoria libertà dell’universo virtuale del fatale videogioco, cosa ci offre? Essa elimina la storia, il vissuto, la sofferenza; al loro posto suscita uno spazio illusorio costituito dall’accumulo indifferenziato di dati, richiami, immagini, testi; un vuoto abisso illimitato in cui si precipita nell’ossessivo digitare un termine dopo l’altro, in un rimando senza fine.
La rete “(…) è uno sconfinato ipertesto… esclusivo, autoreferenziale e invincibile… un non luogo e un non tempo, che vive in un eterno presente” (ne parla Giuseppe O. Longo in Prove di città desolata).
Ci soccorrono, inattese e come antidoto a tale immenso artificio, nel capitolo VIII, due sorprendenti ed enigmatiche scene agresti, estranee al videogioco, in cui il contesto è del tutto nuovo.
Nella prima, un gregge inquieto e incustodito, quasi ammaliato da un seduttivo pifferaio, sale l’erta spoglia d’una montagna verso una casupola nera, (figura, nei Tarocchi, d’un cambiamento disastroso), oscuro e minaccioso esito dell’ascesa. Questa, mi pare visione onirica; tant’è che il narratore la ricorda il mattino dopo - a colazione, in un ostello alpino -, assistendo alla prima di diverse metamorfosi: una coppia di fidanzati si trasforma in due grandi farfalle; quindi la Famiglia Turistica (pronta per un telequiz), diventa una squadriglia aerea di grossi mosconi.
Nella seconda scena, come per riprendere fiato dopo raffica di mutamenti, Bargellini (211) descrive l’immagine sublime d’un mirabile arcobaleno, che mi piace citare:
“Si dispiegava, zendale di Iride, giù dai balconi delle montagne e sopra le pendici selvose, l’arcobaleno posato sulla terra. A una prima occhiata, quasi torrente ghiacciato d’acqua alpestre fumida verde, d’una viridità smeraldina; ma poi variata, a ben guardare, da una vena di zaffiro, distante, quella colata sbieca di luce verde; e più distante ancora, lungo il bordo esterno, da una venatura arancio. A risalirlo con lo sguardo fin sotto al velario delle nubi, di una nuvolaglia vespertina apertasi, strappata come in un affresco trionfale; ed aggrumatasi di rosa.(…) D’un subito precipite con un’arcata ad angolo acuto radendo le cime sprofondava al di là del crinale. (…) Mimava dei cartigli bioccoluti il sole, senz’alcun motto, bianchi nell’azzurro… ”.
In questi due scenari alpini, inaspettatamente, la scrittura cambia registro. Nel primo, si fa meno spezzata e sincopata, ricomponendosi in un’apparente quiete da cui traluce, tuttavia, un’ansia inspiegata; nel secondo s’illumina in un’abbagliante sequenza barocca.
Tali sequenze, lo ripeto, a mio parere estranee al contesto della narrazione, acquisiscono proprio a causa di tale “essere altrove” – forse, azzardo, uno psicanalista direbbe, in una profondità inconscia primordiale -, una segreta presenza perturbante che colora di significato l’intero testo (smussa le asperità delle vicende narrate, ne vanifica le necessità, apre spiragli sotterranei, ecc.)    
In questi paesaggi alpini si respira un’aria pura, rarefatta, di cristallina trasparenza. È uno scenario, questo, opposto a quello artificiale e supertecnologico dove si affannano insetti e umani nel tremendo gioco. Incomparabilmente bello, dunque, si mostrerà il mondo, radioso affresco tiepolesco o dipinto da Turner -sparito ogni umano sembiante - al trionfo della minuscola genia degli insetti, sia naturali, sia virtuali? si chiede il fabulatore. Subito dopo, un’altra grottesca metamorfosi: quella d’una lettrice in coccinella pustoluta; quindi, in diretta TV, il presentatore di uno show diviene un onisco appallottolato e rotolante. E via di questo passo, pervicacemente, verso la catastrofe.
Certo, in conclusione pare che l’autore ponga alla sgomenta attenzione del lettore, soprattutto l’inderogabile progressione della nostra metamorfosi in insetti, e, parimenti, il sovrapporsi fagocitante della rete virtuale all’umana realtà, insieme al declino d’ogni punto di riferimento spazio/temporale. Tutto sarebbe dunque perduto!
Tuttavia, il nodo cruciale delle questioni messe in campo, consiste, a parer mio, sia nell’irruzione appena citata dell’intermezzo alpino a scuotere l’alchimia del testo; sia - e Bargellini qui sorprende, rovesciando la situazione con un coup de théâtre -, nel fatto che, addirittura, sia la cavalletta la narratrice; lei insetto - alter ego del narratore -, a scrivere, in una “performance inaudita”, il romanzo Giocare a mangiarsi, favola vera, evocando le vicende del misero affabulatore che in lei s’era sdoppiato, per poi, nel finale, sparire nel nulla. Un testo scritto dall’ortottero ma, si badi bene, non con la lingua sciatta e vuota auspicata dall’editore/mosca e dai copy, ma attraverso lo splendore e l’irriducibile, “perversa e scandalosa” (Barthes) complessità d’un linguaggio ancora profondamente umano; “una fortezza di parole”, così Salardi, che ci difende dalla sua rovina. Lui, dunque, l’insetto! scrive delle metamorfosi (ovviamente), ma anche del tremore del gregge e del sublime variare cromatico dell’arcobaleno. Quindi, non tutto è perduto; e, se ne La setta degli uccelli, erano “le nostre anime aeree e segrete (le umbracule)”, qui, a salvarci, forse è questa intima essenza del linguaggio. E questo, noi lettori, fa ben sperare nelle sorti della letteratura.

Mariano Bargellini
La setta degli uccelli
Effigie Ed. 2016
Pagg. 259 15.00
 
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LIBRI
SCENARI DI LIBERTÀ
di Angelo Gaccione


Greta Salvi

Minuzioso e ben documentato, questo volume di Greta Salvi: “Scenari di libertà” sottotitolo: “Teatro e teatralità a Milano durante il Triennio Cisalpino 1776-1779” prende in esame, come si evince dal titolo stesso, un periodo storico importante, pur nella sua brevità, non solo per la messa in prova delle idee degli illuministi lombardi (i fratelli Verri, il Beccaria, i letterati e gli intellettuali riuniti nell’Accademia dei Pugni, attorno alle pagine del giornale “Il Caffè”: Alfonso Longo, Luigi Lambertenghi, Giambattista Biffi, Paolo Frisi, Gianrinaldo Carli e tanti altri), tutti formatisi sulle idee dei philosophes francesi, (o nei salotti di aristocratiche come Maria Vittoria Serbelloni e di Clelia del Grillo Borromeo), ma della tenuta stessa di quella libertà tanto agognata dai milanesi e che il giovane generale Bonaparte e le sue truppe lasciavano sperare. Il tema di fondo resta il teatro naturalmente: il teatro messo in scena, soprattutto “Alla Scala” e “Alla Cannobbiana” (quest’ultimo ubicato nell’area del Bottonuto, tra l’attuale via Paolo da Cannobbio e la via Larga, e che dopo alterne vicissitudini, compreso un incendio, sarà ricostruito nel 1943 e prenderà il nome di “Teatro Lirico”), i cui testi e i relativi autori, le compagnie, gli impresari, dovranno ben presto vedersela con le istituzioni e con le direttive francesi e del Dicastero. Le speranze e gli entusiasmi repubblicani suscitati da Napoleone e dalle sue armate si affievoliranno presto nei patrioti, e il trattato Campoformio vi metterà il sigillo tombale. Eppure, come ci mostra la Salvi nel suo saggio, i milanesi li avevano con benevolenza accolti, soldati e generale, e anche la produzione teatrale, quella rigidamente propagandistica, seppure con tutta la necessaria retorica dei tempi, del contesto e degli ideali cui si ispira, non sarà così marginale e contenutisticamente insignificante per celebrarne i fasti, tutt’altro. Tuttavia, come sempre avviene, fra potere istituzionalizzato (che si definisca rivoluzionario poco importa) e creatività artistica ed intellettuale, l’attrito è destinato a riproporsi subito. Sicché il teatro subisce controlli e censure a più livelli, sia quello apertamente schierato (il patriottico), sia quello di argomento più disimpegnato e di intrattenimento. Le direttive governative e la continua mediazione tengono aperto un conflitto che non vedrà vincitori. Sicché l’acceso dibattito che aveva investito il progetto di un teatro patriottico corroborato di sublimi ideali, e che si era dipanato per l’intero triennio della Cisalpina, sarà costretto a fare i conti con la realtà effettiva dello specifico teatrale, i costi, la qualità, il pubblico e gli aspetti organizzativi e gestionali che esso comporta. 



I testi e gli autori rappresentati e che la Salvi ci segnala, appartengono al repertorio “repubblicano” e anti-tirannico, siano essi attinti alla tradizione classica, al mito e alla Roma di Bruto, siano più coevi o approntati da quegli intellettuali “militanti” (dal cosentino Francesco Saverio Salfi, per esempio, vera star delle scene), e sempre con quell’intento educativo di stampo illuminista, con quel furore estremista e libertario che riscontriamo in Alfieri, non a caso continuamente rappresentato dai dilettanti della Compagnia del Teatro Patriottico. E tuttavia dalla ricerca emerge che questo teatro non ebbe, a conti fatti, un ruolo così predominante nel triennio preso in esame, rispetto a quello di intrattenimento e più popolare, e non solidificò. Anche perché le ambiguità dei francesi si riveleranno ben presto per quello che sono: opportunismo politico da utilizzare per le proprie mire nazionali, per le ambizioni di un generale che si farà presto nuovo Cesare e dittatore, e devono dunque servire alla sua offensiva diplomatica da spendere con gli austriaci e sulla scena dell’assetto europeo. Si arriverà al punto che il pubblico fischierà le opere di contenuto patriottico-filofrancese, ora che quelli che si erano presentati come liberatori verranno percepiti come occupanti. La stessa teatralità che avrà luogo per le strade, nei parchi o al Lazzaretto, le feste pubbliche, le ricorrenze, i tributi d’onore agli eroi e ai caduti, gli anniversari legati alla caduta della monarchia francese o alle vittorie, con le fastose scenografie, gli addobbi, le luci, le salve dei cannoni, le sfilate, le bandiere e i vari aspetti simbolici (gli alberi della libertà in primis), si erano un po’ alla volta trasformate in cerimonie calate dall’alto, relegando gli strati popolari al semplice ruolo di comparse, o addirittura escludendoli, a volte brutalmente, dallo spazio della “rappresentazione scenica” dell’evento, a tutto vantaggio dei ceti più in vista e delle autorità.
Il quadro storico di riferimento che apre il volume, il ruolo che il teatro avrà nel rapporto con le due massime istituzioni: La chiesa e la Repubblica; la riproposta delle edizioni a stampa dei testi fino all’inserto iconografico che chiude il libro, ci consegnano una ricerca preziosa che Greta Salvi ha costruito con passione e che sarà utilissima non solo per gli appassionati di teatro, ma anche per i cultori di storia milanese e non solo.

La copertina del libro

             
Greta Salvi
Scenari di libertà
Fabrizio Serra Editore 2015
Pagg. 240  € 48,00
     
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LIBRI
Gabriele Scaramuzza conversa con Chiara Pasetti,
in occasione della pubblicazione del suo libro su 
Camille Claudel

Chiara Pasetti

Scaramuzza. Il suo libro è molto bello, ben articolato, e ha sostanza; si legge come un romanzo. Non guastano poi le emozionanti fotografie che ha introdotto. Vale la pena dunque soffermarcisi un po’. Lo faccio ponendole alcune domande, utili ad approfondire qualche punto e a invitare alle lettura. Innanzitutto il titolo pone una domanda: Mademoiselle Camille Claudel  è ovvio; ma quell’ “e Moi “ che lei aggiunge, a chi si riferisce ? che implicazioni ha?  

Pasetti. Ho riflettuto a lungo sul possibile titolo di questo lavoro; Mademoiselle Camille Claudel è in effetti il titolo del saggio di Mathias Morhardt che ho tradotto interamente (finora non era mai comparso in traduzione italiana), e ho notato che anche gli altri critici, scrittori, giornalisti dell’epoca si riferivano sempre a Camille in questo modo. Ho deciso poi di aggiungere “e Moi” per diversi motivi. Innanzitutto perché MOI è il titolo del testo teatrale contenuto nel libro, il quale nasce dalla risposta di Camille Claudel alla domanda «qual è il tuo artista preferito?»: lei, nel 1888, risponde «Moi-même»! In secondo luogo perché dietro a quel “Moi” si cela anche Flaubert, il mio maestro spirituale e fonte di ispirazione perenne. È noto che Flaubert, alla domanda «chi è, insomma, questa Madame Bovary?», abbia risposto «Madame Bovary c’est moi!». In realtà questa frase è riportata da uno dei suoi primi biografi, ma non è mai stata scritta da Flaubert… Possiamo dire che ormai ci piace pensare che lo abbia detto realmente! Infine, legare i due titoli con una congiunzione mi sembrava un modo per creare fin dall’inizio un dialogo tra me e lei, una sorta di legame tra la parte saggistica, vorrei dire “seria”, del testo, e la parte più creativa, quella relativa al monologo Moi.
 
Locandina dello spettacolo di "Moi"

S. Il suo libro è apparso presso nella collana Nous, da lei diretta. Può dirci qualcosa circa il progetto della collana e la collocazione in essa del suo saggio? Quali altri scritti seguiranno? 

P. Sono profondamente grata all’editore Nino Aragno per avermi proposto la direzione di questa collana, di cui il testo su Camille Claudel è la prima pubblicazione. Ho scelto di chiamare la collana “nous” proprio in relazione al Moi di cui parlavamo prima… da un pronome soggettivo a uno plurale, “accogliente”, che comprende in fondo anche me stessa in questo “noi”. Era un sogno per me dirigere una collana tutta mia! In questo “nous” del titolo sono compresi tutti e soprattutto tutte le autrici e gli autori che da tempo studio e medito di pubblicare, e che posso racchiudere nell’esergo di Nietzsche che ho scelto: «noi incomprensibili». Si tratta di testi in gran parte ancora inediti o quasi, che ho intenzione di pubblicare per ridare voce a figure in gran parte femminili poco conosciute, poco indagate e studiate in ambito italiano, oppure a grandi autori (Flaubert per esempio) di cui pubblicherò però non i testi più noti bensì quelli ancora inediti e dimenticati. La prossima pubblicazione riguarda la giornalista e scrittrice Caroline Rémy, detta Séverine, i cui articoli sono ancora quasi tutti inediti in Italia. Uscirà a breve per la traduzione di Ilaria Moretti, con una mia nota introduttiva. Seguiranno sicuramente i racconti giovanili di Flaubert, e tante altre donne che la storia (e la critica) ha spesso trascurato. È un progetto a cui tengo moltissimo e che spero di riuscire a portare avanti con impegno e con la passione di sempre.

S. Per quali vie è giunta a occuparsi con tanta passione e tanta acribia di Camille Claudel? 

P. Nel 2013, per caso, ho scoperto che ad Avignone si teneva una mostra di sculture di Camille Claudel, all’interno dell’ospedale psichiatrico di Montfavet dove Camille è stata internata dal 1914 al 1943, anno in cui è morta. Ho visto la mostra e ho finalmente potuto rendermi conto del valore di questa grandissima artista. Da quel momento ho letto tutto ciò che è stato scritto su di lei, e più leggevo, studiavo, guardavo i film che le sono stati dedicati (penso al film del 1988 con Isabelle Adjiani e Gérard Depardieu, ma anche al recente film del 2013 con Isabelle Binoche) più cresceva in me la consapevolezza che ci fosse ancora molto da dire su Camille, specialmente in Italia, dove a parte una attenta, rigorosa e appassionata biografia scritta da Anna Maria Panzera (Camille Claudel, ed. l’Asino d’oro), uscita sempre quest’anno, gli studi sono ancora relativamente pochi, e molto specifici. Da studiosa di estetica mi sono interessata moltissimo alle sue opere, così nuove e vorrei dire di rottura per quegli anni, e da donna non ho potuto rimanere indifferente alla drammatica vicenda dell’internamento in manicomio, che ha messo la parola “fine” sulla sua arte.

Camille Claudel giovane e anziana

S. Per esprimersi ha usato vuoi la via del teatro vuoi quella del saggio. Entrambe molto ben riuscite. Non a caso il suo volume contiene in conclusione anche il testo teatrale. Ma come mai questi due approcci diversi? Quali sono le affinità e le differenze tra le due vie?

P. Come spiego nell’introduzione, a un certo punto mi sono resa conto che la via del saggio, che pure mi è congeniale, non mi bastava più. Da tre anni “vivevo” insieme a questo personaggio, come direbbe Flaubert mi ero “trasportata” in lei, e ho sentito il bisogno, accanto alla forma del saggio, di dare voce a quella parte di me che si era identificata in lei, che ne “sentiva” pensieri, emozioni, rabbia, sofferenza, delusione, ecc. Il lavoro teatrale è nato nel 2013 come lettura, il testo era quasi interamente tratto dalla corrispondenza di Camille Claudel. Ma anche quella forma non mi convinceva appieno; così, mi sono messa a scrivere… Ho immaginato di essere lei, in atelier, agli inizi del Novecento, quando ormai la sua relazione con Rodin era conclusa e il mondo dell’arte, che all’inizio l’aveva osannata, la stava lentamente abbandonando, ho immaginato le sue difficoltà di riuscire a vivere della propria vocazione, la scultura, di riuscire a vendere le sue sculture. E ho immaginato cosa potesse provare quando improvvisamente la madre e il fratello hanno deciso di rinchiuderla in un asilo per alienati mentali. Le parole sono venute fuori da sole, è stato quasi un flusso di coscienza… Del resto non è la prima volta che scelgo di scrivere un testo teatrale accanto ad altri di natura più saggistica, lo scorso anno ho realizzato la drammaturgia della Tentazione di sant’Antonio di Flaubert e sto scrivendo un nuovo spettacolo teatrale. Credo che, quando si ama scrivere, e si conosce a fondo un argomento e un personaggio, a un certo punto venga naturale posare la penna “accademica” e prendere quella creativa, intima, personale. O almeno a me è capitato così… Dopo una prima versione teatrale che non mi aveva per nulla convinto, ho sottoposto il testo al regista e attore genovese Alberto Giusta, al quale è piaciuto molto il personaggio e anche la storia. Il regista ha quindi individuato nella persona dell’attrice Lisa Galantini, che è davvero di una bravura strepitosa, l’interprete migliore per il ruolo di Camille Claudel. Abbiamo debuttato il 30 settembre a Genova, e speriamo che questo monologo, a cui abbiamo lavorato tutti con tanta dedizione, possa essere conosciuto nei teatri italiani. Credo che aiuti il pubblico a scoprire questa meravigliosa figura di donna e di artista e che sia, anche se postuma, una forma di risarcimento, dovuto, per tutto ciò che ha subito…

Rodin "Maschera di Camille"


S. Come vede i rapporti tra il celebre Paul e la sorella Camille?  E l’atteggiamento (sconcertante per me) di Paul Claudel? 

P. Il rapporto, strettissimo, tra i due, è in effetti particolarmente interessante. Paul, nel suo testo Ma sœur Camille che ho tradotto nel libro, parla di un «ascendente spesso crudele» che lei «esercitò sui miei giovani anni». Sappiamo che lui deve le sue prime letture (Rimbaud soprattutto) a lei, e si trovano echi della poetica e dell’estetica di Camille nei testi di Paul. Certamente lui era una personalità molto più debole, deve aver sofferto molto il confronto con questa «donna di genio», che oltre tutto era molto bella (posso immaginare che la sua bellezza prorompente, per un fratello, sia stato fonte di grande gelosia). Inoltre la strada che a un certo punto lui sceglie di intraprendere, la carriera diplomatica, non contemplava scandali, dunque il fatto di avere una sorella così eccentrica, che a un certo punto diventa “l’amante” di Rodin, che aveva ben ventiquattro anni più di lei, deve averlo molto irritato nonché deluso… La madre è sicuramente la principale responsabile della decisione dell’internamento, ma Paul ne è comunque complice. E come Lei, Professore, sottolinea, l’atteggiamento di Paul dal momento dell’internamento in poi resta sconcertante, quasi incomprensibile. Andò a trovare la sorella poco più di una dozzina di volte in trent’anni, e non fece nulla per riportarla a casa o per trovarle una sistemazione più confortevole e rispettosa della sua persona e dell’artista che è stata. Credo che sia morto pieno di rimorsi e di rimpianti, e il testo che ha scritto nel 1951, dunque diversi anni dopo la morte di Camille, lo dimostra… Nonostante questo, Paul non ha ai miei occhi nessuna giustificazione. Ha voluto abbandonarla, questo è quanto, io la vedo così…

A destra lo scultore Rodin

S. Cosa le ha dettato l’articolazione interna del libro? I titoli dei capitoli sono in francese, concetti e nomi. Nel primo capitolo a prima vista mi attraggono i paragrafi sulla bellezza e sulla verità. Vuol parlare dei rapporti nel suo contesto tra questi due temi decisivi ?

P. Ho scritto la mia introduzione, e anche la conclusione, praticamente di getto. Una volta concluse, rileggendo il tutto ho individuato dei temi e dei concetti forti, e ho pensato di indicarli, anche per dare più ritmo alla narrazione, e di indicarli in francese. I paragrafi cui Lei allude, sulla bellezza e sulla verità, in effetti sono strettamente legati, e da studiosa di Flaubert non posso non citare il suo pensiero, che naturalmente riprende Platone: «il Bello è lo splendore del Vero». Dietro questi due nomi, La Beauté e Le Vrai, si nascondono naturalmente tante altre riflessioni, non soltanto filosofiche. La Beauté inoltre è il titolo di una splendida poesia di Baudelaire, che infatti ho inserito nel libro, i cui versi iniziali recitano: Sono bella, o mortali, come un sogno di pietra… e la poesia si chiude sugli occhi dalla luce immortale, che inevitabilmente mi hanno fatto pensare allo sguardo di Camille. Rodin trarrà da questi versi il titolo di una sua scultura. I rimandi insomma sono molteplici. Quanto al paragrafo sul vero, c’è anche l’intento svelato dalla frase iniziale del paragrafo, di Flaubert, di dire “la verità”, o ciò che più vi si avvicina, sugli ultimi anni della vita di Camille Claudel. Il ruolo di Flaubert nel libro è forte e credo evidente, anche nei titoli dei paragrafi (La Bêtise sopra a tutti, che mi ha consentito inoltre di chiudere, o meglio di non chiudere…, sulla sua celebre massima: «la stupidità consiste nel voler concludere»).

Opera di C. C.

S. Infine: un paragrafo è intitolato “K. e K.”; perché questi due K
a chi si  riferiscono?  

P. Questo paragrafo è una sorta di divertissement, un dialogo immaginario fra due personaggi, che non svelo per non togliere la sorpresa al lettore! Anche questo nasce dal desiderio di una scrittura più intima, dove poter usare delle parole e delle immagini che la forma e la struttura del saggio non consentono. Posso solo dirLe che le iniziali puntate si riferiscono a due soprannomi reali dei protagonisti del dialogo. È chiaro, inoltre, che dietro a questa “K.” c’è anche Kafka, e mi sia consentito confessarLe, Professore, che devo a Lei la passione per questo autore, che Lei mi ha fatto conoscere e amare attraverso i testi, importanti e bellissimi, che ha scritto su di lui. Uno dei primi esami di Estetica che sostenni, proprio con Lei, molti anni fa, era dedicato a Kafka, e a lungo Lei si soffermò sui nomi e sul significato di questi nomi dei personaggi di Kafka della trilogia dei romanzi: Karl per L’America, Joseph K. per Il Processo, e semplicemente K. per Il Castello… Reminiscenze kafkiane, dunque, affiancate e nutrite da altri studi, altri autori, altre K…!


Copertina del libro 


Chiara Pasetti
Mademoiselle Camille Claudel et Moi
Nino Aragno Ed. Torino 2016
Pagg. 250, € 20,00
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LIBRI
LE MENTI PRIGIONIERE
Letteratura e dissenso nella Russia Sovietica
di Angelo Gaccione


Franco Celenza
"Le menti prigioniere è il bellissimo titolo che Franco Celenza ha dato al suo nuovo recente saggio pubblicato da Morellini. Dopo le sue scorribande dentro l’universo teatrale (Celenza è anche un valente studioso, oltre che appassionato, di teatro), con questo libro ritorna al tema del totalitarismo al quale ha dedicato più di un saggio. Introdotto da una corposa e ben articolata disamina di Cesare Milanese (che a sua volta solleva diverse questioni che meriterebbero di essere dibattute), il lavoro di Celenza prende in esame il rapporto tra potere e letteratura nella Russia sovietica, per giungere ad un a verità apodittica: la libertà creativa-espressiva è inconciliabile col totalitarismo. Fra queste due istanze non può esserci dunque che conflitto e scontro, poiché la libertà è sempre irriducibile, e troverà le sue forme e le sue vie per manifestarsi. La “diatriba”, come la definisce Milanese, fra potere coercitivo e “potere” della parola letteraria, “proprio perché la letteratura è diatriba” (sono ancora parole di Milanese), “non può non essere che permanente”. Questa diatriba può aver fine ad una sola condizione: che la letteratura si faccia serva. Ma a questo punto decreterebbe la propria morte, perché verrebbe meno alla sua stessa essenza, alla sua stessa ragione, a quella visione eretica, ribelle, scettica, che alla letteratura assegnava il dissidente Evgenij Zamiatin, e che aveva difeso con tutte le sue forze fino al sacrificio finale. Il vasto panorama di letterati ed intellettuali che ci presenta Franco Celenza, dalla morte di Lenin al passaggio del potere nelle mani di Stalin prima e via via fino a Gorbaciov (artefice di una serie di riforme e di allentamento della politica repressiva ), appartiene a questa visione eretica e ribelle. Il pugno di ferro nei confronti di questi dissidenti sarà spietato e si protrarrà fino a quasi gli anni Novanta. Ricordiamo qui, en passant, che il drammaturgo cecoslovacco Vaclav Havel viene condannato a più di quattro anni di carcere alla fine del 1979, lo scrittore russo Solgenitsin potrà tornare in patria (da cui era stato espulso) solo ai primi degli anni Novanta, e che in quegli stessi anni libri importanti di tanti di loro, non erano ancora pubblicati nei paesi di origine. Lo stesso scienziato Sacharov esiliato a Gorkij, poté rientrare a Mosca solo nel 1986, riabilitato da Gorbaciov. Se il totalitarismo è inconciliabile con la libertà tout-court, figuriamoci se oppressione e servitù ideologica non lo diventino in maniera tragicamente rovinosa nell’impatto con la creatività della ricerca, della visionarietà estetica e del pensiero, che dalla libertà assoluta traggono nutrimento, e di questa libertà hanno bisogno per germogliare. 
Quel che è accaduto in Russia sotto il regime sovietico oggi lo conosciamo in abbondanza. In realtà sapevamo tutto dall’inizio: lo sapevamo da quello che era accaduto a Nestor Makhno e ai rivoluzionari ucraini (vedi “La rivoluzione russa in Ucraina”), lo sapevamo dal massacro di Kronstadt e dagli scritti di Volin (vedi “La rivoluzione sconosciuta. 1917-1921”). Incarcerato durante la rivoluzione del 1905 dallo zar, Volin lo sarà un paio di volte nel 1920 dai bolscevichi; Trotskij lo aveva addirittura condannato a morte, proprio lui che era stato il fondatore del primo soviet di San Pietroburgo. Scarcerato su pressione dei delegati sindacali europei, Volin fu fra i primi, assieme alla componente anarchica, anarco-sindacalista e libertaria, a denunciare in Russia e fuori la degenerazione della rivoluzione, subito dopo la presa del potere dei bolscevichi. Lo sapevamo dall’esproprio da parte dei bolscevichi dell’autogoverno dei soviet; tutto il potere ai soviet si trasformò subito in tutto il potere ai dirigenti del partito, a quelli del partito unico, a quello bolscevico. Da come fu strutturato l’apparato militare, fotocopia in tutto e per tutto di quello zarista, così come la burocrazia soffocante, e così via. La deriva giacobina e autoritaria impressa da Lenin e Trotskij, il partito che si fa Stato, e dunque ordine maniacale, terrore per ogni idea divergente e dunque da annientare, da tutto questo germoglia l’autocrazia criminale e personale di Stalin, come aveva lucidamente intuito il rivoluzionario Volin che scrive: “Stalin non è caduto dalla luna. Stalin e lo stalinismo non sono altro che la logica conseguenza di un'evoluzione preliminare e preparatoria, lo stesso risultato di un terribile errore, un'involuzione negativa della Rivoluzione. Sono stati Lenin e Trotsky   - vale a dire, il loro sistema - che hanno preparato il terreno che ha generato Stalin. Avviso a tutti coloro che hanno sostenuto Lenin, Trotsky e altri, e adesso inveiscono contro Stalin: oggi raccolgono quel che hanno seminato!”. 

Franco Celenza nel suo studio mentre legge

La critica libertaria alla degenerazione bolscevica della rivoluzione avviene subito, ed è una critica che nasce dai suoi stessi protagonisti, delusi della piega che gli eventi hanno preso. Non sono “né agenti nemici”, né nostalgici dello zarismo: sono rivoluzionari della prima ora, uomini radicati fra le masse e dentro le idee di quel cambiamento. Uomini lucidi che avevano capito per tempo quello che oggi noi sappiamo e che sia Milanese, nel suo saggio introduttivo al libro, sia l’autore, confermano con decisione: la assoluta continuità storica-ideologica-operativa che da Lenin e Trotskij porta a Stalin. L’universo concentrazionario, i gulag, gli ospedali psichiatrici, il lavoro forzato, l’assoluta intolleranza verso idee diverse, trovano origine in quel seme primigenio. Cadranno tutti i migliori sotto il terrore staliniano, centinaia di migliaia di comunisti che erano stati il perno e l’anima della rivoluzione; ne farà le spese anche Trotskij, il massacratore di Kronstadt, e, ironia della storia, il libertario Volin sarà fra quelli che si batteranno perché la Francia, dove il bolscevico era riparato, per sfuggire al patibolo di Stalin, non lo espella. Se la rivoluzione si fa regime, se non è tollerato alcun pensiero divergente all’interno di un’ortodossia di cui il partito e il suo capo si ritengono depositari, e i militanti stessi, i comunisti, vengono incarcerati o assassinati, men che meno il regime può concedere che a “deviare” siano gli artisti e gli intellettuali. Anzi, il regime e il suo autocrate, fissano i contorni e le basi di questa “devianza”, di questa “degenerazione”. La beffa è che un regime che incarna al sommo grado devianza e degenerazione ai danni di un intero popolo, si arroga il diritto di definire “arte degenerata” e parola e letteratura “deviata”, quella di un pugno di scrittori il cui peso specifico sui destini di altri uomini è quasi nullo, e che se ne ha uno è solo di tipo spirituale e morale. Contro i dogmi di un regime così spietatamente paranoico, si troveranno a collidere, per un lasso di tempo interminabile, alcuni dei maggiori scrittori russi. Celenza nelle sue pagine li enumera in dettaglio e ne segue il destino: espulsi dalle associazioni letterarie, denigrati, perseguiti, incarcerati, eliminati, costretti al suicidio, alla fuga all’estero, al silenzio,  all’autocensura o ridotti ad autoprodurre clandestinamente i loro scritti e diffonderli nella forma del samizdat, per sfuggire alla rete di spie che pullulano in ogni dove. Figure del calibro di Pasternak, Babel’, Bachtin, Bulgakov, Grossman, Mandel’štam, Sinjavskij, Solgenitsin, Zinov’ev, tanto per citarne alcune, vessate in ogni modo, solo perché non in linea con il realismo socialista, perché non sufficientemente entusiaste del regime e dei suoi apparati, perché hanno osato dubitare dell’uomo nuovo, o conservato nelle loro opere e nei loro pensieri l’indipendenza dello spirito. Composto da otto agili capitoli, il lavoro di Celenza prende in esame un ventaglio variegato di temi tutti focali, e parte da lontano per mostrare come si arriva alla letteratura di partito, ai processi farsa dei dissidenti, all’universo concentrazionario, al crollo del mito rivoluzionario, al non-conformismo intellettuale e all’opposizione al regime come malattia mentale. Un intervento di Carlo Alfieri sulla diaspora dei letterati russi dispersi in ogni dove, compone il capitolo nono, e si chiude con un’appendice in ordine alfabetico dei personaggi della cultura e del potere sovietico, con un glossario di supporto molto utile per una maggiore intelligibilità delle sigle citate nel testo e un’ottima bibliografia di supporto. Questo libro di Celenza potrebbe apparire fuori luogo in anni definiti “post-ideologici” (anche su questa definizione ci sarebbe da discutere, e molto), ma io che lo ritengo un libro necessario, spero invece che le scuole lo utilizzino come merita, perché le nuove generazioni sappiano cos’è accaduto alla libertà di espressione (e le scuole, lo studio, la ricerca, il confronto intellettuale, si fondano su questa libertà), e cosa potrebbe in futuro accaderle, se non ne prendiamo coscienza. Vorrei chiudere questa nota con un appunto polemico: il comportamento dei comunisti italiani rispetto a quello che avveniva in Russia e alle “purghe” staliniane, è stato improntato al silenzio e all’omertà. Questa “prudenza”, per non danneggiare l’immagine del paese “fratello” durante gli anni della “guerra fredda”, è proseguito intollerabilmente nei decenni successivi. L’invasione dei carri armati sovietici dell’ex Cecoslovacchia, a cui il Pci darà il suo benestare ideologico, è parte di quel disonore. Apprenderemo poi che il Pci era sul libro paga dei gerontocrati di Mosca.


La copertina del libro


[Franco Celenza
Le menti prigioniere
Letteratura e dissenso nella Russia Sovietica
Morellini Editore, 2016
Pagg. 130 € 14,00]


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LIBRI
LO SPREGIO
di Angelo Gaccione

Alessandro Zaccuri

Alessandro Zaccuri non è solo quell’ottimo e acuto critico letterario che conosciamo (per me uno dei migliori sulla piazza), è anche un valente narratore, come mostrano i suoi romanzi: da “Il signor figlio” a “Infinita notte” a “Dopo il miracolo”, fino a questo fresco di stampa dal titolo “Lo spregio” (Ed. Marsilio, pagg. 120 € 16,00), finito di scrivere nel novembre del 2013.
In un celebre pamphlet letterario di un po’ di anni fa, lo scrittore americano Tom Wolfe lamentava il fatto che gli scrittori hanno rinunciato a raccontare la realtà, lasciandola pressoché interamente nelle mani dei giornalisti, così come la cronaca, che è materia viva, magmatica, pulsante, e che ai narratori si offre come pozzo senza fondo. Il danno per Wolfe è duplice: perderne l’interpretazione più profonda e smarrire la conoscenza del proprio tempo. Perché è solo il buon narratore in grado di riscattare la materia “vile” della cronaca e a conferirgli il giusto tocco, l’anima che vi soggiace, e farne qualcosa di intemporale, di paradigmatico, di universale.
Purtroppo anche da noi la stragrande maggioranza dei narratori ha rinunciato alla realtà e alla cronaca del proprio tempo, condannandosi in parte alla sterilità, in parte all’inconsapevolezza. Senza consapevolezza sociale, cioè etica, la traiettoria dello sguardo dello scrittore risulta obliqua, rispetto alla verità, è quel che è più grave, viene perduta quella che io chiamo la ragione morale della letteratura.
Non è così in Zaccuri e non lo è per questo suo nuovo romanzo. Qui di realtà e di cronaca ce n’è in abbondanza ed egli la maneggia e la domina con un rigore etico da autore “classico”, come sarebbe piaciuto a Wolfe.


Lo spregio” ci mette sotto gli occhi uno squarcio degli anni Novanta (i meno giovani ricorderanno la corruzione diffusa, la criminalità mafiosa pervasiva declinata nelle varie forme e sigle, la saldatura innaturale fra delinquenti di varia natura e servitori delle istituzioni, gli arricchimenti rapidi e il malaffare, le clientele partitiche, la Milano da bere e tanto altro ancora), e come scenario una striscia di territorio che corre a ridosso del confine svizzero. Trafficanti, spalloni, prostitute e uomini dello stato sono in combutta: merci e mercimonio la fanno da padrone: il denaro, l’apparenza, il potere, sono i segni distintivi dell’epoca. La Trattoria dell’Angelo gestita dal Moro (al secolo Franco Morelli) e da suo figlio Angelo (un trovatello figlio di nessuno, forse frutto di quei rapporti promiscui che il Moro controlla e copre nei suoi ambienti, e che egli adotta come proprio), è il fulcro di questi traffici loschi.
Quando Angelo ne verrà a conoscenza, l’età dell’innocenza sarà morta per sempre in lui: entrerà in conflitto col padre, con la scuola, con l’ambiente, e si trasformerà in teppista, in temerario ricattatore e trafficante a sua volta, sulle orme paterne e soci.
Fino ad un altro incontro fatale, quello con Salvo, figlio di Don Ciccio, patriarca di una famiglia mafiosa che la giustizia ha spedito in questo estremo lembo di terra del Nord, dalla lontana Calabria, e col quale forma un inossidabile binomio.


Con l’ingresso sulla scena di Don Ciccio e della sua tribù (Salvo, Mimmo, e così via), il romanzo vira verso un’indagine intorno a quella che possiamo definire “mentalità mafiosa”. Mentalità che dagli anni Novanta del secolo scorso ad oggi, non è assolutamente cambiata, nei riti e nelle credenze. Si è modificata la logica imprenditoriale e finanziaria, sono caduti alcuni tabù considerati inviolabili e sono comparsi i figli con laurea in tasca. Sono scomparsi la coppola  storta  e le canne mozze, ed è finita la subalternità verso il potere politico e le sue rappresentanze. E tuttavia è rimasto integro il rapporto (tutto esteriore e superficiale) con il sacro e le sue rappresentazioni. Salvo, il giovane rampollo del capo bastone Don Ciccio, veste all’ultimo grido, gira per locali alla moda, indossa tutti i feticci della modernità più spinta, gira in Cherokee, ma conserva come un vecchio patriarca di San Luca, di Ciminà, di Africo Nuovo di quasi un secolo prima, nel portafogli, l’immagine di san Michele Arcangelo, l’angelo guerriero armato di spada e protettore degli uomini di fegato, degli “uomini d’onore” mafiosi. Su quell’angelo e su quella devozione, Salvo tiene all’amico Angelo (accolto nella sua famiglia come un congiunto) un contorto sermone che l’amico non capisce. La loro mentalità, da questo punto di vista, è agli antipodi. Angelo resta pur sempre un uomo del Nord, teppista, ma uomo del Nord. Intorno agli angeli verte molto questo interessantissimo romanzo di Zaccuri, che padroneggia la materia da par suo, e che ha avuto delle intuizioni geniali facendo lavorare al meglio la sua fantasia di scrittore.   
L’avere introdotto Salvo ad intrufolarsi in maniera fraudolenta nella villa di Livio Mambrotti per carpirne la fiducia e farsi consegnare la statua di uno splendido angelo, opera dello scultore locale Jacopo Guiderzoni, che la adorna, è stato un vero colpo di teatro. Il giovane la vuole per sé, perché risplenda davanti alla casa della sua famiglia, carica di tutti i significati con cui la mentalità mafiosa l’ha rivestita. Così avverrà, ma un altro angelo, un angelo dalle fogge piuttosto strane, un angelo che sembra evocare la lotta fra l’arcangelo Michele e Lucifero, farà la sua comparsa davanti alla casa di Angelo figlio del Moro. Il marchingegno scultoreo che l’amico si è procurato dal Tirabassi, -un imprenditore in rovina con i beni sotto pignoramento- (Don Ciccio e la sua cosca a quella rovina avevano contribuito attivamente per impossessarsi dei beni a prezzi stracciati), forse per emulare Salvo e darsi importanza, forse per un semplice atto di spavalderia: “L’insegna dice: Taverna dell’Angelo, e un angelo ci vuole” dirà al padre, gli sarà fatale. Salvo e Don Ciccio considerano quel gesto come uno spregio arrecato a loro e al loro sentire; uno spregio che può essere lavato solo col sangue, secondo la pratica e la mentalità mafiosa. Così avverrà: l’arcangelo mafioso avrà ragione dell’angelo che aveva osato sfidarlo. Il sangue e la morte metteranno il sigillo sul giovane e sulla sua scultura. Il Moro se ne andrà pochi giorni dopo il figlio, quella morte aveva solo accelerato il male che da tempo lo insidiava.
Sorretto con una scrittura scorrevole e coinvolgente, non priva di sprazzi di raffinata letterarietà, la lettura di questo romanzo di Zaccuri scivola con lo stesso godimento con cui è stato concepito. 
La copertina del libro


Alessandro Zaccuri
Lo spregio
Marsilio Ed. 2016
Pagg. 120 € 16,00   

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L'incontro prudente, poesia e filosofia
di Fulvio Papi

Soltanto il poeta si assume la responsabilità dell’io, soltanto lui parla a nome di se stesso, soltanto lui ha il diritto di farlo. La poesia s’imbastardisce quando diviene permeabile alla profezia o alla dottrina […]. Il trionfo della non autenticità si attua nell’attività filosofica, questo compiacimento nel “sì”, e nell’attività profetica (religiosa, morale o politica), questa apoteosi del “noi”. La definizione è la menzogna dello spirito astratto.
[Emil Cioran - Sommario di decomposizione, 1949]


Non esiste alcun rapporto univoco tra la poesia e la filosofia, come non esiste alcun rapporto univoco tra la pittura e la dimensione figurativa, tra la musica e la sonorità, tra l'architettura (religiosa e non) e l'idea di spazio. Anche se ogni tradizione poetica, ogni epoca pittorica, ogni composizione musicale come ogni manufatto architettonico sottintende un tessuto filosofico più o meno rilevante e, soprattutto, è possibile farne oggetto di una meditazione filosofica. Per quanto riguarda la poesia, al di là del genere o della poetica, nella nostra tradizione più recente mi sentirei di dire che vivo ogni poesia come “un mondo” e ogni filosofia come un effetto di un “corpo” del filosofo, come autobiografia interpretata e risolta nell'ordine del pensiero. In una visione di questo tipo le relazioni tra poesia e filosofia possono essere le più differenti: armonia, prestito, occasione, declinazione, risonanza, complicità come anche rifiuto. Se dovessi rimanere in questa prospettiva dovrei solo cimentarmi in un commento del Mariner di Coleridge (a valle di Schelling), la Libertà di Paul Éluard (col retaggio dell'esperienza surrealista), qualsiasi poesia di Ingeborg Bachmann, amatissima (con alle spalle i grandi viennesi e, soprattutto, Roth).
Ma la filosofia generalizza, infatti usa concetti che “comprendono” o “circoscrivono” e, come minimo, si dovrebbe domandare “che cosa” circoscrivono e quale tecnica o opportunità concettuale adoperano per ottenere questo risultato. Esistono molte forme di verità, ma in questo compito raggiungono un effetto di verità. Come nessuno può pensare di interpretare un romanzo ritenendo che esso sia il modello formale del romanzi: si può naturalmente mostrare quale sia la sua struttura formale che esiste nelle favole o nei libri gialli, ma non certamente nella Recherche di Proust o nel Doctor Faustus di Mann.


Prenderò il mio “inizio” (che a rovescio può anche essere una fine) dalle preziose osservazioni di Baudelaire sulla moda. La moda poetica, come quella sociale, è sempre un processo di mutamento, di trasformazione, di nuova identità, di certezza nella propria apparizione e, di più, di necessità implicita nel suo genere. La poesia è tutt'altro che ripetizione di norme compositive che riguardino il suo oggetto e la sua traduzione scritturale. Non può che rinascere come rottura radicale con tutti i canoni della vita borghese, della sua funzione normativa, dei costumi pubblici, delle consuetudini pacificate, delle esclusioni radicali, dei sentimenti occlusi, dei comportamenti sociali codificati, delle regole diffuse. La poesia trova un mondo sul quale la forza del lessico borghese, i suoi pudori come le sue violenze, aveva fatto valere il suo potere: essa è nella scoperta soggettiva di un altro mondo che ha, nella famosa linea Poe - Baudelaire, l'affermazione che la poesia non ha altro scopo che se stessa, è poesia per la poesia. Un “romanticismo” che esce dall'ascolto sentimentale dell’“io” per diventare una soggettività poetica vitale, paga del suo modo d'essere e di sentire, necessaria al suo scopo artistico, aperto alla scoperta di nuove occasioni poetiche e alla loro costruzione secondo una finalità chiusa in se stessa, compimento di un'opera che è la riscoperta del fare poetico. È un’aura che giungerà sino al giovane Mallarmé che - com’è noto - è stato uno straordinario traduttore delle poesie di Poe. Il giovane Mallarmé è nel clima dell'idea di poesia di Baudelaire, ma il fare poesia si colloca su un piano completamente diverso. La poesia acquista una sua autonomia agendo direttamente sul linguaggio, la sua natura poetica abbandona ogni modalità comunicativa, trova una pluralità di relazioni che derivano dai significanti stessi con effetti che sono estranei alla dimensione simbolica e possono piuttosto essere paragonati ad una scrittura musicale.


La poesia nasce da una idea normativa di poeticità che avrà la sua risonanza e la sua teorizzazione avanguardista in relazione alla concezione anti-platonica e anti-saussuriana del linguaggio teorizzata dal primo Derrida. Ora questo processo intorno al pensare la formalità linguistica del poetico fu un processo che caratterizzò una parte rilevante nella poesia del Novecento, basta ricordare poetiche come il futurismo (ben più ricco quello russo rispetto a quello poco più che pubblicitario italiano) o il surrealismo francese, che spezzava ancora una volta le forme comunicative dominanti corrispondenti al dominio economico della forma capitalistica della produzione. In Italia - come tutti sanno - fu l’ermetismo poetico che garantiva alla dimensione poetica la sua irriducibilità ad altre finalità che non fossero la realizzazione di se stessa. La ripresa filosofica della celebre concezione di Baumgarten sulla poesia come forma di conoscenza intuitiva poteva offrire una pluralità di interpretazioni; in Italia fu l’estetica di Croce che vi si ispirò più direttamente, ma in ogni caso forniva una interpretazione filosofica che poteva assumere due aspetti opposti: l'uno lo spazio per una autonomia poetica; l'altro la dimensione normativo-interpretativa della poesia. Il panorama che ho così brevemente tracciato mostra la ripetizione di una caratteristica intellettuale, più o meno rilevante, secondo cui ogni esperienza poetica ha un suo correlato “teorico”, più o meno rigoroso, al quale fa riferimento un importante tentativo filosofico di affrontare il problema dell'arte e della poesia dal punto di vista di una universalità filosofica.


A questo punto è necessario ricordare l'importante saggio di Heidegger del 1935, L’origine dell’opera d'arte, con alcune rapide premesse che sono probabilmente indispensabili per concordare con la mia interpretazione. Heidegger, ora ne siamo certi, era iscritto e militante del partito nazista. Tuttavia né Essere e Tempo né il famoso discorso a proposito del Rettorato del 1933 sono scritti di cultura politica direttamente nazista; semmai le pagine finali del capolavoro di Heidegger, e, molto più direttamente, il citato discorso appartengono a un’aura intellettuale entro la quale si può inscrivere il nazismo come senso storicamente politico dell'identità di un popolo. È una distinzione che, senza minimamente entrare nelle dispute sul rapporto del filosofo tedesco con il nazismo, è necessario fare per distinguere quello che è un lessico operativo e identitario dell’azione politica del partito (a cui personalmente il filosofo poteva aderire) e il lessico filosofico di cui si vale in un crescendo inventivo dal “discorso” all’Origine dell'opera d'arte, lessico che appartiene alla forma del pensiero filosofico che Heidegger mette in relazione con la storia della filosofia e con la cultura filosofica contemporanea. Questo non vuole affatto negare, come dicevo, che questo modo di pensare filosofico non appartenga a un ethos che, in una determinata congiuntura politica, diventa un’aura intellettuale favorevole al precipizio nazista. Sappiamo tutti che Lukács ha esagerato fuor di misura quando, nella Distruzione della ragione, ha veduto nella cultura tedesca di un secolo la preparazione delle condizioni intellettuali del nazismo, come se Dilthey e Klages fossero simili, e tuttavia è abbastanza facile riconoscere che vi sono filosofie o letterature che creano un ambiente favorevole alla diffusione di una ideologia totalitaria (come quella criminale nazista) e altre che nella loro apartheid accademica non hanno gli stessi effetti. Per non citare il caso di un fascista come Pound, le cui poesie sarebbe difficile omologare ai libri di “mistica fascista”.


Fatte queste distinzioni - che non cambiano i giudizi morali, ma impediscono interpretazioni troppo preconcette - torniamo al nostro tema. A qualcuno non mancherà di creare scandalo questa affermazione, ma a me pare che vi sia una linea filosofica che connette il famoso discorso del Rettorato, due anni avanti, con il saggio non meno famoso sull’Origine dell'opera d'arte, anche se si tiene presente la differente destinazione dei due scritti - l'uno propositivo di un fare, l'altro impegnato in un capire teoricamente - diversità perfettamente visibile proprio nella differenza tra i lessici dei due scritti: l'uno filosoficamente comunicativo, l'altro così rigorosamente teorico da richiedere invenzioni lessicali che riescano meglio a cogliere l'essenza del problema. L'uno segna dunque una linea d'azione spirituale per l’Università centrato sulla identità storico-politica (il “destino”) di un popolo; l'altro saggio vede egualmente nel fare poetico il riconoscimento, il farsi popolo di un popolo, la determinazione spirituale della sua storicità. Un proposito filosofico che non ha niente a che vedere con una “estetica” che assume le opere d'arte come oggetto di categorizzazioni che vengono dall'esterno e adoperano strutture intellettuali che per agire presuppongono una oggettività, comunque definita. Tuttavia gli autori e le opere che Heidegger ha scelto per “mostrare” la sua concezione del poetico nella realtà della poesia mi paiono poco pertinenti, come già molto tempo fa aveva sostenuto il giovane Cacciari. In generale nel testo heideggeriano, dove linguaggio è proporzionato al perseguire il disegno filosofico, mi pare si possano trovare argomenti per comprendere, in una metafisica storicità, l'origine spirituale di popoli che in quella forma poetica hanno la loro stessa enciclopedia. A livello della poesia lirica contemporanea l'effetto filosofico heideggeriano invece diviene una poetica dominante: il rapporto terra-mondo diviene una modalità che costituisce l'orizzonte ontologico di ogni fattura poetica che desidera una propria fedeltà alla essenza della poesia. A mio modo di vedere, questa riduzione del pensiero filosofico a poetica, la verità dell'essere, traccia una linea omogenea tale da divenire uno stile diffuso e condiviso che, oggettivato, si dà anch'esso per essere compreso nella sua verità. E quindi riapre il problema del rapporto tra poesia e filosofia, anche se potremmo dire che, contrariamente a una lunga e forte tradizione, qui è la poesia che interroga la filosofia e richiede una posizione teorica che possa entrare in una relazione positiva con la sua molteplice realtà.


Come ogni sintesi filosofica che sveli l'essenza di un fare (la poesia, il pensiero, il lavoro, l'amore), pure nascendo da condizioni molto differenti, annulla il molteplice e la sua specifica ragione d'essere, essa condiziona la lettura dei testi poetici secondo un'unica prospettiva e, infine, nella pratica poetica concreta finisce col costituire una poetica che ha la stessa funzione di uniformità di ogni altra poetica. È una prospettiva che nel nostro universo poetico è molto degnamente rappresentata, per esempio in una rivista importante come «Anterem», ma allo stesso modo in cui negli anni passati fu interpretata la poetica dell'avanguardia di Sanguineti o Porta, o come da una ventina d'anni agisce una poetica per “il combattimento per il bello” in conflitto con l'ambiente sociale dominato dal calcolo capitalistico e dalla sua dis-educazione alla sensibilità e all'etica antropologica, in competizione con la tecnologia che trasforma ogni relazione moderna condizionata da “amorosi sensi”. La bellezza, in questa prospettiva, non è la rinascita di Canova o delle Grazie di Foscolo, ma desidera essere una relazione poetica del soggetto umano con il mondo, secondo quelli che, un tempo, si sarebbero chiamati i “valori dello spirito”. Va da sé che questa schematizzazione non comprende affatto il lavoro poetico di ogni autore il quale nel suo fare poesia può risentire di suggestioni poetiche diverse che solo il critico attento può forse rintracciare. Non credo possa stupire che nel mio discorso sia apparsa la parola “poetica”. Nella filosofia italiana essa ha una linea relativamente retta che va dall’estetica di Banfi alla teoria critica di Anceschi. Era certamente una poetica militante quella che Anceschi ospitò per anni nella sua rivista «Il Verri», senza minimamente credere che essa fosse una “filosofia della poesia” piuttosto che una emergenza poetica che “sul campo” voleva giocare la sua forza ideale e il suo tentativo egemone, espressione importante di quella che nella prosa dello stesso Anceschi era una stagione letteraria da comprendere con uno stile interpretativo di natura “fenomenologica”. Dove il termine è privo dell'insieme teoretico originario, per indicare sostanzialmente l'attenzione alla vita della poesia come congiuntura culturale, o come moda necessaria, per riprendere proprio qui Baudelaire.

È abbastanza ovvio l'uso della categoria “poetica” in un tempo storico che, perduta la sostanzialità dell'arte (bella e romantica), ha cercato di trovare altri fondamenti per riflettere se stessa in una prospettiva di diritto intellettuale. Senza fare elenchi che tutti conoscono sono poetiche il realismo di Zola e l’opposto significato della letteratura come appare nell'ultimo libro della Recherche proustiana, è una poetica la “secessione” di Klimt e Schiele in Austria, il futurismo con i suoi deliri anti-romantici e anti-classici e i miti della velocità, dell'improvvisazione dell'impaginazione e, infine, della guerra. Qui questa lezione di concretezza ci sarà utile per trovare il rapporto tra poesia e filosofia dal “basso”, cioè da quello che accade, piuttosto che da un vertice che, come ogni altezza, trasforma un mondo in un colpo d'occhio panoramico che eleva l'anima ma nasconde i sentieri da cui passa la vita.



Nella nostra epoca coesistono una poesia alta e una poesia bassa. Quest'ultima è molto diffusa nella sua traduzione musicale e costituisce quasi un sottofondo quotidiano dell'esperienza sociale, ma soprattutto è l'occasione di grandiosi concerti cui partecipa principalmente una grande quantità di giovani. Si tratta di una poesia che narra, esplora, rende palesi sentimenti ed emozioni che percorrono la vita dei giovani e quelle manifestazioni sono l'occasione per l'esplosione collettiva di questi sentimenti che pure percorrono la loro vita senza poter prendere figura linguistica o progetto d'azione. Questa poesia è un riconoscimento di sé e di un proprio mondo possibile con una circostanza negativa. Essa non costituisce temporalmente una continuità educativa, un permanente riconoscimento di sé, essa svanisce nella sua eco e diviene una forma di acculturamento d'occasione e sempre d'occasione di reciproco riferimento. Parole e musica sono strettamente uniti e le parole, senza poter essere ripetute secondo un ritmo musicale, rischierebbero di essere letture deboli e fragili, incapaci di incendiare seppure per breve tempo l'animo dei partecipanti. È la forma contemporanea della poesia popolare che, se facciamo un passo indietro - mi riferisco sempre alla situazione italiana -, è quella delle romanze e dei libretti d'opera. Le romanze costituiscono la possibile poetizzazione dell’esistenza in una pluralità di dimensioni oggettive, i libretti d’opera (la cui storia è più complicata di quanto non si creda comunemente) contengono commenti, massime di saggezza, espressioni d'opportunità che costituiscono un tesoro lessicale di un grande pubblico. Il quale d'altra parte non leggeva le poesie di Corazzini​, di Gozzano, di Fogazzaro e d'altri poeti dell'epoca.


Una filosofia che non frequenta quel tessuto lessicale che per convenzione viene considerato la forma preminente di pensiero, un gioco linguistico d'aristocratica selettività laddove tutti gli animali diventano fosforescenti, non ha che una possibilità, che è quella molto comune rispetto a una infinità di fenomeni: il cercare di comprendere, considerare la poesia come un oggetto intellettuale il cui senso può essere compreso a fondo solo attraverso un'opera di decriptazione. E qui noi ci troviamo di fronte a due temi: da una parte una poesia, le poesie; dall'altra parte gli strumenti, non pochi, per la sua comprensione, che poi coincide con la sua valorizzazione. Consideriamo la poesia una figurazione verbale. Per accedervi abbiamo strumenti che provengono dalle congiunture biografiche, dalle relazioni che esse hanno con il repertorio culturale, il quale ovviamente ha una pluralità di direzioni, dalle nozioni tecniche che sono implicite in questo genere di manufatto e che appartengono a una o a più istituzioni poetiche: l'interpretazione nella finalità dei versi, l'immaginaria destinazione dell'autore, la risorsa di un inconscio che trova la sua via espressiva. Non per ogni oggetto poetico sarà necessario usare assieme tutti questi strumenti, di volta in volta potrà aver luogo una opportuna selezione operativa. Si dovrà dare luogo a una selezione positiva tra i due estremi del testo e dell'opera che sono stati in collisione per anni, quando la critica strutturalista mise in crisi quello che essa chiamava critica impressionistica. La loro coesistenza dà luogo ad una forma di ermeneutica che si è attrezzata per questo fine. In questa filosofica dimensione del comprendere agisce naturalmente un elemento fondamentale, la pratica della lettura della poesia, la frequentazione delle sequenze poetiche, una abitudine all'intellegibilità. Che altro è lo stile filosofico se non la finalità intellegibile?
È inevitabile non dimenticare la figura dell'autore, un poeta è uno che sa fare poesia. Ma il saper fare è a sua volta un apprendimento, la realizzazione di una esperienza. Ed è questa parola che richiede una particolare attenzione. Qual è l'esperienza di un poeta? Anzi, si dovrebbe dire che ogni poeta ha una esperienza che diviene costruzione di poesia. Era molto facile un tempo mettere in relazione diretta esperienza e costruzione con la parola sintetica “espressione”. D'altra parte noi che consideriamo la poesia come un'opera dobbiamo in qualche modo tenere conto di una soggettività, quella che ha un nome, una visibilità se vivente, una storia se è di un tempo passato. Molto semplicemente, l'autore non è una funzione dell'apparato testuale come si può dire di un testo scientifico compiuto; altrimenti, anche in questo caso, ogni analisi della scoperta richiede un'operatività soggettiva nel campo dello scoprire, e non è nemmeno una soggettività sintetizzata e quindi trovata nella forma della sua espressione. Partiamo dall'opera per trovare l'autore. L'opera è costituita dall'intreccio di un insieme di elementi che provengono da un rapporto linguistico che mostra già una sua problematicità messa in atto dalla finalità poetica, dalla collocazione sociale in cui accade la poesia come relazione tra il fare e il fruire, dalla tradizione che agisce sempre con varie reattività nel fare poetico, con lo scopo che l'autore immagina di realizzare. È sempre un equilibrio tra questi elementi che costruisce un'opera poetica e l'autore compone in una scelta possibile tra i possibili equilibri tra questi fattori, anche se in molte opere l'autore appare tramite il privilegiarsi di uno o dell'altro di questi elementi. Tuttavia non esiste alcun sapere astratto di un “filosofo” che possa selezionare l'equilibrio concludendo con un giudizio: la poesia non può che nascere dal sapere selettivo di una poeticità.


Sarebbe nondimeno superficiale rimanere in questa prospettiva, e qui occorre presentare una veloce analisi di un tema fondamentale. La filosofia sono i filosofi, e i filosofi sono i ‘corpi’ dei filosofi, dove non bisogna limitarsi a pensare alla opposizione tra Körper e Leib, fondamentale ma tuttavia con il rischio della genericità. Il Leib va inteso come un processo unico di “formazione” che può avvenire attraverso percorsi molto differenti che non si trasformeranno mai nella linea retta di una soluzione filosofica. Quest'ultima è un risultato rilevante che per essere esercitato deve passare attraverso forme radicali di criticità che ne impediscono cadute dogmatiche, illusioni sentimentali, toni orfici, attrezzi di preventivo giudizio intellettuale. La filosofia è un punto di sviluppo delle potenzialità affermative della educazione di un corpo, ma non è la sua radicale trasformazione. Il corpo del filosofo rimane dotato di una sensibilità, di una disponibilità emotiva, di una coincidenza sentimentale, di una curiosità educativa del suo stesso sentire. È una banalità idealista quella di pensare che la lettura della poesia rievochi nel lettore il quadro intuitivo dell'autore. Una lettura ha sempre una sua trasversalità che non è necessariamente un fraintendimento, come Valéry riteneva potesse essere sorto in questa circostanza.


La lettura e la scelta della lettura, le ragioni delle preferenze (per esempio quali sono e perché sono tali le poesie che Calvino riteneva dovessero essere memorizzate come aiuto alla vita quotidiana), una trovata consonanza: tutte queste esperienze hanno un senso filosofico nella relazione con la poesia, ma non appartengono alla pratica del comprendere, piuttosto, e interamente, a una opzione di “gusto”. Questa è una parola difficile che viene direttamente dalla estetica del ‘700, da Hume come da Kant (per prendere i massimi). Noi diamo a questa parola il significato che nella nostra strategia filosofica assume più facilmente: è uno dei casi in cui la storia della filosofia è un immenso tesoro disponibile per una riattivazione teoretica. Il gusto è dunque quella attitudine che ci fa scegliere poesie o generi poetici che sono con-senzienti con un “noi stessi” che probabilmente non è mai interamente rivelato, e che la poesia può forse, nella pluralità degli elementi della suo eco, portare verso una superficie. Sia il tema del comprendere che quello relativo al gusto potrebbero dare luogo ad approfondimenti, ma essi segnano - per quanto mi riguarda - il perimetro entro il quale ha senso porre il problema del rapporto tra filosofia e poesia.

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LIBRI
VERDI RITROVATO
di Gabriele Scaramuzza



In una recente conversazione (dal titolo “Insegno Verdi per recuperarne l’essenza”), raccolta da Carla Moreni sul Domenicale di “Il Sole – 24 Ore” del 31 luglio 2016, Riccardo Muti nota che pochi autori sono bistrattati nelle esecuzioni come Verdi, e perciò proposti a una fruizione malevola e distratta come lui, malgrado non manchino ricerche accurate sul suo teatro, in grado si scrostarne ogni banalità e volgarità che non di rado gli si imputano. Resta vero, come già ha sostenuto Bruno Barilli, che “Verdi è stato il musicista più incompreso del mondo”.   
L’ultimo, e il più corposo lavoro in questo senso è quello di Paolo Gallarati, indispensabile per penetrare comprensivamente nel mondo verdiano, e proprio nelle opere di quella “trilogia popolare” che più si presta a fraintendimenti e banalizzazioni.
Nella sua Premessa appropriatamente scrive Gallarati: “Di un riscatto culturale e morale il nostro paese ha quanto mai bisogno: riflettere sull’attualità, il rigore, la logica costruttiva, la potenza emotiva, i valori artistici e etici che caratterizzano le opere di Verdi e rappresentano la nostra identità, ci può rifornire di energia intellettuale e morale, preservandoci da esercizi inconcludenti di sterili chiacchiere”.   
Chiunque ami Verdi, o comunque desideri penetrarne la sostanza (desiderio di cui non molti purtroppo sono dotati), non può che essere grato toto corde all’impegno di questo insigne musicologo, che raccoglie e porta avanti su larga scala non solo i concreti risultati conseguiti da Massimo Mila, ma soprattutto ne eredita il modo di essere, simpatetico finalmente, e teso a valorizzarlo, nei confronti di Verdi.
Una giustificazione del titolo la troviamo nelle ultime righe della Conclusione, riferentesi all’oggi: “Il teatro di Verdi è trattato dagli editori con coscienza filologica, e dagli interpreti con un’attenzione e con risultati forse mai così vicini a quello che egli avrebbe desiderato. Dunque l’artista che, nel corso degli anni, fu, per alcuni versi perduto, si può dire che sia stato, oggi, felicemente ritrovato” (p. 527).   
Non sarà certo possibile inseguire in tutte le sue articolazioni il complesso e intenso lavoro di Gallarati. Mi limiterò a metterne in luce qualche punto nella mia ottica particolarmente significativo. Raccomando in primo luogo la lettura della premessa, della prima parte e delle conclusioni, che contengono riflessioni che vanno oltre la cosiddetta “trilogia popolare” e valgono per tutto Verdi.
Dando per scontato il profondo apprezzamento per le pagine su Rigoletto e su La Traviata (cui tuttora vanno le mie più intime simpatie), mi soffermo per qualche tratto a me particolarmente consono della parte dedicata a quel “racconto di racconti” (così giustamente Gallarati lo connota a pag. 307) che è Il Trovatore.
Il testo è “prettamente melodrammatico”(308), come per Mozart è un “campo di forze metriche, ritmiche, prosodiche, fonetiche, retoriche, semantiche da utilizzare sfruttandone alcune e ignorandone altre, stabilendo gerarchie, contrasti e collegamenti ora prevedibili, ora del tutto inaspettati” (p. 535).
Da sottolineare sono le tonalità metafisiche, valorizzate da De Chirico, presenti in quest’opera (e non solo in questa, aggiungo): evidenti nelle “tonalità assorte” di scene quali quella del Miserere, “l’asciutta volumetria delle architetture sonore, come piazzate in uno spazio senza tempo”, “situazioni sospese oltre l’apparenza, in una dimensione meta-fisica, volta a cogliere la struttura profonda dell’esistenza” (396). “Concezione del tempo metastorico in cui il passato diventa attuale e il futuro è contenuto nel presente” (419) - che torna in la Vera storia di Berio-Calvino, notoriamente ispirata al Trovatore.
Accenno solo all’attenzione di Gallarati alle scelte tonali, all’originalità e alla varietà delle forme musicali non meno che letterarie, dei personaggi e delle situazioni. Ai temi della notte che domina in cinque quadri su otto, del fuoco, della morte e non ultimo del silenzio, che ancora il Miserere “riassume e porta a evidenza emblematica”. 
Estremamente significativo resta per me il problema della melodia: è uno dei mezzi fondamentali di cui la musica dispone, e che Verdi (al contrario di Wagner) valorizza al massimo, conoscendone bene la portata significativa. Non può esse relegata tra i prodotti di scarto della musica, secondari, scadenti (reazionari magari, sottovalutati). Gallarati ne rileva il “carattere propulsivo”; più in generale per Verdi la stessa “adozione delle forme chiuse non rappresenta una scelta convenzionale, ma una necessità imposta da un contenuto drammatico” (295) peculiare.
Leggendo mi sono soffermato con particolare attenzione (ed emozione, devo ammetterlo) sulle pagine che concernono il primo quadro dell’ultimo atto, per me uno dei più struggenti dell’opera. Parte da D’amor sull’ali rosee, attraversa il Miserere nel suo svolgersi drammatico, ben più che un mero tempo di mezzo, si conclude con la splendida cabaletta (ai miei occhi la migliore di Verdi, a torto a volte tralasciata) Tu vedrai che amore in terra.
Il mio scopo è stato invitare alla lettura: il libro di Paolo Gallarati è essenziale non solo e non tanto per chi ama Verdi, ma in particolare per chi vorrebbe conoscerlo. Non sono pochi coloro che preferiscono la pigra via dei pregiudizi e dei luoghi comuni anziché la via più difficile e onesta della penetrazione conoscitiva di Verdi.
Va sé poi che l’intero libro è a sua volta un invito all’ascolto e alla visione delle opere verdiane: da qui si deve partire e qui si deve ritornare, e sempre si devono aver presenti in una lettura che sappia capire.

Paolo Gallarati
Verdi ritrovato. Rigoletto, Il Trovatore, La traviata
Milano, il Saggiatore, 2016, pagg. 587 € 32,00

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LIBRI
DI CHE GIARDINO SE
di Gabriele Scaramuzza


Viene perfettamente incontro ai miei vissuti il recente libro illustrato di Duccio Demetrio. Già il titolo, Di che giardino sei? - a quale giardino appartieni o, forse meglio, quale giardino appartiene al tuo vissuto - esprime la rilevanza di un simbolo che è imprescindibile anche nella conoscenza e nella costruzione di me stesso.
Non tenterò alcun resoconto compiuto del testo di Demetrio, ma solo notazioni a latere, che prendono l’avvio dalla mia esperienza del giardino, e proprio dalla lettura di esso sono stati stimolati. La mia vita, come la vita di ognuno, è popolata di giardini, frequentati o desiderati, presenti nel ricordo o nell’immaginazione, o anche solo nei libri che abbiamo letto. Ai poli opposti vorrei ricordare l’inquietante giardino della Nausea di Sarte, o i giardini della Recherche di Proust - autori entrambi ben presenti a Demetrio. E ricorderei anche per parte mia il verde dei luoghi frequentati da Kafka, non solo a Praga; e i giardini presenti nell’Infanzia berlinese di Benjamin, che mi ricorda Rosalba Maletta: luoghi della sua éducation sentimentale con Luise von Landau. La stesura di Berliner Kindheit curata da Adorno inizia proprio da Zoologischer Garten        
Non tutti hanno avuto un giardino proprio. Ma sono accessibili a tutti giardini pubblici - esistono a Milano con questo nome i giardini verso Porta Venezia, dove un tempo c’era lo zoo; ma pubblico è il Parco, dal Castello a Corso Sempione; pubblico è il prezioso Parco della Guastalla; per non dire dei non pochi giardinetti, giardini o parchi creati in seguito a Milano e nei dintorni. Ho raccontato di un “mio” giardino personale nelle memorie raccolte in In fondo al giardino. Non ho ancora parlato invece dello spazio che parchi e giardini pubblici si sono presi nella mia esistenza milanese; dovrò farlo, di queste esistenza rappresentano simboli ancora da indagare: luoghi di incontri casuali, scampoli memorabili di natura (alberi, ma anche acque, rocce come brecce e puddinghe, i pesci rossi e le tartarughe alla Guastalla); punti densi nella memoria come il Ponte delle Sirenette al Parco; ma anche luoghi di appuntamento, di giochi, di acque correnti, di animali, di feste. Il chiuso di un giardino fruibile nella privatezza della proprio intimità è difficilmente disponibile alla maggioranza. Proprio questo esercita un enorme, diverso fascino, ed è denso di risonanze per chi ha avuto la fortuna di viverlo.
Non ho mai avuto giardini di proprietà della mia famiglia. Ma giardini privati che ho frequentato con intensa partecipazione, tuttora densi di suggestioni per me, vivi per il mio sempre nella memoria, ci sono stati. Il mitico “giardino della nonna” della mia infanzia, da sfollato nel paese di origine dei miei, era di origini nobili, ma venne poi coltivato a mezzadria dalla famiglia di mio padre, e come tale fu a disposizione mia e di pochi altri nei primi anni. Era recintato per due lati da un muro, per un lato lo limitava il naviglio della Martesana, per il resto confinava con le case un tempo nobili e poi affittate a sfollati e paesani; ora è uno spazio pubblico.
La intensa significatività dei giardini è messa in luce, oltre che nei testi di Duccio Demetrio, negli scritti di Pia Pera (traduttrice dal russo e dall’inglese, da poco morta del terribile sla) fino alle sue opere più belle: La bellezza dell’asino, Virtù dell’orto, L’orto di un perdigiorno, Giardino segreto, fino all’ultimo, Al giardino ancora non l’ho detto. Alla sua scomparsa è stata ricordata da interventi calzanti ed empatici di Nicola Gardini, Margherita Loy, Cesare De Michelis, nel domenicale di “Il Sole – 24 Ore” del 31 luglio 2016. È anche lei che dovremo ringraziare per l’aiuto che ci ha offerto nell’approfondimento di un luogo mitico (giustamente Demetrio ricorre al termine mito nel suo libro), in cui si condensano tra i simboli più pregnanti del nostro vivere.
Negli scritti autobiografici si scrive in prima persona, certo, ma non è solo di sé che si parla. Scrivere è sempre un confronto con altri e altro, tra cui fondamentale la natura. Una biografia che presuma di esaurire la verità di una vita, che creda di essere esclusivamente scrittura di un io astratto, tutto concentrato sulla propria privata interiorità, che parli solo di sé senza lasciare che nulla di “esterno” vi si intrometta, è impossibile. Il giardino rientra tra gli interlocutori chiave di quel dialogo che è ogni nostra biografia, ci lascia figure, emozioni, ossessioni, memorie magari sparse e lacunose, ma non per questo meno vere, indispensabili a orientarci nella vita.   
Il libro di Demetrio dice qualcosa di rilevante già nel titolo e nel sottotitolo. Il primo si costruisce come domanda, di per sé chiede di un’appartenenza, e di che genere sia. Ci interroga sulla nostra identità, rappresa in un simbolo che resta fondamentale per chiunque abbia potuto viverlo. Simbolo che indubbiamente è, come si dice nel sottotitolo, una delle forme in cui si esprime la conoscenza di sé.     
Ogni giardino si caratterizza in quanto delimitato, ha un argine – un muro, un fiume,  anche solo una siepe, che lo separa dal resto. Ed è per lo più vissuto come un luogo protetto, ha delle difese, permette di ritrovare una propria intimità, favorisce il raccoglimento. Ma anche suggerisce il viversi come separati – orgogliosamente magari, “aristocraticamente”. 
Di che giardino sei? ha un formato non usuale, è impaginato con gusto, ha figure suggestive, immagini pertinenti. Nel tono generale è sempre assai accattivante e condivisibile – oltre che benissimo scritto, come sempre Demetrio sa fare. Si articola in tre parti fondamentali, fenomenologicamente assai ricche: del mondo dei giardini individuazione le varie componenti, gli sfondi simbolici, i legami con la memoria, l’ampia tipologia. Non è luogo qui di inseguirne le complesse articolazioni, si deve solo esser grati a Duccio Demetrio per il dono che ci ha fatto di uno strumento essenziale alla presa di coscienza di sé, del proprio vivere, e delle sue finalità. 
  

Duccio Demetrio
Di che giardino sei?
Conoscersi attraverso un simbolo,
Milano-Udine, Mimesis, 2016, pp. 178, € 18,00 

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LIBRI
L’APOSTOLO TRADITORE
di Giuseppe Langella

Francesco Piscitello

All’interno del rigoglioso filone degli “apocrifi moderni”, ovvero delle riscritture letterarie dei Vangeli fiorite nel corso del Novecento, a Giuda è stata riservata un’attenzione speciale. Nessun’altra figura, tra quelle che entrano nell’orbita della vita terrena di Gesù, ha fatto discutere tanto quanto quella dell’apostolo traditore. Diversi autori, anzi, hanno ricostruito la tragica vicenda della Passione proprio intorno all’enigma di questo discepolo che consegna il Messia nelle mani del Sinedrio: si pensi soltanto all’Opera del tradimento (1975) di Mario Brelich, alla Gloria (1978) di Giuseppe Berto, a Trenta denari (1986) di Ferruccio Ulivi, al Vangelo di Giuda (1989) di Roberto Pazzi, alla Notte del lupo (1998) di Sebastiano Vassalli. Sarà da notare, semmai, che solo Vassalli ha ribadito l’antica condanna nei confronti di Giuda, vedendo in esso un diavolo assassino, il medesimo ultimamente reincarnatosi in Ali Agca, l’attentatore di papa Giovanni Paolo II. Tutti gli altri scrittori, al contrario, nel solco del copione teatrale che chiudeva Il quinto evangelio (1975) di Mario Pomilio, hanno proposto, con argomenti tutt’altro che deboli o pretestuosi, una sostanziale revisione della sentenza, perorando l’assoluzione di Giuda, in qualche caso, addirittura, riconoscendo a quest’uomo, che si è accollato la parte più infame e un destino di maledizione perché si compisse la redenzione dei figli del peccato, una statura eroica.
Alla riabilitazione di Giuda contribuisce ora, con motivazioni originali e probanti, l’opera teatrale di Francesco Piscitello L’apostolo traditore, uscita di recente nelle Edizioni Nuove Scritture. La struttura è quella classica di un dibattimento processuale, con Accusa, Difesa e Testimoni chiamati a deporre davanti alla Corte, e arringhe finali a sostegno, rispettivamente, della colpevolezza o dell’innocenza dell’imputato; alla maniera, per intenderci, degli episodi della serie televisiva che prendeva il titolo dall’avvocato Perry Mason. Una particolarità registica di queste udienze ci suggerisce che a Piscitello non interessa allestire una semplice rievocazione del tradimento di Giuda, né soltanto far luce su un caso giudiziario controverso: il calcolato anacronismo di portare in scena dei personaggi storici, come i quattro evangelisti, Pilato, Caifa o Maria di Magdala, a fronte di giudici, avvocati e giuria popolare del nostro tempo, dipende da un’intenzione attualizzante, dal proposito di interrogare l’uomo contemporaneo attraverso lo schermo, lo specchio deformante, di Giuda. In questo, Piscitello si allinea a una modalità drammaturgica adottata, prima ancora che da Pomilio, da Diego Fabbri nel celebre Processo a Gesù (1956). Non per nulla, nella pièce di Piscitello il sipario cala appena la Difesa ha terminato la sua arringa, prima cioè che la sentenza venga pronunciata, affinché la responsabilità di decretare l’assoluzione o la condanna di Giuda resti totalmente affidata agli spettatori, coinvolti nel processo in qualità di giurati e chiamati, quindi, a esprimere il verdetto.
Finale aperto, dunque, perché a pronunciare l’ultima parola sia ciascuno di noi, anche se la Difesa smonta abbastanza facilmente il teorema accusatorio, desunto da una frase di Giovanni, di un Giuda che avrebbe venduto per denaro il suo Maestro al Sinedrio, in quanto avido di ricchezze e ladro. Piscitello fornisce invece una spiegazione del tradimento che merita di essere riferita, perché si discosta notevolmente dalla linea difensiva tenuta in genere dagli apologeti novecenteschi dell’Iscariota. Egli non si appella, infatti, alle circostanze obbliganti che avrebbero privato Giuda del libero arbitrio, ovvero il “prestabilito disegno” di Dio (At 2, 23) e la possessione diabolica di cui aveva parlato Luca (22, 3). Al contrario ipotizza un movente che salva, insieme, l’innocenza di Giuda e l’impregiudicata volontarietà dei suoi atti. Ricorda, a questo riguardo, le attese messianiche del popolo ebraico, condivise anche dai discepoli di Gesù: Giuda, convinto che il suo rabbi fosse il Messia, decide di accelerare i tempi, inducendolo a uscire allo scoperto. Seguiamo il ragionamento di Giuda secondo la ricostruzione fornita dalla Difesa: «Quale occasione migliore di questa? È il tempo della Pasqua, quando si celebra la liberazione dalla schiavitù d’Egitto: il momento giusto per effettuare la nuova liberazione - dai romani, questa volta - in una significativa coincidenza. Sono a Gerusalemme Erode, il tetrarca, e il Prefetto di Roma: il Regno si paleserebbe anche sotto i loro occhi! Gerusalemme è piena di folla che gli è già corsa incontro festante. […] Se il Maestro non ci pensa, ci penserò io a spianargli il cammino: di fronte a un Sinedrio che lo accusa, che forse lo vuol morto, Gesù non potrà che portare subito a compimento la sua opera, rivelando coi fatti di essere, proprio lui, il Messia atteso». Dio si vale di questa «intenzione buona, addirittura pia», per attuare un disegno completamente diverso, quello della redenzione attraverso il sacrificio della croce. Quando Giuda si accorge di aver commesso un «enorme, spaventoso, tragico errore», si dispera e, sopraffatto dal rimorso e dallo sgomento, corre al Sinedrio per restituire la somma pattuita, getta via le monete e va ad impiccarsi. Egli, dunque, avrà pur peccato di ingenuità, avrà pur frainteso le parole del suo Salvatore, ma è innocente. Perché, allora, a sorpresa, l’avvocato difensore, chiudendo la sua arringa, chiede clamorosamente ai giudici di non assolverlo? Lascio questa domanda in sospeso, per non svelare al lettore l’ultimo colpo di scena, in cui l’autore lancia una forte provocazione morale.
C’è da dire, piuttosto, che l’argomentazione serrata e dimostrativa, condotta a fil di logica a partire dalle scarne fonti neotestamentarie, non è l’unico pregio di questo lavoro teatrale. Piscitello ha saputo far parlare i testi, trasformandoli in deposizioni assolutamente verosimili, in interrogatori incalzanti e in vivaci confronti, che portano allo scoperto aporie, dubbi e contraddizioni. Si avverte, poi, ma perfettamente metabolizzata, una solida documentazione storica e una non comune maestria nella caratterizzazione psicologica e culturale dei personaggi, segnatamente di Caifa e Pilato, che sembrano rivivere già sulla pagina, col vigore stringente della loro mentalità e delle loro ragioni; figuriamoci quale evidenza d’intonazione e postura acquisterebbero su un palcoscenico, dove ci auguriamo di poterli presto applaudire.


La copertina del volume


Francesco Piscitello
L’apostolo traditore. Processo a Giuda Iscariota
Edizioni Nuove Scritture, 2015
     Pagg. 64  € 12,00

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I PRIMI POSTI
Un racconto di Mario Rondi


Amilcare nel sogno aveva l’impressione di essere in ritardo e quindi si affrettava per non venir superato dagli altri che già s’accalcavano: non voleva assolutamente perdere l’occasione del concerto gratuito della famosa orchestra da camera, nel centenario della morte del grande musicista. Voleva prenotare un posto in prima fila, proprio davanti agli orchestranti, in modo da ammirarne i movimenti, verificandoli in armonia con l’onda delle note: la gente cominciava già a spingere perché le porte della biglietteria erano appena state aperte.
Gli premeva essere lì davanti per ammirare l’espressione del flautista che, a un cenno del direttore, avrebbe attaccato il celebre motivo che sempre gli riempiva il cuore, poi ci sarebbe stato anche il tocco del violinista, quando il piano si sarebbe scatenato in una sarabanda di effetti sonori.
Non voleva correre il pericolo di trovarsi delle teste davanti, magari quella cotonata di un robusta signora che gli toglieva tutta la visuale: voleva finire dentro la musica, come un’appendice compartecipe, per cogliere i momenti struggenti e di abbandono, ma anche eventuali piccoli difetti che al suo occhio attento non sarebbero sfuggiti.
Ci aveva sempre tenuto a stare davanti, ai primi posti, per controllare la situazione ed essere in qualche modo protagonista degli spettacoli, per stare immerso in quello che succedeva: così anche a teatro voleva avere un posto in platea, a ridosso degli attori, in modo che non gli sfuggisse una parola, un piccolo sibilo, una casuale esclamazione del protagonista che rendesse il momento unico nella storia.
Non ammetteva che ci fosse qualcuno davanti a lui a vedere quello che succedeva, era come se lo volessero mettere in secondo ordine, una pedina anonima dell’evento: lui doveva sempre stare al centro della scena, il protagonista indiscusso, come era sempre stato nella sua vita molto chiacchierata.
Niente poteva sfuggirgli: un’occhiata di sbieco, non perfettamente efficace, della protagonista della sceneggiata, un rimbrotto non completamente a tono di un personaggio collaterale, una strillata eccessiva di un usciere che stava abbandonando la scena, il canto troppo farsesco di una comparsa che era stata inserita all’ultimo momento.
Amilcare era subito pronto a cogliere i primi difetti della rappresentazione, perché niente sfuggiva al suo occhio attento a ogni particolare: l’essere dentro la scena con anima e corpo lo autorizzava alle più feroci stroncature perché la sua posizione centrale glielo permetteva, non sarebbe stato così se si fosse trovato davanti una fila di teste con riccioli ribelli e un copricapo che impediva la visione.
Adesso aveva il suo biglietto in tasca con scritto un numero centrale, proprio in faccia agli orchestranti: da lì avrebbe controllato la situazione, pronto a far cenni di diniego se coglieva qualcosa che non andava, ma anche a godersi in santa pace l’armonia di quella musica paradisiaca che sarebbe sgorgata dagli strumenti, perfettamente allineati nella sala del concerto. Ad un certo punto gli era però sembrato di avvertire un leggero mal di testa, come un repentino scombussolamento del suo cuore, ma era durato un secondo e adesso era pronto per disporre la mente all’ascolto di quei suoni paradisiaci che avrebbero sospinto il suo pensiero lontano: la gente già cominciava a entrare alla spicciolata e Amicare notò che quel giorno c’erano tanti suoi conoscenti che gli si affrettavano stranamente incontro per salutare.
Forse sapevano che lui, come al solito, si era aggiudicato uno dei primi posti, per questo erano così ossequienti, come ricordando dell’importanza che aveva per lui quel concerto in ricordo del grande maestro, di cui era stato uno dei primi estimatori. Rispondeva con calore al loro saluto, contento che pensassero a lui, sempre presente alle occasioni mondane con il suo frac impeccabile, appena uscito dalla stireria: ora stringeva una mano, orgoglioso della sua presenza tra tanti stimati professori e dottori, quando gli sembrò di cogliere un velo di tristezza nello sguardo della signorina Concetti.
Adesso si rendeva conto che molti sembravano piegarsi di fronte a lui, con un senso di prostrazione che gli pareva eccessivo: in fondo era un appassionato di musica, ma non credeva di essere degno di tanta attenzione tutta d’un colpo, anche se aveva un bel posto davanti al direttore d’orchestra. Poco alla volta si rese conto che quel saluto aveva il tono del compianto, forse anche della commiserazione, della distaccata compartecipazione a qualcosa di misterioso: tutti gli si facevano vicino, come a incoraggiarlo, a ribadire la loro stima, con la segreta speranza che avrebbe detto anche per loro una parola buona a chi di dovere al momento opportuno…
Allora, quando gli orchestranti attaccarono una struggente marcia funebre, Amilcare si rese conto che aveva conquistato i primi posti al cimitero e che dalla sua fotografia sorrideva affabile come sempre.

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La città della Pace di Teodosio Campanelli
A cura di Laura Margherita Volante

Teodosio Campanelli

L.M.V. Da anni di guerre e crimini contro l'umanità è venuto il tempo di riconoscere che la pace è un diritto  umano fondamentale della persona e dei popoli. La realizzazione della Città della Pace in che modo è percorribile  per far sì che questo diritto diventi realtà?
T.C. È chiaro che parlare di Pace sa di utopico, ma come sono convinto che ogni uomo ha il dovere di perseguire questo nobile concetto, quanto meno di provarci! Ed è partendo da questa affermazione che nasce il progetto della Città della Pace, parco tematico di sculture sull'idea della Pace. Facilmente realizzabile nella sua struttura fisica esso rappresenta un nuovo passo verso la costruzione della Pace e poiché si tratta di progetto di respiro internazionale esso come una macchia d'olio si allargherà sempre più attraverso le coscienze delle persone di tutto il mondo.
L.M.V. " Bernard Lown, copresidente della Lega Internazionale dei medici per la prevenzione della guerra nucleare (premio Nobel per la pace 1985) affermò:
“Per giustificare e accettare la guerra e per convincerci, abbiamo creato una psicologia che la dichiara inevitabile; ma è una razionalizzazione per accettare la guerra come un sistema adatto a risolvere i conflitti umani ….Trattare come inevitabile un qualunque comportamento mette in moto una profezia autorealizzante….Noi viviamo in un'epoca, in cui accettare tutto ciò come inevitabile, non è più possibile senza andare incontro alla prospettiva molto concreta dell'estinzione della specie umana” . Queste parole risuonarono come avvertimento e dopo trent’anni come accusa visto lo scenario planetario. Possiamo ancora non perdere la speranza di sognare un mondo migliore?
T.C. La speranza si sa è la zattera di salvezza di ogni uomo. A tal proposito ricordo un cartello che vidi in un ostello in India, il quale recitava: "se perdi soldi, non hai perso nulla, se perdi tempo, stai perdendo qualcosa, se perdi la speranza hai perso tutto."

I have a dream

L.M.V. “Senza pace non c’è progresso umano” (A.Einstein). Il progresso umano ha subito un arresto epocale in un momento storico di sofisticate e avanzate tecnologie, applicate nella Scienza e nella Medicina, ma a vantaggio dei ricchi…Quale globalizzazione, dunque? Cosa pensi in proposito?
T.C. La frase di Einstein, seppur detta da un uomo di scienza, va comunque letta sotto una luce di romanticismo pragmatico, nel senso che se l'uomo è in Pace il progresso umano cresce in ampiezza ed esso va inteso come miglioramento dell'uomo stesso.
L.M.V. “Ugualianza Giustizia Pace”, l’assioma. L’Arte può con la sua potenza creativa ancora avere voce oppure non ha più interlocutori, visto il degrado in cui il paese Italia è precipitato per un sistema corrotto e immorale?
T.C. La famosa frase La bellezza salverà il mondo di Dostoevskij dovrebbe essere la base di partenza di artisti con elevata sensibilità che vogliono migliorare il mondo.

Interior Beautiful

L.M.V. La tua idea di realizzare un progetto per la Pace, che ha come fine il coinvolgimento artistico e culturale di tutti i popoli e di tutte le culture, rappresenta senza dubbio un esempio concreto verso la costruzione della Pace fra tutte le genti della Terra. Vuoi spiegare come intendi procedere e quali sono i capisaldi di tale progetto?
T.C. La realizzazione di questo complesso monumentale che verrà inserito all’interno di un parco o in altra zona verde, prevede una struttura a forma di “spirale” quale simbolo cosmico della vita: galassie, dna, etc. La struttura sarà costruita con pietre e monoliti, esattamente 192, ognuna delle quali rappresenta una nazione del mondo. Le pietre (nazioni) si troveranno tutte insieme raccolte in un augurante abbraccio di Pace e Fratellanza, su un fazzoletto di terreno che simboleggia l’intera Terra. Dopo la realizzazione del complesso monumentale, si bandirà un concorso internazionale di scultura e con cadenza annuale, saranno ospitate n quel sito dieci artiste, ognuna proveniente da una nazione diversa. Ogni artista lavorerà una pietra scelta fra le 192 presenti e realizzerà un’opera secondo il proprio stile e cultura con tema unico: “La Pace”. Il concorso andrà avanti per anni fino a, quando l'ultima pietra del complesso sarà stata scolpita. Il suo completamento darà vita al più imponente museo all’aperto dedicato alla Pace con opere realizzate in loco da artiste provenienti da ogni parte del mondo.

Over 1


L.M.V. Il passaggio dalla cultura etnocentrica a quella universalista prevede, secondo te, anche un percorso di educazione e di conoscenza, che ha come tema la Pace, partendo già dalle scuole materne, dove c’è una forte presenza di bambini stranieri?
T.C. La scuola e l'educazione sono i pilastri fondamentali per la crescita di ogni uomo. La globalizzazione e le migrazioni degli ultimi anni possono favorire specie tra i più piccoli l'idea di fratellanza al di là delle culture e dei colori della pelle.
L.M.V. La città della Pace è rappresentata da una spirale con 192 monoliti - tutti i popoli della Terra - e il linguaggio espressivo artistico scelto è la scultura. Perché? E perché rivolto alle artiste? Cosa ti ha spinto a tale scelta?
T.C. Ho pensato alla scultura come espressività plastica ma soprattutto per il fatto che deve trovarsi all'esterno oltre alla durata quasi eterna della pietra. Mentre secondo me la scelta femminile rappresenta la vera svolta del progetto, in quanto penso che le donne abbiano uno slancio diverso alla vita oltre che un senso spiccato per la Pace e la Fratellanza.
L.M.V. Quali personalità della Cultura nazionale e internazionale vorresti coinvolgere? Ritieni sia necessario un coordinamento? A che livello o a più livelli, sia in orizzontale sia in verticale?
T.C. Sicuramente gli enti più rappresentativi da coinvolgere sono le  Nazioni Unite, l’Unesco e tutte le organizzazioni internazionali  che si occupano della Pace e del suo sviluppo a tutti i livelli. Ora risulta chiaro che la partenza del progetto inizia da un piccolo passo e da un gruppo di persone che credono in esso  seguendo un programma portano  l'idea al suo compimento. Buona Pace a tutti.


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LO SGUARDO INDAGATORE DI VINCENZO MARZOCCHINI
di Laura Margherita Volante

Vincenzo Marzocchini

L.M.V. “Fotografi nelle Marche dal dopoguerra a oggi”. Cosa ha motivato la scelta del luogo e del periodo storico per la tua preziosa indagine storica e critica?

V.M. Nel panorama editoriale della nostra regione relativo alla fotografia mancava un resoconto del genere. E’ il primo lavoro storico che cerca di mettere ordine nei percorsi susseguitesi nel tempo, dal secondo dopoguerra a oggi, dei tanti protagonisti della fotografia con poetiche sia affini che lontanissime tra loro. Con il volume Ritratti al plurale edito lo scorso anno, si è cercato di ricostruire la storia della Fotografia marchigiana fin dai suoi primordi, soprattutto nel capoluogo anconetano. Qui si ripercorrono i fatti salienti del rinnovamento e gli sviluppi successivi dal 1950 ai nostri giorni. È un percorso costruito seguendo protagonisti d’obbligo, impostisi nella storia della fotografia non solo nostrana, affiancati da tanti altri fotografi scelti dall’autore, quindi opinabili, comunque fondamentali nella restituzione di un panorama esauriente, significativo della variegata fotografia marchigiana contemporanea. Ogni capitolo, ogni argomento trattato, è introdotto da una sintetica storia mondiale sulla quale si innestano le poetiche dei fotografi marchigiani.

L.M.V. Arte come “Imitazione originalità immaginazione invenzione”. Quale di questi ingredienti è più incisivo per creare un’immagine artistica?

V.M. Tutte le storie delle singole arti visive si dipanano secondo il principio vichiano dei corsi e ricorsi storici. Tutto si ripete ad un livello diverso: evoluto od involuto; ogni periodo o avvenimento sociale contiene in sé i germi, analogie e similitudini, di quello precedente. Applicato all'arte, tale enunciato ci porta sulla strada dell'imitazione basata su citazioni, ispirazioni varianti, spostamenti minimi. Se rileggiamo attentamente la storia dell'arte risulterà evidente come la prima forma di creatività sia stata l'anticonformismo sia estetico che etico. La creatività esprime innanzitutto un atteggiamento mentale. Per comprendere appieno gli sviluppi attuali della storia dell'arte e quindi della fotografia - in relazione all'immaginazione e all'originalità, all’imitazione e invenzione, dobbiamo rivedere le teorie estetiche dell’arte a cavallo tra Settecento e Ottocento di Burke, Cozens, Reynolds, Ruskin (pittore, critico e collezionista di dagherrotipi). Ma mentre quest'ultimo è stato importante semplicemente come diffusore delle teorizzazioni precedenti in virtù della sua influenza sul mondo artistico, perché in effetti non rielaborerà niente di nuovo trastullandosi tra i vari poli artistici, fondamentali risulteranno le intuizioni dei primi tre. Secondo il Burke, l'immaginazione si limita a combinare e a rimanipolare il vecchio e il già noto… fa appello, anziché all'esperienza, alla memoria e, anziché guardare verso il mondo esterno, scava a fondo dentro a quello interno… L'uomo di genio…Secondo Reynolds, non è colui che sa inventare ex novo…bensì colui che sa rimaneggiare con estro e abilità le cose inventate da altri pur senza precludersi, nello stesso tempo, soluzioni inedite derivategli dalla osservazione diretta della natura … né la natura né l'arte vanno mai 'pedestremente imitate', e il vero artista non può fare a meno di inserire continui scarti di 'novità' nel modello; novità che egli desume da una corretta e approfondita conoscenza sia della natura che dell'arte…(Francesca Alinovi e Claudio Marra, La fotografia. Illusione o rivelazione?). Sin dalle origini della nuova arte schiere di fotografi si sono confrontati sui medesimi soggetti: il tavolo da pranzo imbandito, le calle, il nudo, così come è successo ai pittori per Madonna con bambino o con le ballerine o quant'altro. Ma Charles Baudelaire ripreso da Nadar non è lo stesso immortalato da Carjat! Quello che conta, dunque, è la componente soggettiva della visione, quel tanto o quel quanto basta a caratterizzare ciò che Massimo Pulini descrive nel suo volume Il secondo sguardo. Per esempio, i punti di vista, nel senso di angolo di ripresa e inquadratura, di Martin Parr e Wolfang Tillmans per descrivere la società del consumismo a volte coincidono, ma l'ironia che ne deriva è diversa: controllata nel primo, sarcastica nel secondo.

L.M.V. Fotografie che sembrano pitture e pitture che sembrano fotografie come la finzione sembra verità. Quale arte rappresenta meglio il vero oppure ognuna percorre una via diversa per arrivare alla verità e quale?

V.M. Nessuna espressione artistica detiene il primato del vero. Ogni arte è tale se tecnica e idea convergono e rappresentano il pensiero dell’autore. Lo stupefacente dell’arte è che in tali lavori oggettività e soggettività, visione reale e mondo interiore coincidono e possiamo allora assecondare Baudelaire, almeno in questo caso: Che cos'è l'arte pura secondo la concezione moderna? È la creazione di una magia suggestiva che accoglie insieme l'oggetto e il soggetto, il mondo esterno all'artista e l'artista nella sua soggettività. Nel Postmodernismo, mutuando le parole di Aaron Scharf, uno dei grandi storici dell'arte, possiamo sostenere che nel XX secolo l'ingresso della fotografia nel campo delle altre arti visive avvenne in un modo e in una misura senza precedenti. …La tecnica della riproduzione fotografica si è talmente allargata da divenire una caratteristica della pittura contemporanea. Tale processo trova la sua metaforica decantazione, che può essere declinata verso il sublime artistico o la vituperazione dell’arte perturbante, nell’inquietante racconto di Michel Tournier I sudari di Veronica. Il riferimento religioso contenuto nel titolo della mostra - che è lo stesso del racconto - non è casuale: le immagini che la fotografa Veronica realizza sono ottenute sottoponendo ad un vero e proprio spellicolamento il corpo del suo modello amante Ettore con una diabolica terapia prolungata nel tempo. Lo sottopone a particolari diete alimentari ed esercizi fisici per trasformare il suo massiccio corpo atletico affinché acquisti fotogenia. L’autrice sostiene: “Soltanto ora è diventato fotogenico. In che cosa consiste la fotogenia? È la facoltà di dare origine a fotografie che vadano oltre l'oggetto reale. In parole povere, l'uomo fotogenico fa stupire coloro che, conoscendolo già, vedono le sue fotografie per la prima volta: sono più belle di lui, sembrano svelare una bellezza che fino a quel momento era dissimulata. Ora, quella bellezza, le fotografie non la svelano, la creano.” Ogni artista esprime una rappresentazione personale, soggettiva del mondo che sulla tela o sull’emulsione impregnata di alogenuri d’argento si trasformano in verità parziali che si propongono però come universali.

L.M.V. Fotografie in bianco e nero o a colori. Quale forma cromatica preferisci e perché?

V.M. Ci sono stati grandi autori definiti maestri del bianconero come Weston, Adams, White   
- tanto per citarne alcuni -e grandi maestri del colore quali Haas, Fontana, Madame Yevonde ecc…. Fotografi che hanno privilegiato il bianconero per lavori personali e il colore per quelli professionali su commissione. Sono due mezzi espressivi che vanno utilizzati in relazione ai progetti ideati e alle proprie scelte estetiche. Ci sono stati nella storia della fotografia e del fotogiornalismo in particolare dei periodi nei quali era d’obbligo il bianconero, poi le riviste patinate negli anni sessanta e settanta incominciarono a richiedere sempre più servizi a colori. Nel passaggio intermedio grandi interpreti del mondo della moda, Newton per esempio, riuscirono a produrre lavori eccelsi su entrambi i materiali sensibili alla luce. Personalmente prediligo il bianconero perché lo sento più vicino al mio fare fotografia, ma ho utilizzato emulsioni a colori per determinati lavori, per esempio per documentare e ricreare in polaroid le produzioni e i momenti creativi, in fieri, di alcuni pittori. C’è chi, come ad esempio Alex Webb, inizia con il bn e poi si converte al colore.  Afferma nel volume Street Photography e Immagine poetica: “Agli inizi della mia carriera fotografica disprezzavo il colore, lo ritenevo volgare e commerciale, lontano dal cuore e dall’anima della fotografia. Poi, verso la metà degli anni ’70…ad Haiti e in Jamaica, e in seguito lungo il confine tra il Messico e gli Stati Uniti, mi sono reso conto che alle mie foto mancava qualcosa: la luce tagliente e i colori intensi di quei mondi…in cui il colore è parte integrante della cultura…Ho capito che il colore va oltre il colore stesso. Il colore è emozione.” Come il bianconero di Weston, Adams, Brassäi, Sudek, Kertész…aggiungo di mio.

L.M.V. Si dice che la bellezza è come il sole: “sei bella/o come il sole” perché il sole dà luce, calore, e non si vede. Nell’arte fotografica come si esplica tale azione?

V.M. Il termine fotografia è di origine greca, è composto da photos (luce) e graphein (scrivere). Quindi, si esplica semplicemente nell’atto stesso del fotografare che letteralmente significa scrivere con la luce. Talbot, uno dei padri della fotografia e inventore del metodo negativo/positivo, chiama le sue immagini derivanti dalla luce che si dipinge da sola calotipie, cioè, sempre dal greco, belle stampe. Il più o il meno bello da aggiungere alla luce naturale è frutto delle scelte dell’artista coi suoi punti di ripresa e con le mirate selezioni tonali in fase di stampa.

L.M.V. Luci e ombre hanno un richiamo magicamente poetico. C’è una tecnica fotografica per ottenere questo effetto?

V.M. Il fotografo umanista francese Edouard Boubat appunta in un suo scritto: “Spesso mi domandano: Come hai cominciato? - Mi piacerebbe rispondere: Con la luce.” Josef Sudek racconta: Da giovane ho conosciuto Ruzicka, un boemo americano, e attraverso di lui la fotografia di Clarence H. White. A quel tempo non sapevo ancora che tutto il mistero è nascosto nelle zone in ombra. Appena arrivato dagli Stati Uniti, il dr. Ruzicka mi diceva spesso: esponi sulle ombre, il resto verrà da sé - aveva ragione. Ma come padroneggiare la tecnica, questo non lo sapevo ancora. L’impiego della luce e dei materiali fotosensibili in base alle capacità tecniche e la cultura del fotografo (quelle qualità che Roland Barthes definisce lo studium) danno origine agli stili che i critici chiamano le poetiche del fotografo. La luce è per il fotografo quello che le parole sono per lo scrittore, i colori per i pittori, i materiali quali il marmo, il legno, i metalli e la creta per lo scultore: un mezzo privilegiato per esprimersi. Il fotografo avveduto, sapiente, colto, sa sfruttare le qualità della luce racchiuse nell’intensità e nella quantità, nel contrasto determinato dal tipo o forma di sorgente luminosa, nella direzione o provenienza che influisce sulle ombre e la profondità; altresì, la differenza della luce naturale nell’arco della giornata, di quella artificiale, perché agiscono in modo diverso sui colori le cui sfaccettature suscitano sentimenti differenziati. Ombra: significa nascondimento, mistero, ignoto, inconscio, spazio chiuso, tenebre, male, femminile. Penombra: quiete, stasi, equilibrio, ascolto, attesa. Luce: energia, dinamismo, rivelazione, conoscenza, sapere, conscio, certezza, apertura, bene, maschile. Tanti autori nella Storia della Fotografia hanno rimarcato nei titoli delle loro opere che le scritture di luce sono figlie dell’ombra: Touhami Ennadre, Lumière noir; Olivier Christinat, Lumière cendrée; Bill Brandt, Shadow and light; Eugene Smith, Il senso dell’ombra; Vivian Maier, Out of the shadow; Augusto Allegri, Le ombre della memoria; Paulo Nozolino, Penumbra; Michele Battistelli, Ombre sulla Moldava, Sergio Scabar, Silenzio di luce; Evgen Bavčar,  Nostalgia della luce; Paolo Monti, Nei segreti della luce tra le cose. Ancora: basti pensare alle opere di Mario Giacomelli con quelle ombre dense, neri catramosi e bianchi abbacinanti. L’incanto della luce – tra l’altro – è un titolo comune a dei lavori di Elio Ciol e Marialba Russo. Tutto ha origine dall’ombra: l’universo trae origine dal buio. Fotografia, Pittura e Scultura condividono la comune origine che si collega all’ombra, alla silhouette da cui provengono tutte le arti attraverso il mito greco della giovane figlia dello scultore Dibutade o Dibutate di Corinto: dovendo l’innamorato partire per la guerra, la giovane gli contorna l’ombra del viso proiettata sulla parete dalla luce di una torcia. Suo padre, scultore, esegue un calco in gesso dal quale ricava una scultura. Le poetiche dei singoli fotografi nascono dall’utilizzo della luce diretta e riflessa, dalle sue interpretazioni e sperimentazioni sui materiali fotosensibili disponibili sul mercato (oggi si deve dire anche e soprattutto a seconda dei programmi tecnologici utilizzati inseriti nei computer delle macchine). Questa penombra è lenta e non fa male;/scorre per un mite pendio/e somiglia all'eterno, scrive Jorge Luis Borges nella sua opera Elogio dell'ombra. La luce, da cui è scaturita la vita, deriva dalle tenebre. L’evoluzione biologica ha selezionato gli animali adattandone una parte alla notte e un'altra al dì. Da una silhouette, dall’ombra (ci ricorda Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis) hanno avuto origine la pittura e la scultura; le ombre proiettate su di una parete, secondo il mito platonico della caverna, hanno posto le basi per lo sviluppo dell'arte della conoscenza; le ombre integrate e portate hanno contraddistinto le varie fasi e gli stili nella storia della rappresentazione visiva tramite la pittura; dalla traccia delle ombre su dei materiali fotosensibili è nata la fotografia. Sembra che sia stato il pittore Claude Monet a suggerire l'uso in fotografia della presenza dell'artista attraverso la registrazione della propria ombra (1905) con l’opera Nello stagno delle ninfee; Alfred Stieglitz, qualche anno più tardi, sembra voglia imitarlo con Ombre sul lago. Ma bisognerà attendere il tedesco Otto Umbehr (più noto come Umbo), molto probabilmente influenzato dalle opere di Marcel Duchamp (così come lo furono poco prima Man Ray e Moholy-Nagy con i rayogrammi e i fotogrammi) ad utilizzare in fotografia nel 1930 l'ombra come traccia per registrare una presenza inconfondibile: l'artista e il suo strumento. La stessa situazione diventerà 40 anni dopo la soluzione (ancora per dimostrare una presenza) scelta da Ugo Mulas. Quest'ultimo dedicherà una sua verifica a Lee Friedlander che, come per un'ossessione, aveva consacrato tanti clic a registrare l'ombra (traccia) della propria presenza (testimonianza di fotografo) all'interno del quadro (fotogramma). Umbo è stato anche un pioniere nell'inserire l'ombra quale soluzione estetica per catturare l'attenzione dell'osservatore e per rappresentare metaforicamente attraverso forme astratte una realtà non sempre intelligibile. Le ombre allora alluderanno alla presenza di un mistero (come intitolerà alcune sue opere), di un enigma. Il fascino del mistero ammalierà Ralph Gibson, nei lavori del quale le ombre registreranno il sentire interno, testimonieranno la presenza di sogni, di tensioni, il pulsare di un enigmatico mondo interiore. È nella luce fumosa dei bar, nella luce soffusa dei lampioni, in quella nebbiosa dei boulevards che Brassaï penetra attraverso i segreti di Parigi: “La notte suggerisce, non mostra. La notte ci turba e ci sorprende per la sua stranezza, libera quelle forze dentro di noi che di giorno sono dominate dalla ragione.” Egli entra nelle pieghe della notte e disvela, mette a nudo il buio, rivela spaccati di vita sociale, ci fa leggere la vita della città attraverso i suoi protagonisti colti nelle attività notturne nel bene e nel male.

La copertina del volume

 L.M.V. Leopardi in poesia e Fellini nella cinematografia affermarono che con l’immaginazione si può tutto. Nel linguaggio fotografico è sufficiente avere immaginazione per rappresentare quella soglia tra il sé e l’infinito, fra il tutto e l’assoluto?

V.M. Il fotografo boemo Josef Sudek, noto come il Poeta di Praga, diceva: “Ogni cosa che ci sta intorno, morta o viva, agli occhi di un fotografo pazzo, misteriosamente, assume mille variazioni: oggetti che sembrano morti prendono vita dalla luce, dall’ambiente. Se un fotografo ha un briciolo di sensibilità e attenzione nella sua testa, riesce forse a catturare qualcosa - e penso che la poesia sia in questo.  L’immaginazione è determinante per creare poesia, ma le esperienze di vita sono la linfa dell’immaginazione. Leopardi e Fellini rappresentano, con parole che si trasformano in immagini il primo e attraverso immagini e dialoghi che diventano poesia il secondo, i propri vissuti che assurgono, mediante attraversamenti linguistici artistici, a messaggi universali.

L.M.V. La fotografia, artisticamente intesa, è un lampo che non ha bisogno di parole. Ciò mi ricorda gli inviati speciali, che ne fanno un uso artistico come denuncia di atrocità tramite scene di vita umana, abbruttita dalla guerra, dalla fame, dalla malattia, ecc…

V.M. Nessun reporter si è mai considerato artista. Sono stati i musei e le gallerie d’arte che l’hanno consacrata un’arte tra gli anni 1940 e 1960. Ansel Adams nella paesaggistica, Eugene Smith nel sociale hanno passato notti intere a rendere esteticamente più apprezzabili le loro immagini semplicemente per mettere in evidenza il vero, sia che riguardasse il bello presente nel mondo sia che sottolineasse i pessimi comportamenti umani. A entrambi interessava mettere in evidenza la verità e il giusto. Se il mezzo tecnico era insufficiente a registrarli (negativo) intervenivano manualmente in fase di stampa a modulare luci e ombre, dettagli e scala tonale - ecco allora un eccellente esempio di fusione tra oggettività e soggettività - per renderli in positivo. Il primo contribuì a salvaguardare i parchi e a estenderne la cultura, il secondo rischiò la vita e subì pesanti conseguenze fisiche per la difesa dell’ambiente e dei diritti umani e sociali. Nel contemporaneo, a partire dalla fine degli anni Settanta a oggi, le nuove forme di reportage chiudono il cerchio storico nei rapporti tra pittura e fotografia iniziato, come ci ricorda Peter Galassi, prima della fotografia, con la mediazione della camera obscura a cui hanno fatto ricorso famosi e meno noti pittori per la costruzione dello spazio in prospettiva. Nel contemporaneo molti fotografi di reportage votati all’arte, hanno posto alla base della propria estetica riferimenti o citazionismi pittorici. Una pratica dettata dall’esigenza del mercato dell’arte di promuovere nuovi interessi attorno al reportage di guerra, in particolare, soppiantato dai nuovi mezzi di comunicazione e che vede già nei primi anni ’80 impegnati su queste nuove tendenze fotografi come Susan Meiselas, Steve McCurry. Stilemi che a partire dagli anni Novanta ad oggi si rafforzano nelle opere di Sebastião Salgado, James Nachtwey, Georges Mérillon, Zaourar Hocine; a seguire, Luc Delahaye, Carl De Keyzer, Éric Baudelaire con i quali la macchina di piccolo formato lascia il posto al cavalletto o treppiede e all’apparecchio di grande formato per una rappresentazione quanto più scenografica con precisi pittori di riferimento anche nell’uso del colore. Se Mérillon e Hocine ci rimandano alle tele caravaggesche, Delahaye, De Keyzer e Eric Baudelaire citano epressamente le opere pittoriche con fotografie di grande formato e composizioni storiche simili a un tableaux vivant e che rievocano i quadri di David e Gericault.

L.M.V. La fotografia può con il suo sguardo indagatore mettere in luce il rapporto fra il reale e il sé interiore?

V.M. È proprio perché la fotografia è uno strumento espressivo che permette di indagare il mondo non in modo asettico che ciò può accadere. In questo consiste un’opera d’arte e che fa la differenza con una foto semplicemente tecnicamente perfetta. Arte visiva come dialogo dell’anima con le cose per dare un senso all’esistenza. Questo percorso, all’insegna di una pratica fotografica autoriale che fonde mondo reale e quello ideale inizia nell’Inghilterra della metà dell’800, poco dopo la nascita della fotografia. Margaret Julia Cameron ne fu una eccelsa protagonista e sostenitrice. La soggettività prende campo sempre più alla fine dell’Ottocento e si consolida nella fotografia, considerata come mezzo espressivo, con le avanguardie dada, futuriste, surrealiste. Quando Umberto Eco afferma “L’opera d’arte è sempre una confessione”, non fa altro che ribadire vecchi concetti che si trascinano nell’arte dal mondo greco-romano, enfatizzati nella pittura a partire dal Rinascimento attraverso le serie di autoritratti con specchio -a dimostrazione dell’identità con l’opera d’arte- e del trasferimento sulla tela delle idee, del pensiero dell’artista. Due secoli dopo, insiste su questo principio l’inglese John Ruskin e Oscar Wilde agli albori del Novecento ne fa una squisita incarnazione in Dorian Gray: -Ogni ritratto dipinto con passione è il ritratto dell’artista, non del modello. Il modello non è che il pretesto, l’occasione. Non è lui quello che viene rivelato dal pittore, ma piuttosto il pittore che sulla tela rivela se stesso. La ragione per cui non voglio esporre questo ritratto è che temo di avere palesato in esso il segreto della mia anima. Dice Basil Hallward, uno dei protagonisti. Luigi Ghirri, in Niente di antico sotto il sole, riporta un brano di Borges nel quale si parla di un pittore che volendo dipingere il mondo, comincia a fare quadri con laghi, monti, barche, animali, volti, oggetti. Alla fine della vita, mettendo insieme tutti questi quadri e disegni si accorge che questo immenso mosaico costituiva il suo volto.Ma su questo aspetto della rappresentazione del sé - autore - in fotografia hanno scritto poesie Prévert, Wenders sottolineando come l’atto del fotografare sia bidirezionale: davanti cattura l’oggetto e dietro il pensiero del fotografo che diventa inconsapevole, involontario operatore del film della propria vita.

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LIBRI
IL GENIO FRAGILE
di Chiara Pasetti

Adriano Manesco nell'Aprile del 1973

In memoria del professor Adriano Manesco (1937-2014)

Adriano Manesco è stato un grande studioso, un professore universitario, e un uomo curioso e irrequieto. Aveva studiato al Liceo Classico Salesiano Sant’Ambrogio di Via Copernico a Milano; tra i vari compagni di classe, alcuni diventati brillanti intellettuali, c’era anche Silvio Berlusconi. Si laureò in filosofia all’Università Cattolica mentre, per mantenersi, collaborava al Giorno con turni serali e notturni. Parallelamente alla sua attività di ricerca iniziò a insegnare filosofia e storia, con impegno e passione, in diversi licei classici di Milano e provincia (chi è stato un suo studente lo ricorda come «il genio»); successivamente, distinguendosi per cultura, versatilità, profondità di analisi, competenze maturate attraverso uno studio lungo e appassionato della filosofia, dell’antropologia, della linguistica e della geografia, passò al ruolo di ricercatore in Estetica all’Università Statale (dove conobbe l’allora giovane studente Elio Franzini), e subito dopo in Geografia, poiché amava molto oltre alla filosofia anche lo studio delle culture orientali. In quegli anni si rivelò estremamente originale e acuto sul piano didattico oltre che professionale e pubblicò, tra le altre cose, un volumetto su Dufrenne, un saggio su Il problema dell’oggetto estetico (nel 1977) e infine le pagine su La riflessione estetica nel mondo arabo-islamico e su La riflessione estetica nel Positivismo nel Trattato di estetica di Dufrenne e Formaggio del 1981. Nei primi anni ’80, malgrado gli importanti traguardi raggiunti, la sua sete di conoscenza e l’insofferenza nei confronti di alcune logiche accademiche che non riusciva a tollerare lo portarono a lasciare l’Italia per l’Estremo Oriente. Lì studiò le lingue, insegnò italiano e approdò infine a Bangkok come professore di Filosofia greca e araba presso la Abac Assumption University. Nonostante la sistemazione fosse prestigiosa, «nessun luogo poteva rimpiazzare un luogo originario perduto o mai esistito, ma sempre ostinatamente cercato; sognava di trasferirsi in Giappone, per poter vivere in un ambiente umano in cui sentirsi accolto e riconoscere come suo» (Anna Ferruta). Rientrato a Milano, in pensione dagli anni ’90 visse sempre da solo in un appartamento stipato di libri vicino alla stazione centrale; una sorta di isolamento confortato però dalla compagnia di alcuni amici di sempre che spesso incontrava, tra cui Gabriele Scaramuzza, con cui parlava dei rinnovati interessi per Montaigne e Mann e a cui faceva leggere le recensioni che scriveva, temendone il giudizio (che invece era sempre estremamente positivo). Non perse mai, malgrado le difficoltà di vivere e, come scrive Scaramuzza, «di costruirsi un argine duraturo ai suoi disagi», il suo «amore per la vita». Che è stata barbaramente interrotta il 7 agosto 2014, all’età di settantasette anni. Fatto a pezzi da due uomini che Manesco conosceva, «sistemato con cinica cura in un trolley e gettato in un cassonetto della spazzatura» (così Renzo Cecchinelli). I giornali parlano, tra le altre cose, di movente economico e di ricatto, i due assassini avrebbero rubato la pensione del professore e alcuni oggetti personali. Una fine indegna di qualunque essere umano, e specialmente di una persona che nella sua vita aveva sempre cercato di trasmettere valori di rispetto per la dignità umana e un appassionato interesse e impegno per la crescita culturale e civile. I suoi amici, colleghi, ex studenti, collaboratori (ed erano davvero tanti, malgrado ciò che è stato scritto nelle cronache) hanno voluto rendere omaggio a quest’anima generosa, gentile, geniale, al loro «amico fragile» (dalla splendida canzone di De André, ricordata nella testimonianza di Elio Franzini, che definisce Adriano Manesco anche «un sognatore, un colto viaggiatore, più curioso di tutti noi e così intelligente da non essere spaventato dall’assurdo») nel volume Un amico fragile. Testimonianze e ricordi per Adriano Manesco (Mimesis edizioni). Non una biografia, ma un insieme di ricordi anche familiari, discreti, commossi, vibranti. Un modo per non dimenticare la nobile e inquieta vita, e la terribile e raccapricciante morte, del professor Adriano Manesco, che ha lasciato un segno profondo nella mente e nel cuore di chi lo ha incontra

Un amico fragile.
Testimonianze e ricordi per Adriano Manesco
a cura di Virgilio Melchiorre,
con la partecipazione di Sibilla Cuoghi,
Anna Ferruta, Elio Franzini, Gabriele Scaramuzza,
Ed. Mimesis, Milano-Udine, pagg. 13

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DOG SERVICE
Un racconto di Alberto Mari

Nella foto: Alberto Mari

Un posto in paradiso o all’inferno. Fedele o ingrato non aveva importanza. Poteva godersi l’ampio panorama dalla terrazza. Al di sopra dei vizi e delle virtù. Non faceva più parte di un branco ma di un gruppo. Il fiuto era concentrato sul mercato. Era il suo party in una vita da uomini e lui era la parte migliore.
Negli occhi brillanti una foresta al neon. Le orecchie antenne a estrarre i rumori. Occhi febbrili, occhi selettivi. Nelle pareti panoramiche della metropoli, le atmosfere dello stilista, il disegno delle voci notturne, ricordo d’erbe agitate.
La scritta al contrario nel vetro smerigliato ceruleo dell’agenzia, sovrastata dal marchio d’ispirazione araldica con la testa di un bracco famoso.
Occhi vigili, occhi attenti. Al tintinnio del ghiaccio nel drink, l’udito scatta come un grilletto.
Cani famosi, cani di successo. L’odorato percepisce la sfumatura Chanel N.5, secoli di carezze tentano il suo capo. Lei è visibilmente vicina degna dei più remoti ululati, gli occhiali a righe bianche e rosse persi nelle piastrelle verde lime.
Occhieggiano le unghie rosso vivo nella scarpetta dorata. La telecamera inquadra l’ospite. Un braccio l’avvolge: “Vieni, devo farti conoscere questo, farti conoscere quello…”
“Ti presento, ti presento… Mezzanotte.” Il sorriso si schiude all’arrivo del nome. Arretra l’abito favoloso, volteggia con altri modelli. Indossatrici col cane uniti nella camminata danzante. Dame e cavalieri sfumano nei volti, maschere in carca delle parole giuste.
Infido posa con la copia di Cenerentola. Sono entrati nella parte sfidando la musica. Lui è un tipo affascinante ma pericoloso, la fredda lama in tasca, lo sguardo acido delle buone maniere.
All’uscita un mendicante deturpato gli chiede se è felice, mentre lui alza la mano verso un taxi. Una volta abbaiavano. Adesso con la coda esprimono deferenza. Perfettamente inseriti nel cast, temprati come marines, hanno sperimentato di tutto. L’abbandono nell’autostrada. Una sana iniziazione. Vanno d’accordo su tutto, tranne che nel calcio. Insieme fanno squadra ma nello spogliatoio solo il nero li accomuna.
“L’azzurro lascialo al cielo!” Grida uno. “Il rosso sta bene da solo”. Replica l’altro. Ciascuno, anche nei guinzagli, ha i suoi colori da difendere.
Il pennello del pittore si sfoga in sberleffi neri, rossi, e azzurri. Ignara controfigura dell’arbitro pelato, come un buddista in posa sorridente. Un ermafrodita gesticola come un direttore d’orchestra orgoglioso della sua opera. Non importa a quale bandiera appartengono. Dog I sulla poltrona presidenziale sprofonda ripensando ai bei tempi della schiavitù senza pensieri con il cibo assicurato.
Intanto il pittore è immerso in un mare di stoffe. “Oh, come starebbero bene sulle mie tele!” E reggendo i vari lembi a turno precipita verso i quadri semoventi sommersi nella sua Atlantide personale.
Un guinzaglio in ecopelle viola, guarnito Swaroski, lo riporta a galla, ma intanto i visitatori nei loro costumi estivi si tuffano nella mostra. Ogni tanto si svegliava stanco e sudato con varie escoriazioni sul corpo. Era sfinito. Doveva aver corso moltissimo.
“Dimostrati degno della notte”. Il corpo sinuoso parlava controluce, immobile, in un lungo istante, seguito da un volteggio, un alone di nebbia lucente.
“Autumn winter” Applausi, mormorii, estasi, sfinimenti. Nel tessuto fremente del sonno il disegno dei rami, il pallore della luna. Il terreno morbido, moquette, prato, al ritmo ansante del respiro.
Uno sconosciutolo guardava attraverso lo specchio con una luce giallognola negli occhi.
Nello sguardo chiuso le mani tormentavano un bosco a capofitto, ripreso a gran velocità.
In lontananza s’udiva un sinistro ululato.
Il sogno del mendicante era finito, il capo racchiuso nel braccio, nascondeva Il sangue pulito del coltello.
Davanti all’ingresso dell’agenzia c’è una dimostrazione di extracomunitari. I vari cartelli inneggiano a una improbabile uguaglianza.
Sull’ascensore gli sguardi divagano, rivolti a qualsiasi parte, cercando di uscire dall’imbarazzo formale. Le teste chine inquadrano gambe femminili con calzature di diversi tipi, marchi e colori, col tacco più o meno alto, due paia di scarpe da uomo Geox, sotto calzoni color arancio e le zampe inquiete d’un cane. Quest’ultimo è l’unico ad alzare la testa e a guardare in alto.

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LIBRI
IL PENSIERO “VIRULENTO” DI LIDIA SELLA
di Angelo Gaccione

Lidia Sella

Come ci ha ormai abituati da qualche tempo, anche questo nuovo libro di Lidia Sella: “Strano virus il pensiero” (La vita felice ed. pagg. 72 € 12,00), è costruito mettendo assieme due formule: quella propria della poesia e quella che le è altrettanto congeniale della forma breve, secca, lapidaria dell’aforisma. I temi del libretto sono quelli più consoni alla sua visione e che l’autrice ha messo al centro della sua speculazione e della sua poetica. Non ho usato a caso il termine “speculazione”: chi conosce gli scritti e sa dei suoi interessi e delle sue letture, non si stupirà affatto. Sella oscilla da sempre fra filosofia e scienza (non è per caso che il suo libro porti due riflessioni, quella di Antonio Prete e quella di Giulio Giorello) perché da queste due forme di sapere ineludibili è attratta, per approdare attraverso esse, ad un’altra forma, quella propria della poesia, per dare organicità alla sostanza dei suoi pensieri e del suo sentire. Perché in fondo Sella resta un poeta, e la materia di cui l’universo si compone, lo spazio-luce, l’energia, l’infinitamente piccolo, il cervello rettile o la memoria ancestrale, possono trovare una via di rappresentazione e “dicibilità” (mi scuso di questo brutto termine, ma dovrebbe meglio rendere l’idea), solo con la parola organizzata, rigorosa, della formula poetica o di quella altrettanto letteraria dell’aforisma. Perché al fondo di tutto il suo speculare, del fuoco del pensiero (la brace, com’ella scrive) che non deve mai estinguersi e perire, c’è e resta la nostra condizione umana di creature fragili e destinate alla fine. C’è la nostra esaltazione e la nostra limitatezza fisica e temporale, c’è la nostra genialità e la nostra ferocia, c’è il piacere fisico e c’è la decadenza della vecchiaia, c’è l’amore e c’è la spietata aggressività, c’è la bellezza e il suo contrario. Insomma, c’è la vita e la morte e dunque ogni creatura non può che interrogarsi sul proprio destino. E a questa interrogazione che diviene fondamentalmente esistenziale, sono prima di tutto i poeti, gli artisti, i drammaturghi, più che gli scienziati e i filosofi, che in ogni tempo hanno saputo dare voce. Perché il loro modo, il loro linguaggio ha saputo toccare, e meglio, le viscere e il cuore, prima della ragione. E i teologi? Per Sella non c’è spazio in questo universo fatto di quanti e di buchi neri, per dirne l’incommensurabile ed il mistero, per questo bastano i poeti e i musicisti. 
E tuttavia il bisogno di parlare con Dio è ineliminabile. Nella sezione intitolata “Religionespiritualità” c’è un distico che così recita: “Da bambini parlano coi pupazzi, da grandi con Dio: l’insopprimibile bisogno di un interlocutore immaginario”.

La copertina del libro

L’attrazione più forte di questo libro, il suo fascino, rimane, almeno per me, quello racchiuso nella formula contratta dell’aforisma, del brandello, del distico o addirittura del solo rigo. Sono efficacissimi e spesso molto poetici, e si imprimono in maniera immediata nella mente del lettore per la loro forza e verità. Spaziano negli ambiti più diversi e ce ne sono di ogni tipo, anche di politici o che riguardano l’attualità più cogente.  Vediamone alcuni: “Ormoni in calo, saggezza in aumento”; “Non omicidio ma suicidio, l’aborto”; “Chi mai vorrebbe partire per un viaggio senza ritorno? Eppure proprio questo avverrà”; “L’angolo delle foto di famiglia si trasforma presto in un raduno di morti”; “Hai perso qualcosa? Non angustiarti: un giorno perderai tutto”; “Quando avrai imparato tutto non ti servirà nulla”; “Rughe sulla pelle del vecchio mare, le onde”; “Noi, vasi di tempo da cui ogni tanto sboccia un fiore”. Di queste perle poetiche o sapienziali è pieno il libro. Vediamo con quale impietosa efficacia è fissata la fine di un innamoramento nel distico titolato “Paradosso”: “Dissolta la nebbia dell’innamoramento lui e lei non si riconoscono più”. Non è da meno questo ispirato alla cronaca più ravvicinata: “Banchieri, politicanti, come investirete i sorrisi rubati ai popoli europei?”, o questo che si presenta come un perentorio grido di protesta: “Non mi importa che l’umanità sopravviva quando il mio popolo non ci sarà più”. Troverete molto altro in questo libro e vi assicuro che la sua lettura non vi deluderà.

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LIBRI
BETOCCHI A COSENZA
di Angelo Gaccione


Carlo Cipparrone

Orizzonti Meridionali”, le sensibili e colte edizioni dell’editore cosentino Franco Alimena, non potevano esordire meglio, inaugurando la Biblioteca di Capoverso con questo magnifico e necessario libro del poeta Carlo Cipparrone. Si tratta di “Betocchi. Il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi” (Edizioni Orizzonti Meridionali Pagg. 136 € 12,00). Perché ho detto che si tratta di un libro necessario? Intanto perché contiene dieci preziose lettere che il grande poeta toscano (dico toscano anche se in realtà Betocchi era nato a Torino, ma da cui ancora infante era stato portato dalla famiglia a Firenze, dove avverrà la sua formazione di uomo di lettere e di poeta), scrive a Cipparrone dal 1° dicembre 1957 al 20 settembre del 1963 e che con questo libro ci viene offerta la possibilità di conoscere. Poi perché dà il segno di che pasta fosse (ahimè, tempi ormai scomparsi!) la civiltà letteraria che informava gli ambienti letterari di allora. Una roba impensabile paragonata all’oscena pratica di questi anni. Ha ragione Cipparrone a sottolinearlo nella sua noticina introduttiva alle lettere: “Non è più pensabile, oggi, che un autore affermato dedichi parte del suo prezioso tempo e della sua attenzione a giovani aspiranti poeti, quali eravamo io e Nerio…”. Infine, perché Cipparrone ricostruisce minuziosamente il soggiorno di Carlo Betocchi nella città di Cosenza, dove era giunto nell’autunno del 1957 per tenere una conferenza letteraria all’Accademia Cosentina. Assieme al giovane amico Nerio Nunziata (anch’egli con un destino di poeta), Cipparrone, allora poco più che ventenne, guida Betocchi (che di anni ne aveva 58) nei luoghi della città più suggestivi di storia e di memorie. Il poeta si lascia volentieri guidare da questi due giovani ventenni, con amichevole disponibilità, e conserverà ricordo e stima, dei “Cari e bravi amici”, senza dimenticare l’ospitalità della famiglia Cipparrone, come si può vedere dalle lettere. Alla città bruzia Betocchi dedicherà il testo poetico “Il vetturale di Cosenza", e della città conserverà un buon ricordo: “Conservo di Cosenza un caro ricordo, e penso a quante cose si potrebbero dire di quel centro della Calabria nel quale potei trattenermi solo una sera…”. Cipparrone e Nunziata oltre che sensibili ed accoglienti, erano stati tempestivi e puntuali, firmando a quattro mani un resoconto dell’incontro col poeta, sul giornale “Cronaca di Calabria” del 25 Novembre di quell’anno. Betocchi non solo apprezzò, ma non si lasciò sfuggire l’occasione: prendendo spunti da quell’articolo, svolse una interessante riflessione pubblica con uno scritto dal titolo “Quale cultura per il Sud?”  che apparve sul quotidiano “Il Popolo” del 12 Dicembre 1957. 

La copertina del libro

La ricostruzione della giornata cosentina di Betocchi è raccontata minuziosamente da Cipparrone; dagli spostamenti agli incontri, dalle reazioni alle confidenze. Fra l’altro il poeta cosentino è la prima persona in assoluto ad essere informata della nascita del testo poetico “Il vetturale”. Le carrozze a cavallo che così poetiche avevano reso ai nostri occhi città come Roma, Napoli, Cosenza, Firenze, avevano svegliato presto l’ospite con il loro rumore; ma era stato un risveglio proficuo e di cui non si lamenterà. Ma c’è altro in questo libro: Cipparrone ha ricostruito il rapporto che Betocchi ebbe, oltre che con lui e Nunziata, con altri poeti calabresi, tra questi Calogero, Ermelinda Oliva, Gilda Trisolini e Silvio Vetere. Sono sicuro che chi si interessa di poeti e poesia, apprezzerà questo volume di Cipparrone, così come gli estimatori di Betocchi e gli amanti come me di epistolari. A proposito voglio segnalare alcune coincidenze: il libro di Carlo mi è arrivato proprio mentre sto lavorando al riordino del mio vasto e pluriforme carteggio; i due poeti portano lo stesso nome e hanno svolto la stessa professione di geometra. È proprio vero che esiste un destino nelle cose.

Carlo Cipparrone
Betocchi. Il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi
Edizioni Orizzonti Meridionali
Biblioteca di Capoverso -2016
Pagg. 136 € 12,00


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LIBRI
LA VIGNA DI NABOTH
di Angelo Gaccione

La copertina del libro

La storia è raccontata nella “Bibbia” nel I Libro dei Re (21,23). A prima vista la proposta di Achab non sembra fraudolenta: chiede a Naboth di Izreel la cessione della sua vigna in cambio di un campo addirittura migliore, o dietro il pagamento di un giusto prezzo. È vero, Achab non si aspettava un rifiuto così deciso: in fondo lui è il re di Israele (vi immaginate il re di Israele che si abbassi a domandare una vigna al suo vicino e che questi possa osare un rifiuto…). Ci rimane male: anzi è angustiato, sdegnato, addirittura non prende sonno; la moglie Gezabele se ne accorge e naturalmente vuole che il marito ritrovi la serenità. Donna pratica, Gezabele organizza subito un complotto per mandare a morte il disubbidiente Naboth ed entrare in possesso della sua vigna. Lo strumento del complotto è la calunnia: su istigazione della donna del sovrano, trovare “due uomini iniqui” che accusino pubblicamente Naboth di avere maledetto Dio e il Re, è un gioco da ragazzi. Il poveretto verrà lapidato e la vigna, senza più ostacoli, incamerata.
Ovviamente una tale ingiusta e violenta usurpazione non potrà rimanere impunita: il Vecchio Testamento è implacabile: il Signore manda Elia il Tisbita ad annunciare al re la tremenda profezia: i cani sbraneranno sua moglie Gezabele e gravi sciagure si abbatteranno sulla sua casa. Il lettore potrà leggere direttamente la vicenda e seguirne gli inevitabili esiti. Ma perché Ambrogio da Treviri, il sant’Ambrogio dei milanesi e patrono della città, che l’iconografia ci consegna fiero e sdegnato su un bianco destriero mentre con il braccio alzato marcia verso i suoi nemici per annientarli, assume la vicenda come un paradigma e la svolge, nella sua riflessione, tornandovi di continuo ed avendola costantemente presente?
Risponde a questi ed altri quesiti, la lunga e bene argomentata introduzione di Maria Grazia Mara al libretto di Ambrogio “La vigna di Naboth” (Edizioni Dehoniane Bologna, pagg. 136  € 13,50), che del vescovo milanese ricostruisce non solo il pensiero teologico, ma la datazione e la nascita del “Naboth”, il suo contenuto, e soprattutto il clima storico-politico che lo giustificano e lo motivano. Alla luce delle contingenze storico-politiche, la vicenda del re Achab e del vignaiolo Naboth assume, in Ambrogio, un significato molto più concreto e contemporaneo di quanto si possa immaginare. Scrive Maria Grazia Mara a questo proposito: “Almeno per dieci anni, dal 386 al 396, Ambrogio manifesta un interesse ricorrente per la storia di Achab e di Naboth. Ambrogio assume per sé o il ruolo di Naboth di fronte a Valentiniano II e a Teodosio, che considera quindi i nuovi Achab, o il ruolo di Elia di fronte ad Achab, o il ruolo di Elia di fronte a Jezabel”. Lo scontro che oppone potere imperiale e potere spirituale, la delimitazione delle reciproche sfere di influenza, le tensioni che vedono in conflitto ariani e cattolici, sarebbero dunque alla base della riflessione ambrogina della vicenda narrata nel I e II Libro dei Re. Naturalmente resta tutto il peso degli insegnamenti etico-morali e dei comportamenti empi che la storia intende stigmatizzare: l’ingordigia, la malvagità d’animo, la frode, la menzogna, l’ingiustizia, l’attaccamento oltre misura ai beni effimeri della vita, e la superiore punizione divina che arriva puntuale ed esemplare. Come resta, fortissima, la difesa di Ambrogio dei poveri, il suo schierarsi dalla loro parte contro i potenti; la polemica contro i ricchi, la ricchezza e l’avidità, che egli svolge con tale virulenza di linguaggio, con così tagliente radicalità critica, che non sarebbe dispiaciuta al suo conterraneo di Treviri: quel Karl Marx autore de “Il capitale”, se ne avesse potuto leggere lo scritto.

Ambrogio
La vigna di Naboth
a cura di Maria Grazia Mara
Edizioni Dehoniane Bologna 2015
Pagg. 136  € 13,50

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LIBRI
PER LELIO BASSO
di Fulvio Papi

Lelio Basso

Il libro di Alessandro Olivieri "Lelio Basso. Per la rivoluzione in Occidente"
riapre il discorso su una figura centrale della storia del socialismo italiano, e rende gli onori dovuti ad uno dei padri nobili della Costituente e dell'antifascismo, che noi non abbiamo dimenticato (A.G.)

La figura di Lelio Basso, dal punto di vista politico e teorico, fu fondamentale per quei giovani, molto pochi, che seguirono il PSI dopo la débâcle elettorale del 18 aprile 1948. Lelio era stato  segretario del partito che aveva scelto la prospettiva frontista, alla quale era contrario, ma fortemente voluta da Nenni che aveva la maggioranza alla direzione, e, forse sperava di poter ripetere il successo che ebbe in Francia il Fronte popolare negli anni Trenta. Il partito aveva un periodo di vero sbandamento, soprattutto intellettuale, chiuso in un nuovo massimalismo e alla sua opposizione vi era una ragione critica per il passato, ma un’approssimazione politica e, soprattutto, una assenza di prospettive a livello teorico. Lelio rappresentava l’intelligenza e la conoscenza storica e filosofica intorno alla quale a noi pareva sarebbe stato possibile trovare il senso della partecipazione alla vita del partito. Ricordo le riunioni che tenevamo in federazione (via Valpetrosa 2) il venerdì sera quando Lelio, di ritorno da Roma, parlava con noi, avrebbe detto Labriola, di “socialismo e di filosofia”. Erano momenti di vera formazione politica, privi del tutto di quel tono dottrinariamente autoritario degli ambienti comunisti che, del resto, conoscevo dalle riunioni dei miei compagni comunisti all’Università. Quando, in un periodo immediatamente successivo, Rodolfo Morandi diede al partito una svolta organizzativa molto radicale cercando di costruire una organizzazione di quadri del tutto dipendenti dal centro, Lelio fu messo alla porta in un modo così radicale da essere gravemente offensivo non solo del suo valore intellettuale e del suo contributo politico, ma, in qualche caso, della sua persona. Il che non mi impediva, qualche volta, di andare a trovarlo a casa in corso Venezia 6. Quel comportamento del partito mi parve allora incomprensibile, non solo perché non sapevo valutare la distanza ideologica tra il centralismo politico di Morandi (una specie di “stalinismo di riflesso”) e la concezione di Lelio che aveva sempre sostenuto, studioso ed estimatore dell’opera di Rosa Luxemburg, l’esigenza della crescita della prospettiva socialista dall’espressione libera e consapevole delle masse popolari, ma anche perché non mi rendevo conto del degrado del partito, per lo meno a livello della sua organizzazione burocratica. Anche se nelle sezioni, compresa la mia in centro, restavano ben evidenti i ritratti di Turati e di Matteotti. Quanto questa linea politica corresse se stessa, ma, soprattutto, dopo il rapporto Kruscev sui crimini di Stalin e, conseguentemente, sulla condizione sociale dell’Unione Sovietica, pensai che Lelio fosse il vero vincitore dei travagli interni al PSI. Ma le cose non andarono affatto così, poiché i poteri consolidati nel partito non si potevano scalzare con la forza vincente delle idee. Al congresso provinciale di Milano noi “bassiani”, tutti giovani intellettuali, toccammo il desolato cinque per cento dei voti. Ma senza alcuna delusione o scoramento perché, un poco ostinatamente , pensavamo di avere ragione. Solo più tardi capii che l’effettualità delle cose mostrava che in politica non c’era “ragione”, ma solo un gioco di forze, alle quali se non eri adeguato, saresti comunque, prima o poi, finito in un angolo.

La copertina del libro

Mi sono tornati in mente i giorni di quell’antico tempo dei primi anni Cinquanta, ora che ho appena terminato la lettura dell’ottimo libro di Alessio Olivieri “Lelio Basso. Per la rivoluzione in Occidente” (Edizioni Punto Rosso, 2015, Pagg. 186  € 15,00). L’opera è molto rigorosa e tocca tutti gli aspetti della presenza di Lelio nelle fasi della politica italiana dagli anni Venti, all’opposizione al fascismo, alla Resistenza, alla Costituente, alle vicende socialiste, fino alle sue ultime testimonianze in un quadro di giustizia internazionale. Credo faccia bene l’autore a insistere sull’influenza positiva del celebre libro di Mondolfo “Sulle orme di Marx” poiché il filosofo prediligeva gli elementi umanistici nell’opera di Marx che valevano come critica radicale alla società capitalistica, al di là di quelle che erano le posizioni politiche riformiste dello stesso Mondolfo. Era una strada differente, sia dal positivismo socialista maggioritario, sia dei fermenti gentiliani e sorelliani che poi s’incontrarono con la dialettica, sostanzialmente volontaristica, che derivava da Lenin. Per quanto riguarda l’eredità di Marx, furono queste le radici a rendere molto importante l’incontro con il pensiero di Rosa Luxenburg e quindi l’insieme dell’orientamento di Basso per il quale un’esperienza socialista non può nascere che da un cosciente movimento popolare desideroso di ottenere, con il proprio impegno, una trasformazione sociale, (che in Italia doveva essere, dopo il 1948, il compimento della costituzione repubblicana verso successive e ulteriori conquiste sociali).

Lelio Basso con  Pietro Nenni al XXXIII Congresso del Psi
(Napoli 15 gennaio 1959)

Ora non posso seguire ne suo svolgimento tutto il libro di Olivieri, ma vorrei cercare una ragione vitale del pensiero di Lelio mettendo sulla medesima rotta le parole rivoluzione e sconfitta, delle quali Lelio parlava in una sua celebre intervista. La sconfitta personale che Lelio si attribuiva era il fallimento della trasformazione della società verso una prospettiva socialista. La via del suo marxismo, opposta sia alla versione riformista, quella che privilegiava il pensiero economico di Marx, sia quella rivoluzionaria che privilegiava invece la dialettica storica di classe interpretata dalla “avanguardia” politica, era rimasta sterile. Le due soluzioni antinomiche storicamente, nelle condizioni date obiettivamente erano la “realizzazione” di interpretazioni del laboratorio di Marx, che non rappresentavano la sua “verità”, ma piuttosto interpretazioni operative possibili in contesti materiali dati obiettivamente. Il marxismo di Lelio, nella sua forza e nella sua passione vitale, era piuttosto una variante intellettuale dell’umanesimo europeo. Lelio stesso aveva detto che prediligeva i famosi “manoscritti” parigini di Marx, del 1844. Il progetto di Lelio era, nel profondo, la liberazione dell’uomo da una civiltà che ne distruggeva la possibilità creativa, l’“essenza che costruisce se stessa”.

Lelio Basso al centro della foto, alla sua sinistra Togliatti, 
alla sua destra Luigi Longo e Alcide Malagugini al Congresso
Nazionale del Pci (Milano, 5-10 gennaio 1948)

E qui a mio modo di vedere non manca affatto la dimensione, sotterranea, carsica, della salvezza di origine religiosa. Una simile prospettiva ideale doveva avere necessariamente il suo correlato nella considerazione del “popolo”. Il marxismo che era il linguaggio praticabile nella contemporaneità , rappresentava la realtà storicamente ideale delle due radici vitali che ho cercato di ritrovare. Così che la sconfitta di Lelio, è la sconfitta di una civiltà etica, di una idealità europea praticabile oggi solo moralmente (ma è pure una forza) poiché, a livello materiale ed egemone è tutt’altra cultura vincente. Quanto a Marx ho cercato di mostrare, dopo una pratica di decenni, che non il suo umanesimo “tedesco”, ma la sua analisi londinese del capitale è la limpida visione genealogica, economica e sociale, di quello che poi è accaduto come “nostra storia”.   

ALBUM FOTOGRAFICO

Lelio Basso con Arafat (Kuwait settembre 1974)

Un comizio di Lelio Basso a Scandiano (12 giugno 1949)

 Kruscev apre il Congresso Mondiale per il disarmo generale e la pace
Mosca, 9-14 luglio 1962 (Palazzo dei Congressi del Kremlino)
sul podium Lelio Basso mentre applaude

Congresso Provinciale del PSIUP (Milano 1946)

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LIBRI
TOMBE DI UOMINI MOLTO ILLUSTRI
di Angelo Gaccione

Cees Nooteboom

Dalla tomba di Calvino, a Castiglione della Pescaia, circondata di piante e fiori, ho portato via un ramoscello di lavanda; da quella di Kafka a Praga, ho portato via una pietra: altre ne ho posato sopra come usano gli ebrei, anche se io ebreo non sono. Il ramoscello di lavanda ha resistito un bel po’ di tempo, prima di diventare secco e disfarsi; la pietra invece resiste imperterrita ed è in un piccolissimo cestino di vimini in un cassetto di una delle librerie di quella che è ormai per tutti “la Carboneria”, il locale dove si è accumulata una quantità esagerata di libri. Di Kafka possiedo anche la stessa fotografia della tomba che compare in questo libro di Nooteboom. Sul Cimitero Acattolico di Roma (detto anche degli inglesi o degli stranieri), avevo scritto, a suo tempo, un vero e proprio articolo per un giornale milanese, e oltre che davanti alle tombe di Shelley, Keats e Gadda, avevo sostato, come aveva fatto Pasolini, davanti a quella di Gramsci.  

C. Nooteboom

Forse è una pulsione comune a lettori, scrittori, appassionati di discipline fra le più varie (teatro, musica, arte, letteratura, filosofia, ecc.) andare in cerca dei luoghi che sono appartenuti a quegli uomini e quelle donne che con le loro opere, le loro parole, i loro versi, le loro note, i loro concetti, le loro azioni, ci hanno toccato il cuore, commossi, esaltati, resa più vigile la nostra intelligenza. Questo vale anche per quei teorici e rivoluzionari che non erano solo uomini di penna, ma anche concreti uomini d’azione. Chissà quanta gente ogni anno va a Londra per la tomba di Marx, in Svizzera per quella di Bakunin, a Caprera per Garibaldi e a Genova per Mazzini.      
Luoghi di nascita, case dove sono vissuti e morti, stanze dove hanno lavorato, e infine i luoghi che ne hanno accolto le spoglie. Questo culto laico, forse un po’ feticista, comprende la venerazione di “reliquie” come per i martiri e i santi: libri, penne, occhiali, pipe, lettere, macchine per scrivere, manoscritti, dattiloscritti e tombe… E questo culto è praticato anche da quanti non credono ad alcuna trascendenza, e negano che dopo questa vita ve ne sia un’altra.

C. Nooteboom

Quella di noi uomini del XXI secolo non ha più nulla in comune con la visione foscoliana che lo aveva spinto a scrivere “I sepolcri”. La nostra sensibilità si è formata lontana da quell’aura romantica e patriottica dell’Ottocento. E tuttavia, una parte minoritaria di noi, continua ad andare per cimiteri alla ricerca di una tomba davanti a cui sostare, sebbene consapevoli che dentro non è rimasta che polvere. Perché lo facciamo? La risposta più convincente ce la dà Cees Nooteboom nelle pagine introduttive del suo prezioso e magnifico libro (TumbasTombe di poeti e pensatori) accompagnate dalle fotografie realizzate da Simone Sassen: “(…) si va a far visita a dei morti che si conoscono meglio della maggior parte dei vivi”. Lui è andato dappertutto: dalle Americhe al Giappone, dall’Africa all’Europa; si è messo sulle loro tracce ed è andato a scovarli dov’erano o si nascondevano. Spesso vi è ritornato facendo nuove scoperte, o notando ciò che in una precedente visita gli era sfuggito. È andato a trovare morti che aveva conosciuto in vita e morti che non aveva mai incontrato; morti del presente e morti di epoche incommensurabilmente remote, ma tutti legati, nei modi più diversi, alla sua vita di lettore e di scrittore. Ecco come ne scrive: “Ho fatto loro visita perché sono parte della mia vita, perché la mia vita l’hanno accompagnata nei modi più diversi e in diversi momenti”.

La copertina del libro

Viste tutte assieme le foto in bianco e nero di Simone Sassen, queste tombe compongono una specie di collina di Spoon River, dove però gli “ospiti” sono tutti illustri e le loro voci non sono affatto anonime. Si tratta fondamentalmente di poeti e scrittori (anche Nooteboom lo è), anche se non manca qualche drammaturgo, filosofo o pittore. Le loro tombe sono diversissime: da quelle più umili e dimesse, a quelle magniloquenti e sfarzose, a marcare quasi una distinzione anche nel regno dei morti. Il regno che tutti “livella”, come ha scritto il grande Totò nella sua omonima opera; il luogo dove la polvere ritorna alla polvere, secondo le parole della “Bibbia”. Il destino dei morti non è tutto uguale: ci sono morti che riposano nel Famedio (come il nostro Manzoni); altri nel Pantheon (come il divino Raffaello); altri nella fossa comune (come Mozart); altre spoglie sono andate addirittura disperse (come quelle del poeta Giuseppe Parini). Ci sono tombe ben tenute e tombe in completa rovina; tombe accudite e tombe desolate che mettono tristezza. Forse non bisognerebbe più seppellire gli artisti nei cimiteri. Forse sarebbe meglio cremarli e custodirne le ceneri nei luoghi a loro più consoni. I musicisti nei Conservatori (il nostro Verdi riposa nella Casa dei Musicisti), i pittori nelle Accademie, i drammaturgi nei Teatri, gli scrittori e i poeti nelle Biblioteche… In fondo sarebbero più a loro agio e ci guarderebbero, come i ritratti e i busti della sala degli Spiriti Magni della Biblioteca Ambrosiana, con i loro sguardi benevoli e severi. Per dirci, come scrive Nooteboom, che le loro voci continuano a parlarci ogni qual volta prendiamo in mano i loro libri; a leggere ciò che hanno scritto; a citarne i versi o a discutere il loro pensiero. Perché sono talmente vivi, che “Parlano anche ai non nati, a chi non viveva ancora quando hanno scritto quel che hanno scritto” (Nooteboom), e parleranno anche a quelli che verranno. Ma solo se ne avremo cura, se sapremo custodire la loro opera. Senza dimenticare mai che la barbarie è sempre dietro l’angolo e in agguato, e un libro è sempre troppo fragile.

Cees Nooteboom
Tumbas – Tombe di poeti e pensatori
Fotografie di Simone Sassen
Iperborea, 2015
Pagg. 384 € 20,00

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LIBRI
IL DOMINUS E ALTRI RACCONTI
di Angelo Gaccione



Chi si occupa del racconto o intende praticarlo nella scrittura, deve sapere due cose fondamentali: come non deve scrivere e come deve tenersi a bada per non debordare, dal momento che la quantità di pagine che ha a disposizione, non è quella del romanzo. Michele Di Palma, che firma “Il dominus e altri racconti” (Tralerighe ed. 2016, pagg. 112, € 12,50) lo ha imparato, e costruisce le sue narrazioni attenendosi a questi punti fermi. Se posso permettermi un’irriverenza, dico che a me “Il dominus”, il racconto che apre la raccolta, piace proprio perché è rimasto un racconto e non si è dilatato nella misura del romanzo. Come ho più volte avuto modo di segnalare, ogni racconto è una storia conchiusa, breve ma conchiusa. È lo squarcio di vita di un personaggio colto in un momento memorabile, fissato in un’istantanea, e come tale si incide in noi per rimanervi. Perché quella memorabilità si fissi in noi e vi permanga, deve essere isolata da un eccesso di eventi, di accadimenti, di contorno, che la stempera o la confonde. Resta più impressa l’avventura di una magica notte d’amore rubata, che la ripetizione stanca che si trascina nel tempo e che nulla più concede all’incanto. E il racconto ben scritto è questo incanto che si contrappone alla stanca banalità della ripetizione. Potremmo sintetizzare e dire che il racconto è una notte d’amore; il romanzo un matrimonio con le sue esaltazioni e le sue cadute. È per questa ragione che il racconto non tollera cadute, sbavature, e deve mantenersi teso come una corda di violino. Se si incrina, sia pure in un punto solo, non gli è concesso riscatto. Da parte sua Di Palma ci sa fare e sa ben condurre il gioco. Ha una buona capacità di osservazione: “(…) la ragazza ha un incisivo superiore spaccato, una fenditura obliqua, che lo rende simile a una piccola ghigliottina”, (“Punti neri, piccoli inestetismi” pagg. 48-50), ma sa altrettanto bene restituire l’immagine: “La piccola ghigliottina ha un bagliore minimo, riflette una scintilla di sole”. “Contiguità” è il racconto che io giudico migliore in assoluto. Qui l’amarezza, il dolore rattenuto, le parole smozzicate, il non detto, rendono l’atmosfera familiare carica di umiliazione. Di Palma ha saputo affrontare il confronto fra le due sorelle e il rapporto della padrona di casa col marito, con profonda penetrazione psicologica. Sono convinto che questa prima prova editoriale sarà foriera di positivi sviluppi, giacché l’autore ha buone carte da giocare; forse gli occorrerà selezionare accuratamente la materia, ma il modo di condurla lo padroneggia alla perfezione. Per uno come me che al racconto ha dedicato una mezza vita, la decisione di Tralerighe di tornare a dare voce al racconto italiano, è davvero una buona notizia. Siamo sempre in attesa che un editore si assuma questo affascinante difficile compito.
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LIBRI
LE FIGLIE DEL DIAVOLO
di Angelo Gaccione


Di tutt’altro genere il libro di Bruno Perini “Le figlie del diavolo” (Tralerighe ed. 2016, pagg. 272, € 14,50) pubblicato nella stessa Collana. Segnalato come thriller per la serie di oscuri e inquietanti omicidi che racchiude, io lo giudico un romanzo politico-finanziario, perché le trame, gli intrighi e i crimini, nascono in quel mondo fatto di oscurità, di delirio per il denaro, per il potere; di intrecci perversi fra ambienti militari dittatoriali e sanguinari, e speculatori senza scrupoli. La materia qui ha una presenza cumulativa ed il protagonista, il giornalista di cronaca giudiziaria Tiziano Donini, un passato di donnaiolo, ma al contempo appassionato di Proust e di letteratura, si troverà, suo malgrado, a seguire come un segugio in Europa e fuori (compreso il Cile di Allende e della promettente  esperienza del suo governo popular, stroncato dai golpisti di Pinochet agli ordini della Cia americana), Rebecca Casati, sua seconda moglie, che a seguito di una rottura unilaterale, comunicata al marito mediante una telefonata mentre questi si trova a Roma presso la redazione del suo giornale, abbandona la casa e parte per Venezia per…
Descrivervi la trama di un libro di tal fatta che vi tiene sospesi fino alla fine perché il suo stesso narratore in prima persona, il giornalista Donini, ignora la trama completa, ed è alla disperata ricerca delle varie tessere per ricomporre un ordito che lo liberi da un tremendo sospetto, sarebbe da parte mia una vigliaccata. Vi basti dire che lo seguirete volentieri nel suo peregrinare e temerete anche voi per la sua vita, perché volete giungere con lui alla risoluzione definitiva della faccenda. Perché ora che avete appreso che ci sono di mezzo torturatori di destra, golpisti, criminali che si sono rifatti i connotati, disegni di Michelangelo Merisi (il folle e geniale Caravaggio), omicidi seriali, (per i lettori milanesi accenniamo, en passant, che la loro città è presente attivamente nei luoghi e nelle atmosfere, dal momento che il protagonista vi abita e vi è nato, e ha rischiato pure di morirvi, inseguito da un fuoristrada dalla targa straniera, fin lungo le rive del Naviglio), borghesi senza scrupoli, non vedete l’ora di saperli assicurati alla giustizia. Bruno Perini è un virtuoso della penna e questa materia la padroneggia bene, è a suo agio; il ritmo che imprime alla sua scrittura, la fluidità, la capacità di mescolare cronaca, storia politica, citazioni di natura artistica, letteraria, luoghi e loro mitologie, rendono il suo lungo racconto godibile e piacevole. Paradossalmente, in questo romanzo affollato di personaggi, luoghi e situazioni, la figura che emerge più vivida è Rebecca Casati, proprio quella che lo stesso marito crede di conoscere poco, e di cui il lettore ignora quasi tutto. Forse è vero, come sostenevano i pittori impressionisti, che lo sfumato, l’allusione, la velatura, vale più di ciò che l’occhio vede nella sua nitida, spalancata evidenza.
   
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LIBRI
LAURA VOLANTE CONVERSA CON LORENZO SPURIO
In occasione dell’uscita della sua vasta antologia sui poeti marchigiani

Lorenzo Spurio

Da dove nasce l’idea di raccogliere in due volumi poesie di poeti marchigiani, rispettivamente in lingua italiana e in dialetto?
L’idea è nata alcuni anni fa quando, ricercando in biblioteca alcune informazioni su un poeta fermano, mi sono imbattuto nell’Antologia di poeti marchigiani curata dal poeta maceratese Guido Garufi pubblicata dai tipi del Lavoro Editoriale di Ancona nel 1998. Oltre a trovare le informazioni del poeta che andavo cercando, sono stato affascinato dal caleidoscopio di esperienze poetiche che avevano contraddistinto la Regione e sono stato incuriosito da numerosi poeti la cui attività culturale era in atto. Tra di essi alcuni li avevo conosciuti di persona, altri li avevo sentiti nominare, altri li avrei conosciuti in seguito ed altri ancora -come sempre accade- non li avevo mai sentiti né li avrei ritrovati nei miei studi successivi. L’antologia di Garufi mi ha in un certo senso dato l’input a questo mio grande lavoro, mi ha fatto, cioè, ragionare su quanto siano importanti operazioni editoriali come queste se ben condotte e iscritte all’interno di un determinato progetto culturale. Nello stesso periodo in cui nasceva l’idea di portare avanti un lavoro in parte analogo in parte innovativo a quello di Garufi (ultima raccolta antologica dei poeti marchigiani seria e puntuale) avevo curato altre antologie poetiche, alcune frutto dei concorsi letterari che mi avevano visto nella Giuria e di altre iniziative, forte della convinzione che le opere collettanee, se ben organizzate attorno a una data realtà, possono essere il genere letterario più interessante e in linea con i tempi poiché permettono la fruizione di una conoscenza ampia e corale, condivisa ed empatica grazie a una compartecipazione convinta degli autori e una polifonia allargata di voci.

Quale è la motivazione che ti ha spinto a produrre un volume che raccoglie poeti dialettali?
Se ci pensiamo bene il dialetto è la naturale lingua madre di ciascuno di noi, quella che i linguisti definiscono, appunto, L1. Il fatto che molte persone non lo utilizzino non significa che non ne conoscano quello della loro rispettiva area geografica o che non appartengano a una determinata isoglossa. Semplicemente il fatto di non impiegare il dialetto nella lingua di tutti i giorni è dovuto a due ragioni: la prima è che l’impiego del dialetto nella nostra società non faciliterebbe tutti quegli scambi comunicativi tra persone di luoghi e regioni diverse, ed il secondo è che l’impiego del dialetto espone il parlante a un giudizio spesso di tipo negativo, pregiudiziale e viziato perché il dialetto è visto come una lingua rozza, troppo colorita tanto da apparire volgare e dunque mostrarsi indelicata e inappropriata in tutti gli usi della lingua che oggi è dato alla lingua nazionale, standardizzata, sebbene alla mercé di una serie di ingerenze dell’inglese. Chi studia la letteratura ed osserva con interesse le variazioni che si producono a livello sociale in un dato arco storico non può fare a meno di considerare anche quel mondo, non standardizzato né ufficiale, rappresentato dalla società subalterna, dal mondo di provincia, dai reconditi luoghi che non rispondono a una centralità e dunque alla cultura popolare, alla dimensione demoetnoantropologica di un popolo. Essendo il dialetto un sistema linguistico-comunicativo, cioè un codice impiegato per veicolare concetti, allora la giusta attenzione va posta nei confronti di tutti quegli esponenti, poeti di natura o vernacolieri, che l’hanno impiegato nel comporre poesia. Non credo, infatti, nella subalternità del dialetto rispetto alla lingua all’interno del discorso poetico. Questo significherebbe non capire la grandezza di geni quali Pasolini, Franco Loi, Franco Scataglini (incluso in antologia, per l’appunto), poeti che hanno arricchito notevolmente le pagine della storia della letteratura italiana. Lingua e dialetto in poesia possono essere impiegati in maniera uguale dal poeta o chi se ne serve per raggiungere un proprio obiettivo ben tenendo presente che il dialetto può prestarsi maggiormente alla trattazione di un mondo andato, di ritualità della provincia o di scene di vita popolare nonché più scanzonate e divertenti fermo restando, però, che il dialetto non è sempre comico o frivolo ma può essere il codice di chi tratta, proprio come chi scrive in lingua, di tematiche più alte e sofisticate, impegnative o che implichino, ad esempio, un monito etico-civile.

Naturalmente hai dovuto fare una ricerca accurata e ti chiedo in base a quali criteri hai operato una selezione sia per i poeti in lingua che in dialetto?
Data la vastità dell’opera si potrebbe pensare che i tanti poeti siano stati inseriti o, come si dice in gergo antologizzati, sulla base di nessun parametro selettivo. Non è così. Nella nota critica introduttiva al testo, infatti, specifico quale è stato il procedimento adottato per l’individuazione delle voci poetiche da tenere in considerazione per il mio lavoro. Rifuggendo in maniera voluta un approccio ipersofisticato e dunque iperselettivo, volto cioè  a dar voce alle solite e poche espressioni poetiche di cui in molti si sono già occupati, il mio desiderio è stato quello di guardare con interesse al gruppo umano dei poeti della nostra Regione nella loro interezza senza considerare un poeta maggiore all’altro per aver pubblicato nel corso della sua attività più opere o vinto più premi. I due parametri che ho osservato per l’inserzione dei poeti nel testo sono stati: 1) l’essere marchigiano (nativo della nostra Regione o vivere qui da vari anni o, ancora, aver maturato nel corso del tempo un particolare legame d’unione e d’amore con il nostro territorio) e 2) aver pubblicato nel corso della sua attività almeno una silloge, un’opera organica. Questo -come chiarito nella introduzione- non perché chi scrive poesia da decenni e non ha mai pubblicato nulla non sia un poeta, semplicemente ho voluto inserire coloro la cui attività poetica è riscontrabile, documentabile e consultabile attraverso materiale bibliotecario, testi a stampa diffusi da case editrici, pubblicati da tipografie o in proprio, volumi antologici e opere omnia commemorative di autori deceduti di cui si è tributato il ricordo.

La copertina dell'antologia


Questa Antologia in due volumi, ideata e curata da te, presenta alcune note critiche personali di inquadramento letterario, storico, territoriale e psicologico degli autori?
A ciascun autore è stato dedicato lo stesso spazio con la pubblicazione di una nota bio-bibliografica nella quale si dà nozioni in merito alla attività letteraria degli stessi (pubblicazioni di testi di poesia, narrativa, saggistica, collaborazioni a riviste, antologie, associazioni, premi vinti, etc.) e di tre poesie da me scelte (nel caso del dialetto con relativa traduzione in italiano). Ho reputato che non avrebbe avuto grande senso inserire un mio commento critico su ogni autore basandomi sull’analisi delle sole tre poesie scelte e selezionate perché sarebbe stato assai riduttivo e semplicistico dare un commento su pochi testi senza tenere in conto l’intera opera dell’autore, la complessità della sua figura, le tematiche ricorrenti, la sensibilità, le preferenze stilistiche, etc. Ho voluto che la mia opera parlasse direttamente al lettore mediante le tante voci dei poeti inseriti senza un mio commento critico a corredo per ciascuna esperienza volto a spiegare o approfondire alcuni aspetti delle loro opere. Non ho voluto creare filtri tra i poeti e gli ipotizzabili lettori né dettare in qualche modo le interpretazioni, sviscerare in maniera tecnica e forse asettica i linguaggi e ispezionare i componimenti nella loro creatività e genuinità.

Il titolo dell’antologia “Convivio in versi-Mappatura democratica della poesia marchigiana” induce alla riflessione: perché Convivio? Cosa intendi per mappatura democratica?
Con la parola “convivio” ho inteso riferirmi a una sorta di cenacolo allargato, aperto a voci poetiche diverse per periodo storico, estrazione, mestiere e quant’altro. Un momento di convivialità e dunque di partecipazione e condivisione tra tutti coloro che non hanno mancato di dare la loro adesione convinta a questo progetto editoriale. Convivio, dunque, nel senso di incontro e dialogo tra i vari poeti, una sorta di incrocio di esperienze, una stratificazione di percorsi poetici e letterari, dove è possibile indagare l’autenticità di ciascuno pur riscontrando riflessi e rimandi ad epoche, fasi letterarie, modelli di riferimento. Un simposio dove ciascuno ha il suo legittimo turno alla parola, per dire la sua e manifestare la propria presenza. Una contaminazione di forme, stili, codici espressivi che si imbeve in una multiforme varietà di tematiche investigate. Tale “mappatura”, tale analisi sistematica da caratterizzarsi quasi come un vero censimento poetico, è “democratica” nel senso che, come si diceva in una precedente domanda, non sottende a una selezione ipersofisticata frutto di un approccio in qualche modo discriminatorio e viziato. L’idea di questo progetto è proprio quella di aver voluto creare un simposio assai ampio perché variegato nelle forme e nei contenuti, e, ancor più, nella diversa popolarità e successo dei vari poeti. A ciascuno di essi è riservato lo stesso spazio in termini di liriche riportate e, allegoricamente, il medesimo tempo di lettura in un ipotetico simposio concreto, un assise di poeti oranti.

Tu non solo sei un giovane poeta con riconoscimenti prestigiosi, ma anche affermato critico letterario, per cui domando se secondo te la poesia ha ancora voce e rispondenza nello scenario culturale in cui emergono ignoranza materialismo consumismo, corruzione ecc…  
La domanda è bella ed estesa, addirittura complicata per poter abbozzare in maniera sintetica una risposta. Trovo che oggigiorno la poesia sia diventata il mezzo di comunicazione, nell’arte letteraria, di un grande numero di persone, acculturate o meno, che se ne servono con le più disparate intenzioni o finalità. Chi la impiega per dar sfogo a un universo personale magari difficile o particolarmente incline a una emozionalità da vivere nel privato, chi se ne serve per imprimere momenti con la consapevolezza che col passare del tempo potranno essere eternati. Chi, ancora, la adopera per farne il mezzo per trasmettere un messaggio d’amore, sia esso diretto alla propria donna o intriso di un profondo attaccamento alla Natura o a Dio. C’è un’altra ampia fetta della poesia, quella che ricade all’interno di una categoria che potremmo definire etico-civile, che si pone in maniera molto lucida i quesiti di natura esistenziale quali problematiche o disagi che l’uomo vive in quanto parte di una comunità. Poesie che denunciano uno stato di vergogna o danno sfogo all’odio, che recriminano e misurano lo sdegno dinanzi a calamità o aberrazioni dell’uomo. Trovo che in questa ultima compagine della poesia, nei casi in cui venga fatta con cognizione di causa e l’impegno civile del poeta non si esaurisca sulla carta, sia possibile vedere il vero senso della poesia nella nostra società che, come giustamente osservi, è dominata dal malaffare e da un sentimento d’odio. In via generale la poesia è un procedimento automatico che partendo dall’inconscio permette di far risaltare la complessità umana, essa è una rivelazione che investe prima il sé e poi un ipotetico destinatario. Come osservava Mario Luzi in una intervista, però, il compito del poeta è anche quello di “rivelare le cose che accadono”. Sia i sommovimenti emotivi, ciò che impulsivamente accade nel nostro cerebro e nella sfera dei nostri sentimenti, sia ciò che, spesso più rumorosamente, accade fuori di noi, nella società che ci circonda. Al poeta della contemporaneità non è consentito -secondo il mio punto di vista- cantare o struggersi per i propri drammi personali percependosi come una monade, ma il pensiero della sua esistenza può avvenire solamente in concomitanza a un interesse di carattere sociale. Il poeta, da cantore di un umano sentire, pur con i soli mezzi della creatività e dell’evocazione, è in grado (e deve esserlo) di fare della quotidianità concreta e del sentimento sociale un punto di partenza. Se la poesia non serve a risolvere problemi o a sanare conflitti, la parola -che è arma suprema dei deboli- è l’unico ingrediente che possa avvicinare persone. Alla poesia deve esser riconosciuto allora la potenzialità di far conoscere genti e, immancabilmente, comprendere meglio se stessi.

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LIBRI
TOMB’S TONE
di Michele Farina
La copertina del libro

Non è scorretto parlare di “Tumbas. Tombe di poeti e pensatori” di Cees Noteboom come di un libro di culto, nel senso più sacrale del termine. Il volume dello scrittore olandese, uscito per Iperborea lo scorso novembre e tradotto in italiano da Fulvio Ferrari, gode del fascino irripetibile degli esemplari unici, perché di esemplari unici è composto. Accompagnato dalle fotografie di Simone Sassen, il libro si presenta come la raccolta dei pellegrinaggi di una vita compiuti dall’autore sulle tracce delle tombe degli autori prediletti, le quali diventano luogo e occasione di parola e riflessione. Se basta scorrere l’indice del volume per subire l’aura delle personalità sepolte fra le pagine, è necessario immergersi nella lettura (lineare o antologica non importa) per apprezzare la delicata personalità di Noteboom. Egli è presenza continua e mai intrusiva, capace di amplificare un dialogo ininterrotto e di farne partecipe il lettore, sapendo bene quando intervenire e quando fare un passo indietro, lasciando parlare direttamente i suoi autori. Orchestrare queste voci sarebbe impresa già ardua, ma farne suonare i silenzi richiede una straordinaria sensibilità. La morte, o meglio l’eternità, combina e ridisegna le mappe dei destini, creando accostamenti che la vita mai avrebbe saputo divinare: Iosif Brodskij ed Ezra Pound sepolti insieme a Venezia, Elias Canetti e James Joyce a Zurigo. Risulta peraltro notevole la scelta di allegare al volume una selezione di testi poetici in lingua originale, che ne enfatizzano l’istanza liturgica e celebrativa: leggerli, magari ad alta voce, significa attivare circuiti che eludono confini cronologici e geografici, creando una comunione permanente con quella «gigantesca minoranza» costituita dai cultori della parola poetica. Gli autori attraverso di noi diventano perpetui perché perpetuati, rendendo la poesia una religione senza aldilà e con decine, centinaia di libri sacri. È l’ambiguità intrinseca di queste corrispondenze la causa di atti paradossali quali l’affidare lettere alla casella posta sulla tomba di Antonio Machado o l’omaggiare sigarette e boccette di profumo al sepolcro di Charles Baudelaire. L’immagine della bottiglia di assenzio accostata al nome di Julio Cortàzar inciso sul marmo, che campeggia in copertina, si fa emblema di uno scambio che le soglie biologiche non sanno interrompere: abbiamo ancora domande da porre a questi morti, qualcosa da condividere. Le fotografie in bianco e nero escludono ogni cosa che non sia sepolcro, non concedono allo sguardo nessun volto che non sia scultura: una scelta di sobrietà cromatica che ben si intona con la dimensione della pagina scritta, come se l’unica realtà possibile fosse quella prodotta dai caratteri tipografici impressi sul foglio bianco. Semmai sta al lettore colorare il proprio viaggio aiutandosi con l’eco della memoria dei libri letti. Tumbas incanala l’energia di tutta questa materia diventando esso stesso feticcio, un crocevia di voci che abbatte le differenze tra tombstone e milestone. Come in Le bave del diavolo di Cortàzar, Noteboom gioca la sua partita con i poeti, utilizzando strumenti che sfuggono alle pupille: «L’essenziale resta invisibile. Il segreto si nasconde nelle lettere che nessuno leggerà. Una balena a New York, un cacciatore delle Alpi ad Anversa, l’inferno a Ravenna, una chitarra azzurra ad Hartford, Connecticut, la collina dell’infinito a Napoli: il lettore vede sulla tomba del suo poeta quello che non vede nessun altro».

Cees Noteboom
Tumbas. Tombe di poeti e pensatori
Iperborea, 2015
Pagg. 375 € 20,00


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SPECIALE PASOLINI
In occasione della presentazione del numero monografico della rivista “Capoverso” interamente dedicato a Pier Paolo Pasolini il 26 gennaio 2016 alla Casa della Cultura di Milano, Franco Dionesalvi, Fulvio Papi e Giovanni Bianchi hanno presentato tre nuove riflessioni inedite, che “Odissea” offre in lettura ai suoi lettori nella Rubrica “Officina”. Le foto, dello 'ALBUM' che registrano l’evento, sono state scattate da Giuseppe Denti, Giovanni Bonomo, Mario Buonofiglio. Quella in cui sono ritratti Fulvio Papi, Angelo Gaccione, Renato Seregni, è stata scattata da Alessandro Zaccuri.


1 - La porta rossa della "Casa della Cultura


INTERVENTO SU PASOLINI
di Franco Dionesalvi

2 - Franco Dionesalvi

Grazie per avermi invitato, sono lieto di essere qua a parlare di Pierpaolo Pasolini, a partire dal numero speciale della rivista “Capoverso” che gli abbiamo dedicato.
Sono quarant’anni che abbiamo perso Pasolini. “Lascia un vuoto incolmabile”, si dice abitualmente degli scomparsi, ed è una frase spesso un po’ bugiarda. Ma in questo caso è vero: Pasolini non è stato sostituito da nessuno, probabilmente non era possibile. Con lui se n’è andato un modo diverso di intendere e praticare il ruolo dell’intellettuale: non un professionista dell’editoria o delle lettere, ma un “sacerdote”, una persona che si vota all’elaborazione teorica, alla percezione del “senso”, e a queste informa tutte le scelte della sua vita. Inseguendo una idea di coerenza assoluta, e sposando quelle scelte costi quel che costi, fino alle estreme conseguenze. Pagando, se necessario, anche con la vita. Di gente così, in Italia, non ce n’è più stata. E ci mancano, infatti, interpreti del nostro tempo capaci davvero di farci cogliere quel che lo sguardo superficiale non vede, di aprirci gli occhi  a una comprensione più profonda e più lucida della realtà.
Inimitabile, Pasolini.
Intanto perché il suo anticonformismo, la sua singolarità spiazza e disorienta ancora oggi, e dunque rende impossibile il pur praticato mestiere dell’imitatore. Poi perché è difficile trovare persone, come lui, pronte a sacrificarsi, in un tempo in cui tutto si misura in denaro e ogni azione è preceduta dal calcolo degli interessi e delle convenienze. Così difficile imitarlo, e anche così arduo capirlo, l’autore degli “Scritti corsari”; al punto che lo si cita spesso a sproposito. Come quando si ricorda la sua difesa del poliziotto, e non si capisce che dietro non c’era un richiamo alla disciplina, ma l’invito a guardare con occhi liberi, senza preconcetti, per cogliere la complessità del reale e non soltanto quello che la nostra ideologia ci porta a vedere.
Pierpaolo Pasolini denunciava la progressiva e ineluttabile perdita di quelle che riconosceva come le caratteristiche più autentiche e impagabili della natura umana. Diceva, più di quarant’anni fa, che l’ “edonismo consumista” ci aveva catturato, tutti, e ci divorava dall’interno, facendoci perdere l’immediatezza, la naturalezza, la poesia. E che il “nuovo fascismo”, il “potere senza volto”, era peggiore dei precedenti, ed era quello della televisione, dell’omologazione, del conformismo: subdolo e insinuante, impediva la contrapposizione frontale e dunque era destinato ad annientarci senza mai mostrarsi. Poi andava in cerca di quanto ancora restava dell’autenticità umana, che inseguiva nei sud del mondo, nell’Italia meridionale prima, in Africa poi. Ma sentiva la macchina del potere consumista, ineluttabile, arrivare, trasformare tutto in merce. Intanto gli altri poeti, gli altri cineasti, gli altri intellettuali discettavano e discettano di forme e di sfumature, di premi e di cordate.
Persino la sua morte, ancora per certi versi misteriosa e inestricabile, appare come una ulteriore, disperata denuncia, come il sacrificio d’amore del più tormentato e cupo fra i “santi”.
Quando Pasolini morì, io avevo diciannove anni e da pochi mesi ero diventato direttore di un Centro Servizi Culturali, a Cosenza. Feci un comunicato in cui esaltavo la sua figura e il suo “insegnamento”. I responsabili di quella struttura mi dissero che quel comunicato non poteva andare, perché Pasolini era un corruttore di giovani. Per protesta mi dimisi. Di lavori ne avrei lasciato diversi, poi, nel corso della mia vita. Ma quel mio piccolo omaggio indica che un uomo così è entrato, intimamente, nella vita di tanti di noi.
Era il 2 novembre quando, in uno spiazzo polveroso all’Idroscalo di Ostia, trovarono ucciso Pierpaolo Pasolini. Il poeta della “disperata vitalità” venne trovato morto proprio nella periferia suburbana in cui aveva ambientato i suoi romanzi, “Ragazzi di vita”, “Una vita violenta”, “Petrolio”.  E accadde nella notte fra la festa di Ognissanti e la ricorrenza di tutti i morti, come in fondo era giusto perché lungo quella linea di confine fra il bianco e il nero, fra il bene e il male, fra il santo e il dannato egli aveva vissuto, consumato e immolato tutta la sua esistenza.
Pasolini, è risaputo, era omosessuale. Aveva sopportato questa sua condizione in un tempo in cui non veniva affatto accettata, ma consegnata alla dimensione delle tenebre e dell’inconfessabile. Peraltro la sua intensa, sebbene non dogmatica, religiosità, e il suo forte senso morale, lo costringevano a misurarsi incessantemente con la condizione della colpa, con l’auto-condanna della purezza perduta. E aveva subìto i processi, per il suo “peccato”. Era stato scacciato dal partito comunista. Era stato espulso dal corpo insegnante. Aveva visto censurati e condannati i suoi film. Ciò nondimeno la sera Pasolini andava a caccia dei suoi corpi di ragazzo e dei suoi impossibili amori, tiranneggiato da un’idea forte e febbrile di bellezza che doveva incessantemente inseguire, pur sapendo che per lui era inattingibile, che poteva solo scottarlo, ricacciarlo indietro nello stesso istante in cui si illudeva di raggiungerla e possederla. Questo gioco perverso lo induceva in quelle notti a scorrazzare per le periferie della metropoli, lungo le borgate, fino in fondo alla strada, fino alle baracche, fino al mare. Di più, davvero, non possiamo sapere. Una cortina di mistero ha coperto e portato via per sempre uno dei pochi grandi artisti che l’Italia abbia annoverato nel secondo Novecento. Alcuni hanno sostenuto che dietro l’omicidio ci fosse un movente politico, che il contesto erotico servisse solo a coprire la longa manus di un potere clerico-fascista. Altri hanno posto l’accento sul senso simbolico di questo delitto, su come egli l’avesse prefigurato e profetizzato; vi hanno letto insomma il compimento di una vita che è tutta una poesia, straziante e crudele, anticonformista e vera.
A questa vicenda abbiamo dedicato il numero dell’autunno 2015 di “Capoverso”. Provando, con l’aiuto di numerosi contributi che spaziano in diversi campi e diverse prospettive, a indagare ancora su quanto Pierpaolo Pasolini ha lasciato di sé, del suo pensiero, della sua percezione dell’incanto della vita.
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NOTE INTORNO A PASOLINI
di Fulvio Papi

3 - "Capoverso"

Non sono la persona più adatta per parlare dell’opera di Pasolini. Non conosco che pressappoco la sua opera cinematografica. Anche se sono certo che il cambio di genere dalla letteratura al cinema ha certamente un senso importante. Le mie letture sono lontane e non sono mai state degli studi. Dalle “Ceneri di Gramsci” si possono leggere questi versi:

Ma io, con il cuore cosciente
di chi soltanto nella storia ha vita,
potrò mai più con pura passione operare,
se so che la nostra storia è finita?”

Non sono versi di evidente interpretazione. Si dovrebbe sostare sul senso di ogni parola. Tuttavia vediamo.

 La nostra storia è il rapporto con quello che a Pasolini appare il senso dell’opera di Gramsci. Gramsci è uno storicista per cui la sola vita sensata è quella che prende la forma di storia. Il suo storicismo viene dallo storicismo di Marx e quindi richiede l’uso di categorie che appartengono al pensiero astratto come classe, lotta di classe, partito-principe, intellettuale organico. Esse appartengono a Gramsci con assoluta certezza etica. Ora è proprio con questo mondo intellettuale e politico che Pasolini sa che la sua vicenda è “terminata”. La parola “terminata” è autobiografica: indica la vicenda che ebbe inizio con l’iscrizione al Pci e non tanto con la bigotta espulsione, quando con la verità di se stesso che Pasolini porta in primo piano. Una verità che non è mai stata la riduzione della vita a storia. No all’egemonia del pensiero teorico, ai custodi di questa prassi intellettuale, alla partecipazione totale a questa trasfigurazione del mondo. E qui occorre leggere “vita” e capire il suo senso. Sono le poesie friulane che danno accesso al significato di vita, le famose poesie elogiate da Contini come letteratura. Ma qui sono capite come segni di una verità dell’esistenza.
Poiché non sono capace di fare meglio, leggo la prosa di Carlo Cipparrone a pagina 40 di “Capoverso”. - Mistica e sensuale insieme, come generalmente è tutta la poesia pasoliniana, quella dialettale è un inno alla purezza d’animo della società contadina, alla sua cristiana religiosità, alla naturale bellezza del paesaggio friulano, con i suoi innevati profili montani, le lussureggianti vallate echeggianti “il triste tremolare dei grilli”, gli incontaminati corsi d’acqua, le fontane di “rustico amore”, il “canto delle campane”, i paesi dal “colore smarrito”, siti ideali per una vita semplice e tranquilla di gente umile e laboriosa. In questa naturale cornice, surreale e quasi fiabesca, emergono dai versi di rara musicalità i temi che saranno ricorrenti anche nella successiva poesia in lingua, quali la figura dominante della madre, a cui l’autore era legato da un amore struggente, e il ricordo del fratello Guido, ucciso in un conflitto intestino tra partigiani delle brigate “Osoppo” e “Garibaldi”-

Questo insieme ambientale e morale è l’identità mitica che il giovanissimo Pasolini costruisce di se stesso. La madre ha il ruolo della sintesi affettiva. La morte del fratello è un segno della storia che comunque vissuta, porta sempre con sé il segno della morte. Come ogni identità mitica porta con sé la visione di una perdita, nella tradizione del paradiso perduto, del tempo irreversibile. Se Pasolini dopo il ’49 non fosse stato un uomo forte, alla ricerca di una realizzazione della propria energia vitale e intellettuale, pur restando fedele al suo nucleo mitico, con una sua trasfigurazione, non avremmo mai avuto il grande intellettuale che egli è. Segnato da una irriducibile individualità che, anche a dispetto di ogni successo mondano, resta una solitudine di sé con se stesso. Proviamo a rovesciare la scena: Gramsci che vede Pasolini. Teniamo presente la storia degli intellettuali di Gramsci. Pasolini sarebbe stato un caso marginale. Basta considerare la concezione della lingua.
La dimensione mitemica originaria segna ovviamente la strada del divenire di Pasolini autore (da augere, aumentare). Aumentare che cosa? Il possibile senso del proprio tesoro mitemico. Per quel poco che so io, tre mi paiono le sue trasfigurazioni:
1. una concezione poetico-letteraria
2. una visione socio-politica
3. una concezione vitale e religiosa.

Per approfondire i tre temi ci vorrebbe un tempo che non ho.

La poetica letteraria si vede molto bene attraverso l’analisi di Saverio Bafaro di “Ragazzi di vita”. La vita dei ragazzi (non adulti), la cintura delle borgate, il dialetto in forma realistica (tutto il contrario di Gadda), la dimensione naturale, il senso di un’epoca che muore.

La visione socio-politica è perfettamente visibile nel celebre scritto sugli scontri di Villa Giulia tra universitari e polizia. E non è solo la questione di ricchi e poveri. Ma più o meno sotterraneamente c’è la questione di una appropriazione indebita di un lessico. Gli universitari usano un idioletto che appartiene alla tradizione e alla vita della classe operaia e comunque alle sue rappresentazioni storiche. Ne deriva una falsificazione storica, una appropriazione giustificativa della propria realtà, modesta volontà di potenza (anche comprensibile) intorno ai propri fini. Il tutto in un linguaggio che è un falso storico. Si vede infatti come è andata a finire. I ricchi sono rimasti ricchi e i poveri, poveri.
Infine il tema dell’aborto: Pasolini vi vedeva un trionfo della individualità, del dominio intellettuale, individualistico, artificiale del corpo, l’affermazione di un privilegio sociale in una vicenda naturale. Più simile a un lusso che a un diritto civile.
A me non interessa discutere come verità le tre prospettive. Mi è interessato di più cercare di mostrare come esse derivino come trasformazioni intellettuali di una lontana identità mitica (un “segreto” forse avrebbe detto Jung). Tutto questo è molto poco, ma spero un approccio non futile.
(Casa della Cultura, Milano, 26 Gennaio 2016) 

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Rileggere Pier Paolo Pasolini
di Giovanni Bianchi

4 - "Capoverso" alla "Casa della Cultura"

Oltre il dilemma
Avevo letto le pagine, le pellicole e l’esistenza stessa di Pier Paolo Pasolini come improntate all’autobiografismo storico. Perché proprio il corpo a corpo con un’ostinata storicità mi era parsa la cifra del grande scrittore. Ma come sempre muovendomi tra i Se e i Ma che lo spirito del tempo sembra aborrire (e che invece considero segno di saggezza), avevo successivamente revocato in dubbio quella definizione che mi era stata suggerita dalla insistita frequentazione di Clemente Rebora, il grande milanese che sta in cima alle mie preferenze nella poesia moderna. Insomma il dubbio era che mi fossi lasciato andare a un effetto di trascinamento, come chi muove sul desktop con il mouse un’icona verso l’altra. Le differenze tra i due erano evidentemente palesi, proprio perché tutto metropolitano, nella prima produzione poetica, è Rebora, mentre Pasolini è uomo delle periferie, quelle al confine della patria con il territorio friulano, e poi le borgate romane, popolate da gente assai poco o mal agghindata, risalita nella capitale dalle campagne del Mezzogiorno.
Il dubbio era dunque consistente, ma presto fugato, non tanto da una rivisitazione delle liriche pasoliniane, ma da una rilettura delle Lettere Luterane. È quindi bastato il primo capitolo del testo pubblicato nell’agosto 1991 da l’Unità-Einaudi a riconfermarmi nella scelta dell’autobiografismo storico di PPP. La poliedricità di Pasolini si è cimentata in tutte le forme possibili del linguaggio, ma questa versatilità onnivora non ha disperso o diluito il senso delle parole forti che costituiscono insieme la chiarezza e la costante provocazione del lessico pasoliniano.

Le Lettere luterane
Fin dal titolo il primo capitolo della raccolta dice una presa di posizione ostinatamente controcorrente: I giovani infelici. Si potranno anche sospettare le pulsioni della particolare sessualità di PPP; resta il fatto che la sua lettura del giovanilismo è da subito chiara ed oppositoria. Pasolini non si concede nessun sociologismo, anzi affonda esplicitamente la propria analisi nella classicità dei greci. Una posizione che non solo lo mette fuori dal coro dei modernisti, ma lo espone coscientemente allo “scandalo dei pedanti” e al loro strepitante ricatto. Chi sono i giovani che Pasolini legge?
“Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne… Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono  lineamenti contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti -sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliore condizione di vita- a una rozzezza primitiva… hanno assimilato il degradante italiano medio… Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare”.
C’è quasi del Lombroso in questo ritratto… Non solo un andare in senso ostinatamente contrario, che fu caratteristica di De André, ma anche una voglia di provocare e non prendere requie. E che rimanda ad altre prese di posizione pasoliniane contro questi giovani.
Dopo gli scontri di Valle Giulia, quando prese le parti dei poliziotti contro i figli di papà che li attaccavano dicendosi rivoluzionari. Dopo il rientro da Praga. In effetti quel che Pasolini non sopporta nelle nuove generazioni è di prendere falsamente a prestito il lessico degli altri, in particolare degli operai, che cercavano un riscatto pensando che fosse la rivoluzione sessantottina.
È questa falsità che lo spinge a condannare e fustigare una generazione, non in sé, ma perché è prodotta da quello che veniva chiamato “il Sistema” e che rappresentava la sconfitta acquiescente della generazione dei padri.

Una malattia ricorrente
Pasolini sa che il giovanilismo è una malattia ricorrente nella storia e nella politica del Bel Paese. Funzionò anche ai primordi del fascismo, traendo in inganno lo stesso Benedetto Croce, che vide le esercitazioni muscolari dei gestori del manganello come una sorta di acne giovanile che lo scorrere degli anni e la maturità avrebbero provveduto a temperare.
Non andò così. Il giovanilismo mena fuori strada perché attribuisce a un desiderio e a una baldanza soggettiva quel che è invece indotto da fuori, nelle coscienze e nella vita quotidiana, dal sistema della produzione. Perché?
Pasolini è esplicito anche questa volta nelle espressioni del suo autobiografismo storico: “Oggi tutto è cambiato: quando parliamo di padri e di figli, se per padri continuiamo sempre a intendere i padri borghesi, per figli intendiamo sia i figli borghesi che i figli proletari. Il quadro apocalittico, che io ho abbozzato qui sopra, dei figli, comprende borghesia e popolo. Le due storie si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo. Tale unificazione è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello “sviluppo”. Non si può dire che gli antifascisti in genere e in particolare i comunisti, si siano veramente opposti a una simile unificazione, il cui carattere è totalitario -per la prima volta veramente totalitario- anche se la sua repressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività). La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione della coscienza, da parte di noi antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberati della nostra profonda intimità…; secondo, e soprattutto, l’accettazione -tanto più colpevole quanto più inconsapevole- della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo”.

Il registro apocalittico
La storia d’Italia di PPP non è dunque in vena di sconti ai progressisti, ed è tutt’altro che lontana dall’uso esplicito di materiali apocalittici. Se oltre al disincanto e alla disperazione un barlume di luce può apparire all’orizzonte è certamente quello di una difficile speranza e non quello di un facile ottimismo. L’ottimismo non è categoria storica, ma psicologica: più adatta alla falsità delle pubblicità che al tormento di chi vuole costruire futuri.
È sparito il popolo dei contadini ed è pure sparito quello degli operai proletari e comunisti. Questa volta non è tanto Pasolini a fare l’affermazione, quanto il filosofo fondatore dell’operaismo italiano: Mario Tronti ci ha ripetuto più volte negli ultimi anni che se non ce l’hanno fatta loro -gli operai comunisti- non c’è speranza che altri vi riescano.
Una tragica elegia, che ripete letterariamente con Gogol che alla stazione di posta della storia non ci sono cavalli sufficienti per la Rivoluzione. Non a caso Pasolini militava insieme la letteratura e la politica, ed ha finito per impersonare in un’epoca di transizione insieme confusa e convulsa (anche questo è la transizione infinita) la figura inedita e subito scomparsa dell’intellettuale “disorganico”. Anche per questo profetico e tragico friulano non c’erano mai cavalli sufficienti alla stazione di posta.

Poesia civile
Di questi eventi e di questi umori si nutre la sua poesia totalmente civile. Come a dar conto dal suo versante al Gramsci -citato da Fulvio Papi- che ripete che la sola vita sensata è quella che prende forma di storia. Un Pasolini non addolcito dalla lontananza e sempre in grado di provocare perché insieme rivoluzionario e antimoderno. E infatti quando deve scrivere la lunghissima lirica in memoria delle vittime di Piazza Fontana prende a prestito i materiali e la location dell’Apocalisse di Giovanni: l’isola di Patmos; solo da lì è possibile guardare all’orrenda bomba milanese dei neofascisti. Non a caso del suo antimoderno fa parte anche l’imprinting religioso della fanciullezza. Che riesce a collocare, pur senza nascondere l’ansia di una ricerca ulteriore, anche il Vangelo secondo Matteo nel novero dell’ostinazione civile di PPP. Qualcosa che attiene insieme alla storia e al mistero che l’accompagna. Basta confrontare le sequenze pasoliniane con il calligrafismo del Gesù di Zeffirelli.

La nuova provocazione
E a questo punto non è possibile non vedere e non rilevare la nuova provocazione di Pier Paolo Pasolini. Essa consiste nel risultare insieme oggi così distante e, proprio per questo, così attuale. L’uso abituale di materiali apocalittici può far pensare -lo si è già notato- a David Maria Turoldo, o anche e più a Sergio Quinzio: un irregolare di genio dell’ermeneutica biblica che ha passato la vita a interrogarsi sui ritardi e la non-venuta del Messia, fino ad apparirmi, a dispetto di una cordiale e profonda amicizia, un poco menagramo.
Niente comunque di più alieno e di più stellarmente lontano rispetto al lessico delle attuali politiche della governabilità, che hanno esplicitamente sostituito alla critica la mitologia debole delle fiabe. Per esse Pasolini e tutti i suoi scritti in fascio, e più ancora le sue posizioni politiche, finiscono inevitabilmente nella tipologia dei “gufi”.
Il mito c’è anche -a piene mani- in Pasolini, ma non è certamente quello dell’ottimismo fiabesco, della Wall Disney Corporation, di una generazione di middle class low esposta al rischio di vivere attese di plastica e piccoloborghesi al posto del mito tragico e della sua perdita che caratterizzano la letteratura pasoliniana.
Questo è il fascino paradossale e la riscoperta inquietante che il leggere Pasolini oggi comporta. Una distanza che lo rende, importunamente ma utilmente, attuale. Con l’abitudine a non fare sconti a nessuno, tantomeno a se stesso. Con una cifra tragica che ho ignorato fino alle confidenze di una trasmissione televisiva che ha dato conto dei settantacinque anni di vita della Pro Civitate Christiana di Assisi.
È risaputo che nelle stanze fatte costruire da don Giovanni Rossi Pier Paolo Pasolini ha concepito l’idea del film sul Vangelo di Matteo. Si ritrovò infatti da solo nella sua camera perché tutti gli altri si erano recati all’incontro con papa Giovanni XXIII arrivato in treno in pellegrinaggio nella città del Poverello. Dovendo passare il tempo, si rivolse all’unico libro presente: il Vangelo appunto. Lo lesse d’un fiato attraversando i sinottici e decidendo di provare l’impresa filmica. Al ritorno ne parlò con don Giovanni Rossi che gli propose di confessarsi. Pasolini oppose un cortese diniego e il giorno successivo scrisse al fondatore della Pro Civitate una lettera stupenda e chiarificatrice.
Il problema di Dio lo assillava, ma era altresì convinto di non potere risolverlo. E usa in proposito una metafora inquietante. Scriveva a don Giovanni Rossi: “Non sono né a cavallo né a piedi; sono come chi è caduto da cavallo e gli è rimasto il piede impigliato nella staffa. Così vengo trascinato e mi trovo nell’impossibilità di togliermi da quella infelice posizione. Solo a Dio è concesso risolvere una situazione tanto complicata.
Fino alla fine PPP non cessa di stupire e inquietarci. Le sue pagine e i film risultano quantomeno un antidoto contro l’assuefazione e la pavidità.
[Gennaio 2015]

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ALBUM
Le foto alla Casa della Cultura
durante l'incontro per Pasolini - "Capoverso" il 26 Gennaio 2016

1- Il tavolo dei relatori. Da sin.
Gaccione, Papi, Ferretti, Alimena, Zaccuri, Dionesalvi, Bianchi

2 - Il Tavolo dei relatori


3 -Il tavolo dei relatori

4 -Il tavolo dei relatori

5 - Il tavolo dei relatori

6 - Il tavolo dei relatori



7 -Il tavolo dei relatori


8 -Il tavolo dei relatori

9 - Il tavolo dei relatori

10 - Gaccione, Papi, Ferretti, Alimena

11- Il tavolo dei relatori


12 - Il tavolo dei relatori. Gaccione al microfono

13 - Scorcio sul pubblico e relatori


14 - Angelo Gaccione


15 - Da sin. Seregni, Papi, Gaccione


16 - Variante


17 - Gaccione, Papi, Ferretti, Alimena


18 - Gaccione, Papi, Ferretti, Alimena

19 - Alimena, Zaccuri, Dionesalvi, Bianchi


20 - Gaccione mostra "Capoverso" al suo fianco Papi, Ferretti, Alimena

21- Papi, Ferretti

22 - Maria Dilucia legge brani di "Patmos"

23 -Maria Dilucia


24 - Franco Dionesalvi

25 - Franco Dionesalvi e Alessandro Zaccuri
26 - Dionesalvi, Alimena, Zaccuri, 

27 - Dionesalvi e Giovanni Bianchi

28 - Alimena, Zaccuri, Dionesalvi


29 - Alimena, Zaccuri

30 - Dilucia e alcuni relatori

31 - Margherita Caruso (la Madonna del film "Il Vangelo secondo Matteo"
al tavolo: Gaccione, Papi, Ferretti

32 -Caruso e il tavolo dei relatori


33 - Dilucia. Al tavolo Gaccione e Papi


34 - M. Dilucia

35 - Gaccione con M. Dilucia

LIBRI
NON LUOGO A PROCEDERE
Il nuovo libro di Claudio Magris
di Fulvio Papi
Claudio Magris (Foto: Alberto Ramella)

L’ultimo libro di Claudio Magris mostra che è ancora possibile l’esistenza di una grande letteratura e quella che, in modi differenti, si pone la domanda sul senso della sua presenza nel mondo. È una domanda che, di principio, evade da qualsiasi proposito pragmatico che ha già e sempre la sua giustificazione. La letteratura può essere lo specchio infranto, la stonatura voluta, il graffio volontario. E se si replica che anche la letteratura è una prassi, risponderò che accetto il gioco linguistico, solo se si ammette che le prassi sono differenti, e che questa parola non può far rinascere l’universale. Il titolo del romanzo “Non luogo a procedere” fa comprendere subito che l’opera è l’ascolto del fallimento che, per lo più, attende la giustizia per quanto riguarda i fatti storici. Possiamo certamente cercare la giustizia, anche con coraggio, ma alla fine siamo sempre nella corrente, come l’interprete nel caso del discorso. E di solito si perde. Nella dimensione dell’evento storico, della sorte collettiva, dei destini indivisi “tutta la storia umana è un raschiamento della coscienza e soprattutto della coscienza di chi sparisce”, così dice l’Autore. È il guardare dalla parte opposta rispetto al famoso detto dello storicismo hegeliano secondo cui “la storia del mondo è il giudizio del mondo”. L’aristocratica severità idealista ignora la morte plebea che attende ognuno, ed esalta la fierezza personale che assume il ruolo affidato dall’universale con una fedeltà involontariamente astuta, capace di volgere nel cammino della storia (via gloriae) i propri desideri e la domanda di felicità della propria esistenza. Poiché ogni fiore germoglia in una terra che può essere solo ragione. Di per sé dire queste cose nella forma dell’idea scheletrica (avrebbe detto Canetti), non è proprio una novità. La scoperta, intesa anche come forma della conoscenza, è tutta nella narrazione che sfugge alla naturale violenza dell’astratto, per cercare di riprodurre la percezione sensibile, il dolore della violenza sopportata, l’argomentazione del crimine, il dominio assassino che avvengono in un luogo, a se stessi destinato dalla nascita, in quella luce in quel colore. Sono queste le tempeste che nel nostro tempo cadono nel mare immenso dell’oblio. Sventolano i vessilli di un potere vittorioso che non pagherà mai le tristi ragioni della sua gloria. È la temporalità del presente, l’intersoggettività passiva che ritesse sempre le fila che trova in un nuovo tessuto e agisce, sul sentire di ognuno come una nube che eguaglia ogni fatto secondo il suo colore prevalente, condiviso da maggioranze pigre, paghe del loro equilibrio e anche della loro, pur modestissima partecipazione ai margini della festa. È quell’orizzonte della vita che tende a restringersi, a divenire prossimo, la doxa quotidiana viene scambiata per una pubblica verità, l’ “io”, un povero io che nasce in queste circostanze, nel suo “in der Welt sein” si feconda secondo le voci che vengono dal formicolio della vita comune. Questo è il nostro fiore di loto, il gioco di potenti, ma oplà Wir leben. Questo non accade solo oggi, ma sempre quando le anime sono formate dagli schizzi di fango dei giardini nobili, e nell’epoca che ci tocca, dal puro scambio mercantile: una specie di peccato d’origine e che si reitera come costante nel suo rapporto con il tempo.                 
Ho cercato, a mio modo, di evocare il senso delle pagine di Magris, un romanzo di natura storico-antropologica, dando però un significato leggero a queste parole, quanto, invece, si fa più forte nel discorso letterario, il contenuto morale. Leggo che Magris si sente vicino a Tolstoj. Assomiglia a quanto ho cercato di dire. Certamente di Tolstoj non ha il ritmo narrativo, e non è solo una questione di contemporanea sapienza letteraria, ma di poter dire e dare forma all’esperienza umana e alle sue mutevoli tracce. I personaggi centrali di Magris hanno sempre un “da dove”, una archeologia simbolica che ha sempre dovuto pagare altissimo il suo essere nel mondo: neri o ebrei. L’opera di Magris è una costruzione che inserisce nell’unità del suo flusso di senso una pluralità di sedimenti temporali che coesistono facilmente poiché sono capitoli di una narrazione, in fondo, a tema. Racconti nel racconto, si può dire: ma la loro necessità narrativa è tutta qui. Azzarderò qualcosa di più: questo rapporto tra unità e differenza, tra tempo presente ed epoca lontana mi pare si avverta anche nella scrittura. Quanto più l’oggetto si allontana in un tempo che non dimentica mai le fantasmagorie naturali che accompagnano come sfondo ma anche come risorsa di uno stanco “se stesso” come corpo nero o ebreo, la scrittura diventa continua allusione poetica, fiorisce di metafora in metafora, le parole possono apparire come lo scintillare delle cose evocate che complica un poco la narrazione perché richiede una diversa empatia (esperienza che non mi pare ci fosse né in “Danubio”, né in “Microcosmi”).          
La scena della scrittura cambia in modo sensibile, quando i fatti narrati sono vicini alla memoria dello scrittore e alla sua più diretta sensibilità morale e politica. Qui è quasi sempre la referenza diretta a dominare la scrittura, come di chi chiami direttamente il lettore a una conoscenza storica, alla frequentazione di una verità che comunque lo deve riguardare. La referenza stabilisce, com’è ovvio, una più diretta unità tra scrittore e lettore. La “fabula”, a patto di semplificare molto, non è difficile da raccontare. Un personaggio (colto dallo scrittore nel mondo reale) con una sua stravaganza ma sicura dignità, si mette in mente di raccogliere per farne un museo ogni tipo di ordigno bellico della seconda guerra mondiale, ma anche della prima, così come di altre civiltà o di altre epoche: sottomarini della imperial-regia marina, un carro armato della armata rossa, una mitraglietta francese del 1909, una daga delle legioni romane. Il proposito è quello che un simile museo di strumenti di morte divenga un incentivo di pace. Proprio per questa ragione la memoria della contemporaneità è particolarmente importante poiché essa ha a che vedere con il nostro modo di essere. Si tratta di riprodurre nei propri quaderni messaggi, grafici, nomi, disegni, striature, simboli che sono leggibili in ciascuna delle 17 celle del campo di sterminio della Risiera di San Sabba a Trieste, l’unico organizzato in Italia dalla tecnologia criminale dei nazisti. Aggiungo: il campo di Fossoli dove ebrei, partigiani, note figure antifasciste venivano concentrati per lo più per l’invio in Germania o in Polonia, ma anche fucilati sul luogo, era noto a tutti. Della Risiera di San Sabba a Trieste se ne cominciò a parlare negli anni Sessanta. La reticenza a ricordare la strage è descritta molto bene da Primo Levi. Ma il caso di Trieste richiede qualche spiegazione in più. In ogni caso nei quaderni dell’ideatore del museo vi erano riprodotte tragiche testimonianze che qualsiasi interprete capace avrebbe fatto parlare facilmente. Era la possibilità di un rapporto tra verità e giustizia. I nazisti erano maestri delle macchine dell’assassinio, ma i segni sui muri screpolati potevano indicare il corteo di spie, delatori, complici, profittatori, affaristi che prosperavano nei dintorni dello sterminio. Poteva essere il documento della verità sulle indegne collusioni. Ma un incendio misterioso invase il magazzino dei reperti bellici e probabilmente ridusse in cenere i preziosi quaderni e, se non fu così, o non fu così per tutti, essi vennero sottratti, destinati a scomparire, nel loro silenzio, negli archivi segreti dell’esercito inglese a Londra. Il perché in questo caso è facilissimo, assomiglia alle vicende dell’armadio dimenticato nel ministero della Difesa a Roma che conteneva la documentazione completa delle stragi naziste in Italia. La guerra fredda, la naturale connivenza dei potenti solidali nelle loro strategie, a Roma come a Trieste, coprirono ogni segno della verità e la “storia” ignorò la giustizia e accettò la coscienza che il comodo del momento suggeriva coltivando l’indifferenza. La mia narrazione, colpevole come ogni secondo testo di un primo fondamentale, ora procede facendo centro su un altro personaggio, Luisa che dopo l’incendio ha il compito di mettere insieme il museo secondo una sequenza di sale. Il nostro essere al mondo è solo un gioco di dadi, ma nel caso di Luisa questo gioco ha una profondità epocale e una qualità etica, una contro-storia, i fatti che per lo più non hanno narrazione o ne hanno solo frammenti che non costituiscono gradini della ascesa alla pubblica verità. Magris, raccontando l’intreccio incerto dei racconti del soldato tedesco che non avrebbe sparato su inermi polacchi, sa bene la potenza dei racconti e quale possa essere il caso della prevalenza della “verità”. Certamente come dice Magris ogni “io” non può che nascere nella relazione con un “tu” (e spesso questo “tu” è molto complicato e anche sfuggente). Ma il “tu” di Luisa è tutto nella profondità dell’ingiustizia, nella persecuzione di una lunga traccia temporale, la storia degli ebrei nel mondo. Luisa è inconsciamente costretta a percepirsi come il testimone vivente di una storia di violenze che hanno segnato la nostra storia e ancora oggi ne portano i segni. Ma è una ragazza che ha elaborato in se stessa l’Altro sociale che molto ti costruisce e non poco ti costringe ad essere (Ricoeur ha scritto sul tema un vero librone). I suoi amori arrivano, appassiscono, si arenano nella palude dell’esistenza comune. Ma sa ricominciare, è un testimone che riesce a valicare le condizioni un poco disperate della testimonianza. Non cade nell’inganno dell’amore che Magris ricorda da un celebre verso per cui il primo bacio è solo l’iniziale rottura dell’incanto amoroso. La ragazza non soffrirà di questo reperto romantico (petrarchesco infine), accetta la discesa al solo possibile della banalità ripetitiva. Il suo senso, la costruzione del suo “io” deve percorrere altri cammini che non sono quelli della “illusione poeticante” dell’esistenza. È nel suo corpo nato da madre ebrea e da nero americano che c’è già una forma dell’io, una condizione di autoriconoscimento: lo svelano i colori differenti delle mani, più scure all’esterno, più chiare all’interno. La madre di Luisa è Sara salvata dalla persecuzione assassina dei nazisti perché nascosta dalla madre nell’accogliente casa di Anna in un piccolo paese istriano. Trieste, l’Istria e la Dalmazia dopo il settembre del 1943 sono diventati una provincia tedesca dove nazionalisti e fascisti accettano di mantenere il loro rango privilegiato al servizio dei nuovi signori. La “storia” può cambiare la scena, ma il ruolo dell’attore non cambia poiché il privilegio e la persecuzione sono scritti nella sua identità come la capacità di cambiare abito nel momento opportuno. La madre di Sara, Deborah, finisce nel forno crematorio della Risiera, ma su di lei corre voce che abbia dato notizia ai nazisti degli stessi ebrei che la ospitavano. Il sospetto è infamante e la sua ombra scende su Sara cui tocca il destino di sospettare di sé come figlia della spia. Ma il fatto, nell’interpretazione, è controverso: Deborah ha parlato nell’illusione di salvare se stessa? Ha fatto i nomi in un interrogatorio atroce dopo la cattura? I dubbi e le incertezze si possono moltiplicare, ma questa voce, che come ogni voce o si spegne o, al contrario, diviene un racconto della realtà, come tra i vecchi e i nuovi amici di Trieste e così diviene il segno, la marcatura della vita di Sara in uno spazio indecente del sopravvivere. Almeno sino al giorno in cui entra nella sua vita il sergente Brooks, un nero americano di un reparto che dopo il maggio del ’45 occupa Trieste, diventata “stato libero” sotto l’amministrazione alleata. Brooks viene dalla storia dei neri d’America, dalle navi negriere, dalla persecuzione, dalla sorte dei neri nel continente della ricchezza e del potere dei bianchi. Non è solo una rappresentazione del passato, è una violenza che si ripete nel presente: la sorella di Brooks, arruolata nell’armata americana, viene uccisa a calci da una banda razzista a Londra. Sara e Brooks portano nel loro corpo, nel loro modo di essere nel mondo, di sentirlo, di percepirlo, di temerlo e di desiderarlo, i segni delle loro dolorose discendenze. E così che il loro amore è il fiore vitale della loro esistenza, la perfetta rispondenza emotiva dei loro destini, una felicità che non sa di ripagare i segni delle persecuzioni che, nel silenzio, rimangono nelle loro vite.  Breve tuttavia la stagione di questo amore, l’ultimo dono reciproco è la nascita di Luisa poiché Brooks muore in un banale incidente ad Aviano. Senza un caso crudele la perfidia della storia avrebbe potuto essere medicata? La vicenda privata avrebbe potuto sopravvivere come una delle famose isole felici? Pagine che costringono il lettore a uscire dal suo involontario guscio protettivo sono quelle che Magris dedica alla disgustosa festa per il compleanno di Hitler, il 20 aprile 1945, che i gerarchi nazisti organizzano nel castello di Miramare. Vi si ritrova come in uno specchio il mondo che nella Risiera di San Sabba ha la sua realtà: comandanti tedeschi dell’esercito e della polizia, amministratori fascisti, rottami del potere di tutto il tempo dell’occupazione, personaggi che hanno intessuto con costoro i loro affari, prossimi voltagabbana, interpreti della furbizia dell’io sprofondato nella vergogna. Corrono discorsi insensati, comportamenti disgustosi, eccessi sessuali in quella che dovrebbe essere, tra le splendide sale di Miramare e il suo giardino, l’ultima festa, il lugubre necessario commiato, la trasfigurazione lubrica della morte. Ma non sarà così poiché molti si salveranno, alcuni persino con onore. Il tribunale della storia è senza giustizia, il suo codice è scritto sulla sabbia, la sua aura morale, l’indifferenza. Pochi giorni dopo con lo sfondamento delle linee tedesche la VIIIa armata inglese, a est come a ovest, è nella valle del Po. Trieste insorge contro i nazisti. Ma il IX corpus dei partigiani di Tito ha già raggiunto la città. Sono giorni del tutto inimmaginabili altrove: ci sono gli insorti italiani del CVL (azionisti e cattolici), i partigiani di Tito, i comunisti divisi tra italiani e “compagni” iugoslavi, la guarnigione tedesca, soldati, SS, Kriegsmarine, che resiste ancora, la guardia civica che si schiera da una parte o dall’altra. Si spara ovunque, ma alla fine i partigiani di Tito prevarranno, disarmano gli insorti italiani, sono padroni della città. Nei giorni dell’occupazione uccisero e gettarono nelle foibe italiani di ogni appartenenza, in una furiosa vendetta dei crimini commessi in Slovenia e Croazia dagli occupanti italiani. È così con l’opera di Magris siamo calati in una storia, oggi del tutto placata, dove gli uomini (ricorda l’Autore) sono sempre vittime, qualsiasi posto possono assumere. Il gioco è dei “padroni del mondo”. A Trieste come altrove: il loro volto muta, ma il loro potere, si diffonde con l’aria che respiriamo. So che del testo ho ignorato analisi che andavano fatte. Una però non l’ho dimenticata. Mi sono segnato tutte le frasi triestine che compaiono nell’opera, e credo di aver capito il loro senso. L’autore (da augere: colui che aumenta) è sempre un uomo con l’altra gente, guarda lo stesso mare, sopporta la stessa bora, conosce le stesse strade, condivide il modo più semplice per scambiare se stesso; così l’opera è un lavoro e un tempo, tra il lavoro e il tempo degli altri. E questo, gli cade dalla penna, come lo sguardo quotidiano nel mondo.  

La copertina del libro
Claudio Magris
Non luogo a procedere
Ed. Garzanti 2015
Pagg. 368 € 20,00


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IL TRAGICO VOLO
di Giulia Marchina

Giulia Marchina

Vent’anni fa, l’ 11 Febbraio 1996 a Roma, in Via del Corallo n. 24
si toglieva la vita la poetessa Amelia Rosselli.

                                              Passò anche Amelia, volava come una tunica.
                                                                                                   G. Giudici

Questo 11 febbraio ricorre il ventennale di un tragico volo, quello che la poetessa Amelia Rosselli spiccò dalla finestra della sua cucina, a Roma, in via del Corallo.
Da sempre conscia di essere appartenuta alle fila dei poeti della «ricerca»,1 quando venne a mancare in lei la sua stessa lingua, la scrittura, quel silenzio la condusse al suicidio, fatalmente concorde nella data a quello perpetrato nel 1963 da Sylvia Plath, da lei amata e tradotta.
Per Amelia vita e poesia furono voci inscindibili di uno stesso verbo, un verbo plurilingue, o di una lingua insondabile e imprecisata: i suoi versi e i suoi scritti giovanili, fortemente intessuti di prestiti dal francese e dall’inglese, nonché dall’italiano popolare e da arcaismi della nostra tradizione letteraria, costituiscono un prezioso e inusitato amalgama, formalmente e semanticamente complesso e spesso, anche per i critici, indecifrabile. Ritengo importante sottolineare che queste peculiarità linguistiche da me appena accennate, nonché le concrezioni, i grumi traumatici che permeano il suo discorso ad ogni livello, sono tutti caratteri riconducibili alla sua storia di orfana (il padre Carlo Rosselli, fondatore di Giustizia e Libertà, fu assassinato a Parigi nel 1937), rifugiata e peregrina in Europa e negli Usa. La sua non fu dunque una scrittura «cosmopolita»,2 ma piuttosto il frutto cangiante di un secolo terribile e di una sensibilità nuova:
Nata a Parigi travagliata nell’epopea della nostra generazione 
fallace. Giaciuta in America fra i ricchi campi dei possidenti
 
e dello Stato statale. Vissuta in Italia, paese barbaro.
 
Scappata dall’Inghilterra paese di sofisticati. Speranzosa
 
nell’Ovest ove niente per ora cresce.
(3)

Amelia Rosselli mentre declama una poesia

In Stranieri a se stessi, Julia Kristeva ha lucidamente messo in relazione due termini che risultano, per così dire, simbiotici: quello di étranger (straniero/estraneo) e quello di étrange (strano), giungendo con la sua riflessione a legittimare il carattere d’inquietante étrangeté proprio a molti poeti e artisti che hanno vissuto la condizione dell’esilio e dell’emarginazione.4 Amelia Rosselli fu per così dire, un’eterna straniera, anche in patria. Rientrata in Italia fu refrattaria a qualunque etichetta, in particolare a quella della Neoavanguardia, sentita da lei come un vero e proprio peso, come scrisse ironicamente nel poemetto La Libellula (1958): «E io/ lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su/ de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia/ fattucchiera».5
A differenza di molti poeti del suo tempo, Amelia sentì il bisogno di imbrigliare la sua materia in un metro unico e regolare, da lei definito e spiegato al pubblico dei suoi lettori con grande chiarezza nel manifesto Spazi metrici (1962). E in questo darsi delle regole e rispettarle, nell’attenzione al ritmo e alla musica, fu di uno sperimentalismo certo assai più vicino a quello dei grandi poeti della classicità! Il ritmo seducente dei suoi versi, la lingua che come un Proteo multiforme, si nutre di più lingue, le parole, definite da Zanzotto veri e propri «mostriciattoli di luce»,6 invitano il lettore a intraprendere una quête, a cercare di risolvere l’enigma della Sibilla.

Amelia Rosselli nella sua casa di Roma

Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo
è vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il
mondo è vedovo se tu non muori! Tutto il mondo
è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo
una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi
dalla tua nascita e l'importanza del nuovo giorno
non è che notte per la tua distanza. Cieca sono
ché tu cammini ancora! cieca sono che tu cammini
e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini
ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.
(7)

Note
1. A. Rosselli, Una scrittura plurale, a cura di F. Caputo, Novara, Interlinea, 2004.
2. P. P. Pasolini, Notizia su Amelia Rosselli, in «Il Menabò», n.6, 1963, pp. 66-69.
3. Variazioni Belliche in Rosselli, L’Opera poetica, a cura di S. Giovannuzzi, Milano,
Mondadori, 2012, p. 46.
4. Ne L’idiota della famiglia Jean-Paul Sartre ripropone questo concetto il termine
inglese ma di origine francese «estrangement», con cui Lacan traduce la freudiana unheimlichkeit.
5. La Libellula: Panegirico della libertà in Rosselli, L’Opera poetica, a cura di S. Giovannuzzi, Milano, Mondadori, 2012, p. 196.
6. A. Zanzotto, Aure e disincanti nel mondo letterario, Milano, Mondadori, 2001, p.128.
7. Variazioni belliche op. cit. p.179.

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LIBRI
Ravasi e il giubileo antisistema
di Giovanni Bianchi

Gianfranco Ravasi
Il bello dell’esegesi
Ci sono esegeti a miccia lunga. Principe tra essi era il cardinale Martini, che non a caso nell’ultimo soggiorno di studio a Gerusalemme dedicava il tempo ai testi che sarebbero serviti per le traduzioni. Un impegno all’evidenza arido, ma tutto orientato a fare risplendere la parola di Dio e in alcuni casi a farla “esplodere”. Sulla medesima scia e con altrettanta competenza si muove da sempre il cardinale Ravasi, già direttore a Milano della Biblioteca Ambrosiana, approdato in Vaticano al Pontificio consiglio della cultura.
La miccia lunga infatti consente di lavorare con acribia i testi, anche quelli che nella Scrittura rivestono un carattere normativo  e talvolta addirittura “fiscale”, perché alla fine la parola di Dio, indagata, sprigioni tutte le sue punte potenzialità in commenti che cantano.
Ultimo frutto delle fatiche di Ravasi (ma non per molto, c’è da giurarlo) il testo Il significato del giubileo. L’anno Santo. Dalla Bibbia ai nostri giorni, edito dalle Dehoniane di Bologna, 8 euro l’abbordabilissimo prezzo di copertina. Altra caratteristica invidiabile di Ravasi, va detto subito, è riuscire ogni volta ad annullare le distanze tra il rigore dell’analisi ermeneutica e la fruibilità della divulgazione. Un pensiero ed una scrittura cioè che attraversano i confini e le linee degli specialisti- chiamiamoli per una volta i “pianisti” della Scrittura -per rivolgersi anche agli orecchianti e perfino gli stonati.
È questa capacità che riesce a far cantare i testi e a renderne nel contempo palese la natura esplosiva. Prendiamo ad esempio la fine di p. 32 e l’inizio di p. 33. Scrive Ravasi:
“In Israele la terra non si vende mai; essa non è di proprietà neppure della tribù o della famiglia. L’uomo ha soltanto l’usufrutto della terra, non il possesso. La terra resta sempre di Dio. Siamo ben lontani dal concetto di proprietà privata dell’Occidente o anche dal romano ius utendi et abutendi di una realtà, fino a devastarla come accade in un certo capitalismo occidentale, che ha ancora alla base questo concetto quasi assoluto di proprietà privata, per fortuna temperato dalle legislazioni degli Stati”.
Non c’è possibilità di fraintendere e neppure di svicolare. L’uomo della strada, anche se di fretta, riesce a capire, così come non puoi fare a meno di pensare che Amartya Sen, Stiglitz, Crugman e anche Thomas Piketty annuiscano compiaciuti: ecco uno degli effetti della miccia lunga. E infatti Ravasi ha già scritto a p. 27: “Il capitolo 25 del Levitico è una pagina di lettura non facile, forse noiosa, complessa e arida, che contiene, come in un involucro, tutta l’energia che è stata poi alla base del successivo Giubileo della tradizione cristiana. Occorre spezzare l’involucro per scoprire il respiro che si nasconde sotto la lettera della legge”.
Insomma, non sono le trovate né i colpi di teatro che ci appassionano all’Antico Testamento, ma il duro mestiere dello studioso che rispetta la Parola per averla a lungo ruminata.
Una provvidenza oculata
Quella che incontri passo dopo passo, testo dopo testo, prescrizione dopo prescrizione è una provvidenza oculata e non svagata o disattenta: che rispetta le stagioni, il maggese, la terra stessa che, come i suoi coltivatori ha bisogno di riposo, il nido degli uccelli, la fame dei poveri ammessi a spigolare dopo la mietitura.
Un ritmo diverso: dove il riposo ha la medesima dignità del lavoro dovuto e duro, e dove anche il benessere e i diritti degli animali da soma chiedono di essere rispettati.
Il genere che ritroviamo -annota puntualmente il Ravasi- nei testi sacri dell’antichità e anche nell’Islam. Il che dice che il Libro, tutti i libri sacri, in certo modo si tengono, ma non bastano. È il cuore dell’uomo che deve rimettersi in strada; per questo il giubileo è anche un pellegrinaggio (niente tuttavia a che fare con il turismo) con l’anima in spalla.
Neppure tiene la contrapposizione tra un Dio severo e giudice dell’Antico Testamento e un Dio pietoso e accogliente -materno come madre- del Nuovo Testamento. Neppure in questo caso siamo autorizzati a prendere le distanze dai nostri fratelli maggiori israeliti.
Quello che il cardinale Ravasi ci conduce ad approssimare e conoscere è un Dio che non teme di apparire ragioniere e geometra, pur di mettere al sicuro la giustizia e la solidarietà. E in primo luogo la giustizia. Un Dio “fiscale” che entra nei dettagli delle compravendite e ha l’aria di non tollerare deroghe nei confronti dei suoi poveri. Per il Signore del giubileo il popolo di Dio è un popolo unito perché formato da uguali, non solo sulla carta, ma con i piedi ben piantati per terra, e con i conti e i perimetri che tornano.
Nell’epoca moderna
La logica del giubileo emerge da queste pagine come un cannocchiale che guardando dal passato remoto fissa le sue lenti sui problemi del presente. È così che, assente dal Nuovo Testamento, il termine giubileo entra nella vita della Chiesa settecento anni fa, quando il 22 febbraio del 1300, papa Bonifacio VIII -certamente non additato come esempio di pietà-  emana la bolla del primo anno santo, anche se la struttura fondamentale del rito verrà definita nel 1500 da Alessandro VI Borgia, altra figura di pontefice non raccomandata come esempio ai seminaristi.
In quest’oggi il problema della casa è tornato attuale in forme a dir poco drammatiche, con cittadini senza casa e case senza inquilini. Lo stesso dicasi del lavoro “che manca e che stanca di più del lavoro che stanca” (Aris Accornero). Società liquide disgregate che impediscono di pensare il futuro non soltanto per le nuove generazioni.
Come recuperare allora il termine “anno di grazia”?
A questo punto Ravasi prende le parti del Nazareno per illustrarci il senso nei Vangeli dell’anno giubilare di Cristo. Il Vangelo come “lieto annunzio ai poveri” e come tempo privilegiato della riconciliazione con Dio. Tutti i simboli e tutti gli anni giubilari – molti gli straordinari – della modernità. E soprattutto i passi del Nuovo Testamento che fondano la visione giubilare di Gesù Cristo “non più quello di Israele, ma il Giubileo cristiano, perché non si può accogliere un anno, ci accoglie invece una persona”(p. 60). In tal modo “Gesù viene quindi ad annunciare una giustizia anche sociale, che condanna una religiosità distaccata dalla storia e limitata a incensi, ceri accesi e canti”(p.55). E infatti “non è lecito guardare da un’altra parte” (p. 56).
Ad andare per le spicce, si può ben dire che Ravasi sciorina tutto il retroterra scritturale della proposta di papa Francesco. Senza mettere tra parentesi che la stessa cristianità ha seminato la storia di male. E senza d’altra parte ridurre equivocamente il giubileo a una questione socio-politica, proprio perché restano dovuti, impliciti ed evidenti i suoi effetti sociali. La stessa tensione utopica sottesa all’anno giubilare non va né sottaciuta né depotenziata.
Papa Bergoglio
Resta un ultimo link da individuare. Quello che lega profondamente questa riflessione di Ravasi al magistero di Francesco. Perché Francesco insiste con parole antiche che in questa fase storica suonano nuovissime alle orecchie degli uomini siano essi credenti o meno?
Papa Bergoglio non è un progressista, ma un radicale evangelico che fa risuonare nuove anche parole della tradizione cristiana -potremmo anche scrivere Traditio- e dell’antimoderno.
Ha confidato recentemente di non guardare la televisione da 25 anni: “per un fioretto”. Produce un lessico dove non mancano le invenzioni linguistiche curiosamente a cavallo tra italiano e castigliano: la più nota è inequità (fatica inutile tradurre).
Le sue encicliche e il suo magistero quotidiano (le prediche mattutine in Santa Marta) non si rivolgono ai credenti o agli uomini di buona volontà, ma al mondo intero. Hanno la levità, la profondità e l’ostinazione di parole che ignorano i confini nell’epoca dei fondamentalismi che invece erigono sempre nuovi confini e li insanguinano. Partecipano del meticciato globale e quotidiano che presuppone l’accoglienza ed esige la misericordia.
La sua puntualità d’intervento non cessa di stupire e insieme commuoverci. Uno stupore e una commozione di massa, che sembra ancora una volta annullare il confine tra credenti e noncredenti. Forse ha ragione un amico che insegna filosofia estetica a osservare che lo sguardo di Francesco non considera il capitalismo un destino.
Anche la sua è una miccia sempre accesa. E celiando con il recupero di una vecchia sigla e sepolta del movimentismo italiano potremmo forse dire: Miccia Continua.

La copertina del libro
Gianfranco Ravasi
Il significato del Giubileo
Edizioni Dehoniane 2015
Pagg. 82  € 8,00 

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TEATRO
TOMMASO CAMPANELLA E UMBERTO ECO
Un dialogo morale di Dante Maffìa

Dante Maffìa (foto: Paolo Quaranta)

CAMPANELLA:
Non sono mai frivolo, lo sai, ma appena ti ho visto, stamani, m’è venuto da pensare se i nomi sono soltanto un involucro per farci riconoscere dagli altri, o se invece sono, come diceva l’antico greco che l’Alighieri poi ricalcò, sostanza del nostro essere. E quindi mi sono detto che se ti chiami Eco in qualche modo sei eco di qualcosa che però mi sfugge. Ci hai mai pensato? O è troppo peregrina la mia osservazione, appunto frivola?

ECO:
Come dire che tu sei una piccola campana. Non sapremo mai esattamente come i nomi ci si appiccicano addosso  e poi diventano la nostra identità. Non possiamo scegliere, c’è chi lo ha fatto e lo fa per noi. Anzi, adesso si può, basta andare al Municipio di residenza e fare un cambio. Tu non saresti stato più immediatamente riconoscibile se ti fossi chiamato Settimontano Squilla?

CAMPANELLA:
In che buffa discussione ci stiamo avventurando! Tu vieni a trovarmi  qui a Stilo e io ti accolgo  con  queste chiacchiere inutili. Perdonami. Devo dirti innanzi tutto d’essere contento, Catarinella preparerà subito un bel pranzo alla calabrese. Lo mangi il piccante, vero? Pasta di casa con la ndùja, un po’ di sopressata e di formaggio. Dovrai accontentarti, Catarinella è ormai vecchia e fa quel che può. Cipolla e lattuga sono del nostro giardino, roba genuina, sentirai il sapore.

ECO:
La proverbiale accoglienza dei calabresi! Maestro, innanzi tutto, prima che il vino ci annebbi (ti ho portato alcune bottiglie piemontesi che sono un delirio ma forse ho sbagliato perché la tua è terra di vitigni secolari) vorrei chiederti se posso avere il permesso di mettere sulla mia lapide (quando sarà, facciamo i dovuti scongiuri) le ultime parole de La città del sole.

CAMPANELLA:
Permesso accordato, figuriamoci. Vuoi  che te lo metta per iscritto?

ECO:
No, mi basta la tua parola.

CAMPANELLA:
Allora, dimmi a che cosa stai lavorando. Tu sai che ti ho seguito sempre con molto interesse, anche se qui è difficile reperire i libri. Devo dirti che le tue invenzioni sono geniali, hanno il senso delle cose e della magia, scusami l’autocitazione, ma è per dirti quanto ti trovo in sintonia con me. Quell’isola del giorno prima, poi, è davvero strabiliante.

Tommaso Campanella

ECO:
Non l’hanno capita in molti.

CAMPANELLA:
E questo deve inorgoglirti, vuol dire che non sei banale, provvisorio, appetibile ai giornalisti che, a quanto mi dicono, è una brutta razza di facinorosi superficiali e carrieristi.

ECO:
Preferisco non esprimermi in proposito. Io ho la sacralità della scrittura e mi indigno quando lo sconcio entra in gioco nei libri o sulle pagine dei giornali, non ne capisco la necessità, addirittura, perché la notizia non è mai obiettiva, neutra, ma una lama arrugginita che infetta anime e menti.

CAMPANELLA:
Capisco il tuo disagio. E’ scomodo vivere in un mondo di mediocri, di venduti. Non mi fare ricordare i tradimenti, ti prego.

ECO:
Io ho vissuto la lettura e la scrittura come una religione assoluta e sono venuto a trovarti perché so che anche tu hai fatto altrettanto e in tempi in cui il libro era quasi un oggetto misterioso. Ti devo l’esempio che mi hai dato, la mia visita è innanzi tutto un atto di agnizione.
Umberto Eco
CAMPANELLA:
Non mi mettere scomodo, non mi imbarazzare. Ho sempre ricevuto calci nel sedere, da tutti, anche dai papi nel momento del pericolo e dopo che si erano serviti di me. Non parliamo di Richelieu, una belva con settante sette bocche fameliche.

ECO:
Ma c’è qualcuno che hai sentito vicino a te in tanti secoli?

CAMPANELLA:
Una straordinaria signora di nome Marguerite Yourcenar. E’ venuta a trovarmi e mi ha portato un suo libro, L’opera in nero, nel quale mi riconosce dei meriti. E adesso tu, che compi un viaggio impervio e scomodissimo per venirmi a trovare per chiedermi di utilizzare delle mie parole per la tua eternità. Ti sono grato, ogni parola che mi viene rivolta con dolcezza, ogni azione che mi sottrae alla volgarità che mi circonda mi dà una sorta di ebbrezza che durante la mia esistenza terrena non ho potuto mai ricevere. Sbatacchiato da un convento all’altro mi hanno trattato da reietto, da nemico della chiesa, non hanno mai voluto intendere che il potere per me non sta nei codici, ma nell’amore per il prossimo e per Dio. Ma è una lunga faccenda che avremo modo di discutere a lungo quando fra cento anni verrai definitivamente qui, a Stilo.

ECO:
Avrei tante cose da domandarti, ma sono emozionato, i pensieri corrono veloci e si accavallano, dimmi soltanto se davvero gli scritti te li ha dettati Dio in persona oppure è una leggenda.

CAMPANELLA:
Ogni leggenda ha una parte di verità che sostanzia le parole  e i fatti. Sì, io sentivo arrivare l’alito di Dio che mi dettava, un fluire di pensieri alti che seguivano il suo fiato. Non sempre sono stato in grado di registrare tutto, a volte Lui era frettoloso, altre volte veniva chiamato per un impegno improvviso, altre ancora veniva disturbato dai Profeti gelosi della sua scelta. Anche lassù ci sono fazioni e camarille,  ndranghete e mafie che fanno la fronda e cospirano. Tu credi che in Paradiso abbiano mai accettato che il figlio di un ciabattino sia stato scelto per portare la parola nuova al mondo? Non crederlo mai, saresti un ingenuo. Ma io so perché Dio si è rivolto a me, perché sulla questione del libero arbitrio avevo assorbito le lezioni di Platone, di Aristotele, di Agostino, di Duns Scoto e avevo formulato una teoria che rispecchia esattamente le Sue volontà. Non è una questione facile, è uno di quegli enigmi che si trascineranno nei secoli dei secoli, ma io ci ero entrato in pienezza, avevo, per esempio, capito che “la conoscenza, delle scienze umane, se ben intesa, può collocare il nostro interrogativo al suo posto giusto: cioè nel dominio oggettivo della osservazione empirica positiva -sociologica o psicologica- ma nell’ambito della esperienza esistenziale vissuta, colta attraverso una fenomenologia riflessiva”.

T. Campanella
ECO:
Starei ad ascoltarti ore e ore.

CAMPANELLA:
Verrà il tempo, come diceva il poeta, i giorni volano in fretta, una sola raccomandazione, non farti prendere mai dall’assillo della inutile coscienza, è sempre il poeta  a dirlo, che tutto inutile sia. Il meglio di me credo di averlo dato in poesia, ma pare che sia ritenuta difficile, ostica. Ma chi ci si è messo a leggerla ho visto che ha saputo viverla, quel ragazzo calabrese così simile a me, così innamorato dei tuoi libri. Perché non lo tieni di conto?

ECO:
E’ una raccomandazione?

CAMPANELLA:
E’ appena una segnalazione, ma so che sei troppo preso dai tuoi assilli e non hai tempo per le relazioni e le promozioni. Quando ero alla Sorbona anch’io a volte mi trinceravo nel mio fare quotidiano, ma adesso posso dire che un po’ ho sbagliato. “Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna…”. Ma non sta a me dirti quel che devi o non devi fare. Sono felice della tua visita, del tuo ritenermi degno della tua attenzione.

U. Eco
ECO:
A proposito della tua poesia, Firpo e Bobbio dicevano che sei secondo soltanto a Dante. L’hai incontrato?

CAMPANELLA:
Certo, l’ho incontrato, ma non abbiamo legato, anche se io sono, poeticamente parlando, dantesco fino in fondo. Come persona lui è astratto, non so come dirti, vive dentro finzioni teologiche che non sa tessere e allora le rivolta e le riapre con strafalcioni che mi fanno sorridere. Gli manca, per dirla tutta, il fiato del quotidiano, del vissuto.

ECO:
Non l’avrei mai pensato.

CAMPANELLA:
Perdonami, sono stanco, mi stanco facilmente ormai. Un tempo riuscivo a studiare anche quindici, sedici ore al giorno, ininterrottamente, preso dalla smania di svelare i misteri della vita, del Cielo e dell’Amore. Mi hanno sempre avversato, frainteso. Tu credi di non avere nemici per quello che hai scritto? Non t’illudere, senza che l’abbia voluto hai pestato i piedi a un cardinale o a un politico, a un invidioso, a un mercenario. Tu sei una grande mente, un grande cuore, una risorsa umana straordinaria. Io posso dirtelo perché ormai non sono soggetto a limitazioni e a paure di qualsiasi genere. La tua parola vola alta, è come gli arcobaleni che vagano nel cielo accendendo luminarie che devono servire a modificare la sostanza degli esseri umani nel loro cammino verso la luce o verso la tenebra. La città del sole non è un luogo preconfezionato, ma un luogo da organizzare e popolare continuamente. Con libri come i tuoi che danno la consapevolezza.

ECO:
Non mi sopravvaluti?

CAMPANELLA:
Non essere troppo umile, l’eccesso di umiltà porta danni.

ECO:
Ancora una domanda, ti prego, aspetta, aspetta.

CAMPANELLA:
Non posso, non posso.

***
LIBRI
ALDA MERINI. LA POETESSA DEI NAVIGLI

Alda Merini

Se vogliamo entrare davvero in sintonia con il libro di Aldo Colonnello dedicato alla memoria di Alda Merini (Alda Merini la poetessa dei Navigli, Ed. Meravigli, Pagg. 146 € 15,00), dobbiamo accettarlo per quello che realmente è: una lunga, affettuosa e appassionata lettera d’amore. Chi si immergerà nelle sue pagine si accorgerà subito che quella di Colonnello, nei confronti della poetessa, (ma direi anche della donna), non è stata la semplice frequentazione di un ammiratore affascinato dai suoi versi, o di un amico premuroso che, in quanto tale, c’è sempre, anche nei momenti più difficili, con l’attenzione, la sensibilità e la discrezione che una vera amicizia comporta. Tutto questo c’è, ovviamente, ma la sua è stata qualcosa in più: la devozione quasi filiale (e mai venuta meno) verso una creatura che si ritiene speciale, e che, proprio in virtù di quella devozione, si è disposti a perdonarle ogni cosa: capricci, impuntature, cambi d’umore, incomprensioni, scatti imprevedibili, umiliazioni, scelte discutibili, modo di vivere, perché accecati dal nostro affetto. Del resto, chi ha avuto modo di conoscere Alda Merini, sa quanto fosse spigoloso, indipendente e per nulla reverenziale il suo carattere, e come fosse altresì generosa, umana e disponibile; qualità che non sono molto diffuse negli ambienti letterari milanesi, anzi. Accettarla com’era o tenersene alla larga: non c’erano mezze misure possibili. Ed è anche per questo che io giudico stoica la resistenza di Colonnello, e straordinaria la sua fedeltà all’amicizia. Scrive in un passaggio del suo libro: “La Poetessa (Colonnello usa rigidamente la maiuscola) non era certamente una santa, credo di poter dire non fosse neppure umile, anzi era fortemente consapevole della propria limpida genialità, spesso la faceva pesare, annichilendo il malcapitato di turno o imponendo una personalità carismatica in contesti pubblici”. È tutto perfettamente vero, ma aveva un pregio raro: non fingeva nei rapporti umani, era rimasta autentica come la sua anima popolare, la lingua dialettale milanese che continuava a parlare, il suo bisogno di poco, e non si era snaturata e imborghesita come il quartiere divenuto finto e mercificato fino al midollo. Poeta lo era in ogni fibra, naturaliter; e quello che sentiva lo cacciava fuori quasi sempre nella maniera più immediata. Da anni non prendeva appunti e non scriveva; preferiva dettare agli amici, per lo più al telefono e nelle ore e nei momenti più diversi, notti comprese. Potevano venir fuori meraviglie, da questa pratica istantanea e prettamente orale, e potevano venir fuori cose non del tutto riuscite e che sarebbe stato meglio non mettere in circolazione. Ma fra i suoi numerosi amici ed estimatori ce n’erano anche di “disinvolti” che di scrupoli se ne facevano ben pochi. Ma non è questo il luogo per aprire un contenzioso. 

Aldo Colonnello

Di tale pratica “dettatoria” avevo beneficiato anch’io in anni diversi: nel 2001 per i due testi Silenzio e Favola, dettatimi al telefono il 10 gennaio di quell’anno e pubblicati nel prezioso volume collettivo “Le luci del Bauhaus” (Ed. Gutenberg); nel 2002 (e precisamente il 4 aprile) per la poesia Milano da me inserita nella ponderosa antologia “Poeti per Milano. Una città in versi” e pubblicata dalla Viennepierre edizioni. Erano passati nove anni dal libretto “Aforismi”, che le avevo pubblicato con una mia nota introduttiva nel 1992 nelle Edizioni Nuove Scritture. Pubblicammo quel libretto in due diverse ristampe cambiando la copertina (la prima volta con un’opera di Alberto Casiraghi, la seconda con una di Salvatore Carbone); Alda non si era fino ad allora cimentata con questa forma di scrittura, divenuta poi con gli anni piuttosto frequente. Nel 2006 mi salvò, letteralmente, da una incresciosa svista. Dovevamo andare in stampa con il numero 2 del IV anno del giornale “Odissea”, quello di dicembre, quando l’impaginatore si accorse, all’ultimo momento, che mancava la frase da inserire accanto alla testata. A ridosso del Natale non era cosa facile interpellare collaboratori e amici scrittori; e poi non tutti scrivevano aforismi e avevano pratica con il genere. Mi ricordai di Alda e le telefonai: “Sono nei guai” le dissi, mi bastano anche due sole righe, dobbiamo andare in stampa in meno di un’ora”. “Hai la penna?” mi chiese all’istante, “scrivi: Ricordati che due sole righe possono condannare a morte un uomo”. La profondità della frase e l’immediatezza con cui l’aveva formulata, mi lasciarono di stucco. Ero salvo. Telefonai Fulvio Chiodini in tipografia e potemmo andare in stampa.

La targa che ricorda Alda Merini sui Navigli

Non c’è dubbio che da questo rapporto Colonnello (avrete certamente notato che si chiama incredibilmente Aldo: se non è questo uno scherzo del destino…) è uscito più ricco e cambiato. Egli ha potuto salvare per noi la memoria di un tratto di vita della poetessa; registrare i suoi incontri e quelli avuti dall’autrice con personalità fra le più varie; la partecipazione ad eventi spesso da lui sollecitati e voluti; gli aneddoti, i versi che gli dettava a voce e che lui diligentemente trascriveva, e dunque dobbiamo essergliene grati. Come grati dobbiamo essere alle Edizioni Meravigli che hanno pubblicato un libro che ci illumina su molti aspetti privati di una poetessa a cui abbiamo voluto bene; ricco anche di foto, in gran parte scattate da un altro amico intimo della poetessa, Giuliano Grittini, comprese quelle in cui Alda riceve gli ospiti distesa sul letto come una matrona romana. E quelle delle pareti della sua incredibile casa, zeppe di appunti, numeri telefonici, graffiti e disegni fra i più vari. 

La copertina del libro

***    
CINEMA
ERMANNO OLMI. IL PRIMO SGUARDO
di Fulvio Papi

Ermanno Olmi

Quando un autore, un poeta, uno scrittore, un pittore, parla di se stesso e della sua opera c’è quasi sempre un residuo un poco deludente. E del resto c’è da prevedere un esito di questo genere non solo perché un’autobiografia, anche quando ricerchi il solco della verità, è sempre un poco carente, sproporzionata rispetto ai fatti accaduti, ma, nel caso di un artista, perché la sua opera è sempre eccedente rispetto alle ragioni che l’autore trova per interpretarla a vantaggio di un qualsiasi ascoltatore. E una ragione un poco segreta c’è. L’esecuzione di un lavoro artistico, in tutti i suoi casi, chiama al suo autore attenzioni, invenzioni, stratagemmi, verità, desideri che nella narrazione dell’autore stesso vanno per lo più perduti. Su questo rapporto tutt’affatto non simmetrico si potrebbe avanzare molte riflessioni. Qui, forse, ne basta una sola, la manipolazione del materiale artistico, parole, colori, disegni, suoni, ha sempre una sua contingente possibilità inventiva che è eccedente rispetto al linguaggio che commenta l’opera. Non sono proprio per niente esperto di cinema, ma credo che qualcosa di questo genere capiti anche nel montaggio di un film. L’opera, a saperla interrogare, dice di solito qualcosa di più rispetto a quanto l’autore nel suo progetto iniziale, e nel suo commento postumo, confessa agli altri e anche a se stesso, di aver voluto fare. Questa è in fondo la ragione per cui la critica, quand’è buona critica, collabora con l’opera d’arte nella buona recezione del pubblico. È con questa premessa che ho letto con grande attenzione l’intervista che Marco Manzoni ha fatto a Ermanno Olmi sulla sua opera di maestro della cinematografia. Devo dire che questa volta tra il racconto e l’opera (confesso però di non aver visto tutti i lavori di Olmi, ma solo quelli che comunemente si ritengono più significativi) la distanza è minima. Potrei forse allargarlo io stesso come interprete, quando una scena o l’altra diventassero ragioni di un’ermeneutica personale. Ma nessuno mi chiede o ho bisogno di un “supplemento” del genere. Dunque l’intervista. Olmi ha un suo sguardo sul mondo, e uno sguardo è molto di più di un “batter d’occhio”, poiché seleziona, valorizza, circoscrive, amplia nei suoi significati e infine proviene da un modo di guardare che può avere per sé molte differenze che qui non sto a elencare. Per Olmi lo sguardo è quello della empatia affettuosa. Egli dice che l’origine di questa qualità deriva dal primo sguardo d’amore che si scambiarono suo padre e sua madre, condizione felice per il suo ingresso nel mondo. Certo questa è una mitologia che appartiene alla serie ricchissima delle mitologie delle origini. Ma per Olmi questa origine ha per destino personale la sua ripetizione nel rapporto con il mondo. Una ripetizione non è una eguaglianza logica, è la continuazione di uno stile profondo e determinante nel modo di scegliere e di capire i quadri del mondo e di prendervi parte. Manzoni nell’intervista che non sono nelle condizioni di poter ripetere nella sua storia, ha colto benissimo questa tema come senso della interrogazione sollecitante al suo intervistato. E Olmi narra le configurazioni artisticamente affettive del suo itinerario di grande interprete dell’arte cinematografica. E ogni configurazione è necessariamente un giudizio che nasce e si sviluppa nella medesima trama narrativa che ha lo straordinario vantaggio di essere un racconto e una lezione morale. Non so, ma dal punto di vista “evocativo” (che pure ha un senso) può essere che l’esordio di Olmi come documentarista abbia avuto la sua parte positiva. Il documentario è un saper vedere per trare un senso, e in questa direzione può essere anche una educazione cinematografica. Di qui il sospetto nei confronti delle sintesi intellettuali che fanno precipitare l’esperienza in una autosufficiente e arida discorsività. Ora dovrei seguire la felice intervista di Manzoni in tutta la ricchezza delle domande che un po’ chiedono e un po’ anticipano rispetto alle risposte di Ermanno Olmi. È un compito che non riesco a svolgere, preso come sono dalle suggestioni del clima del dialogo. Mi colpisce l’affermazione di Olmi “Non sarei capace di fare un film dal punto di vista femminile”. E lo capisco bene: il punto di vista femminile può essere solo una costruzione (che bene non riuscì nemmeno a Freud), non è lo sguardo che nasce dalla propria esperienza. È un’altra sorgente di vita. Eppure, se non sbaglio, nei film di Olmi il femminile più che un soggetto è sempre parte di un destino. L’intervista di Manzoni segue l’opera di Olmi, ne sollecita l’interpretazione quasi in attesa di un’eco più sicura e più forte da parte dell’autore. Scopro in questo percorso la fratellanza tra Olmi e Fellini, sulle prime, per me piuttosto inattesa. Eppure c’è, mi fece osservare proprio Manzoni, nel regista riminese un fondo emotivo che elabora una distanza che non può mai essere l’ombra di un “poter esserci” ancora e meglio, è questa è una nota anche di Olmi. Si tratta di far cadere questa “nota” in uno spartito musicale piuttosto che in un altro. Lo sguardo di Olmi è poi sulla forma dell’esistenza contemporanea. Il regista appartiene con la sua sensibilità (che poi è la scelta delle immagini) alla lunga schiera, a cominciare da Dostoevskij, degli autori che vedono nel denaro e nei suoi effetti sociali, la decadenza delle possibilità di una vita umana dove sia la reciproca empatia sociale in armonia con l’essere naturale, a stabilire un equilibrio dei reciproci sentimenti. Un “dove” l’essere umano non diventa una “merce di scambio”. Il modo di rammentare questa ingloriosa metamorfosi dell’essere uomo, da parte di Olmi, è una scelta di situazioni dove uomo, parola e ambiente hanno una loro risonanza che è sulla soglia del perdersi negli abissi del tempo. So che a Manzoni dovrei anche un’analisi delle sue perfette pagine sulla poetica di Olmi, mentre la lettura dei riassunti dei film di Olmi (che conclude il libro) mi reca più che altro il dispiacere della mia Ignoranza. Il libro è ottimo. Posso confessare quale desiderio ha fatto nascere in me? Vorrei vedere e rivedere “L’albero degli zoccoli”, e tentare un mio approccio ermeneutico che apparterrebbe a una mia passione un poco nascosta. Ma, si sa, non sarà la sola cosa perduta.
La copertina del libro
Ermanno Olmi con Marco Manzoni
Il primo sguardo
Bompiani editore 2015
Pagg. 190 € 12,00
  
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TEATRO
L'ECO
di Luca Marchesini
(una gabbia con dentro un pappagallo)


PAPPAGALLO (con voce, ovviamente, da pappagallo) Crah. Crah. Ciao. Tu non mi senti. Crah. Che bella giornata. Mi senti ma non capisci. Che bella giornata. Hanno ragione loro. Hanno ragione. La finestra in alto. Forse dico la verità. No la finestra in alto. Loro non dicono la verità. Io. Loro non dicono la verità. Ciao. Hanno ragione loro. Mi senti ma non capisci. Siamo rimasti soli: tu e io. Siamo rimasti soli: tu e io. Crah. Crah. Loro gli idioti. Loro gli idioti. Siamo rimasti soli: tu e io. Loro gli idioti salvano il mondo. O lo perdono? O lo perdono? Che bella giornata. No la finestra in alto. Resta un altro po': ti pago. Siamo rimasti soli: tu e io. Ciao. Ciao. Io come un antico augure. Che cosa pensi se pensi? Ciao. L'intelligenza non salva il mondo. Vediamo se è uscito il caffè. L'intelligenza non salva il mondo. Io come un antico augure. Crah. Resta un altro po': ti pago. Siamo rimasti soli: tu e io. Che cosa pensi se pensi? Crah. Crah. Intelligenza: consequenzialità. Intelligenza: consequenzialità. Vediamo se è uscito il caffè. Gli idioti salvano il mondo: ma a che pro? Gli idioti salvano il mondo. Vediamo se è uscito il caffè. Intelligenza: consequenzialità. Ciao. Fanatici o nichilisti. Intelligenza: consequenzialità. Ce ne dobbiamo andare, noi due. Io come un antico augure. Gli ultimi spiccioli. Ce ne dobbiamo andare, noi due. Vediamo se è uscito il caffè. Solo non ti lascio. Solo non ti lascio. Se almeno si fosse fermata un altro po'. Gli ultimi spiccioli. Il gas intanto continua a uscire. Io come un antico augure. Fanatici o nichilisti. L'intelligenza non. Solo non ti lascio. La finestra in alto. No la finestra in alto. Crah. Crah. Crah.

Luca Marchesini


                                 ***
PER UN PRIMO APPROCCIO ALLA CONOSCENZA  DI
GIUSEPPE  ANTONIO  ARENA
di Antonio Cugliari

Giuseppe A. Arena

Il 27 settembre del 2015 l’Amministrazione comunale di Acri ha dedicato uno spazio con una targa toponomastica a Giuseppe Antonio Arena, politico, sociologo, giurista e poeta. In quella occasione ho parlato brevemente non di Arena poeta, ma del politico e del saggista, cercando di legare il suo pensiero agli attuali problemi del Meridione. Ritenendo di fare cosa utile verso le nuove generazioni, ho deciso di scrivere un breve saggio sulla figura di Giuseppe Antonio Arena e su Parentela ed emigrazione di Fortunata Piselli, omaggiando, nel generale silenzio dell’intellettualità meridionale, quelle poche figure che si opposero e descrissero i flussi migratori come la causa principale del sottosviluppo del Sud.
Giuseppe Antonio Arena nasce nel 1935 in Acri un paese montano ai piedi della Sila cosentina. Avendo dimostrato sin da piccolo poco interesse alla vita pastorale, il padre con molti sacrifici l’avviò allo studio. Frequentò le scuole inferiori in Acri, il liceo classico nel collegio italo-albanese di San Demetrio Corone ed infine l’università a Napoli, dove giovanissimo si laureò in giurisprudenza.
Fin da studente universitario inizia la militanza politica nel Partito Comunista Italiano, dove ben presto ricoprì ruoli di primo piano. Giuseppe Arena aderisce al partito per la sua origine di classe, e poi perché gli anni Sessanta vedono la Calabria attraversata da grandi lotte bracciantili per l’occupazione delle terre. Negli anni cinquanta la lotta per la terra non aveva raggiunto gli obiettivi sperati: erano state occupate soprattutto le terre demaniali, come in Acri la montagna di Pietramorella e il latifondo era stato appena sfiorato. In altre parole gli “uccelli grifagni” di paduliana memoria, che avevano usurpato le proprietà del demanio, dove i contadini esercitavano da sempre gli usi civici, non subirono alcun danno.
In quel tempo nel Partito Comunista Italiano si fronteggiavano due linee contrapposte: la linea sindacale che voleva il prosieguo della lotta per l’occupazione delle terre; quella politica che cercava di allargare il blocco delle alleanze verso gli intellettuali, i ceti medi e quella parte della borghesia delusa dalla politica clientelare della Democrazia Cristiana.
In altre parole, il Partito Comunista Italiano non si opponeva con decisione all’emigrazione dei contadini meridionali verso il Nord d’Italia ed alla loro trasformazione in proletari. L’ industria del Nord in pieno boom economico necessitava di una nuova forza lavoro ed il P.C.I. non contrastò tale esigenza, convinto che la trasformazione dei contadini in proletari alla fine sarebbe tornata a vantaggio delle forze di sinistra.
Giuseppe Arena si schiera a favore delle lotte contadine ed entra in contrasto con la linea ufficiale del Partito, impersonata in Acri dal senatore Francesco Spezzano. Lo scontro tra la posizione del sindacato e quella del Partito diventa dura anche a livello regionale e vede schierati in netta contrapposizione il Segretario Regionale del Partito Paolo Cinanni e Luigi Silipo in rappresentanza del movimento dei braccianti.
La collocazione di Giuseppe Arena era dettata, in parte dalla sua origine di classe, ma anche dalla sua profonda conoscenza della storia del Meridione; egli aveva ben chiari tutti i limiti del Risorgimento italiano, che per il Sud si era risolto in una totale annessione al Regno Sabaudo. E tutti i meridionali che avevano combattuto con Garibaldi e posto l’esigenza della redistribuzione delle terre, alla fine del processo di unificazione si videro delusi, e chi si oppose venne combattuto come brigante. Con la feroce repressione del brigantaggio furono distrutte tutte le economie, le culture, i mestieri dell’intero Meridione.


Alla fine dell’Ottocento la “questione meridionale” fu risolta, ma risolta è solo un eufemismo, con l’emigrazione forzata nelle Americhe, e per tutta la prima metà del Novecento l’emigrazione ha rappresentato la valvola di sfogo delle tensioni sociali. Alla fine della seconda guerra mondiale la musica è sempre la stessa: o emigrare oppure morire di fame!
Giuseppe Arena non accetta questo fatalismo ed assieme a pochi intellettuali calabresi organizza la lotta e con convinzione aderisce al Movimento Contadino per l’occupazione delle terre. Responsabile del Movimento Bracciantile era, allora, Luigi Silipo esponente di primo piano del Partito Comunista Italiano. Nei primi anni Sessanta la Calabria è attraversata da grandi sommosse sociali e la lotta tra gli agrari e i contadini si fa sempre più dura.
Inaspettatamente il primo aprile del 1965 Luigi Silipo viene assassinato a Catanzaro. Sulla sua morte violenta vennero fatte diverse congetture: la tesi più accreditata fu quella della vendetta di qualche agrario infastidito dalla sua attività sindacale; si è anche parlato di forti contrasti all’interno del P.C.I., a tutti erano noti i continui litigi tra Paolo Cinanni, responsabile regionale del Partito, e Luigi Silipo capo del sindacato regionale dei braccianti. Sta di fatto che con la morte di Silipo la lotta contadina si affievolisce; frattanto da Roma sta per scendere in Calabria un grosso dirigente del Partito, non ricordo se Longo o Natta, a normalizzare gli eretici calabresi come il senatore Luca De Luca, il professore Pugliese e lo stesso Giuseppe Antonio Arena.
Nel 2012 la Casa Editrice Rubbettino ha pubblicato sul “caso Silipo” il libro “Blocco 52”. Personalmente ho trovato il lavoro interessante, ma lacunoso circa la responsabilità politica del Partito Comunista Italiano e di tutta la Sinistra, in merito all’oblio su Silipo e sulla sua attività sindacale.
Ritengo che quell’oblio voluto e imposto ha rappresentato il definitivo coperchio calato sulla questione meridionale e su quei pochi intellettuali che allora si opposero alla proletarizzazione dei contadini del Sud. E oggi persino un giornale borghese come L’ESPRESSO può titolare che il Mezzogiorno è definitivamente scomparso dal dibattito politico e dall’economia del Paese.
Dopo la morte di Silipo, Arena comprende che la battaglia contro l’emigrazione e per la redistribuzione delle terre è definitivamente perduta, inizia il progressivo distacco dal P.C.I., si trasferisce a Napoli e si dedica all’insegnamento ed alla ricerca. E nello studio e nella ricerca trasferisce tutti i suoi valori e i suoi sogni, mettendo a nudo i problemi del Meridione e dei ceti subalterni di cui si sentiva carne dello stesso corpo e con gli occhi e la mente sempre rivolti alla terra d’origine. Rileggendo lo scritto “Il Sannio tra mito e realtà”, non ho potuto fare a meno di comparare il Sannio con la montagna Silana: indomiti e valorosi i sanniti che si opposero ai romani; indomiti e valorosi i bruzi che per difendere la loro libertà si allearono con Annibale contro Roma. Identica la vita agricola e pastorale, infatti entrambi i popoli ricavavano la ricchezza dalla pastorizia e dall’agricoltura. La pastorizia si basava sull’allevamento degli ovini e dei bovini, l’agricoltura poggiava sulla granicoltura, sulla viticoltura e l’olivicoltura. Dall’allevamento degli ovini si ricavavano i latticini e la lana, pertanto la pecora era il principale sostegno dell’economia dei popoli montani. Oltre ai latticini ed alla lana, dalla pastorizia si ricavavano altri prodotti come le pelli destinati a diversi usi. Nel Sannio, come nel Bruzio, le greggi migravano in autunno verso le pianure, per far ritorno in montagna a primavera. Durante questi spostamenti definiti “tranzumanze” avvenivano gli scambi dei prodotti tra i pastori e gli uomini delle marine. Non è sbagliato dire che Giuseppe Arena con la penna scrive del Sannio e del Molise, ma la sua mente e il suo cuore sono sempre rivolti alla terra d’origine.
Non è possibile in questo breve scritto parlare di tutte le opere di Giuseppe Arena, forse lo farò in un lavoro successivo, ora mi limiterò a trattare brevemente quelle opere che ritengo più rappresentative del nostro personaggio.


Inizio con l’opera “Prima della ragione” che porta il sottotitolo “cultura e diritto del popolo in Vico e Sorel”.
Va precisato che prima di Arena, anche il Padula, nei suoi studi storici e politici, aveva studiato il Vico e il pensiero napoletano del Settecento. Sulla traccia del Vico, il prete di Acri, rifiuta lo sviluppo storico in senso lineare ed affronta il tema delle vicende umane, sia nel loro sviluppo, che nella decadenza. In altre parole: prima con Padula e in seguito con Arena, un popolo eredita costumi e idee da quello precedente e, pertanto, l’inizio del ciclo di una civiltà coincide con la decadenza e la fine di un’altra civiltà. In questa sua opera Arena evidenzia che mentre per Cartesio l’era moderna è l’era della scienza e della ragione, il Vico e il Sorel, entrambi antirazionalisti, si contrappongono a questa teoria e la loro critica a Cartesio sfocia nella contestazione del dominio della ragione. Personalmente ritengo che le opere migliori di Giuseppe Arena siano “Francesco Longano: la rivolta di un abate” e gli scritti su Luigi Serio.
Francesco Longano fu discepolo del salernitano Antonio Genovesi, che per primo fondò nell’Università di Napoli la cattedra di economia. Ma mentre il Genovesi, pur contestando il vecchio sistema economico, non arrivò alla sua completa condanna, ed anche il Filangieri non era andato oltre le istanze d’ispirazione borghese, il Longano (Arena) conferisce alla lotta antifeudale un carattere nuovo e rivoluzionario. Per l’abate molisano, una volta abolito il vecchio sistema economico, occorre realizzare una profonda trasformazione delle strutture fondiarie e creare una nuova struttura fondiaria fondata sulla piccola azienda contadina. Con il Longano, quindi, la polemica antifeudale sale di toni e di contenuti fino ad arrivare alla contestazione di qualsiasi società fondata sul dominio di classe. Il Longano ritiene che la concentrazione della proprietà terriera sia alla base della miseria del mondo contadino, pertanto, se si vuole trasformare questo modello, occorre abolire qualsiasi forma di rendita attuando il principio democratico di dare la terra a chi la lavora.  
Concludendo, posiamo dire che il Longano coglie appieno tutti i fermenti che agitavano la scena politica europea del XVIII secolo e che anche a Napoli e in tutto il Mezzogiorno incominciavano a prendere piede.
Per questa lucida visione il pensiero dell’abate molisano può essere, senza dubbio, associato a quello degli “Araldi della libertà” come Emanuele De Deo, Mario Pagano, Domenico Cirillo, Eleonora Pimentel, insomma a tutta quella intellettualità che più tardi darà il sangue e la vita in difesa della Repubblica Partenopea.
Brevemente parlerò dell’opera su Luigi Serio, a cui mi lega un caro ricordo: Arena, prima di darlo alle stampe, m’inviò copia del lavoro con la seguente dedica “a Tonino Cugliari per una sempre maggiore comprensione delle istanze autenticamente popolari”.

Alcune delle pubblicazioni scritte e curate da Arena

Luigi Serio grande giurista e poeta, come il Longano, fu discepolo del Genovesi, passò dalle file monarchiche a quelle repubblicane e divenne una delle figure più celebri del 1799 per la profonda avversione al governo borbonico. Nacque a Massaquano nel 1744 e morì a Napoli il 13 giugno del 1799 a 55 anni, combattendo eroicamente al ponte della Maddalena contro le bande sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo, pronunciando le ultime parole d’incitamento alla lotta in verace dialetto napoletano. Di lui ci restano numerose poesie e articoli di vario genere. Con Luigi Serio, Arena affronta l’annoso e mai risolto problema del rapporto tra intellettuali e popolo, tra cultura d’elite e cultura popolare, il rapporto tra lingua e dialetto. Oggi, come ieri, l’uso dell’informazione e del linguaggio è alla base del dominio di classe che si realizza attraverso i processi di manipolazione sia giornalistico che televisivo. Luigi Serio nella polemica con il Galiani rivendica al popolo e alle classi subalterne l’autonomia del proprio patrimonio linguistico. Il dialetto del popolo, secondo il Serio, deve essere naturale e spontaneo, privo di tutte quelle forme grammaticali auspicate dal Galiani. Dall’insegnamento di Luigi Serio deriva che l’errore della borghesia napoletana e di tutti i giacobini, errore che portò alla sconfitta della Repubblica Partenopea del 1799, fu quello di non aver saputo legarsi al popolo, perché del popolo non parlavano la lingua; operazione che invece riuscì alla reazione borbonica, e pertanto i contadini poveri, le plebi, i lazzari, invece di combattere a favore della Repubblica si allearono con le bande sanfediste.
Come Luigi Serio anche Giuseppe Arena alla fine del percorso intellettuale si riscopre poeta. Viste deluse le aspettative politico-sociali, il nostro concittadino si rifugia nel privato e forse trova nella poesia il lenimento alle proprie ansie esistenziali.
Con i suoi versi Arena ci consegna un ultimo prezioso dono: “ci offre un grande messaggio rivolto ai valori universali dell’amore, della libertà, del diritto, della pace ritenuti come speranza di salvezza individuale e collettiva”.
Allorché mi regalò il suo primo libro di poesie “Pietre e rose” scrisse nella dedica: “a Tonino Cugliari, affinché scopra l’amore e la poesia, il marxismo e l’economia sono veleni”.
Il primo ottobre del 1982 giorno del mio quarantesimo compleanno, da Varsavia dove spesso si recava, mi spedì come regalo una bella poesia:

Tu hai quarant’anni
Ossia quattrocentottanta mesi
Ossia quattordicimilaquattrocento giorni.
Cammini impaurito per strada
Come un bambino di quattro anni
E meditabondo come un vecchio di oltre cento anni.
Fermati un momento
E non avere più apprensione
Poi continua, pellegrino del giorno e della notte,
a correre a piedi nudi
nelle terre di fuoco, senza sosta,
accompagnato dall’arcano chiarore dell’Orsa Maggiore.
Io sarò al tuo fianco,
impavido soldato delle tenebre e della luce,
assieme ad interrogare l’enigma della storia
e strappare il filo spinato dei confini del mondo.
 
Quasi presagendo la morte in una sua ultima poesia così scriveva: “I poeti muoiono prima del tempo/muoiono senza conforto/esalando come ultimo respiro/un verso che si perde nel grande pianeta della vita”/   

Giuseppe Antonio Arena muore inaspettatamente “senza conforto” a Napoli il 10 maggio 1995.
Trattando la figura di Giuseppe Arena ho inteso rendere omaggio a quei pochi intellettuali meridionali che, con le azioni e con le opere, si opposero alla scellerata politica dell’emigrazione. Oggi è chiaro a tutti come i flussi migratori, dall’Ottocento ai nostri giorni, siano alla base dell'abbandono del Sud e della profonda crisi in cui siamo sprofondati.

Volume collettivo sugli anni Ottanta
a cui prese parte anche Arena 

ALCUNI SCRITTI SAGGISTICI DI GIUSEPPE ARENA
Stato e diritto in Giuseppe Palmieri (1968)
Introduzione allo studio di F. Longano (1970)
La rivolta di un abate (1971)
De Attellis e le antichità italiche (1974)
Gabriele Pepe tra politica e storia (1977)
Luigi Serio linguista e politico (1978)
L’elogio di Gaetano Filangieri  (1981)
Il Molise nel 1848: società e politica (1981)
Luigi Serio: risposta al dialetto napoletano dell’abate Galliani (1982)
Il Sannio tra mito e realtà (1982)
L’utopia nell’illuminismo napoletano (1982)
Prima della ragione: cultura e diritto del popolo in Vico e Sorel  (1983)
Potere e partecipazione (1983)
Lineamenti della figura e dell’opera di Vincenzo Padula (1983)

LAVORI IN VERSI
Pietre e rose di Litofago GA (1981)
Ombre del giorno (1995)

Numerosi anche i sui scritti su giornali e riviste.

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FILOSOFIA
Luce Irigaray. La sfida di un pensiero alternativo
Amante marina. Friedrich Nietzsche: l’altra faccia 
della filosofia occidentale.
di Carolina Frabasile  

Carolina Frabasile

Luce Irigaray, filosofa e psicanalista francese, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso ha dedicato tutta la sua ricerca all’elaborazione e alla creazione di un pensiero della differenza sessuale. La differenza tra uomo e donna è imprescindibile, benché la cultura occidentale la occulti: la differenza sessuale è il conoscersi, l’appropriarsi delle proprie caratteristiche e, nel rispetto di esse, di quelle degli altri. La donna, a causa dei condizionamenti subiti, non ha avuto alcuna chance di autonomia rispetto al pensiero maschile. Tali condizionamenti derivano da strutture di pensiero maschilista, sviluppate nella loro massima espressione da paradigmi filosofici, religiosi e psicoanalitici che vedono il maschile come soggetto esclusivo del discorso.
L’autrice decostruisce il modello razionale e religioso che da Platone ad Aristotele, da Plotino a Cartesio, via via fino all’attualità, ha imbrogliato e imbrigliato la cultura occidentale entro un archetipo maschilista autoreferenziale e dimentico di un’alterità anch’essa pensante. La filosofa, scandagliando la tradizione della metafisica occidentale, rimprovera a tale modello culturale un atteggiamento di prevaricante fallocentrismo che conduce la verità, strettamente identificata con un logos analitico, unicamente alla presenza nella coscienza, violentando l’alterità dell’assenza. La metafisica è accusata di fallocentrismo perché in essa la ricerca della verità non predilige un effettivo contatto con l’altro, rispettandone l’irriducibile alterità, ma la metodologia che la caratterizza si preoccupa primariamente di riportare la differenza al giogo o gioco identitario e autologico.
Il pensiero metafisico occidentale, proprio come avviene nella sessualità fallica, dove il piacere è esclusivamente limitato a finalità narcisistiche, nella totale non curanza dell’altro, del partner, si reca incontro all’altro solo per violentarlo e annientarlo, neutralizzandone la specificità al fine di dissolvere il ‘tu’ nell’ ‘io’.

La copertina del libro

Nelle pagine che compongono Amante marina. Friedrich Nietzsche, Luce Irigaray si fa portavoce del genere femminile, mettendolo in dialogo con l’alter generis simbolizzato da Nietzsche, sposo della voce narrante e insensibile alle esigenze di quest’ultima. Con uno stile poetico, l’autrice smuove la scala di valori dell’ideologia occidentale, viziata da un maschilismo imperante e autoreferenziale che adombra la figura della donna, mettendola a tacere fin da principio.
Attraverso l’utilizzo di un’eloquente simbologia naturale, Irigaray evidenzia le diversità intercorrenti tra i due generi sessuali, giocando con le antinomie presenti nella natura stessa: sole/terra, giorno/notte, luce/buio. L’autrice si affida ad immagini poetiche tratte dal repertorio degli elementi naturali per attribuire alle sue parole una carica di emotività evocativa, quasi come se il monologo femminile sia stato scritto per essere inscenato. Con Amante marina. Friedrich Nietzsche, Irigaray muove una critica all’intero sistema della filosofia occidentale, substrato su cui si erige il tempio del logos maschile come logica autoriflessiva del medesimo.
L’imputato è il pensiero fallocentrico, il quale è accusato dall’autrice di aver obliato l’altro da sé, di aver sepolto l’altra per far trionfare la propria logica. La vittima è la donna, soffocata dal sistema filosofico sopra citato.
Irigaray si fa portavoce della differenza sessuale opponendosi alla ragione maschile che vuole rinchiudersi in se stessa senza vie d’uscita, avendo subdorato la pericolosità femminile che sta nell’introdurre nuove categorie nella filosofia, nel proporre una logica sovversiva rispetto a quella vigente, nello scardinare quei principi su cui pone le fondamenta il pensiero occidentale. L’impianto ideologico maschile fiuta tale rischio e reagisce praticando un ermetismo inscalfibile tale che mette a tacere qualunque proposta differente e contraria alla propria.
L’autrice combatte contro la logica del medesimo e si confronta con Nietzsche per dare voce alla sua riflessione. Perché proprio con Nietzsche?
La scelta è mirata poiché Nietzsche nel panorama del pensiero occidentale ha tentato di scavalcare la ragione, sottraendole quel primato attribuitole dagli albori della filosofia. Il filosofo in Al di là del bene e del male scrive che «ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche un nascondiglio; ogni parola è anche una maschera¹.»

Luce Irigaray

Tuttavia Irigaray rimprovera lo stesso filosofo di non aver colto la diversità dell’essere donna, avendo lottato contro il logocentrismo senza però tenere conto della differenza sessuale, presupposto indispensabile per inaugurare una nuova forma di pensiero. L’opera rivisita alcuni grandi temi nietzschiani, letti attraverso una nuova lente: una prospettiva al femminile che illumini l’alterità della donna, rischiarandone l’immagine a lungo occultata. Ecco l’intento di Amante marina. Friedrich Nietzsche: proporre una linea di pensiero alternativa a quella vigente, capace di andare oltre l’autoreferenzialità, cifra distintiva della metafisica occidentale, per inaugurare una forma di filosofia dialogica. Irigaray propone una modalità noetica che situi al centro la dialogicità, rimpiazzando quell’atteggiamento analitico che nega in partenza qualunque possibilità di discussione.
Il testo si apre con un flusso di coscienza da parte della donna, la quale è costretta ad abbandonare il suo compagno per rinascere, recuperando la libertà da tempo perduta e facendosi finalmente beffe di quella schiavitù psicologica per la quale «non essere di nessuno era uguale a essere niente (2)».
Nelle pagine di Amante marina Irigaray mostra come il pensiero occidentale assumerebbe caratteristiche diverse se alla base di esso ci fosse una logica egalitaria, all’interno della quale il sesso maschile e quello femminile comunichino e contino a pari merito. Se così fosse l’intera cultura moderna avrebbe caratteristiche sociali e teologiche differenti, la donna ricoprirebbe un ruolo attivo e propositivo, senza apparire solo come l’ombra di un super-uomo che architetta le strutture del mondo, interpretando e intenzionando quest’ultimo a suo piacimento.
L’autrice analizza le figure femminili e maschili presenti nella religione greco-romana e in quella cristiana, concludendo che, malgrado si tratti di due tradizioni che fanno perno su princìpi eterogenei, tuttavia condividano la stessa interpretazione del ruolo rivestito dalla donna all’interno della società civile.

Friedrich Nietzsche

Mettendo a  Confronto Atena, figlia di Zeus, e Maria, madre di Gesù, è chiaro come la cultura occidentale da millenni attribuisca alla donna una natura unilaterale che si esaurisce in quella corporea a cui dà espressione una voce maschile. La dea maggiore nella mitologia è Atena, la quale è l’alter ego paterno, l’incarnazione della mente maschile che agisce nel mondo.  Atena dunque di proprio ha solo una natura corporea, neppure gestita da lei stessa, ma alla mercé del volere paterno. In questo senso al femminile è riconosciuta una mera valenza fisica arricchita di un’animazione spirituale che però deve discenderle dall’uomo: alla donna non è concessa alcuna sorta di indipendenza noumenica poiché il suo ruolo è quello di offrire materia al pensiero maschile per poter apparire ed operare. E se Atena si opponesse alle istruzioni che riceve da Zeus? Si muoverebbe nel mondo agendo secondo il suo stesso pensiero, libera di esprimere i punti di vista che le appartengono, cessando di fungere da porta voce. Maria invece è da sempre presentata come colei in cui si è incarnato il Verbo di Dio, la sua figura non è mai stata analizzata decontestualizzandola dalla nascita di Cristo. Sembra quasi che la donna sia nata appositamente per donare al mondo il figlio dell’uomo, poiché ciò che si narra della sua vita è vincolato alla nascita di Gesù: nei testi sacri non è raccontato un solo episodio che abbia Maria come protagonista assoluta. Ma che ne sarebbe dei Vangeli se la madre di Cristo facesse valere la sua interpretazione della Parola di Dio? La teologia cristiana smetterebbe di mortificare il corpo e finalmente si risolverebbe l’antinomia corporeità/anima, concependo l’essere umano come una realtà monadica in cui convivono pacificamente la materia e lo spirito.

Ritratto di F. Nietzsche

Irigaray sfida il pensiero maschile, interrogandosi su che connotati assumerebbe la tradizione socio-religiosa occidentale se al genere femminile venisse accordata la possibilità di interagire con l’altro sesso, di discutere con esso. L’autrice non auspica la prevaricazione del femminile sul maschile, ma si batte per una dia-logicità tra i generi per interdire finalmente la paralisi monologica maschilista che pervade la nostra cultura.
L’autrice decostruisce il sistema socio-filosofico occidentale, ponendo le basi per un pensiero alternativo in cui il maschile e il femminile cooperino senza aver la pretesa di sopraffarsi, nel rispetto dell’alterità reciproca.
Irigaray non ha l’obiettivo di appiattire la differenza sessuale anzi, vuole acuirla affinché l’uomo e la donna ottengano piena coscienza di sé attraverso il confronto con un’alterità mai del tutto permeabile e conoscibile.

Note
1. F. Nietzsche, Al di là de bene e del male, 289, Adelphi, Milano, 1968
2. L. Irigaray, Amante marina di Friedrich Nietzsche, Sossella, Roma, 2003, p. 8

Luce Irigaray
Amante marina di Friedrich Nietzsche
Luca Sossella editore, Ed. 2003
Pagg. 154, € 15,00

                                                                      
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LIBRI
IRACCONTI DI GIORELLO
di Giuseppe O. Longo

Il 16 dicembre 2015 si è svolta a Milano, al Circolo Filologico Milanese, una presentazione incrociata di due libri: Il fantasma e il desiderio di Giulio Giorello, presentato da Giuseppe O. Longo, e Antidecalogo, di Giuseppe O. Longo, presentato da Giulio Giorello. Qui si riporta la presentazione fatta da Longo del libro di Giorello.

Giulio Giorello

Nel delizioso racconto giovanile Il fantasma di Canterville (The Canterville Ghost, 1887), Oscar Wilde ci narra delle angherie cui è sottoposto un vetusto e dignitoso fantasma inglese da parte di due implacabili e cinici gemelli americani, che ai fantasmi non credono affatto e che con il loro scanzonato scetticismo portano lo spettro, che evidentemente esiste, alla disperazione.
I cinque racconti che compongono questo libro di Giorello sono improntati a un misurato razionalismo positivistico che, pur mettendoci in guardia contro le suggestioni troppo facili, tuttavia non disdegna di adottare quella che lo scrittore svizzero Peter Bichsel chiama “la sospensione dell’incredulità”, senza la quale ogni racconto viene distrutto dall’acido corrosivo dello scetticismo, impedendoci di godere di quella che è la vocazione per eccellenza dell’uomo: la narrazione. Ciascuno di noi, dalla nascita alla morte, non fa che narrare, narrarsi e farsi narrare un seguito incessante di storie, e l’esito di questo infinito narrare è la costruzione di un mondo semplificato, misto di fantasia e di realtà, più a misura d’uomo, in cui stiamo meglio che nel mondo dato, troppo complicato e impegnativo o, a volte, banalmente piatto.
In questo libro la sospensione dell’incredulità è temporanea, e l’autore - con una certa qual crudeltà - riveste subito i panni dello scettico, a mo’ del suo maestro spirituale Spinoza, protagonista del primo racconto, L’uomo di Gorcum. Se l’incredulità di Spinoza-Giorello ci riporta con i piedi per terra, rischia anche di toglierci quel sottile piacere, quel brivido di suggestione psicosensuale, quell’impalpabile godimento venato di masochismo che sempre si associa alla costruzione di un mondo fantastico e inquietante. E che importa se quel mondo non “esiste” nel senso comunemente associato a questo predicato? Anche le cose che non esistono, come nota Edmondo De Amicis nella prefazione al volume Il diavolo di Arturo Graf, hanno una forza immensa: come si spiegherebbero altrimenti i comportamenti bizzarri o addirittura insensati, ma realissimi e a volte sanguinosi, adottati dagli adepti di certe sette e religioni in base alle loro infondate credenze? Si aggiunga poi che, a quanto pare, noi siamo fatti per credere: dice infatti Giulio Giorello che “dai racconti sugli spiriti si capisce come gli uomini non vogliono narrare le cose come sono, ma come le desiderano”, restando impregiudicato il significato di quel “come sono” (poiché la realtà è inattingibile, ciò che ci appare è sempre il frutto di un compromesso tra oggetto e soggetto).
In effetti il mistero è sempre più suggestivo della sua soluzione: la spiegazione, proprio perché ha esorcizzato e smontato il mistero, ci lascia davanti alle ceneri fredde di quello che era stato un incendio affascinante. In fondo noi corteggiamo sempre l’indicibile, che è -paradossalmente- l’unica cosa di cui ci preme parlare: e se e quando l’indicibile diventa dicibile non c’interessa più, perché ormai è detto. Nei libri gialli lo scioglimento è sempre deludente e comunque inferiore alle aspettative dolcemente tormentose, specie in quelli che offrono una soluzione che si sarebbe potuta ricavare dagli indizi sapientemente disseminati dall’autore. Penso ad Agatha Christie, mentre del tutto diversi sono i romanzi di Simenon, in cui il commissario Maigret corteggia l’indicibile senza mai prendere una posizione definita e alla fine la soluzione offerta non è quasi mai la conseguenza imprescindibile di un meccanismo ben oliato, ma si ha la sensazione che sia uno dei possibili esiti di una serie di contingenze: forma aperta, che lascia al lettore una libertà interpretativa e costruttiva che somiglia molto all’atteggiamento che ci obbligano ad avere i casi della vita, semplici e indecifrabili.
La delusione che ci procura la spiegazione del mistero (che cessa di esser tale) è bene illustrata da un racconto che Giacomo Leopardi riporta nei suoi Pensieri:
Questo che segue, non è un pensiero, ma un racconto, ch’io pongo qui per isvagamento del lettore. Un mio amico, anzi compagno della mia vita, Antonio Ranieri, giovane che, se vive, e se gli uomini non vengono a capo di rendere inutili i doni ch’egli ha dalla natura, presto sarà significato abbastanza dal solo nome, abitava meco nel 1831 in Firenze. Una sera di state, passando per Via buia, trovò in sul canto, presso alla piazza del Duomo, sotto una finestra terrena del palazzo che ora è de’ Riccardi, fermata molta gente, che diceva tutta spaventata: ih, la fantasima! E guardando per la finestra nella stanza, dove non era altro lume che quello che vi batteva dentro da una delle lanterne della città, vide egli stesso come un’ombra di donna, che scagliava le braccia di qua e di là, e nel resto immobile. Ma avendo pel capo altri pensieri, passò oltre, e per quella sera né per tutto il giorno vegnente non si ricordò di quell’incontro.
L’altra sera, alla stessa ora, abbattendosi a ripassare dallo stesso luogo, vi trovò raccolta più moltitudine che la sera innanzi, e udì che ripetevano collo stesso terrore: ih, la fantasima! E riguardando per entro la finestra, rivide quella stessa ombra, che pure, senza fare altro moto, scoteva le braccia. Era la finestra non molto più alta da terra che una statura d’uomo, e uno tra la moltitudine che pareva un birro, disse: s’i’ avessi qualcuno che mi sostenessi ‘n sulle spalle, i’ vi monterei, per guardare che v’è là drento. Al che soggiunse il Ranieri: se voi mi sostenete, monterò io. E dettogli da quello, montate, montò su, ponendogli i piedi in su gli omeri, e trovò presso all’inferriata della finestra, disteso in sulla spalliera di una seggiola, un grembiale nero, che agitato dal vento, faceva quell’apparenza di braccia che si scagliassero; e sopra la seggiola, appoggiata alla medesima spalliera, una rocca da filare, che pareva il capo dell’ombra: la quale rocca il Ranieri presa in mano, mostrò al popolo adunato, che con molto riso si disperse.

Non si può non credere che nel molto riso del popolo vi fosse, oltre al sollievo, anche una punta di frustrazione!
Nei suoi racconti, Giorello esita tra il razionalismo alla Spinoza e la nostalgia della credulità (come in Le foglie della Sibilla, titolo che richiama un distico del XXXIII canto del Paradiso): perché, come nota l’autore nel Prologo, forse non siamo noi che diamo vita ai nostri fantasmi, bensì da loro prendiamo vita, cedendo -sottilmente- al desiderio di desiderare di credere in essi. Su questo desiderio del second’ordine si basa l’adesione, sia pure provvisoria, che ci suscitano i racconti dei grandi maestri anglosassoni: Joseph Sheridan Le Fanu (1814-1873) e Montague Rhodes James (1862-1936), che l’autore prende a maestro e donno. Altrettanto magistrali sono peraltro i racconti di fantasmi dovuti alla penna di Henry James (1843-1916), tra cui memorabile per la sua impalpabile evanescenza Il giro di vite (The Turn of the Screw, 1898), e di Edith Wharton (1862-1937).
Se, come annuncia il titolo, i fantasmi -questi ectoplasmi diafani ed elusivi, queste apparizioni quasi sempre serotine o notturne e quasi sempre drappeggiate in bianchi sudari- se gli spettri sono, sotto una forma o l’altra, i protagonisti dei cinque racconti del libro, è anche vero che non tutti i fantasmi che vi appaiono (è il caso di dirlo) ne hanno i connotati classici. Alcuni si rivelano volgari impostori (L’uomo di Gorcum), altri conservano il loro statuto di spiriti capaci di influire sulla realtà materiale tramite l’equivalente fantasmatico ma concretamente marmoreo di una ghiandola pineale a forma di spada (L’angelo geloso), oppure si materiano in effigi granguignolesche (La testa di moro), o scaturiscono dalle profondità abissali di deliri matematici che a volte sono più pericolosi e gravidi di conseguenze nefaste per l’equilibrio mentale che non i vaneggiamenti delle cantafavole (Le foglie della Sibilla), o infine rivelano una natura tutt’altro che spettrale e si dimostrano capaci e vogliosi di fornicare e di uccidere (Fuoco nella pianura).
Gli aspetti ironici, parodistici e addirittura comici irrompono nei punti dove la tensione narrativa rischierebbe di trascinare il lettore all’interno di una credulità troppo corriva, agevolata dalla suggestione di certe atmosfere e di certi ambienti (la locanda del Tapiro Rosso dove alloggia l’io narrante delle Foglie della Sibilla o il Palazzo stregato, pregno di lascivia, di Fuoco nella pianura). Insomma, l’autore è sempre pronto a invitarci a una seduta spiritica salvo poi rivelarci che si tratta in effetti di una bevuta in compagnia.
Può tuttavia sorgere il dubbio se i fantasmi siano, come ho affermato sopra, i veri protagonisti del libro: un’altra interpretazione possibile è che il vero protagonista sia il corpo. A volte si tratta di un miserevole nano che corre per la campagna all’imbrunire su un paio di trampoli per piegare l’incredulità di Spinoza (L’uomo di Gorcum), oppure di una creatura mostruosa, un vero e proprio sgorbio dalla testa gigantesca issata su un corpicciuolo rachitico e nascosto da un saio (Fuoco nella pianura); a volte si tratta invece del corpo di una donna non più giovanissima, ma ancora formosa e desiderabile, che si abbandona ad amori servili (La testa di moro). Nell’ultimo racconto (Fuoco nella pianura) il corpo diventa primo attore indiscusso, presentandosi nelle forme della bella archivista, obbligata a portare una seducente giarrettiera dal nastro rosso e colta in momenti di solitaria intimità e nudità; nella figura di donna che compare in un quadro, nuda e accovacciata in mezzo alla campagna, in una posa quanto mai provocante; e infine nell’arciere, l’orrendo gnomo macrocefalo coperto dal saio, di cui ho detto e che si rivelerà un turpe stupratore e assassino.
Del resto non stupisce che il corpo sia comunque e sempre il protagonista, poiché noi siamo il nostro corpo: nasciamo, cresciamo, godiamo, soffriamo e moriamo con e nel corpo, che resta il baluardo ultimo della nostra identità (non è un caso che le prospettive aperte dal post-umano siano più meno tutte variazioni sul tema del corpo e delle sue trasformazioni). Nell’Angelo geloso si narra della morte dello scrittore Peter George, il cui corpo è trafitto dalla spada di marmo dell’angelo, e nelle Foglie della Sibilla è il corpo del matematico Corrado Bozzolo che viene ritrovato in mare, straziato dagli scogli, smangiato dai pesci e squarciato da qualche altra entità cui, ovviamente, ci rifiutiamo di credere.
Queste aperture sugli aspetti raccapriccianti e cruenti legati alla corporeità fanno pensare a Edgar Allan Poe (1809-1849) e soprattutto allo scrittore che forse più d’ogni altro ha descritto l’orrore che da un istante all’altro potrebbe scaturire dalla realtà in apparenza innocua che ci circonda: Howard Phillips Lovecraft (1890-1937). Ma non si possono trascurare altri interpreti delle infinite variazioni sul tema del corpo: Ernesto Teodoro Amedeo Hoffmann (1776-1822), con i suoi racconti di meravigliosi automi, in particolare bambole meccaniche talmente perfette da ingannare i giovanotti che di loro s’innamorano perdutamente (ma Hoffmann di solito spiega l’arcano o vi allude, palesando i trucchi della meccanica onirica e tenebrosa che sta dietro le sue creature artificiali); Mary Wollstonecraft Shelley (1797-1851), che nel suo straordinario romanzo gotico Frankenstein, o il moderno Prometeo (nelle varie edizioni del 1818, 1823, 1831) imposta il tema del corpo e della vita secondo le teorie scientifiche allora dominanti, basate sull’elettricità come motore dei fenomeni vitali: tanto celebre fu questo romanzo da entrare nell’immaginario collettivo e da spingere la (pseudo)cultura popolare a usare il nome del protagonista, il barone Victor Frankenstein, per qualificare in negativo certi prodotti della tecnologia attuale.
Anche la robotica attuale si misura ovviamente con il corpo, e mi preme qui accennare al concetto di perturbante, introdotto da Ernst Jentsch (1867-1919) e analizzato a fondo da Sigmund Freud nel suo trattato Das Unheimliche (1919). Il perturbante è, detto assai rozzamente, ciò che caratterizza il nostro atteggiamento di fronte a certi oggetti o situazioni che sono insieme familiari ed estranei: come davanti a una figura ambigua, che si offre a due interpretazioni percettive diverse, tra le quali non si sa scegliere. Il tema del perturbante è stato introdotto in robotica nel 1970 dallo studioso giapponese Masahiro Mori, il quale ha sostenuto, plausibilmente, che al crescere della somiglianza che un robot umanoide presenta con un essere umano, la nostra “simpatia” per il robot aumenta. Ma se la somiglianza supera un certo livello, entriamo in uno stato di confusione, poiché da una parte vediamo che si tratta di qualcosa che ci somiglia e al quale dunque siamo portati ad attribuire caratteristiche umane, dall’altra sappiamo che si tratta di un artefatto, al quale dunque non possiamo attribuire caratteristiche umane. A questo punto la nostra simpatia subisce un calo improvviso e questa caduta è stata chiamata da Mori avvallamento del perturbante (Uncanny Valley in inglese). Se poi la somiglianza continua a crescere, l’avvallamento si supera e la simpatia torna a crescere. Resta da vedere se queste idee si possano applicare ai fantasmi, agli spettri e alle apparizioni.

La copertina del libro

Chiude il libro di Giorello un sostanzioso Epilogo, intitolato Spettri scarni e altro, in cui si propone, come rimedio sovrano contro le visioni e gli incubi notturni, la birra, il porto e il whiskey. Protagonista indiscusso di queste ultime pagine è Montague Rhodes James, che l’autore assume come... spirito guida nel suo percorso attraverso le strade inquietanti che serpeggiano dai cimiteri campestri delle brughiere inglesi o irlandesi alle mura dei castelli danesi. A proposito: se lo spettro del defunto Re non è visto solo da Amleto, ma anche da altri, si tratta di un’allucinazione collettiva oppure di una prova di realtà? A suffragare la seconda ipotesi stanno le rivelazioni del fantasma sulle circostanze della propria morte, benché si possa far credito agli spettri di possedere cognizioni che non richiedono l’attributo della realtà. In fondo se, come predica Berkeley, esse est percipi, ogni apparizione esiste in quanto tale, e, ignorando le sottigliezze filosofiche, il fantasma dell’opera shakespeariana agisce senza bisogno di esistere nel senso usuale, e banale, del termine.
Citando il racconto Una vista dalla collina di James, Giorello accenna alla possibilità che certi strumenti ottici consentano di scorgere oggetti che a occhio nudo non si vedono: allora esistono o non esistono, questi oggetti? Non può non venire in mente la tecnologia della realtà aumentata, in cui la visione offerta da occhiali speciali giustappone alcune informazioni supplementari agli oggetti contemplati: una mirabile conferma di quanto sosteneva Borges, cioè che il mondo è arricchito dalle finzioni. Un mondo consistente nei soli oggetti concreti sarebbe ben misero e ciò consente all’autore di motivare la propria giudiziosa posizione di scettico moderato, che rifugge dagli opposti estremismi del vero credente e dello scettico integrale. Se per i suoi preconcetti lo scettico integrale si nega le gioie e i brividi che offrono le infinite sfumature possibili della realtà, il vero credente sviluppa l’ossessione delle prove inconfutabili, magari basate su misurazioni di campi elettrici e magnetici e su registrazioni video e audio, e, procedendo da preconcetti opposti a quelli dello scettico integrale, ma altrettanto incrollabili, elimina ogni sorridente ironia dalla realtà in cui vuole credere e si rintana in una inospite caverna fattuale, attrezzata con le inossidabili apparecchiature dei cacciatori di fantasmi. Che cosa poi sia la realtà resta uno di quei misteri che, come dice George Steiner, rendono la vita degna di essere vissuta... L’ultimo grido della moda, propugnato dai corifei della filosofia digitale, afferma che l’essenza del reale è l’informazione: non bosoni e fermioni, non quarks e leptoni, bensì sciami di bit animati da un’incessante computazione. In questa visione l’Universo è un Grande Computer e Dio, smettendo i panni antiquati del Grande Architetto e del Grande Orologiaio, diventa il Grande Programmatore.
Adottando l’informazione come principio primo, forse si potrebbe affrontare il problema dell’immortalità dell’anima individuale in modo nuovo: a meno che non finiscano in un buco nero, i bit non si distruggono e quindi l’anima (necessariamente composta di bit) sopravvivrebbe alla morte del corpo (altro aggregato di bit) e vagherebbe negli spazi siderali stimolata dalla computazione di fondo, fino a trovare, per una felice o infelice combinazione, un corpo in cui reincarnarsi: un corpo da animare proprio nel momento dell’incontro tra ovulo e spermatozoo. Chissà se questa versione vagamente platonica dell’immortalità dell’anima sarebbe stata accettata anche da Spinoza?
[Gorizia 25-26 dicembre 2015]

Giulio Giorello
Il fantasma e il desiderio
Mondadori, Milano, 2015
pagg. 120, € 18,00


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LIBRI
LA CADUTA DELL’IMPERO    
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro

 Non ricordo bene quando ho conosciuto Fulvio Papi. O meglio, l’unica data certa è il 13-14 maggio 1967, a Reggio Emilia, in occasione del Convegno di Studi Banfiani, di cui furono poi pubblicati gli Atti col titolo Antonio Banfi e il pensiero contemporaneo da La Nuova Italia a Firenze nel 1969. Lì c’era sicuramente Papi, e c’ero io; ricordo soprattutto il viaggio comune di ritorno verso Milano in macchina, con sua moglie e Egle Becchi. Non risulta invece comprovata dai fatti (e dai ricordi più circostanziati di Papi) la mia ipotesi (tenace) di averlo di sfuggita incontrato prima, a  Milano, negli anni attorno al 1962, in cui preparavo la tesi e dopo di essa continuavo a occuparmi di Banfi. Frequentavo la casa di corso Magenta 50, dove ancora viveva la vedova Daria Banfi Malaguzzi.    
I primi scritti di Papi che ho letto, e mi sono rimasti impressi, sono La politica nel pensiero di Antonio Banfi e Biografia - sul numero 43-44 di “Aut aut” del gennaio-marzo 1958 (rispettivamente pp. 81-92 e 93-97) dedicato a Banfi pochi mesi dopo la sua morte. E naturalmente poi ci fu la lettura, non poco impegnativa per me, fu Il pensiero di Antonio Banfi (edito da Parenti, Firenze 1961), indispensabile per la mia tesi, e tuttora insostituibile per qualsiasi approccio a Banfi. Ho poi sempre letto innanzitutto gli scritti, numerosi, e comunque imprescindibili, ripetutamente dedicati a Banfi, fino a Antonio Banfi. Dal pacifismo alla questione comunista, e fino alle ultime testimonianza anche solo orali. Ho sempre tenuto presenti poi gli scritti concernenti gli allievi di Banfi - da Vita e filosofia (in cui per primo conia il termine “La scuola di Milano”, cui poi tutti noi ricorreremo) a Gli amati dintorni e La memoria ostinata:  relativi innanzitutto a Cantoni, Paci, Preti, e in seguito a Anceschi, Formaggio, Bonfanti; da ultimo a Sini, Neri, che anche di Banfi in anni più tardi sono stati allievi. Mi sono stati di grande aiuto gli scritti, più ampi e pregnanti, ripetutamente dedicati alla poesia di Antonia Pozzi e di Vittorio Sereni. E quelli volti all’arte, dalla letteratura, alla poesia: dai saggi di filosofia dell’arte contenuti in La parola incantata al Dialogo sulla poesia con Tomaso Kemeny, agli scritti sull’architettura. La passione della realtà, collegato già nel sottotitolo al tema del fare, del farsi filosofia, l’ho collegato indirettamente a Formaggio, alla  base della cui estetica sta il tema del fare. Oggetto di desiderio e di rimorso resta invece tuttora per me Dalla parte di Marx. Per una genealogia dell’epoca contemporanea, che mi ha subito attratto, che ho scorso, ma non ho avuto finora modo di leggere interamente.      
Tra le altre opere lette, che mi hanno sollevato fertili interrogativi, ricordo innanzitutto Le grandi confessioni e il nulla e La biografia impossibile. Già il loro titolo mi ha posto problemi, ma insieme da essi ho tratto utili insegnamenti, di cui mi sono immediatamente appropriato, non so con quanta legittimità.
E non voglio tralasciare di menzionare qui gli scritti più letterari, la cui lettura è quindi più agevole: L’albero d’oro. Un’adolescenza immaginata, e Il delitto del Miralago. Un’infanzia sotto il duce. Da ultimo mi è caro menzionare Il lusso e la catastrofe, impegnato su temi di grande attualità, la cui pregnanza mi si è rivelata anche assistendo alla Scala a CO2 di Giorgio Battistelli.   
Il pensiero di Fulvio Papi mi è di stimolo da anni, vuoi nel senso che ha trovato consenso in me, vuoi nel senso che mi ha suscitato domande. È stato spesso oggetto implicito di dialogo tra me e me, più di una volta ho cercato di confrontarmici, non so con quanta cognizione di causa. Gli scritti di Papi non sono mai semplici, tanto meno scontati; danno molto da pensare; almeno a me, ogni lettura lascia sempre il dubbio di non aver afferrato tutto fino in fondo. Mi sono tracciato personali vie d’accesso al suo pensiero, per orientarmici a modo mio. Mi limito ora a pochi spunti cui ho fatto ricorso per avvicinarmi ad esso.
Il primo riguarda un’affermazione di Enzo Paci riferita a Banfi - che ritrovo nel suo Antonio Banfi vivente (in “Antonio Banfi e il pensiero contemporaneo”, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 37): “Lo scarto tra realtà e ragione, e quindi la dialettica -lo diceva espressamente e molto spesso- fu la sua esperienza personale di una situazione storica vissuta nella sua tragicità e nella sua realtà”. Dove sottolineerei il tono, per solito non rilevato (la personalità di Banfi è vista per lo più come dominata da un incauto ottimismo), in cui a parere di Paci è vissuto da Banfi quello “scarto”. Non ascriverei mai al pensiero di Papi alcuna forma di ottimismo; mi ha sempre attratto il suo sguardo lucido, disincantato, cui faccio spesso ricorso chiedendogli pareri non solo su questioni filosofiche ma anche su problemi attuali. Quel suo “prender le cose alle radici” (così me lo figuro), del tutto alieno da ogni luogo comune, mi è sempre stato prezioso. Il termine “tragico” non mi sembra appartenga al suo lessico, Papi non vi ricorre quasi mai (e non so se sia contento che qualcuno vi ricorra parlando di lui); e tuttavia è ben consapevole di risvolti della nostra esperienza vissuta che non saprei definire se non come tragici.      
Il secondo spunto si riferisce alle critiche di Banfi a quelle che chiama, nei Principi di una teoria della ragione, “teorie di un principio reale del conoscere”, che postulano un “valore ontologico” del discorso, un’ immediata aderenza delle parole alle cose. Di qui il trascorrere dell’attenzione di Banfi, al di là di ogni realismo, dal “mondo della vita” al mondo del suo costruirsi nelle forme della cultura. A questo proposito mi sembra pertinente ricordare i bellissimi appunti di Banfi Sulla conoscenza intuitiva, pubblicati da Guido Neri (sul n. 54 di “aut aut”, novembre 1969, pp. 363-376). Non a caso la filosofia di Banfi si delineerà negli anni Trenta essenzialmente come una filosofia della cultura e non tout-court della vita.  
Entrambi questi spunti mi hanno aiutato a entrare meglio nel pensiero di Papi; o, quanto meno, questa è stata per me uno strumento (non so quanto corretto) per accostarmi al suo mondo. Mi ha colpito da subito in lui (traduco con parole sommarie) il concentrarsi del suo pensiero sui percorsi mediante i quali “il reale” si costituisce in mondi simbolici; come riflessione dunque, più che sul suo darsi, sulle vie del suo costruirsi, che affonda le proprie radici nei contesti storico-temporali da cui ha tratto alimento.
L’appannarsi dell’orizzonte ontologico del pensiero, lo scollarsi delle parole dalle cose, l’ho vissuto come qualcosa che mi riguarda. E ha come risvolto la disgregazione dei valori che da quell’orizzonte traggono linfa. Proprio a questa “crisi”, quale si delinea nel periodo della decadenza dell’impero asburgico, Papi dedica tra le più affascinanti riflessione della sua tersa e fertile terza età.
Certamente, nella mia ottica, sullo sfondo lontano dell’interesse di Papi per il tema della “crisi” agiscono le riflessioni di Banfi; anch’esse risalgono agli anni tra le due guerre mondiali in cui escono le grandi opere di Broch, Musil, Roth, Svevo, pur così diverse per atmosfere, figure e temi dal mondo banfiano. Non è un caso che alla “crisi” Banfi dedichi le importanti riflessioni degli anni 1934-35, consegnate in appunti da poco riediti: dopo una prima pubblicazione da Scheiwiller nel 1967, ormai introvabile, sono ora disponibili, con la prima prefazione di Carlo Bo e le nuove postfazioni di Fabio Minazzi e Fulvio Papi, nella riedizione apparsa da Mimesis nel 2013. Mi piace pensare che non sia casuale che l’interesse di Papi per la “crisi” (del resto serpeggiante nelle sue opere da sempre) sia riemerso in modi pronunciati in anni più o meno coevi alla ripubblicazione degli scritti di Banfi sul tema.      
In quest’ambito si colloca l’ultimo libro di Papi, che voglio qui segnalare: Il poeta, l’Impero, la morte (ediz. Ibis, Como-Pavia, 2015). Oggetti ne sono soprattutto Hermann Broch, cui è dedicata più della metà del volume; ma insieme una sottile attenzione è rivolta a Josef Roth e a Italo Svevo. Sullo sfondo delle sue riflessioni è ben presente Robert Musil, sui cui uscirà presto da Mimesis un libro a sé stante. Tutte le opere prese in considerazione da Papi -da I sonnambuli a La marcia Radetzky a La coscienza di Zeno, per non dire di L’uomo senza qualità- hanno visto la luce allorché l’impero asburgico è ormai alle spalle. Con un senso di nostalgia da parte di alcuni, e di liberazione da parte di altri soprattutto in Italia.  
Le pagine più impegnative e dense sono quelle su Broch, non solo su I sonnambuli, ma anche su La morte di Virgilio. Avevo apprezzato, pro domo mea, la predilezione di Broch per Kafka, sapevo però della su grande attrazione per Joyce. Nell’insieme, per me nuove e affascinanti sono state le pagine dedicate ai rapporti tra Broch e Joyce, al saggio su James Joyce e il presente (disponibile nella nostra lingua in “Poesia e conoscenza”, a cura di Saverio Vertone, prefazione di Hannah Arendt, Lerici, Milano, 1965, pp. 229-263) e in particolare alla presenza di Joyce in La morte di Virgilio.
Di Roth sono presi in considerazione La marcia di Radetzky e, meno, La Cripta dei Cappuccini. Interessante, e nuova per me, è l’attenzione di Papi per la ricezione di Roth in Italia, e a Milano in particolare: “L’opera di Roth racconta un ambiente lontano dal contesto letterario in cui l’esperienza dei giovani della Milano degli anni Trenta poteva specchiarsi”. Come noto, in quel contesto predominante era il fascino di Tonio Kröger e di La montagna incantata (a quei tempi non ancora magica). A Milano le opere di Roth erano lette soltanto come un racconto realistico e ‘commovente’”. E del resto in linea generale la lettura di Roth in Italia era segnata più dall’ammirazione per il grande scrittore che non dalla sua nostalgia per gli Asburgo. Così in Svevo non vi sono nostalgie del passato imperial-regio: egli era “certamente filo-italiano”, e considerava “la scomparsa dell’impero asburgico come un evento storico inevitabile e positivo che avrebbe consentito la libera determinazione” dei popoli che di quell’impero erano stati parte.
Le inarrivabili analisi di Papi coinvolgono lateralmente la letteratura triestina (da Stuparich all’Anonimo Triestino a Fausta Cialente). Colpisce il clima generale di disgregazione dei valori, di caduta di senso presente nelle pagine di Papi, l’atmosfera del mondo triestino da lui amato che in fondo tutto avvolge, anche laddove di Triste non si parla. Le pagine di Papi -last but not least- contengono infine indispensabili chiarimenti circa il clima culturale che avvolge La coscienza di Zeno. Tra questi segnalo le notazioni sulla temperie socio-economico di Trieste, il tema della coscienza (con netti riferimenti a Kant e a Hegel), il ruolo dei rapporti con la psicanalisi. A proposito di quest’ultima, essa è sì la prospettiva utile a far scattare la molla della scrittura del romanzo: è lo psicanalista che suggerisce al proprio paziente di “mettere per iscritto le sue esperienze”, di tenere “una sorta di diario della propria vita”, di scrivere, con evidenti intenti terapeutici. Zeno accetta la proposta; non gli appartiene però la visione delle cose da cui la psicanalisi trae alimento. La guarigione dalle sue nevrosi per lui non è psicanalitica, ma epistemologica, riguarda il suo modo di concepire la scienza: solo l’analisi scientifica qui è risolutiva. Condividendo un’atmosfera allora diffusa a Trieste, “Zeno è di formazione intellettuale positivista”, evoluzionistico-darwiniana; non romantica, intuizionistica. E del resto lo stesso Svevo era “positivista, socialista a suo modo, lettore dell’Avanti e di Critica sociale”.  

Fulvio Papi
Il poeta, l’Impero, la morte
Ibis Edizioni - 2015
Pagg. 96 - € 8.

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PER MILANO CON BENJAMIN   
di Gabriele Scaramuzza 

La copertina del libro

È un grande piacere sentirsi presi per mano da Rosalba Maletta e girovagare con lei per Milano, e con una guida come Walter Benjamin. Abbiamo dunque un compagno d’eccezione con noi, ci stupiscono e ci stimolano le sue note sulla Centrale, il Monumentale, il Duomo, Brera, il Cenacolo, D’Annunzio a teatro; con tanta vita che fa loro da contorno. I testi di Benjamin (soprattutto dal Passagenwerk e dal Kunstwerk) ci proiettano verso una Milano che non è più. Ma è Rosalba Maletta, e con lei siamo noi, che passeggiamo a Milano, con gli occhi pieni del nostro oggi. Non a caso il libro vaga con lo sguardo asciutto di Benjamin, con occhio vigile e nessuna concessione a toni celebrativi o retorici, tra la celebre Expo 1906 e quella di cento anni più tarda, appena conclusa. Sei anni dopo l’Expo 1906 infatti, alla fine di maggio del 1912, “Walter Benjamin capita nella città lombarda nota ai viaggiatori del Nord per la potenza industriale e la preminenza in ambito economico e finanziario. Ed è dunque insieme a questo viaggiatore tanto singolare che ci incammineremo per le vie e i quartieri di Milano. Sostiamo con il suo sguardo e le sue immagini pensanti (Denkbilder) dinanzi all’organismo difforme, variegato e pulviscolare dove flânerie e time-lapse si intrecciano e si combinano chiamando il passante ad aprire canali sensoriali intorbiditi dalla ratio efficientista e anestetizzati dal principio della prestazione” (pp. 13-14).
“La nostra ricognizione della città […] si compie grazie a un pensatore come Benjamin, il quale mal si presta a cannibalizzazioni, omologazioni e altri usi impropri. Ben lungi dal poter essere bollate come passatiste e inadeguate, le sue riflessioni ben si attagliano alla presenza pervasiva e capillare della rete nelle nostre vite e nelle relazioni che intratteniamo” (p. 17). Ed è soprattutto col Benjamin dei passages di Parigi tra le mani che Rosalba Maletta compie le sue escursioni nello spazio e nel tempo di Milano.
I tempi del libro talora si distendono nella lentezza del nostro svagato passeggiare, talaltra si contraggono in sguardi presi da quel che verrà, si proiettano ansiosi nel domani, fino al nostro oggi. Questa doppia prospettiva prende; è la realtà del nostro vagare tra il passato ancora bruciante che “dice”, e l’attualità dei nostri passi convulsi. Questa oscillazione del tempo è il nostro presente. La nostra vita non si svolge in un tempo uniforme e continuo, non è ma vive di questi strappi, di queste proiezioni; qualcosa permane, l’urto con la folla ci appartiene ancora, Benjamin lo ha scolpito in modo memorabile.    
Questo libro di Rosalba Maletta attrae anche perché non si sospettava che Milano fosse stata oggetto di tanta acuta attenzione da parte di Benjamin, che dell’Italia frequentava luoghi ben più affascinanti e celebri. Per Kafka -che visita Milano solo l’anno immediatamente precedente il soggiorno milanese di Benjamin- è diverso, dato che Milano è una delle pochissime località italiane che visitò, e ci restano osservazioni concentrate, intense, e in certo modo paradigmatiche, e fatte oggetto di molte riflessioni.
Queste brevi righe colgono nulla più che un invito alla lettura di un libro affascinante e nuovo come questo che ci consegna Rosalba Maletta. 

Rosalba Maletta,
A Milano con Benjamin.
Soglie ipermoderne tra flânerie e time lapse (1912-2015)
Mimesis, Milano 2015, pp.153, € 12.

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FRANCO ESPOSITO

Franco Esposito nel suo giardino di Stresa (Foto: Mirella G.)

UVA GRECA

Ti ho sognata che sparivi come una nuvola.
Le tue labbra dolci come un acino di uva greca.
Ti ho sognata leggera e trasparente come la falce
di luna che illumina le acque dello Jonio.
Ho parlato in sogno con te dove si sente il mare.
L’alba accendeva semi di luce su Sibari
accarezzava la prima ruga sulla tua fronte.
I limoni profumano sbiaditi dal sole.
Le campane di un altro Natale.

[Stresa 2015]

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Omaggio ad Adriano Manesco
di Chiara Sironi

La copertina del libro

Un omaggio per commemorare e rendere giustizia a un amico che non c’è più. Così si presenta il volume recentemente pubblicato per Mimesis Edizioni, Un amico fragile. Testimonianze e ricordi per Adriano Manesco, a cura di Virgilio Melchiorre, con la partecipazione di Sibilla Cuoghi, Anna Ferruta, Elio Franzini e Gabriele Scaramuzza.
Adriano Manesco, la cui triste vicenda è nota dalle pagine di cronaca nera dell’ultimo anno e mezzo, è il protagonista e il destinatario di una serie di ritratti che raccontano con familiarità e discrezione frammenti della vita dell’uomo e dell’intellettuale che è stato. Nelle pagine di questo libro sono raccolte le testimonianze e i ricordi di molti amici, che per lunghi anni sono stati vicini a Manesco; i ricordi personali e intimi che gli autori dei saggi hanno voluto condividere si arricchiscono qui di suggestioni di carattere più squisitamente filosofico, in omaggio a un’esistenza investita nell’inesauribile ricerca di «una risposta alla domanda sugli ultimi sensi»[1].
Il volume, è bene sottolinearlo, non è una biografia e non voleva esserlo nelle intenzioni dei curatori: sia per la forma che per la finalità si discosta infatti da un testo biografico. Rispetto a una tradizionale biografia, questo testo trascende i limiti di un punto di vista particolare e individuale, a favore di una polifonia che compone in modo armonico il ritratto di un amico e di un intellettuale di grande valore.
L’immagine che con vigore emerge da queste pagine è quella di «un uomo interessato alle diverse culture, che è vissuto con naturalezza nel mondo della classicità greca come in quello delle tradizioni orientali, di India, Cina, Giappone. Ugualmente era curioso di conoscere le persone, la loro umanità e unicità, e desideroso di comunicare generosamente quanto sapeva. Adriano Manesco ha trasmesso valori di rispetto per la dignità umana e interesse per la crescita culturale e civile»[2]. Per Manesco «non c’era aspetto del mondo per cui provasse indifferenza, tutto attirava il suo sguardo e lo interessava»[3], perciò «invitava a guardare dietro e sotto le apparenze e anche gli og­getti più comuni e quotidiani diventavano nuovi e originali»[4]. Rigoroso nei suoi studi, quanto saldo nei suoi principi morali, «tra le virtù prediligeva la gentilezza, la cortesia, la buona educazione, quelle disposizioni d’animo che rendono semplici e gradevoli i rapporti umani»[5].
Esistono molti modi e forme per difendere la dignità di un amico strappato alla vita in un modo così violento: la scelta del curatore e dei collaboratori di questo volume è stata innanzitutto quella di salvaguardare la memoria di Manesco e di farlo attraverso la testimonianza diretta di chi ne ha conosciuto il pensiero, il modo di esprimerlo e gli onesti valori di cui si faceva portatore. Quella che viene restituita in queste pagine è l’autentica voce di Adriano Manesco, che rivive attraverso l’affetto e la stima sincera delle persone a lui più care.

Note
1.V. MELCHIORRE, “Alla ricerca degli ultimi sensi dell’essere” in Un amico fragile. 
Testimonianze e ricordi per Adriano Manesco, p. 14.
2. Dalla quarta di copertina.
3. S. CUOGHI, “Adriano ovvero della curiosità” in Un amico fragile.
Testimonianze e ricordi per Adriano Manesco, p. 38.
4. Ivi, p. 36.
5. Ivi, p. 37

Un amico fragile.
Testimonianze e ricordi per Adriano Manesco,
a cura di V. Melchiorre, con la partecipazione
di S. Cuoghi, A. Ferruta, E. Franzini,
G. Scaramuzza,
Mimesis, Milano-Udine 2015, 136 pp., 14 €.


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Clemente Rebora nella prestigiosa collana 
I Meridiani di Mondadori

Cofanetto

Non c’è nulla di più bello del Canto dei cantici”: queste parole mi tornano in mente questi giorni mentre leggo l’opera completa su Clemente Rebora,  pronunciate  da  uno  dei personaggi dell’Uomo senza qualità, il capolavoro di Robert Musil, lo scrittore austriaco morto nel 1942, grande  testimone della  crisi  del nostro Novecento. Parafrasando le stesse parole, voglio farle mie e suggerire: “Non c’è nulla di più bello che la poesia di Clemente Rebora”: parole, che Adele Dei con la collaborazione di Paolo Maccari hanno fatto a loro e ci hanno regalato questa magnifica  opera omnia su : Clemente Rebora – Poesie, Prose e Traduzioni – I Meridiani Mondadori pagg.1330, euro 80 ). Malgrado la mia consuetudine di discutere e scrivere da più  di quarant’anni da Stresa, o in giro per l’Italia e l’Europa del nostro don Clemente vedo con una certa emozione che la mia  testardagine che ho dimostrato  sia con la mia rivista di cultura Microprovincia  sia con gli importanti e determinanti Convegni e pubblicazioni in sintonia con altri amici sparsi in tutta Italia e soprattutto attorno al Centro Rosminano di Stresa  è stata premiata. Naturalmente ho seguito  con trepidazione giorno per giorno, mese per mese  questa  indispensabile e definitiva opera completa su Clemente Rebora  e devo ammettere che questi giorni con il volume tra le mani, tremanti dall’emozione, posso tranquillamente sottolineare che mi ha impressionato la tenacia, la puntigliosità, di Adele Dei, ma mi ha sorpreso , soprattutto, la sua dote  innata di critico di professione e di organizzatrice, la dimostrazione subito nell’introduzione al volume con la sua lievità di scrittura e la discrezione con cui è riuscita ad entrare in profondità nell’opera e nella vita di un poeta complesso e tormentato come quella di Clemente Rebora. 

Copertina di Microprovinca

Dalla nascita a Milano 1885, educazione rigorosamente laica, senza riferimenti religiosi. Gli studi di qualsiasi ragazzo della borghesia milanese di quel periodo. La laurea in lettere con la tesi sul Romagnosi che verrà pubblicata sulla ((Rivista d’Italia)) col titolo: Romagnosi nel pensiero del Risorgimento. Insomma, un laico la cui lezione affonda le radici in Cattaneo, Gioberti, Mazzini. Nel 1914, lo troviamo a Novara. quella Novara non lontana dall’amato e scalato Monte Rosa, la città come scrive il 5 aprile del’14  a Prezzolini:  ((vive come gli stantuffi delle sue belle locomotive che lo spostano (...) ogni giorno tra Milano e Novara)). Infatti,gli fu assegnata l’insegnamento d’italiano nella Regia Scuola tecnica ((Galileo Ferraris)). Quaranta ore la settimana di lavoro dalle 6 alle 19 a Novara, poi le scuole serali a Milano. L’incontro, forse più importante fu con Giuseppe Prezzolini (direttore della Voce) l’alfiere in quel periodo di un grande rinnovamento morale italiano, miseramente  fallito. ((Rebora, eccellente impressione, animo saldo, sicuro, fa e fa bene, che meraviglia sono questi giovani in provincia)). Dai Diari di Giuseppe Prezzolini 1900-1941. Nel 1913, uscirono i Frammenti lirici, affidati per la stampa proprio a Prezzolini presso la Libreria della Voce. a dispetto degli sforzi di Rebora e dei suoi amici, i Frammenti non ebbero l’eco sperato. Solo in seguito i Frammenti vengono analizzati e  percepiti  come gemme che nascondevano un mondo nuovo con cui Rebora assimilava il suo tempo e se ne faceva il portavoce. L’oscurità dei versi, di cui si parlerà in seguito dei Frammenti, non derivava dal proposito di nascondersi, ma della intraducibiltà dei pensieri che il poeta  voleva esprimere. Altra tappa fondamentale per Rebora é l’incontro con Sibilla Aleramo e Lydia Natus. Un capitolo, soprattutto, quello vissuto con Lydia Natus, molto importante come uomo, ma devastante per l’impatto con la brutalità della guerra appena scoppiata. La sua sopravvivenza, scrive padre Umberto Muratore nella sua splendida biografia, diventava una questione di giustizia cosmica, assoluta: quei morti anonimi ed insepolti gli avevano affidato un compito che neppure la sorte poteva non rispettare, tanto era sacrosanto: O ferito laggiù nel valloncello,/Tanto invocasti/Se tre compagni interi/Cadder per te che quasi più non eri,/Tra melma e sangue/Tronco senza gambe/E il tuo lamento ancora,/Pietà di noi rimasti/A rantolarci e non ha fine l’ora,/Affretta l’agonia,/Tu puoi finire,/E conforto ti sia/Nella demenza che non sa impazzire,/Mentre sosta il momento,/Il sonno sul cervello,/Lasciaci in silenzio -/ Grazie,fratello. Anche se  alla fine sono solamente Lydia e la poesia le luci che lo aiutano ad attraversare il tunnel dell’abbrutimento nelle trincee del Carso. Intanto, matura un altro grande avvenimento nel  1920, escono i Canti anonimi, che hanno come esergo un frammento del 1914 : ((Urge la scelta tremenda/Dire si,dire no/A qualcosa che so)). Dopo la singolare esperienza del 1928, la famosa conferenza degli  Atti dei Martiri Scillitani  quando: ...((La Parola zittì chiacchiere mie)), Rebora si avvicina alla chiesa. A differenza di altre conversioni nel tempo, avvenute all’insegna della rumorosità e del clamore, il suo itinerario a Cristo é stato un evento intimo, strettamente riservato e personale, del quale solo pochissimi amici furono messi a conoscenza. Più che al plauso esterno, egli era interessato a sbloccare l’imprigionamento dell’esigenza battesimale. Da questo straordinario capitolo della ((Chiamata)), la biografia di padre Umberto Muratore, affronta per la prima volta la parte nuova e più impegnativa del nostro don Clemente. Lo affronta con grande amore e partecipazione, soprattutto dall’entrata nell’ordine dei rosminiani. Una miniera di notizie, di riflessioni inedite di un Rebora che cerca con tutte le sue forze di recuperare il tempo perduto. L’uscita di questo prezioso e imponente Meridiano secondo me, è riuscito ampiamente a colmare quel vuoto di cui tanto abbiamo sentito parlare, soprattutto da Gianfranco Contini,da Oreste Macrì fino a Carlo Bo a portare Rebora nell’Olimpo dei grandi poeti del Novecento. Voglio  sottolineare con forza che la biografia reboriana di padre Umberto, i tre numeri monografici di Microprovincia e altri importanti studi pubblicati dalla Casa Editrice Interlinea dell’amico Roberto Cicala,  secondo me, sono stati di fondamentale importanza per Adele Dei che si è trovata la strada spianata per il suo importante lavoro di recupero e di scelta del materiale reboriano. Da parte mia voglio aggiungere che solo chi è capace di trovare un po' di conforto e d’illuminazione nella poesia, nella grande poesia, può leggere questo meraviglioso Meridiano, dal  periodo cosiddetto oscuro di Rebora fino alla sua santità,  che  ho sempre trovato di una grande intensità spirituale oltreché poetica. Nelle note dei suoi ultimi  anni,  sia in poesia che nella vita quotidiana non c’è il tempo neppure per guardarsi attorno, salvo l’aiuto ai poveri che bussavano alla porta del collegio, e la solidarietà con gli infermi. L’ultimo periodo, infine, coincide con il ritorno alla grande poesia con i : Canti dell’infermità 1957 di genere sacro, con le sue tremende e vertiginose metafore che ci portano indentro nel tempo a gareggiare con i suoi Frammenti, con la purificazione dei suoi peccati, con l’annuncio unanime di chi lo avvicinava nella sua indiscutibile ascesa  alla santità. Muore a Stresa nel 1957 la sua tomba dal 1985 si trova nel Collegio Rosmini difronte a quella del padre Fondatore della Congregazione nella chiesa  del Crocifisso sul Colle Rosmini. La sua grande eredità poetica viene rivalutata post mortem da quasi tutti gli studiosi italiani. Ma quello  di cui  oggi sono convinto,  è che il suo ricordo è vivo non solo  nei cuori dei suoi numerosi lettori, come uno dei maggiori poeti del nostro Novecento e questo Meridiano ne è la dimostrazione, ma che è altrettanto vivo nei cuori dei più umili dei più semplici come lui sperava con tutte le sue forze.                    
Franco Esposito

***
MARIA DILUCIA

Finestra fiorita

VERITÀ?
E licenzio i pensieri
Lasciando libera la mente
L’assenza crea un vuoto
che permette ai ricordi di incontrarsi.
Rivedo sguardi non colti,
Verità sfuggite
E le bugie tra l’altro mal recitate.
Rileggo, riformulo, comprendo
Che le risoluzioni su cui
Ho costruito la mia vita
Sono basate su dati
Malamente colti!
A chi devo chiedere perdono?
Chi devo odiare?
Cerco di riempire la mente
Con l’orizzonte
Ma lei implacabile
Mi rimanda i visi
Di chi ho offeso
E di chi ha goduto ad umiliarmi
Lasciando che rimorsi e rancori
Giochino a palla
Con la mia anima.

HO BISOGNO DI POESIA
Sola,
in un deserto di donne e di uomini,
fuggo per evitare di essere travolta
dal fiume assordante di inutili parole.
Confusa,
senza punti di riferimento,
mi sforzo fino alle lacrime
inutilmente.
Incomprensibile mi è la realtà:
ambigua, mistificata, falsificata.
Forse  rappresentata
da disumani registi.
Ordita da ciechi,
inconsci che ormai tutti
graffiamo l’orlo dell’abisso.
In questo cimitero di speranze
ho bisogno di poesia.
Per non essere schiacciata
da questa opprimente montagna d’ottusità
ho bisogno di poesia
Per impedire all’avido mostro della disperazione
di divorarmi.
Ho bisogno di poesia!

SILENZIO
Se potessi avere a mia disposizione
un po’ della vostra attenzione,
un po’ del vostro tempo,
per dire ciò che penso
non vi direi niente.
Vi chiederei di ascoltare il vostro cuore,
non me.
Poiché tutto è stato detto
e tutto è stato ascoltato
E non potete più fingere di non sapere.
Se proprio qualcosa non vi è chiaro
chiudete i vostri occhi
e ascoltate con attenzione
quella voce che dentro di voi
da tempo,
da troppo tempo urla.

Inascoltata urla.

***
Laura Margherita Volante

Opera di Mario Bracigliano

ASSENZA
In preda all’atarassia                         
nell’accoglienza
giaccio abbandonata…                     
 del cosmico silenzio
il fragore del mare                           
 e anche il volo
che s’allontana…                                
 dimora
assente è l’anima                               
alla sua ombra.

RITORNI
Cercherai le tue radici                 
fra i rami rinsecchiti 
scansando sulle nevi                                    
l’orma dei tuoi avi…              
e calerà nel suo rituale
la sera.  
È il ritorno alla nostra terra          
sulle vie del  vento
che muore in un sospiro.
Non c’è lapide e neppure un altare
 ma solo il silenzio 
dell’eterno e muto divenire.  


 ***
LIRISMO DELLA MORTE NELL'ULTIMO ESENIN
di Luigi Scala

Luigi Scala

Colui che è passato alla storia della letteratura come poeta contadino, aedo delle bettole, anima popolare della Grande Madre Russia, Esenin, muore nel 1925, all'età di soli trent'anni, stroncato dal peso di una spiccata sensibilità e di cocenti disillusioni: ancora oggi non è dato sapere se suicida, "suicidato" o eliminato su commissione (forse del governo comunista sovietico). Nell'interno di diradare le nebbie dei tanti luoghi comuni che ne hanno avvolto l'esegesi nel corso degli anni, con particolare riferimento alla sua ultima produzione letteraria, Esenin si palesa come un lirico cantore della morte, anzi più che della morte sic et simpliciter, di quella misteriosa malattia (depressione, morbo esistenziale, chiamatela come volete), il cui sbocco naturale, soprattutto per gli spiriti eletti, è spesso la morte, autoimposta o eteroindotta, ma comunque voluta e ricercata come una liberazione.
Il male oscuro di Esenin veste i panni di un sinistro uomo nero, e L'uomo nero” è appunto il titolo del componimento che rappresenta, a mio avviso, l'esempio più riuscito di quel lirismo funerario di cui si parlava prima.
Nell'ambito della produzione poetica di natura testamentaria, questa poesia di Esenin fa il paio con la sua ultima, quel Congedo” di cui gli si attribuisce la paternità, che, secondo la vulgata, egli avrebbe dedicato e consegnato ad un amico il giorno prima del suo trapasso.
Ma, laddove nel Congedo” il lirismo stempera in un'amarezza ghiacciata ed insanabile, prodromica all'estremo gesto che di lì a poco avrebbe posto fine alle sofferenze del Poeta, lo stesso lirismo si mostra in tutta la sua pienezza ne L'uomo nero”.
In questo componimento uno Esenin già in preda ai fantasmi del suo tormento, instaura con l'uomo nero un dialogo intessuto di dolci ricordi e funeste considerazioni. Lo spunto per queste riflessioni è dato da un libro (da Esenin giudicato con epiteti quali "turpe" o "abominevole"), che l'uomo nero sta sfogliando e descrivendo a voce alta e che ripercorre la vita di un poeta elegante (Esenin medesimo), proveniente da un paese di teppisti e ciarlatani.
Costui amava una donna, che egli stesso chiamava "bambina cattiva" o, come altri traduttori hanno trasposto in maniera meno edulcorata, "lubrica puttanella". Esenin, però, rifugge da questi ricordi, ormai votato ad un cupio dissolvi che non contempla possibilità di appello.
Si noti la capacità del Poeta di far convivere negli stessi versi espressioni e termini evocativi di sensazioni tra loro antitetiche, ma che, nella sua penna, arrivano a fondersi armoniosamente: all'eleganza del Poeta fa da contrappunto la sua provenienza, che denota un ambiente se non degradato, almeno decadente (ma elegiaco al tempo stesso), popolato da teppisti e ciarlatani; e la donna che egli ama teneramente è paragonata ad una prostituta dei bassifondi. Amore e laidezza, eleganza e pidocchiume: la poesia di Esenin trapassa gli steccati che separano l'aulico dal popolare, il cattivo gusto dalla raffinatezza più ricercata: è come se le scarpe di copale del Poeta incedessero nel fango senza insudiciarsi.
È proprio questo che ci fa sentire un'infinita dolcezza nel senso di putredine che aleggia in tutto il componimento. È proprio questo che ci spinge a parlare di lirismo della morte.
È proprio questo che rende l'addio in versi di Esenin, sia pur nella sua crudezza, un lieve arrivederci.

Una foto del giovanissimo Esenin con pipa

DUE POESIE DI ESENIN

L'UOMO NERO

Amico mio, amico mio,
sono molto molto malato.
Io stesso non so da dove mi venga questo male.
Se sia il vento che sibila
sul campo vuoto e deserto,
o
forse, come a settembre al boschetto,
è l'alcool che sgretola il cervello.
La mia testa sventola le orecchie,
come fa un uccello con le ali.
La mia testa non è più capace
di ciondolarsi sul collo.
Un uomo nero,
nero, nero,
un uomo nero
siede sul mio letto,
un uomo nero
non mi lascia dormire per tutta la notte.
L'uomo nero
scorre il dito su un libro turpe
e, con canto nasale sopra di me,
come un monaco su un morto,
mi legge la vita
di un certo mascalzone e furfante,
cacciando nell'anima angoscia e paura.
L'uomo nero
nero, nero...
"Ascolta, ascolta", -
mi farfuglia, -
"
nel libro ci sono molti bellissimi
pensieri e progetti.
Quest'uomo
viveva nel paese
dei più repellenti
teppisti e ciarlatani.
In dicembre in quel paese
la neve è pura fino al demonio,
e le bufere mettono in moto
i più allegri filatoi.
Quell'uomo era un avventuriero,
ma della marca migliore
La più alta.
Egli era elegante,
e per giunta poeta;
anche se piccola,
afferrava la sua forza,
e una certa donna,
che aveva quarant'anni e passa,
lui la chiamava bambina cattiva
e la sua amata".
"La felicità - diceva,- è destrezza di mente e mani.
Tutte le anime maldestre
sono note per la loro infelicità.
Non importa,
se molti tormenti
sono frutto di gesti
tortuosi e menzogneri.
Nelle tempeste, nei temporali,
nella gelida vita,
nelle perdite gravi
e quando sei triste,
apparire sorridente e semplice -
è l'arte più sublime del mondo".
"Uomo nero!
Non osare questo!
Tu non sei in servizio
come un palombaro.
Che m'importa della vita
di un poeta scandaloso.
Per favore, a qualcun altro
leggi e racconta".
L'uomo nero
mi guarda fisso.
e gli occhi si tingono
di un vomito azzurro,
quasi volesse dirmi,
che io sono delinquente e ladro,
che in modo svergognato e impudente
ha derubato qualcuno.
Amico mio, amico mio
sono molto molto malato.
Io stesso, non so da dove mi venga questo male.
forse è il vento che sibila
sul campo vuoto e deserto,
forse, come a settembre al boschetto,
è l'alcool che sgretola il cervello.
Notte di gelo...
La pace al bivio è silenziosa
sto solo alla finestra,
non aspetto né amico né ospite
tutta la pianura è ricoperta
di una calce friabile e molle,
e gli alberi, come cavalieri,
sono a raduno nel nostro giardino.
Da qualche parte piange
un uccello notturno malefico.
I cavalieri di legno
seminano un rumore di zoccoli.
Ecco di nuovo questa cosa nera
che siede sulla mia poltrona,
solleva un po' il suo cilindro
e incurante butta all'indietro le falde del pastrano.
"Ascolta, ascolta! -
mi fa con voce sgradevole, guardandomi in faccia,
ancora più vicino
ancora più vicino mi si inchina. -
non avevo mai visto che qualche
delinquente
in modo così inutile e sciocco
soffrire d'insonnia.
Ah, forse mi sono sbagliato!
Perché adesso c'è la luna.
Di che cosa ancora ha bisogno
questo piccolo mondo mezzo addormentato?
Forse, con le sue grosse cosce
"lei" verrà di nascosto,
e tu le leggerai
la tua fiacca lirica ormai sfiatata?
Ah, io amo i poeti!
gente divertente.
In loro trovo sempre
una storia famigliare al cuore,
come quella di una studentessa piena di brufoli
e di un mostro dai lunghi capelli
che le parla dei cosmi,
tutto bramoso di desiderio sessuale.
Non so, non ricordo,
in un villaggio,
forse, in quel di Kaluga,
o forse, in quel di Rjazan',
viveva un ragazzo
in una semplice famiglia contadina,
con i capelli gialli,
con gli occhi azzurri...
Ed ecco che divenne adulto,
e per giunta poeta,
anche se piccola
afferrava la sua forza,
e una certa donna,
che aveva quarant'anni e passa
lui la chiamava bambina cattiva,
e la sua amata".
"Uomo nero!
Tu sei un pessimo ospite.
Questa fama di te
da molto tempo corre in giro".
Sono furibondo, fuori di me,
e vola il mio bastone
giusto addirittura contro il suo muso,
alla radice del naso
La luna è morta,
azzurreggia alla finestra l'alba.
Ah tu, notte!
Che m'hai combinato, notte?
Me ne sto in piedi qui col mio cilindro.
Non c'è nessuno con me.
Sono solo...
Con uno specchio in frantumi...


CONGEDO

O caro amico, ci vedremo ancora,
che sempre nel mio cuore tu rimani.
Ormai di separarsi è giunta l’ora,
ma promette un incontro per domani.
Caro amico addio, senza parole,
senza lacrime, senza dispiacere.
Morire non è nuovo sotto il sole,
ma nuovo non è nemmeno vivere.

***
Il bicentenario di Giovanni Meli 20 dicembre 1815/2015
di Francesco Zaffuto

La copertina del libro

In occasione del Bicentenario di Giovanni Meli la casa editrice I Buoni Cugini ha pubblicato un’opera complessa e particolare inserendo in un solo volume: il romanzo di Luigi Natoli “L’Abate Meli”; il prezioso Studio critico di Luigi Natoli su Meli, tutte le poesie di Meli che Natoli scelse per il suo trattato “La Musa siciliana”, ed un’ampia appendice con tante poesie di Giovanni Meli in siciliano e traduzione in italiano a fronte. Meli visse a Palermo (4 marzo 1740 - 20 dicembre 1815) in anni in cui si sentivano arrivare da lontano gli echi della Rivoluzione francese e  dopo quelli delle campagne napoleoniche, non fu investito direttamente da quegli eventi, inveì dalla lontana Sicilia contro gli eccessi della Rivoluzione francese e contro le sanguinose campagne napoleoniche; predicò la pace e prese il meglio di quell’epoca, il pensiero illuminista.
La scelta di Meli di operare in siciliano è simile, per molti aspetti, a quella fatta da Gioacchino Belli con il romanesco. Il Belli costruì un monumento al popolo romano e si servì del romanesco per mettere in bocca al popolo un buon senso in cui si specchiava la ragione illuminista. Per Meli la scelta di scrivere in siciliano fu una liberazione dal convenzionalismo accademico, un ritorno alla freschezza dell’impressione e dell’espressione; a volte parlano personaggi mitologici, a volte gli animali, a volte lo stesso Poeta, ma il linguaggio ritmico del suo siciliano è scelto per evidenziare la schiettezza della ragione illuminista. La stessa scelta fu operata in Lombardia da Carlo Porta (1775-1821) che visse in un periodo storico vicino a quello del poeta siciliano.

Il romanzo di Natoli “L’Abate Meli” venne pubblicato a puntate dal Giornale di Sicilia a partire dal  16 settembre 1929 e questa edizione dei Buoni Cugini Editori fa  riferimento ai testi originali di quella pubblicazione. Non è un romanzo biografico sul poeta siciliano, è un particolare intreccio narrativo per evidenziare la poetica e la filosofia del Meli. Il romanzo scorre su due binari: quello di un’ intricata vicenda avventurosa e amorosa dove i buoni sono perseguitati ingiustamente; e quello della vita del poeta Giovanni Meli che interviene in aiuto solidale di due giovani amanti perseguitati. Nella costruzione del romanzo Natoli mantiene una netta dicotomia tra il male e il bene come se fossero due entità mitologiche che si confrontano: da una parte Don Bartolo che riassume tutto l’assurdo del male capace di generarsi nella specie, che si caratterizza per l’attaccamento al denaro, vive nella falsa coscienza dell’onore, con ottusità, senza pensiero, con eccessi di ira, ed arriva fino al delitto; dall’altra parte il Meli che si caratterizza per l’empatia, la gratuità,  che si rivolge al pensiero e alla ragione, e vuole coniugare il dovere con l’amore.
Spesso Natoli nel suo romanzo, all’interno delle vicende, cita le poesie del Meli che diventano il filo conduttore in diversi momenti narrativi, e la poesia che esprime il profilo etico del poeta è la Pace. Il senso della pace che percorre Meli non può prescindere dal senso della giustizia ed è un tutt’uno con questa. Meli non fu mai ricco e spesso le difficoltà lo costrinsero, come Giuseppe Parini, a bussare alla porta dei potenti;  Natoli lo descrive in questo bussare ai potenti anche per aiutare gli altri.
Natoli nel romanzo ci presenta l’Abate Meli a 50 anni: vestito sempre con l’abito scuro di religioso, ma in realtà poeta,  scienziato e medico; soprattutto poeta.
Sul titolo di Abate di Meli, Natoli nel secondo capitolo così narra: “Vestiva di nero, alla guisa degli abati ed infatti lo chiamavano “l’abate Meli”. Ma non lo era, anzi non era neppure chierico, né aveva i quattro ordini e la tonsura, che prese l’ultimo anno della sua vita per ottenere l’abazia che non ottenne. Era semplicemente il “dottor Meli”, e si vestiva da abate per avere libero accesso nei monasteri…”. Da questo passo si desume che Natoli, nel suo romanzo del 1929, continua a sposare la tesi biografica di A. Gallo che affermava che il poeta prese gli ordini nell’ultimo anno di vita.  Tesi confutata dalla ricerca storica di Edoardo Alfano che, con il suo studio pubblicato nel 1914, dimostrava la totale assenza di menzione sulla presa degli ordini di Meli nei i documenti degli archivi della chiesa palermitana. Certo fu lo stesso Meli che affermò in un suo memoriale poetico di aver preso gli ordini; nel settembre del 1815 inviò al duca d’Ascoli il memoriale affinché lo presentasse al Re per perorare l’affidamento di un’abazia in Palermo. In questo memoriale in versi intitolato “Siri” si possono leggere questi versi:

...Prezzi e bisogni criscinu, e mancanti
Su l’introiti, e addossu nun si trova
Chi lu vacanti titulu d’abbati,
      Chi impignari ‘un po’ pi pani e ova,
Si supra na cummenna la bontà
Di Vostra Maestà non ci lu nchiova.
       Iddu è già preti chiù di la mità:
La tunsura e quatt’ordini ingastati
Dintra di l’arma si li trova già… 

(Prezzi e bisogni crescono, e mancanti/ sono gli introiti, e addosso non si trova/che il vuoto titolo d’abbate/ che non può utilizzare per il pane e le uova, / se sopra una commenda la bontà / di Vostra Maestà non ce l’appende. /Lui è già prete per più della metà: / la tonsura e quattro ordini incastonati/dentro nell’anima se li trova già).

 G.A. Cesareo, nella sua biografia su Meli (1924 “La vita e l’arte di Giovanni Meli”), parla di “bugiola” diffusa dallo stesso poeta e così la spiega: “Certo, la nomina non sarebbe stata improvvisa; qualche sentore n’avrebbe egli avuto anche prima: se fosse necessario, sarebbe sempre stato in tempo per mettersi in regola. Ma prendere gli ordini sacri quando ancora non aveva alcuna fondata speranza di conseguire il suo intento, e mentre tutti in Palermo riconoscevano che viveva in concubinato con una vedova dalla quale aveva avuto figlioli, gli doveva saper male. E non lo fece…”
Non sappiamo perché Natoli, scrittore e storico attento, preferisce parlare di voti presi l’ultimo anno della sua vita, mantenendo la tesi del Gallo, comunque sono fatti successivi al periodo di tempo narrato nel romanzo e Natoli ben descrive un Meli sensibile al fascino femminile e alle pulsioni della vita. La “cicala” Meli non rinunciò alla vita e a tutti gli aspetti della sua bellezza, volle vivere e poetare, nella sobrietà, nella pace e nella giustizia; e se Meli dice che “dintra di l’arma” (dentro la sua anima) è Abate, non dice una bugia, se si considera il suo rigore morale e il profondo senso di cristianità che è riuscito a legare con il suo pensiero illuminista. Meli portò quel modesto abito scuro che era comune ai medici e agli abati, esercitò la sua attività di medico per 5 anni a Cinisi in provincia di Palermo (e forse quell’appellativo di Abate iniziarono a darglielo in quel paese); a Palermo continuò a portare quell’abito scuro e modesto che lo distingueva dagli uomini della sua epoca (fine settecento) che si ornavano di parrucche, merletti e calze di seta; Natoli nel descriverlo in una sala di nobili, avvolto nel suo abito scuro, dice che pareva un calabrone in mezzo a tanti fiori; nello spettro dei colori rovesciato della coscienza Meli diventava il fiore più luminoso in mezzo a tante ombre. Lo Studio critico dedicato a Giovanni Meli, pubblicato nel 1883, Natoli lo scrisse quando aveva appena 26 anni. Studio prezioso per la conoscenza delle opere e per l’attenta documentazione, può essere utile a chi non conosce il poeta siciliano e anche a chi lo conosce in profondità. È uno studio condotto a tutto campo, che va dalle opere maggiori fino agli inediti e alle lettere del Meli. Presenta il grande poeta siciliano nella sua centralità filosofica e letteraria e lo libera dal luogo comune di solo rappresentante dell’Arcadia, prendendo le distanze anche da esponenti della critica letteraria del calibro di De Sanctis.
Meli fu arcade se si guarda al suo repertorio metrico, ai riferimenti alla tradizione classica, allo sfondo agreste delle sue liriche; ma per lo spirito e per la sua impronta morale e filosofica fu un poeta ben più complesso. Natoli dimostra questa complessità evidenziando l’opera “L’Origini di lu munnu”, dove la dissertazione di Meli spazia su tutte le teorie filosofiche.
Nell’esaminare la “Bucolica” Natoli coglie che in Meli “il centro è l’amore delle cose che scherza nella varietà, ne l’incostanza, nel disordine; e in quell’armonia dilettosa, che egli il poeta, formavasi nel suo cervello, nel sentirsi concorde ed uno con la natura”.
Nella parte finale del suo saggio Natoli cita la lettera di Meli al barone Refhuens dove parla delle sue aspirazioni di vita, del suo rapporto con la poesia, delle sue disgrazie, delle sue amarezze, del suo rigore: “nonostante, mercé di un parco vivere ho tirato avanti decorosamente, senza aver contratto mai un soldo di debito, e senza avere obbligo ad anima vivente della mia tenue sussistenza, salvo alle mie fatiche …”
Il volume L’Abate Meli si conclude con una appendice di circa 200 pagine di poesie di Giovanni Meli con una traduzione a fronte. Si è voluta proporre una traduzione letterale come guida per godere dello stesso fraseggio poetico siciliano del Meli. La maggior parte delle parole scelte dal Meli sono ben comprensibili; e il lettore, dopo aver trovato il significato delle parole più astruse, può agevolmente ritornare sul testo in siciliano e ascoltarne la sua musicalità.

***
LIBRI
LE PAROLE EVOLUTE
di Angelo Gaccione

Sonia Scarpante

Questo è un libro che nasce dal proprio sangue e dalla propria carne, dunque bisogna prenderlo sul serio. Sto parlando di “Parole evolute” di Sonia Scarpante che porta come sottotitolo ‘Esperienze e tecniche di scrittura terapeutica’. Il sottotitolo rimanda subito a qualcosa che vuole presentarsi come frutto di un’esperienza vissuta, e, insieme, come un vero e proprio procedimento scientifico. L’edizione stessa, EdiScience, vuole rammentarcelo, così come la prefazione di un medico, il primario di oncologia dell’ospedale di Legnano Sergio Fava. Di libri che hanno messo al centro varie forme dell’espressività umana ed artistica, come metodo di cura per il disagio e patologie fra le più diverse, ne esistono parecchi. Alcuni pionieri hanno cominciato diverso tempo fa. I poeti, gli aedi, i drammaturghi, i favolisti, hanno iniziato addirittura nell’antichità, i narratori molto più tardi; in età più moderna gli psicanalisti hanno fatto dell’uso della parola dei pazienti, il nucleo fondante della loro indagine su quel grumo oscuro che è l’inconscio, per rimuovere fantasmi di ogni sorta. Dentro alcune istituzioni totali, psichiatri ed altri terapeuti (ne ho conosciuti alcuni), hanno utilizzato la pittura e altre forme di manualità creativa con i loro pazienti, ottenendo buoni risultati dal punto di vista dell’equilibrio mentale, come da quello più strettamente artistico. Una di queste mostre (molti anni fa) realizzata con disegni e pitture provenienti da quei luoghi di pena, l’ho anche presentata. Per quanto riguarda l’uso della scrittura, praticando questo insano mestiere ormai da un tempo remoto e avendo letto una discreta quantità di pagine, se non si considera l’atto della scrittura come un puro impulso narcisista (oggi sempre più diffuso), ma come un bisogno vitale, insopprimibile, e per molti aspetti necessario, non sono del tutto sicuro che esso sia “solo” terapeutico. La quantità di suicidi nell’ambito degli scrittori è tuttora alto, e quello dello scrittore resta un mestiere a rischio. Nessuno può ignorare come all’esaltazione creativa di un lavoro ben riuscito, corrisponda un’altra faccia della medaglia: quella del vuoto, della dannazione, del concetto che sfugge, della materia che non si lascia addomesticare e prendere forma. E come forma non s’accorda all’intenzion dell’arte perché a risponder la materia è sorda… A queste insidie si aggiunge un pericolo più profondo, inscindibile com’è da una sensibilità spesso rovinosa, tremendamente intensa, ricettiva, esposta. È un sentire non comune che non si accontenta di alcun rimedio e molto spesso non ne trova uno che possa medicarlo. Ma ovviamente non nego che ad un livello di più bassa “temperatura” possa funzionare. Del resto buona parte di quanto uno scrittore produce se non è proprio autobiografia, è comunque materia attinta dalla sua esperienza fisica o intellettuale; visionaria o memoriale poco importa. Sonia Scarpante parte proprio da qui: dal procedere autobiografico dei suoi corsisti. Ho scritto all’inizio che il suo è un libro nato dalla propria carne, e dunque vero. Il metodo lo ha sperimentato prima di tutto su se stessa, come spiega bene nella nota introduttiva: “ (…) La scrittura autobiografica è uno strumento di conoscenza dalle potenzialità sorprendenti, è un mezzo in grado di svelarci, di far affiorare alla nostra consapevolezza esperienze rimosse ma cruciali per noi e per la nostra vita di relazione”. E ancora: “ Grazie alla scrittura ho imparato a confrontarmi con la faccia poliedrica di ciò che ognuno di noi chiama il suo me stesso…” e così di seguito. Basterebbero solo questi brevi spunti qui segnalati a darne il senso e l’importanza. Per l’autrice in particolare, perché quella che noi tutti concepiamo come una sorta di autoanalisi liberatoria, lei l’ha svolta (in scrittura) proprio partendo da un grave problema di salute e di dolore, per vicende che la vita, (ahimè!) riserva a ciascuno di noi, anche se nelle forme più diverse. La scrittura autobiografica le è servita come terapia, per guardare più a fondo in se stessa e dare ordine al magma che la assediava. Ha funzionato magnificamente questo processo, questo viaggio doloroso, per uscire dal tunnel. Ma ha funzionato perché in qualche misura è stata spietata: ha guardato dentro di sé senza barare, rimestando fra le macerie più dolorose senza mentire e mentirsi. Ed è forse solo a questa condizione che la terapia, la “cura”, può riuscire; che il viaggio alla fine può approdare in un altrove pacificato e sereno. Per lo meno questo è quello che è avvenuto a lei. Fra le parti più intense e commoventi del libro ci sono anche una serie di lettere rivolte a varie figure: quelle al padre mi sono sembrate le più drammatiche e insieme le più poetiche. Non è facile scrivere lettere come queste e portare le proprie confessioni e le ferite del proprio cuore ad un punto così estremo. Siamo sempre bloccati da un pudore che ci trattiene; da uno slancio che non riesce quasi mai a farsi gesto concreto, e poi finiamo per pentircene quando è sempre troppo tardi. Non mi piace l’espressione “elaborare il lutto”, la trovo sminuente e banale davanti alla maestà del dolore che ha bisogno di toccare i suoi estremi. Non c’è alcun lutto da elaborare; c’è l’opera paziente del tempo che arriverà a lenire, ma non a cancellare, com’è sempre avvenuto nelle tragedie umane. Ma sono tuttavia sicuro che questa pratica che Sonia Scarpante ha sperimentato in prima istanza sulla sua persona, e che sta così efficacemente e con successo portando avanti da alcuni anni nei suoi incontri e seminari (il suo libro ne dà ragione sia con dati evidenti, prove, progetti concretamente realizzati; sia con le tecniche, i metodi di approccio, le esperienze raccontate), proprio per quella esperienza umana che l’ha segnata, per il fondo gelido del dolore che le è appartenuto, ha saputo farsi metodo di cura e dono, per alleviare altra sofferenza.    

La copertina del libro
         
Sonia Scarpante
Parole evolute
Esperienze e tecniche di scrittura terapeutica
EdiScience 2015
Pagg. 276  € 18,00

***
POESIA
FRANCESCA DONO

Francesca Dono

Disposti gli uccelli

Disposti gli uccelli
l’estate sbuccia placida
dai cenci.
Forbici sopra viscere spicciole
che sanno ingroppare
e di prua oltremare.
-Non seguitemi con le ossa
Gassate-
Del gobbone (Nazi)
via le gocce sudice
amare di tremori
e reni e fibre
di corte marziale.
Deflagrano parole
sulle schiene oscurate
blu la coscienza
dell’esausto
(tu vecchio mio)
ancora impervio
alla brughiera
vago di un velivolo
bislacco.
Sembri non durare
ogni volta che finisci a durare.
Acqua di circondario
romanzi e muroni.
Alla sassaia
smerciano un poeta
-roba da strapazzo-
Che torni estate
la donna sta svanendo
madre di un ventre
e di terra la sua spina.

***
AFORISMI
di Laura Margherita Volante


*Mafia capitale. Se nel nome un destino: Tronca un nome e una speranza…
*Quando si combatte la violenza con la violenza questa trova il suo nutrimento bulimico e rigoglioso di veleni.
*Il ladrocinio dei politici rischia di diventare il lasciapassare dei ladri di democrazia…
*Statistica. Se l’80% della popolazione si droga il delirio generale è nella norma dell’anomalia.
*La resilienza sta alla rinascita come una foglia alla caducità.
*In Rete. Nella tela di ragno tessuta dai demoni del dio denaro siamo invischiati dalla sua bava. Sbavano le pantegane assetate, ma finiranno come mosche nella propria ragnatela.
*Il problema dei sessi = os-sessi-one
la fine!? Il caos di una società al collasso, incancrenita da metastasi ambientali e  incapace di governare ciò che è diventato ingovernabile. Avere tutto e non saperne fruire il più grave peccato dell’umanità, che è andata contro natura e contro ogni legge universale di armonia.
*La polis governata dai poeti. Un sogno eluso per effetto di un’evoluzione della specie arrestatasi per ogni forma umana che deformata precipita nelle fiamme dell’inferno tra miseria guerra malattia violenza: demoni e principi di uomini senza cuore senza cervello senza anima. La vita morirà tra i suoi stessi scheletri!
*La vita è un soffio le cui illusioni fanno vivere meglio di bagni di realtà dove affogano i sogni.
*Per indifferenza si può essere invisibili, ma chi è indifferente non esiste… 

***
RACCONTARE
COME SCRIVERE CON INCHIOSTRO CHE SI SCOLORA
di Adamo Calabrese 



Nella mia casa d’infanzia la credenza con la vetrinetta racchiudeva il servizio delle chicchere per il caffè da usare solo in caso di visite eccezionali: la sorella di mio padre, la zia Adelina che veniva da Napoli, l’anarchico amico di mio padre quando usciva dal carcere in virtù di qualche raro permesso per buona condotta, il mio Angelo custode invocato da mia madre perché illuminasse i miei compiti di aritmetica, veri enigmi che rattristavano la mia vita che avrei voluto dedicare a ben altro.
Ben altro?... cioè andare per i campi, aspettare sull’orlo delle cave che da quelle acque morte affiorasse il dinosauro antidiluviano, leggere arrampicato sugli alberi, stare accucciato e zitto… in un angolo della stanza dove mio padre scriveva.
Mio padre scriveva con una cannuccia sormontata da un fantastico pennino di acciaio in forma di pinnacolo gotico. Scriveva fitto fitto, intingendo la penna nell’inchiostro preparato da mia madre spremendo ribes, more e altre bacche di siepi. L’inchiostro stentava a seccarsi ma una volta asciutto formava sulla carta una ragnatela di indefinita tinta di cielo al tramonto che, purtroppo, andava progressivamente impallidendo fino a sparire del tutto. Di tutto ciò che ha scritto mio padre non è rimasto nulla, i suoi manoscritti non sono che fogli ingialliti dove nell’infinito silenzio del tempo che passa dilagano pallide macule. Che fare? Ho ripreso la penna di mio padre ed ho cominciato a scrivere dal punto dove lui ha smesso di scrivere. Mentre scrivo tornano le ombre dei miei genitori, della zia Adelina, dell’anarchico, del  mio Angelo custode e di tanti altri  che hanno accompagnato la mia vita. Io scrivo e il popolo ultraterreno si accalca intorno a me, come una folla che teme di perdere il treno. Ciascuno ha qualcosa da dire: “Attento ai verbi, bada di non scialacquare gli aggettivi, vai a capo, questa parola non esiste, controlla sul dizionario, quest’altra parola sa di muffa, eccetera, eccetera…” Come si può scrivere in tali condizioni? Ognuno dice la sua e c’è chi si arrabbia se non seguo i suoi consigli, soprattutto la zia Adelina, la parente più petulante. Chi meno interferisce è l’anarchico, lui vorrebbe che scrivessi in russo come Dostoevskij, ma poiché ciò è impossibile resta in silenzio con la riga sulla fronte incisa come una ferita. C’è un modo per mettere tutti d’accordo. Io scrivo e le ombre ultraterrene cantano. Cantano ciò che io scrivo, aggiustandosi con perfetto orecchio musicale. Cantano il “Magnificat” e tutto ciò che è intorno a me trema come per lo scoppio di un tuono. Mia madre alza un dito e mi allerta: “Temporale, temporale! Chiudi la finestra…”
[Novembre 2015]

***
L’AFORISMA
De Troy Jean Francois "Allegoria del tempo che scopre la virtù"
***
INCHIOSTRO NERO

Tre inediti di Alessandra Paganardi
(dalla silloge “Angeli guardiani”)

Nella foto: Alessandra Paganardi

Ulivi conficcati nell’asfalto
saranno questa sera le tue braccia
che non ho qui con me – parole e basta
arrampico e raccolgo lungo i muri
di una periferia color del sale

dai buchi ovali di plastica dura
tutte le sedie aspettano poesia
strapperei il passaporto della mente
ora o fra poco se una cruna invidiosa
non avesse nel nostro tempo magro
aperto un varco senza congiuntivi
il letto sfatto di un torrente avaro
la fame che fa il vuoto dall’interno
del viso, l’accartoccia in ruga 
    
 ***                                        

Sconteremo questo troppo giorno
la pelle arresa ostaggio della luce
nella vigna bambina
non prevedevi un orto di cemento
dentro cortili guariti d’attesa

dallo zaino sudava
lento odore di sonno e di parole
la mantide affondava le sue chele
nel pasto di cicala
le crude cellule in cerca di sole
l’inutile armatura
gli acini secchi sparsi sull’altare
ritornato poesia                                                                

***                                     

no reentry beyond this point
non torneremo indietro
se tutto infine sprofonda
sul contrafforte bellissimo fragile

la duna nella sabbia la pietra nel fiume
l’ala calata dopo il volo
il piacere nel chiuso del sangue

gli alveari salvati dai fiori
involontari vicini di casa
serrati fra le braccia della notte

questo giorno che non ha conosciuto
santi ma solamente primavera
tu non segnarlo più sul calendario
non obbligarlo di nuovo a morire                                           

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Una poesia inedita di Ikeogu Oke



Attraverso Le Sue Lettere
(Per Mary-Lou e Don Burness)

 "... L'amore non è amore
che muta quando scopre un cambiamento...
L'amore non muta in poche ore o settimane,
Ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio ... ".
William Shakespeare, Sonetto 116

Solo una volta ho incontrato Mary-Lou:
Uno sguardo passò attraverso i nostri occhi;
Dietro di lei c'era un uomo, spingeva una sedia a rotelle
sulla quale lei sedeva nel auditorium (1) al Brown (2).

I suoi occhi, quando l'ho guardata, hanno sprigionato una certa luce,
Una luminosità antica desiderosa di non smettere mai di splendere;
Il suo viso partorì un sorriso che deve aver brillato ancor più luminoso
Nei giorni più giovani, l'alba dolce con raggi di oro brunito:
L'ictus aveva impallidito la sua avvenenza, ma non la bellezza della sua anima.

Che cosa potrebbe indurre un uomo così forte da spingere una donna
Su di una sedia a rotelle in modo così profondo nella sala dove il mondo
Si era riunito per onorare il mio maestro (3)? Mi chiedevo.

Ora lo so, attraverso le sue lettere (4):

Linee, linee di un sentiero con un lume di tenerezza;
Pensieri luminosi brillano nelle loro vesti di fascino;
Il desiderio danza attraverso le pagine in delicato silenzio;
La cultura si estende in arcobaleni e rotola in caleidoscopi;
Le parole intendono parole di dolce solidarietà, come Mary-Lou e Don.

Ikeogu Oke
Abuja, 10 luglio 2015

Note  
[1]. L'auditorium: The List Art Centre Auditorium at Brown University
[2]. Brown: Brown University, in Providence, Rhode Island, U.S.A.
[3]. Il mio maestro: Chinua Achebe (1930-2013), in postumo onore del quale è stata tenuta una conferenza alla Brown University dal 1 al 3 Maggio, 2014.
[4]. Le sue lettere: Le lettere di Mary-Lou Burness nel libro Letters to Don pubblicato nel 2015.

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A margine di un saggio sulla bellezza
di Gabriele Scaramuzza
                                     La copertina del libro

Già il sottotitolo del libro di Simona Chiodo La bellezza, che suona Un’introduzione al suo passato e una proposta per il suo futuro, dice qualcosa di significativo e condivisibile. Sappiamo da subito che oggetto della ricerca non è solo la tradizione in cui l’idea di bellezza si è costituita - che è comunque scrupolosamente interrogata. Ma, e questo è ancora più decisivo, il suo senso per noi oggi (lo testimonia l’ottica teorica del tutto contemporanea da cui la bellezza è vista), e il suo possibile destino futuro.  Affrontare un tema di scontato rilievo quale quello della bellezza significa innanzitutto riscattarne la rilevanza nel nostro oggi, dopo che per anni è stato messo al bando dalla riflessione estetica: “dopo decenni di periferizzazione torna a essere importante negli studi filosofici”, scrive l’autrice. Senz’altro i suoi studenti, come mi ha detto una volta, le hanno chiesto di chiarire i termini del problema del bello. Ma certamente lo chiede la situazione contemporanea, in cui la bellezza resta un presupposto inespresso, anche e tanto più se contestato.
*
Quello della bellezza resta un punto di vista che dà tregua e riposo. Parlare di bellezza significa tematizzare un valore - il valore più alto nel mondo estetico e magari artistico (le due cose non è detto coincidano), quello che tutti li riassume e li giustifica. Non è un caso che “modificazioni del bello” siano chiamate le categorie estetiche, che esprimono il vario colorarsi del valore estetico in diversi contesti. Il bello è l’ideale verso cui in vari modi tende la vita estetico-artistica.  
Personalmente, anziché parlare di bellezza stricto sensu preferirei parlare di valore estetico e di riuscita artistica, e di una loro radice comune. La bellezza lato sensu è proprio questa radice comune; non deve togliere tuttavia l’ampio svariarsi del valore. Ricercare le radici comuni, individuarle, è inevitabile; ma da evitare è anche ogni reductio ad unum (parlare di bellezza contiene in sé questo rischio), se si vogliono “salvare i fenomeni” in tutta la loro ricchezza di differenze e di identità. Nel suo modo di scrivere Chiodo annoda tutto, come se ogni cosa sgusciasse nell’altra; intesse con buona mano, ma insieme tende a ricondurre una cosa all’altra: tendenzialmente (metafisicamente) a un’unica radice - attenta più alle identità che alle differenze. Così il termine bellezza sfuma le diversità (modificazioni del bello, categorie estetiche), con un atteggiamento più riduzionista che fenomenologico. Ne disperde la varietà dei sapori. Non mancano insistiti ritorni, stilemi ripetuti, indugi di troppo; certi punti appesantiscono la lettura e erodono l’attenzione (la mia quanto meno). Ma perché non dire che questo lavoro di Chiodo, piaccia o non piaccia, ha una sua inconfondibile tonalità “estetica”, e indubbie qualità “artistiche”, che esprimono la sua spiccata personalità, la sua imprescindibile tensione all’unità? Anche questo dà quiete.   
*
Nel libro non è tematizzato il terreno in cui si alimenta la decisione di parlare della bellezza. Questa ha a proprio sfondo cose non dette, che hanno a che vedere col modo di vivere il problema, con gli sfondi vissuti da cui può nascere la voglia di discuterne. Parafrasando un passo delle Lettere a Milena di Kafka, si può dire che il bisogno di bellezza nasce, più che in analogia con un proprio stato felice, dal “profondo inferno” di una situazione storica ed esistenziale, di esasperazione e di disperazione, in cui si è capitati. Non siamo solo le mete cui aspiriamo, i risultati che raggiungiamo (e che possono essere buoni o apparire miseri se confrontati con quelli raggiunti da altri), ma anche la fatica, il piacere o i dolori, le difficoltà che abbiamo attraversato per raggiungerli. Anche di questo, parlando di mete e di valori, dovremo tener conto. Nell’ottica di Chiodo la bellezza riguarda un fine cui si tende, più che non il terreno da cui affiora, più che non il cammino laborioso che conduce a esso, più che non gli effetti che produce nella realtà in cui si genera. Tocca le nostre speranze, gli ideali che pur sempre orientano la nostra vita, più che non quanto di fatto ne resta nel mondo in cui viviamo; incarna le nostre più ottimistiche attese. Occorre anche però subito sottolineare che solo la meta ci permette di orientarci nel cammino, e di parlare di eventuali deviazioni, o cadute. La bellezza resta comunque l’ombra nascosta che ci accompagna, per lo più taciuta, anche nelle ricerche su ciò che più si scosta da lei: non solo il sublime, il comico, il tragico o il grazioso, ma persino il brutto. E dunque ben venga questa tematizzazione diretta di essa.
*
L’esergo dostoevskiano, tutt’altro che scontato, già dà un’indicazione pertinente di quanto seguirà nel libro. Simona Chiodo già nella premessa chiarisce: la bellezza è “esperienza estetica di qualcosa di reale (che osserviamo) che, anche se non è, e non può essere, ideale, sembra quasi portarci, comunque, a qualcosa di ideale (che immaginiamo)”; e ancora: “può soddisfare un essere umano che sta osservando qualcosa di reale, ma la cosa eccezionale che la bellezza fa è potere soddisfare un essere umano che sta immaginando qualcosa di ideale”. Ricapitolo a modo mio: bella è l’esperienza (osservazione) di qualcosa di reale (di sensibilmente dato dunque) che soddisfa, e soddisfa perché nel reale immagina qualcosa di ideale. Parlare della bellezza con gli strumenti che l’odierna filosofia anglosassone mette a disposizione la fa apparire in una luce nuova, la mostra sotto un punto di vista da cui rivela aspetti inediti. Costituisce un approfondimento di tratti tradizionali della bellezza (ad es. il suo porsi come termine medio tra reale e ideale) visti però in una luce inedita. 
*
Quanto al metodo di cui Chiodo si avvale, questo studio riecheggia un precedente lavoro, che aveva di mira la fondazione del dualismo (e dell’empirismo): Apologia del dualismo. Il procedere filosofico era, ed è, più vicino al razionalismo che all’empirismo; cosa che non si può certo rimproverare. D’altronde, una teoria dell’empirismo non è detto debba essere essa stessa empirista; e allo stesso modo una teoria della bellezza non é detto debba essere essa stessa “bella”. Il libro ha un suo spessore che non esisterei a definire “metafisico” o “totalizzante”; il discorso si muove nell’ambito della “credenza” più che della “certezza”. Tuttavia: davvero si possono evitare i rischi di totalizzazione? O non resta questo rischio uno sfondo tanto più presente quanto meno tematizzato?  La tendenza a effetti di assolutizzazione - e di universalizzazione indebita - ci appartiene. Riguarda tutti noi la tentazione di cedere all’ “ambizioso gesto universale del libro” (le parole sono di Benjamin). Rischi di “dogmatizzazione” sono inevitabili. L’autrice ne è peraltro consapevole; e non è cosa da poco. È positiva la coscienza che questi rischi vanno evitati, finché si può. Fino al limite, almeno, in cui si toccano convinzioni vissute, senza cui la vita non si tiene insieme. 
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La bellezza, le qualità estetiche, o il loro offuscamento, la loro parziale realizzazione o la loro stentata sopravvivenza sono un tratto insopprimibile della scrittura. Affiorano sempre nei modi (anche i più “scientifici”) in cui ci si esprime. Anche scritti apparentemente tutti e solo centrati, diciamo per brevità, sui contenuti, non mancano di una dimensione significante contenuta nelle pieghe “indirette” del loro articolarsi. Ricordo il vero e proprio veto posto, in ambienti pur accademicamente qualificati, sulla considerazione del problema dello stile di un filosofo, considerato una qualità del tutto superflua, anche nel senso di priva di rilevanza oggettiva. Allora in gioco era Kant, l’ostinata inibizione a soffermarsi sui significati consegnati nelle qualità secondarie della sua scrittura. Con ciò si era resi ciechi a un tratto della realtà di Kant, e della realtà tout-court; con danno per la formazione degli studenti. Saper scrivere era considerata una qualità irrilevante, sovente ignorata, quando non ritenuta controproducente. Riconoscerla, più che un complimento, esprimeva una riserva. Passavano sotto silenzio i mondi di significati che in quelle sfere subliminali si esprimono. Del resto anche nei rapporti umani non si è colpiti dai modi, prima ancora che da quel che “oggettivamente” si dice?… “e il modo ancor m’offende”…  
Non devono mancare, nell’esperienza di un libro, considerazioni impregiudicate sui lati significanti  della scrittura. Su modi che in prima istanza possono prendere, suscitare interesse, talvolta avvincere. Anch’essi sono parte, e non indifferente, della verità che gli scritti vogliono comunicare.
Un modo di procedere che non rimuova le proprie valenze estetiche lo si vorrebbe d’altronde veder applicato a tutte le realtà che hanno bisogno di duttili strumenti di comprensione, non solo discorsivi.
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La mia tendenza leggendo è a spostarmi ai margini del testo di Simona Chiodo (anche per mancanza di un’esperienza adeguata del mondo filosofico in cui opera): a collocarmi cioè nel mondo dei presupposti che motivano la sua scelta. E certamente in questo metto in gioco anche dei miei presupposti. Mi dà da pensare il suo modo di essere nei suoi scritti. Chiodo si vive bene nel ritmo del suo discorso - un ritmo “amorevolmente” (è il caso di dirlo) sostenuto da letture, intuizioni, conferme, rinvii. Si “vuol bene” insomma mentre scrive, questo fa piacere. È benvenuto anzi, soprattutto  quando sono in gioco persone di cui si intuiscono malesseri e disagi, e infine hanno quanto meno trovato un luogo accogliente. Resta il senso di un filosofare in atto, che si sviluppa sotto gli occhi del lettore. Un senso dinamico che include lo stile argomentativo, un gusto teoretico ma insieme letterario, una modalità “artistica” dunque. Il meccanismo discorsivo è stringente nella sua logica, rigoroso; Chiodo sa chiudere in uno stretto cerchio temi di assoluta rilevanza. Ci vuole disponibilità alla concentrazione a leggere i suoi libri, una mente non affaticata. L’andamento non è rettilineo, bensì piuttosto a spirale, con ritorni quasi refrain che ne allargano il senso. Tutto fa sempre pensare (troppo? ma questo riguarda me).  
*
Anche in questo studio sulla bellezza, come nell’apologia del dualismo, Chiodo privilegia, nel modo di argomentare, la congiunzione sullo stacco, la ripresa fluida, un movimento continuo che si riprende e si ripropone. Stende una rete di relazioni, un tessuto di rimandi culturali, trame unificanti - del resto ricche, affascinanti più delle giustapposizioni, delle separatezze incomponibili. Relazioni sono anche le citazioni, come lo sono i frequenti riferimenti, a opere d’arte, eventi culturali di cui il libro è ricco – benvenuti, anche perché danno respiro a un lavoro che altrimenti rischierebbe di chiudersi su se stesso.  Le sono estranee le enfasi, questo è apprezzabile. C’è una tensione del pensare, encomiabile. Ammirevole l’energia teorica (Simona Chiodo ha istinto teoretico, non è poco) con cui si confronta con altri. Il lavoro non è da storici della filosofia, ha andamento “teoretico” appunto, se si vuol seguire la nota falsariga.

Simona Chiodo
La bellezza.
Un’introduzione al suo passato e una proposta per il suo futuro.
Ed. Bruno Mondadori, 2015
Pagg. 182 - € 18,00 

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PERSONA. IL NUOVO LIBRI DI EMILIO RENZI
di Fulvio Papi

La copertina del libro

I nostri giorni sono ancora prossimi alle rovine di quello che fu un diffuso storicismo (molto più complesso di quanto non immaginasse Popper nel suo celebre libretto) e da queste rovine sono nate domande su “chi siamo”, “che cosa possiamo essere”, “come siamo” nella condizione di parlare, quali sono i “dispositivi” che ci condizionano, e - in questa complicata situazione - quale possa essere oggi quella “cura di sé” che fu tipica della cultura antica. È naturale che in questo movimento accadesse che alcune parole guadagnassero il livello del discorso meditativo e altre scendessero agli inferi della dimenticanza. Vediamo alcune parole che sono scese nel loro abisso. Il “cittadino” di Rousseau ha assunto quasi un tono parodistico; “compagno” è una parola che sottintende una comunità di senso e di tempo che non esiste; la parola “repressione” - divulgata, sbagliando, da una sinistra psicoanalitica - non lo si adopera nemmeno nei casi in cui avrebbe un senso; la parola “borghese” non ha più alcuna generalità; persino il potentissimo “soggetto” - che in filosofia apparteneva sia agli idealisti che, in modo diverso, ai fenomenologi - è al tramonto. Oggi si dice “soggettività”.
È rinata invece con estrema energia intellettuale la parola “persona”, che ha assunto un valore oppositivo ad ogni condizione dell'uomo che sia costretto a soggiacere a violenze e soprusi di ogni genere. Persona è il bambino che soffre la denutrizione, persona è l'uomo che subisce una guerra, persona è la donna che è violentata nella sua esistenza da ogni forma sociale e culturale di dominante maschilismo, persona è l'individuo soggetto a insensate ma dure opposizioni politiche, persona è anche chi debba scontare pene giudiziarie. Direi che la parola “persona” ha assunto numerose supplenze semantiche e così ha assunto una forte rilevanza ontologica.
Nel bel libro di Emilio Renzi vi è implicita tutta questa vicenda come pre-cognizione effettiva che conduce al superiore livello della riflessione filosofica, esplorata poi in tutta l'estensione del pensiero contemporaneo. Nella nostra provincia filosofica la parola “persona” era proprietà intellettuale dei pensatori di tradizione spiritualistica che oggi pochi ricordano. Nella Filosofia del diritto di Rosmini, persona ha una doppia (ma connessa) valenza. Per un verso è la natura spirituale della creatura di Dio, per altro il principio della persona è informato dalle linee di una ragione che è norma di giustizia. I filosofi spiritualisti italiani non hanno valorizzato questo secondo aspetto, che - al contrario - appartiene del tutto al personalismo francese di Maritain e di Mounier, ben noto tra noi negli anni passati, dal tempo in cui una rivista personalista come «Esprit» costituiva un ponte diretto con i marxisti dell'umanesimo e della alienazione. Renzi sul tema della persona ci conduce attraverso le grandi filosofie di Renouvier, Husserl, Scheler, Merleau-Ponty, ciascuna con le sue particolari tonalità teoriche che però non posso riprendere in questa breve nota. Farò un'eccezione per il caso (che mi chiama personalmente) di Banfi. Nel 1942 il filosofo scrive alcune note fondamentali sul tema della persona, rimaste inedite sino a quando l'iniziativa e la solerzia di Livio Sichirollo (un altro amico carissimo perduto) non le hanno rese pubbliche. Gli inediti di Banfi hanno ciascuno una sua storia che è tutta da capire. In questo caso la riluttanza alla pubblicazione credo derivasse proprio dalla egemonia spiritualista che esisteva in Italia intorno a quel tema. Se comprendiamo bene il significato di “persona” in queste note banfiane possiamo vedere con facilità la connessione con il suo saggio di due anni successivo intorno a Moralismo e moralità. “Persona” si diventa - secondo Banfi - quando nella esperienza individuale si abbandona il sistema pacificato che ha condotto la vita quotidiana per porsi un problema ideale della propria vita che apre un orizzonte nuovo alla ricerca, nel sacrificio necessario del lontano “io”, di partecipazione a un senso tendenzialmente universale. Può parere strano, ma nella casta scrittura banfiana c'è persino una parentela con la letteratura esistenzialista, nella quale un nuovo sentimento della vita spezza l'opacità quotidiana dell'abitudine consolidata. Più da vicino, il senso banfiano della “persona” nelle rielaborazioni teoretiche personali dei suoi allievi è presente come moralità delle loro filosofie: come “soggetto” in Paci; nell'umanesimo “non enfatico” di Cantoni; nel corpo dell'arte di Formaggio e via dicendo. Per quanto riguarda Banfi, vorrei ricordare che una parte della sua tesi del 1909 con Martinetti era proprio dedicata all'ultimo Renouvier che scrive pagine mirabili sulla persona, allora certamente prossima per Banfi alla rigorosa e affascinante presenza della “coscienza” in Martinetti. Banfi ritrova però nella concezione della persona di Renouvier un limite rilevante nella mancanza di una più compiuta dialettica tra persona e mondo, tra soggetto e oggetto, come aveva imparato proprio in quel periodo dalla lettura appassionata di Hegel. Merito rilevante di Renzi (la cui scrittura, senza nulla perdere, arriva ai problemi teorici centrali senza quegli acrobatismi verbali e quelle noie espositive di tanti testi) è il collegamento sociale della visione personalistica con il senso che Adriano Olivetti dava alla sua impresa industriale e alle iniziative sociali e culturali che davano un valore collettivo non solo monetario al profitto. È il caso storico in cui gli uomini si tramutano da merce a persone. E da qui, politicamente, sarebbe il caso di ricominciare.

Emilio Renzi,
Persona  
Una antropologia filosofica nell’età della globalizzazione,
Ati -Editore Milano 2015

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SPILLI

. Causa di morte sociale. Uccide più l’indifferenza della malattia.
. L’indifferenza neutralizza qualsiasi forma di prevenzione.
. L’indifferenza è il silenzio assordante di spari annunciati di una società senza famiglia…
. Un movimento politico che deve rispondere ad una regia di burattinai non è democratico.
. Il mondo è fatto a scale… accattivante è scenderle alla Wanda Osiris.
. Un paese per vecchi. Per non soffrire di solitudine oggi ci si sposa in età matura procreando da anziani…  
. L’uomo violento è un impotente.
. Società violenta contro natura. Inutile andare contro natura. La morte sa arrivare da sola.
. Castello di carte. Se lo spirito forte sposta anche le montagna, il materialismo crolla alla minima scossa.
. Qualcosa mi sfugge: l’attimo sfuggente da repentina corruzione…
. Accoglienza. Nelle città morte i turisti sono visti come alieni per cui la voce Turismo è una causa persa…
. La fame d’amore dell’Occidente si nutre solo se elimina la fame nel mondo.
. La razionalità è generatrice di alibi…
. L’Arte è viva quando è attraversata da quel dolore che apre varchi sull’infinito, dove c’è la storia del cosmo in ogni sua piega oscura…
. I comici pieni di dolore ballano sul palco la tarantola del cervello…
. Leggere genera empatia. Infatti è la conferma di due anime in una.
. C’è chi è poeta e chi fa il poeta.
. Metti un fiore… Nei cimiteri i fiori invece di essere rubati vanno acquistati per adornare le tombe in stato di abbandono.
. Il cimitero dovrebbe essere la rappresentazione dell’Eden dove lo spirito aleggia fra resine ed olezzi.
Laura Margherita Volante

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POESIA
CARLA CANTINI
Tre poesie inedite



Dice un asceta antico...

Dice un asceta antico che nei boschi è il segreto
della vita e dal fogliame loro più ebbe inteso
di quanti sacri scritti assiduamente compulsati

E diceva, per esempio, le nervature guarda
delle foglie: il filame sono delle mani
i riposti segni che dicono il destino

E i diritti alti tronchi radici slancio, strada -
i rami, aperte braccia del coraggio; quando
reclini, il dolore che innanzi a sé non vede

Anche diceva - un albero ricorda non è albero
solo - le fronde e il tronco e i bei rami
fioriti a primavera; è ricovero e nido

è rifugio e tana ai molti che non sai
casa di chi non vedi. E tanto ancora si cela
alla tua vista - e pure come la linfa esiste

E il giovane vigore guarda dei torrenti
e il lento scivolare dei ruscelli che smorzano
nel fiume - come all'ora nostra noi...

Ma questo asceta non tutto disse -
forse non seppe, mai.

***
Settembre

Dolce ti stemperi settembre
nei tramonti tardivi che l'oro
antico scrive - sulla piana
vastità ti stendi
tra tortore di perla.

***
E ti rivedo

A volte un sorriso breve -
un contrasto d'ombre - baluginìo
di qualcosa mai
dimenticato. E ti rivedo -
oltre le stagioni
e i tempi - intatto.

***
LIBRI
Emilio Renzi: La centralità della persona

La "concretezza" della Persona sta nel suo essere un plenum di pensiero ed empiria, diritti e "storti" della Storia. Persona sta nella Comunità, comunque intesa (e criticata) e nella Città dell'Uomo, che io vedo (amo vedere) come Città cosmopolita.

La copertina del volume

Così Renzi esprime in sintesi il senso del suo lavoro, ampiamente argomentato da varie riflessioni e da una serie di puntuali accostamenti ai testi. Un primo riferimento (p. 28) è dato dal personalismo laico di Renouvier (1815-1903), ma troviamo anche un passo di Bobbio (p. 44) secondo il quale la persona è una conquista storica e non una sorta di 'ατομοs. Sartre diceva del resto, con efficace espressione: "L'uomo è una monade che fa acqua". La persona infatti “è, in quanto è dentro a una storia” (p. 107). Anche il relazionismo di Paci è chiamato in causa, in quanto in esso "il soggetto è persona concreta". (p. 65). Il sottotitolo del libro contiene il termine Antropologia filosofica, in quanto la nozione di persona, così come nel testo viene intesa, non può prescindere dalla dimensione interculturale, con tutti i conflitti che ad essa si riferiscono.
Come ricorda Renzi, vanno riconosciuti i diritti dell’uomo, anche a prescindere dal Traité di Voltaire (p.125), che pure affronta il discorso con chiarezza. Credo tuttavia che il problema riguardi anche gli inevitabili scontri che si creano davanti a diversi e inconciliabili modi di sentire, che andrebbero risolti dall'interno. Attualmente il problema si presenta in una dimensione internazionale, ma la sofferta questione dei rapporti fra nord e sud in Italia dovrebbe pure averci indotti a riflettere già da tempi remoti. Oggi direi che il problema delle "disgiunture" si pone come qualcosa di importante e di non facile soluzione, perché si tratta di conflitti profondi fra ovvietà ed evidenze diverse, per definizione non mediabili. Dal punto di vista sociologico, la Bibbia rappresenta il caso fortunato in cui le religioni delle dodici tribù riuscirono a fondersi in una sola in cui come sempre "Baal cavalca le nuvole", ma il nuovo Adonai “sta sopra i cherubini", includendo le varie credenze in uno schema unitario. Un caso del genere tuttavia non mi pare sia più accaduto; in India assistiamo a conflitti tremendi fra musulmani e indù, che non hanno avuto tregua nel trascorrere di oltre mille anni. Fatti analoghi si riscontrano anche altrove, benché i conflitti non sempre siano atavici: in alcuni casi, come nella ex Iugoslavia, sembrano causati da interventi in parte mediatici e attuati in periodi molto recenti. In ogni caso la soluzione, dice Renzi, non può consistere in un: “Multiculturalismo, che sbocca in un vestito di Arlecchino di quartieri l'un contro l'altro accostati, impermeabili e potenzialmente ostili”, perché il problema esige un risposta ben più profonda. Se la persona, come abbiamo detto, è una conquista storica, ci sarà bene un motivo storico di unificazione, valido anche oggi per noi, e legato al continuo modificarsi di ogni tradizione, che pur caratterizza la nostra epoca. "Le dure lotte politiche" in atto (p.121), purtroppo inevitabili, dovrebbero alla fine aprire spazio a un'antropologia nuova, capace di superare i conflitti che stanno lacerando intere nazioni.
Il libro di Renzi costituisce un valido contributo per ragionare in questo senso, riconoscendo che l’uomo non è solo il prodotto dell’oggettività storica, ma è anche il risultato della ragione critica esercitata dagli uomini.
Gianni  Trimarchi

Emilio Renzi
Persona.
Una antropologia filosofica nell’età della globalizzazione
ATI editore Milano, 2015
Pagg.138 € 15,00

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LA MAGNOLIA CONTRO LE PERSIANE 
Un racconto di Alessandra Paganardi

Alessandra Paganardi

I ricoveri ospedalieri nei mesi caldi sono quasi una fortuna. Se non sei troppo debole puoi passare gran parte della giornata all’aria aperta, senza avvertire il fastidio della reclusione. Trascinare la flebo, è vero, pesa un po’: ma basta immaginare che sia un carrello o un passeggino, collegato al tuo corpo con catene gentili. Di fronte alle panchine del giardino c’è una vasca con qualche pesce rosso per rallegrare i lungodegenti. Tutto questo non è male e oggi, poi, mi sento pienamente in forze.
Se ci fosse qui Amadi il mio carrello sarebbe ancor più leggero: una culla d’aria.
La vista dell’acqua mi rallegra sempre. Forse perché l’acqua è stata un elemento importante per la mia generazione. Sono nata in una cascina fuori città ed ero l’ultima di quattro fratelli, fra i quali Nuccia, la terza, aveva otto anni più di me. Negli anni del dopoguerra, quando dopo le commerciali mi stabilii a Milano per cominciare a lavorare, anche lei si era già sposata. A scuola riuscivo bene: il giorno del diploma l’insegnante di stenografia disse a mia madre che ero già una segretaria fatta e finita. Presi in affitto un appartamento a pochi isolati dall’ufficio; portai con me una zia materna, l’unica ancora vivente e ormai anziana. Dalle nostre finestre al secondo piano si vedeva scorrere la roggia Vettabbia. Non puzzava come adesso, mi ricordava anzi qualcosa dei nostri fossi e dei nostri orti. Forse per questo mia madre, dopo la morte di mio padre e l’esaurimento delle ultime attività della cascina, ci raggiunse ben presto.


Si trovava molto bene lì, forse meglio di quanto mi trovassi io. Ho sempre ammirato il suo spirito d’adattamento, così tipico delle donne del suo tempo. Per me, invece, tutto era cambiato troppo in fretta in pochi anni, come se la storia ed io avessimo vissuto una burrascosa adolescenza parallela, poi un repentino arresto. Avevamo sempre avuto tante persone intorno, quasi abitassimo in un porto o in una città di frontiera. Prima i miei fratelli, zii e cugini, poi la gente che veniva da noi a comperare uova, galline e conigli; infine gli sfollati che cercavano riparo e ristoro per qualche giorno, prima di proseguire per le colline. I miei genitori erano molto generosi: io non potevo ancora capire tutto, ma sentivo che nella nostra casa si respirava un clima di solidarietà. Credo non abbiano mai esagerato con la borsa nera; condividevano al giusto prezzo un benessere che sfuggiva a tutti dalle mani, ma che proprio per questo, pur assottigliandosi, diventava sempre più grande e prezioso. Un po’ come certi tramonti caldi in autunno, quando sembra di poter afferrare col viso gli ultimi strappi di sole.
La città si rivelò subito tutt’altra cosa. Persino incontrare i vicini sulle scale aveva sempre alcunché d’imbarazzante, come se i saluti fossero costantemente messi all’asta. In ufficio le cose non andavano molto diversamente: con le coetanee era difficile scambiare una parola e ancor più con le impiegate esperte, circondate com’erano da un cliché di severa riservatezza, quasi di mistero.
Fu proprio il lavoro in ditta a farmi incontrare donna Milena. Era stata l’amante di un gerarca ucciso dai partigiani all’inizio della Resistenza; presto, avvalendosi di appoggi importanti, aveva inaugurato una casa di piacere di prima classe, quasi di fronte a quella che poi divenne la sede definitiva della ditta. Con gli anni la nostra impresa era cresciuta e il mio titolare aveva appaltato la contabilità di vari negozi e attività vicine, fra cui il bordello di donna Milena. Alla fine di ogni mese, poco prima dell’ora di pranzo, avevo il compito di ritirare e riportare personalmente i registri.
Era una donna molto riservata; portava con sé il passato con l’eleganza distratta con cui s’indossa un abito di circostanza, una divisa quasi non più nostra. Mai una volta la vidi compiere un gesto volgare, eppure certo n’era capace. Forse aveva frequentato brillantemente una specie di scuola di volgarità, come altri cercano di frequentare senza esito tutti i possibili corsi di stile. Ammiravo il suo sguardo, penetrante anche se mai diretto, che prendeva a calci la svenevolezza e respingeva la malinconia, allo stesso modo in cui una bella signora rifiuta un cavaliere troppo insistente. Mi apprezzava anche lei; lo seppi poi dai fatti, molto di rado dalle parole. I discorsi sono l’accompagnamento musicale degli eventi: alcune persone sanno comporre sinfonie complesse che arricchiscono tutto, altre realizzano capolavori con un
unico, sobrio assolo.

All’inizio degli anni Cinquanta conobbi Elio e ben presto ci fidanzammo. I suoi genitori erano proprietari di una pasticceria prossima al centro storico, distante non molte fermate di tram dalla mia abitazione; la nostra officina meccanica forniva i pezzi di ricambio alle loro macchine impastatrici. Aveva un paio d’anni più di me e aveva già preso in mano con successo la fiorente attività della casa. La pasticceria si trovava a pochi metri dalla parrocchia del quartiere e la domenica mattina, quando andavo a trovare il mio promesso sposo per una breve passeggiata e poi lo affiancavo in negozio, vedevo sfilare una piccola Milano vestita a festa: bambini urlanti, spesso gli stessi, ma di colori sempre diversi da una domenica all’altra; cinquantadue fogge mai ripetute una volta, soprattutto fra le femminucce. I genitori si davano da fare a calmarli con un cannoncino o una meringa, prima di brandire con orgoglio il nastro del vassoietto ondulato di cartone, contenente il resto del bonus festivo. Ai genitori di Elio davo una mano nella contabilità, che non era il punto forte del loro erede: mi divertivo, in fondo per me era un po’ come andare al cinematografo. Ero abituata a feste completamente diverse: non così cadenzate e frequenti, tutte ordinatamente farcite di creme chantilly e baci di dama. Ricordavo riti più rari, sanguigni e terrestri: sapevano di enormi catini, di panni stesi lontano dalla tavola, raggiunta di corsa sotto il pergolato; non somigliavano a quelle concitate passerelle settimanali attorno ad un bancone, per conquistare infine il traguardo ambito di un registratore di cassa.
Pochi anni dopo il nostro arrivo a Milano, mia zia cominciò a manifestare disturbi neurologici progressivi ed ebbe bisogno di cure continue. Mia madre, che era più giovane, scelse di essere ricoverata insieme con lei in una casa di riposo, che ospitava anziani ancora autosufficienti e altri che non lo erano più. La retta per i disabili era a quasi totale carico dello stato e le due pensioni bastavano per pagare la pigione e soddisfare i bisogni di mia madre. Credo che l’abbia fatto per affetto nei confronti della sorella, alla quale era molto legata, ma soprattutto per non gravarmi di un peso. Era consapevole di togliermi un sostegno economico e morale importante, ma sapeva che questa nuova responsabilità avrebbe fatto da catalizzatore per le mie scelte future. In fondo non ero mai vissuta sola. Era il momento di provare.
La casa era divenuta troppo grande e onerosa per me e la scelta più ovvia sarebbe stata quella di cercare una sistemazione diversa, cambiare lavoro oppure affrettare le nozze. La prospettiva di continuare il mio mestiere di contabile alloggiando in un appartamento più scomodo e magari distante, certo, non mi faceva impazzire; tuttavia l’idea di entrare nella vetrina di Elio come un friabile frollino a fianco di una sontuosa cioccolata, con la routine feriale degli impasti quotidiani e il variopinto zoo festivo di coretti e comunioni, adesso mi entusiasmava ancor meno. Quando ci eravamo messi insieme non avevo pensato seriamente a tutto ciò. Chissà perché succede questo: soffriamo di presbiopia verso il passato e siamo invece così miopi riguardo al futuro, come se le leggi del tempo dovessero mutare per ragioni misteriose a nostro favore. Soltanto da vicino, ingrandita a dismisura dalle lenti concave di una decisione improrogabile, cominciavo a veder chiaro in me stessa.
Glielo dissi d’estate, la sera del suo compleanno, mentre mi mostrava con fierezza la meritata Lancia Coupè ricevuta in regalo dal padre. Credo non si aspettasse la notizia del mio abbandono, eppure trovò assai rapidamente il modo di farsene una ragione, anzi di addebitare il fallimento unicamente a me. Mi disse che ero in gamba e avevo il senso degli affari, ma in fondo i sorrisi ironici con i quali guardavo le vetrine e i clienti, uniti al mio modo un po’ troppo personale di vedere il mondo e di santificare le feste, non avevano mai convinto molto né lui né i suoi genitori. Aggiunse anche che una futura brava moglie avrebbe aspettato il giorno del matrimonio prima di concedersi, o almeno si sarebbe presentata al fidanzato al netto assoluto di esperienze precedenti. Da buon imprenditore, Elio stava trasformando la rottura del fidanzamento in una vera e propria partita doppia, con l’acuta constatazione che sventare un disavanzo passivo giustificasse gli investimenti a fondo perduto realizzati su di me in vista del mancato matrimonio: certo non mi attendevo tragedie sentimentali, ma questa virata mi rattristò alquanto. Poi mi tornò in mente la cascina, la bella confusione fra interno ed esterno, i corteggiamenti dei coetanei, consumati senza troppo pudore in cortili e fienili; pensai ai baci che avevo dato e ricevuto al riparo da ogni calcolo, al piacere di vedere me stessa fiorire libera e sana, dopo la paura della guerra e dei bombardamenti così vicini. Incominciai a ridere tanto forte che Elio, divenuto ancor più rosso della sua auto nuova di fiamma, andò su tutte le furie e mi cacciò via.
Sposò una pia maestra d’asilo, di buona famiglia e più anziana di lui, con una perenne acconciatura a chignon che rendeva la sua testa simile a un cannolo siciliano. Ebbero un’unica figlia, nata da genitori già maturi; la esponevano con fierezza delicata, come si fa con un prezioso pan di zucchero. Verso la fine degli anni Settanta seppi che la pasticceria, nonostante gli incassi sempre eccellenti, era stata con grande urgenza venduta. Correva voce che, amorevolmente coccolata fra creme e biscotti, la figlia avesse manifestato un tale rifiuto di qualunque cibo e un deperimento così devastante, da costringere i genitori a cessare l’attività e a ricoverarla in una casa di cura specializzata, per scongiurare il peggio. Preferii non domandare mai più nulla di loro.
Poco dopo la rottura con Elio mi licenziai. Il capoufficio non fece storie e non mi negò, come invece temevo, la piccola liquidazione che mi spettava. Lo vidi sinceramente dispiaciuto di perdermi come impiegata; ma forse avrà pensato che un’indocile ragazza di campagna si rimpiazza in fretta con qualcun'altra, magari disposta ad essere pagata ancor meno e a cedere su vari fronti.
Andai per l’ultima volta a consegnare il registro alla signora Milena e le dissi senza troppi preamboli che volevo lavorare per lei. Non mi fece discorsi materni, né tantomeno tirate moralistiche: non era il tipo, e poi aveva capito benissimo che io stessa ero poco incline alle confidenze. Si accertò che avessi compiuto i ventuno anni e mi diede da sbrigare alcune commissioni di tipo burocratico. Mi disse anche che ci teneva moltissimo che io continuassi a tenere la contabilità dell’impresa e che, naturalmente, questo incarico sarebbe stato conteggiato a parte. Tre giorni dopo mi presentai all’ora stabilita per la visita medica e la settimana successiva divenni ufficialmente ospite della casa.
Furono anni tranquilli: lo dico senza vergogna né rimpianti. La pigione era gratis e la doppia attività di giovane prostituta e di contabile mi rendeva più di quanto avessi mai immaginato. Milena era una manager speciale: manteneva le distanze, ma si rapportava a noi con simpatia e con un intuito tutto suo, che la portava quasi a presentire ciò che non andava. Era la prima ad accorgersi quando qualcuna di noi aveva un turbamento e riusciva sempre a intervenire con intelligenza. Se i problemi erano gravi, se una ragazza non ce la faceva più o aveva grosse difficoltà personali, l’aiutava a trovare con discrezione un altro lavoro; le dava anzi un incentivo economico, proporzionato all’anzianità e all’impegno. Non vivevamo segregate, ma neppure esposte senza nessuna protezione al giudizio impietoso della gente: nel tempo libero andavamo in gruppo al cinema o a ballare in altri quartieri, a volte accompagnate per pura cavalleria da clienti scapoli o vedovi, dei quali eravamo diventate quasi amiche; a volte da sole, come fossimo ragazze normali. Nessuna di noi si è mai sentita schiava o prigioniera.


La zia morì al ricovero e mia madre le sopravvisse di alcuni anni, circa la loro differenza d’età. Non seppe mai nulla della vita che avevo scelto: mi vedeva tranquilla e credeva che fossi cresciuta di livello presso l’ufficio in cui lavoravo. Forse sospettava una relazione con qualche uomo facoltoso, ma non mi fece mai domande. Neppure la rottura con Elio la stupì. Andavo a trovarla ogni domenica e avevo sempre cura che non le mancasse nulla, che si trovasse bene sotto ogni punto di vista.
La mia attività nella casa di piacere non durò a lungo. A metà degli anni Cinquanta, un po’ per intuito e un po’ per le informazioni privilegiate che riceveva dai suoi amici approdati in parlamento, donna Milena aveva già capito che la legge sulla chiusura non si sarebbe fatta attendere. Decise allora di anticiparla e di iniziare i lavori di ristrutturazione, per trasformare il bordello in un piccolo hotel.
Un giorno, poco prima della chiusura, Milena mi convocò nel suo ufficio e mi propose di restare al suo fianco, per dirigere l’albergo e gestire le attività successive. Nei suoi piani la nuova casa non doveva diventare uno squallido hotel equivoco, ma una pensione cittadina di passaggio: il piano terra, quasi una dependance isolata, sarebbe stato riservato agli incontri a pagamento, il primo piano era destinato alle coppie furtive e l’ultimo alla normale clientela a buon mercato. Bastava organizzare bene orari e stagioni e governare con intelligenza gli avventori occasionali, quelli meno affidabili e più pericolosi per il decoro della casa. Il sesso clandestino, per mercimonio o per passione, avveniva da sempre in tutti gli alberghi del mondo e non sarebbe stata certo una legge a fermarlo: l’importante, per evitare un rapido e sicuro degrado, era non appiccicarsi l’etichetta di bordello alternativo mordi e fuggi, lasciando tuttavia nell’atmosfera quel sottile velo di ambiguità che poteva persino solleticare gli appetiti dei visitatori, inducendoli a ritornare.
Secondo lei ero perfetta per questo compito. Avrei continuato ad abitare lì e avrei diviso gli utili al cinquanta per cento, diventando ufficialmente sua socia.
La proposta, oltre che allettante, era estremamente ragionevole. Accettai.
Per tutto il periodo della mia attività manageriale occupai una stanza al primo piano. Donna Milena aveva ristrutturato l’edificio in modo da riservarsi un appartamentino privato al piano terra, dietro la reception. Questa divisione logistica ci permetteva di avere il controllo sulle attività più delicate e d’ intervenire in caso di problemi.


L’esercizio andava molto bene. Donna Milena, pur avendo centrato i suoi sforzi sul decoro e sulla dignità della casa, non negava mai un riparo a chi ne avesse bisogno. Una notte accolse una ragazza scappata di casa senza domandarle nulla e al mattino la convinse a tornare dai suoi genitori, prima che se ne accorgessero e la denunciassero in questura. Nei mesi più rigidi stazionavano spesso da noi dei senzatetto dignitosi e gentili, donne soprattutto, che chiedevano poi di pagarci almeno simbolicamente. Ospitammo per quasi un mese una sartina vedova, che non poteva più permettersi l’affitto della casa in cui abitava: ci regalò dieci coperte all’uncinetto per le stanze più belle del secondo piano.
All’inizio degli anni Settanta Milena, ormai ultrasessantenne, espresse la volontà di ritirarsi a vita privata. Era stanca, senza nessun parente; aveva invece un discreto talento per la pittura e intendeva passare gli ultimi anni sani della sua vita dedicandosi finalmente a fare quadri. Mi lasciò libera di dividere equamente con lei il ricavato della cessione dell’esercizio, oppure di continuare l’attività con un nuovo socio, dopo il ritiro della sua quota e di una rendita personale. Non ebbi dubbi. Erano stati anni entusiasmanti e prosperi, ma non avrebbe avuto più senso proseguire senza di lei. Dovevo organizzare da capo la mia vita, ma ero nelle condizioni ideali per farlo. A quarant’anni, senza figli né radici, mi aspettava un capitale tutto mio da investire. Ero un rampicante agile e testardo, che poteva impiantarsi ovunque. Bastava scegliere il muro giusto.
Vent’anni di lavoro a fianco di donna Milena mi avevano insegnato molto; penso inoltre
di avere un discreto talento per gli affari immobiliari. Ogni volta che entro in una casa in vendita si mette in moto qualcosa d’importante in me, come se i muri volessero suggerirmi un po’ della storia di chi è passato di lì, ha cenato, pianto e goduto,  talora è morto. La casa è un abito strano: ancor più mutevole di noi, ma troppo grande per seguirci, è destinata a sopravviverci.  Come il guscio inamovibile della chiocciola che siamo stati.
Scelsi di investire il mio denaro nell’acquisto di tre appartamenti a Porta Lodovica, a pochi isolati dall’università Bocconi. Lo stabile era una casa stile vecchia Milano senza ascensore, abitata in gran parte da persone molto anziane. L’università era in fase di rilancio dopo i fumi del Sessantotto. Ero certa che, in capo a pochissimi anni, tutta la zona sarebbe considerevolmente aumentata di valore.
Affittai l’appartamento all’ultimo piano a tre studenti e a pianterreno, in una posizione tranquilla e defilata, organizzai grazie alle mie conoscenze una nuova casa d’appuntamenti che funzionava soltanto di giorno, ad orari assai discreti. Io stessa abitavo da sola in un monolocale situato sopra la garçonnière.
Le mie previsioni si avverarono in pieno. Dopo una decina d’anni lo stabile venne completamente ristrutturato, ascensore compreso, e la domanda salì alle stelle. Gli studenti erano ormai disposti a pagare pigioni altissime per avere un alloggio, soprattutto se non distante dall’università e dignitoso.
Fu in quel periodo che decisi di chiudere definitivamente con l’attività della casa d’appuntamenti. Avevo risposto a un’inserzione su una rivista specializzata in enologia: un consorzio cercava personale esperto, disposto a brevi spostamenti per organizzare le esposizioni e seguire il marketing. Nel curriculum, con la complicità di alcune conoscenti di donna Milena, indicai come referenza la direzione di vari alberghi.
Mentre mi trovavo a Rimini per una fiera incontrai Amadi. Era il mese di marzo, faceva ancora parecchio freddo e mi colpì la sfumatura livida della sua pelle scura, così poco avvezza ai rigori invernali. Stava appartata rispetto alle altre, quasi dando le spalle alle automobili che passavano, senza fumare. Conoscendo bene l’ambiente mi resi subito conto che doveva essere arrivata in Italia con una di quelle organizzazioni che riscuotono subito tutto il possibile e poi lasciano le ragazze sole, preferendo reclutarne sempre di nuove. Mi fermai e le chiesi se volesse bere qualcosa. Sembrava cauta, ma non spaventata; mi disse di non aver avuto il tempo di cenare la sera prima. La pasticceria del lungomare avrebbe sfornato di lì a poco i krapfen; proposi allora di mangiarne uno con lei. Una volta rifocillata, mi confidò di avere i documenti con sé e in regola. Non aveva un vero e proprio protettore: sapeva bene l’italiano, era arrivata dalla Nigeria con la promessa di un lavoro, aveva pagato molto cari il viaggio e la sistemazione in un appartamento con altre ragazze; però non conosceva bene le persone che avevano riscosso il tributo, e comunque aveva già saldato da tempo il suo debito.

Ci sono decisioni che sembrano rapide, ma solo perché sono loro a decidere noi. Alla fine del mio incarico lasciai il consorzio e ritornai a Milano con Amadi. A poca distanza dall’università era in vendita una vecchia latteria a due luci, spaziosa e in discrete condizioni. Proposi di comperarla con il denaro che avevo messo da parte e trasformarla in una tavola calda: io avevo imparato a cucinare molto bene e vantavo una lunga esperienza di esercizi commerciali; in quella zona, inoltre, gli affari non sarebbero certo mancati.
In effetti non mancarono. Non so se per la grazia e la voglia d’imparare di Amadi, se per la mia esperienza o per il fatto che scegliemmo una formula decisamente diversa dalle altre: una trattoria specializzata in piatti vegetariani. Era una bella alternativa ai vari Burghy e Mac Donalds allora emergenti, soprattutto considerando il fatto che la zona nel suo insieme stava diventando sempre più alla moda, pur conservando una specie di apparenza alternativa. A mezzogiorno venivano soprattutto studenti; la sera era la volta delle coppie tranquille e delle compagnie curiose, che apprezzavano la novità e poi si affezionavano al luogo e al nostro modo di lavorare originale, allegro e preciso.
Nei miei luoghi e momenti importanti ho sempre avuto di fronte a me una magnolia.
Sono alberi che s’incontrano quasi all’improvviso e nei luoghi meno prevedibili, anche all’interno dei cortili di città. Nel giardino dietro il bordello di Milena c’era una magnolia, ingranditasi al punto tale da sfiorare le mie persiane quando le aprivo. Ne ho appena vista una fuori dalle finestre di quest’ospedale; ne incontrai un’altra poco distante dal reparto di rianimazione, dove accompagnai Amadi nella sua breve agonia.
Non è vero che esistono beni senza prezzo. E’ una fiaba per adulti, che rassicura e consola. La verità, assai meno romantica, è che i beni più preziosi sono desiderati da tutti e non ce n’è mai abbastanza per ognuno. Allora, anche se non lo si dice, si concordano tacitamente graduatorie e priorità: non in base al bisogno, che quando esiste è uguale per tutti, ma soltanto in base a quanto potrebbe costare o rendere la scelta di farli avere a certuni invece che ad altri.
Per salvare Amadi, comunque, non fu possibile alcun riscatto. Chissà che cos’è stato a portarsela via così presto, senza possibilità di appello, chiamandola per nome una volta sola, in maniera sommessa e perentoria. Hanno parlato di emorragia subaracnoidea: una parola strana, da entomologo curioso e un poco sadico. Forse è stato il clima, forse la durezza impersonale di un mondo che non conosceva, anche se l’aveva accolta con amore. Ciascuno dovrebbe poter morire, se lo vuole, nel luogo dov’è nato. Ma non è più così importante, se il posto che ti ha visto nascere è morto a sua volta, se non ha conservato più nulla di ciò che ricordavi.
Sapevo che non c’erano speranze per Amadi e sono stata con lei ogni istante, fino alla fine. Sull’orlo della vita, sul ponte che trasforma il peso nero del sonno in un decollo leggero e senza storia, spero davvero che non si sia sentita troppo sola, troppo triste e troppo lontana.
E’ sempre soltanto una questione di tempo. Basta aspettare, e succede quasi tutto.
Non c’è mai un’unica vita nell’esistenza di una persona. Ce ne sono almeno due o tre, ma una pesa più delle altre e fa pendere da una sola parte il piatto della bilancia: è la nostra vita, quella che viviamo. La chiamiamo scelta, talora vocazione, ma non accade esattamente così. Io non parlerei neppure di destino.

Si è fatto tardi. Nel rientrare in camera per le iniezioni e la cena sono passata davanti a quest’ultima magnolia. Le tapparelle automatiche salgono e scendono senza toccarla. Non somiglia alle altre che ricordo: è più piccola, sembra più giovane, anche le foglie sono più luminose. In fondo nessun albero è mai uguale ad un altro.
                           
                                   ***
UN SAGGIO DI MAURO GERMANI SU GABER                            
Giorgio Gaber: dialettica negativa e nuovo umanesimo                                                                
di Angelo Conforti
Il poeta e critico Mauro Germani
Il boom
L’Italia degli anni ’50 e ’60 non è soltanto il Paese della ricostruzione e del miracolo economico. C’è un profondo rinnovamento culturale in atto che coinvolge tutti i settori della produzione intellettuale ed artistica. Anche il mondo della musica cosiddetta «leggera» sta radicalmente cambiando, sotto l’influenza del rock and roll, ma anche degli chansonniers francesi.
Tra i tanti personaggi emergenti del periodo ben presto si segnala Giorgio Gaber, cantante e autore poliedrico, formatosi anche alla scuola del jazz, e interessato a fondere entrambe le suggestioni più in voga, quella americana e quella d’Oltralpe. È uno sperimentatore, curioso e aperto, garbato e ironico, dotato di un’ottima mimica e di una presenza scenica efficace. Il suo successo cresce costantemente. Si rivela un partner ideale per Mina, con cui fa coppia in alcuni varietà del sabato sera. Le sue canzoni hanno spesso un tocco di originalità e di sensibilità per la dimensione del quotidiano che si esprime in una serie di titoli che attraversarono tutti gli anni ’60, come La ballata del Cerutti, Trani a gogò, Porta Romana, Il Riccardo, Barbera e champagne, Come è bella la città, La Chiesa si rinnova, Suona chitarra.
Ma Gaber non scrive solo canzoni. Già nella stagione ‘60/’61 mette in scena Il Giorgio e la Maria, regia di Giancarlo Cobelli, al Teatro Gerolamo di Milano, una pièce teatrale recitata in coppia con Maria Monti. E nel 1966, a Studio Uno, a fianco di Mina, si esibisce in un piccolo sketch da lui scritto e recitato, Il Tic, stupendo pezzo di teatro in cui emergono con evidenza tutte le sue doti mimiche, gestuali, vocali, oltre alla sua attenzione per le tematiche sociali, che all’epoca sta già caratterizzando alcune delle canzoni che abbiamo citato.

Il ‘68
Tutte le energie innovative di quegli anni si coagularono nel grande movimento del ’68 che sembrò aprire nuovi orizzonti per il futuro della società italiana. Ma l’attentato terroristico alla Banca dell’Agricoltura di Milano, con tutto quel che significava sul piano politico e sociale sconvolse tutti gli scenari plausibili e aprì una lunghissima stagione di degrado che coinvolse pressoché tutte le componenti del Paese.
Probabilmente già allora, più in profondità, nelle dinamiche socio/culturali in atto si stava già preparando la centralità della televisione e la conseguente mutazione antropologica cui avrebbe dato origine nei decenni successivi: quella trasformazione nel costume, nella mentalità e negli atteggiamenti che Jean Baudrillard ha chiamato “il delitto perfetto”, la sostituzione del mondo virtuale televisivo al mondo reale, l’uccisione della realtà da parte della tv.
Gaber intanto era diventato un vero mattatore del varietà televisivo, ma continuava a sperimentare: l’album concettuale L’asse di equilibrio è del 1968, nei due anni successivi gira per i teatri con Mina, a contatto diretto col pubblico. Poi un altro Lp anomalo, Sexus e politica con Virgilio Savona (testi di autori latini). Da agosto a ottobre del 1970 conduce l’ultimo varietà televisivo del sabato, E noi qui. Gaber è all’apice del successo, ma forse è tra i pochi che han già intuito quale sarà la parabola televisiva, già sospetta il delitto perfetto. E allora abbandona la televisione. Apre la porta del cielo di cartapesta dello studio, come farà anni dopo in un celebre film il protagonista del Truman show, per uscire nel mondo reale e non tornare più indietro.
La svolta: da «personaggio» mediatico a «persona» reale
Nei trent’anni successivi il declino dell’Italia sembrerà sempre più irreversibile e ben pochi furono coloro che lo capirono per tempo e seppero sottrarsi, senza rimpianti, alla logica della società dello spettacolo preconizzata da Guy Débord, cioè alla logica del consumismo, della mercificazione della cultura e della trasformazione della merce in spettacolo. Gaber fu tra questi e in quei decenni percorse, con estrema coerenza, una strada totalmente alternativa e lucidamente critica, una strada di ricerca, di sperimentazione, di autenticità, di rapporto onesto, sincero, lucido e critico con la realtà concreta, totalmente altra rispetto alla realtà virtuale della tv.
In quegli stessi decenni alcuni intellettuali inseguivano l’utopia della postmodernità individuando nella perdita del senso di realtà e nella moltiplicazione delle immagini un fattore altamente positivo, liberatorio e fonte di emancipazione. Nel contempo quasi una società intera si lasciava tentare dalla promessa che la televisione faceva a tutti e a ciascuno di diventare famosi almeno per 15 minuti, secondo la profezia di Andy Wharol.
Gaber, invece, procedeva «in direzione ostinata e contraria», per usare le parole di un famoso cantautore come Fabrizio De André. Con una scelta radicale e, in qualche modo, clamorosa rifiutava definitivamente di trasformarsi in un personaggio del mondo virtuale e sceglieva, da tutti i punti di vista, di ritrovare il rapporto con la realtà: con il pubblico, con gli avvenimenti, con il contesto socio-culturale e politico, con la fisicità della comunicazione. Il teatro, uno dei mezzi di comunicazione e di spettacolo più antichi, gli consentiva di oltrepassare tutti i limiti e le contraddizioni moderne e postmoderne, garantendogli la possibilità di tornare ad essere una persona reale, di esprimere pienamente se stesso, di esercitare il proprio spirito critico e la propria creatività, senza limiti e condizionamenti di sorta. Non a caso la parola persona ha un pregnante significato ontologico-esistenziale ma anche teatrale.

Il teatro del pensiero
Da qui inizia il saggio di Mauro Germani (Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero, Editrice Zona, Arezzo, 2013) che ricostruisce in modo appassionato ed esauriente tutta l’opera del Gaber «filosofo ignorante», intellettuale libero e disincantato, cultore del dubbio, strenuo difensore del pensiero critico, analista anche spietato di una decadenza spaventosa, di “un’idiozia conquistata a fatica”, trent’anni dedicati al Teatro/Canzone e al Teatro d’Evocazione, i due grandi percorsi di sperimentazione e innovazione artistica e culturale in cui si è espressa, con grande originalità, l’inventiva e la multiforme creatività di Gaber e dei suoi collaboratori, primo fra tutti Sandro Luporini, coautore dei testi di canzoni, monologhi e prose.
Innanzitutto Germani ricostruisce il percorso di Gaber alla ricerca di una espressione teatrale originale e autentica, dai primi spettacoli «in cui prosa e musica, monologhi e canzoni si alternano e sono funzionali gli uni agli altri all’interno di un discorso unitario», attraverso le produzioni successive in cui la scrittura teatrale sarà sempre più elaborata, fino al teatro di sola prosa, fondato sulla «rievocazione/rappresentazione» di una storia, ma anche sulla riflessione, l’autoironia e il distacco critico.
In un capitolo successivo Germani chiarisce il ruolo peculiare svolto dalla musica nell’opera di Gaber, mettendo in luce quelle componenti che fanno del suo teatro un caso unico nel panorama musicale italiano, anche in rapporto a quei cantautori cui è stato talora erroneamente accostato. La dimensione teatrale, la scrittura dei monologhi che si alternano alle canzoni, la complessità del ruolo della musica, la ricerca di incisività e di fisicità della comunicazione non hanno pressoché nulla a che vedere con la ricerca di «poeticità» tipica dei cantautori e con i loro recital che non prevedono una specifica strutturazione teatrale, anche quando si svolgono in teatro.

I temi esistenziali
Con rigore metodologico Germani analizza poi i più importanti temi che Gaber e Luporini hanno trattato nei sedici spettacoli che hanno ideato e messo in scena tra il 1970 e il 2000.
Un tema centrale riguarda «l’enigma del corpo», la sua ambivalenza e problematicità e il rapporto con la mente. Si tratta di un tema esistenziale che presenta anche importanti riflessi sociali. Esso ha a che fare con la ricerca dell’autenticità, dell’integrità del soggetto, del superamento della scissione patologica tra pensiero e azione, tra intenzioni e atteggiamenti, che spesso rende contraddittorie le nostre esistenze. Tra l’altro, un autentico rinnovamento sociale è possibile soltanto grazie a persone che abbiano ritrovato la loro «interezza». Non a caso Germani sottolinea la dimensione fisica dei suoi spettacoli, in cui la parola si faceva corpo: «I suoi movimenti erano tutt’uno con i pensieri, le emozioni e i sentimenti che esprimeva» (M. Germani, Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero, cit.).
Un altro dei temi fondamentali del teatro di Gaber/Luporini è quello dell’amore, «inteso come sentimento che dovrebbe essere espressione di pienezza, appartenenza reciproca e responsabilità» (M. Germani, cit.). Dopo una lucida analisi delle forme alienate dell’amore, ridotto a routine, a sessualità meccanica, a forma di evasione o di trasgressione rispetto all’ipocrisia delle convenzioni sociali, l’amore autentico si rivela come un «ideale da raggiungere», che esige la fedeltà a noi stessi, richiede «una vera e propria rivoluzione del nostro modo di essere» e riguarda la pienezza della nostra apertura all’altro e al mondo, alla «realtà in tutte le sue manifestazioni» (ibidem).

La società e la politica
Germani dedica una corposa parte centrale del suo saggio all’analisi critica che Gaber/Luporini riservano alla critica della società e del potere, anche alla luce dei loro fondamentali riferimenti filosofici e culturali: Céline, Sartre e l’esistenzialismo, Pasolini, la Scuola di Francoforte (Adorno e Horkheimer).
Viene così ricostruito il percorso degli spettacoli di Gaber, dalla denuncia della mediocrità piccolo-borghese del signor G, alla fine dell’illusione rivoluzionaria che il movimento del ’68 aveva fatto creder possibile, dalla finta libertà obbligatoria del modello capitalistico e consumistico, che conduce al disfacimento del soggetto ed al suo asservimento alle mode, nonché allo strapotere mediatico, all’indignazione per una progressiva disumanizzazione della società, dalla fine delle illusioni di una generazione che ha perso («il volo mancato» di una «razza in estinzione») alla nuova barbarie che dilaga sul finire del millennio e che è il frutto paradossale dello sviluppo capitalistico/borghese e segna la rinuncia al pensiero e alla libertà autentica, nel nome del mito dominante del successo.
Giustamente Germani sottolinea «la sua [di Gaber] straordinaria capacità di interpretare i fenomeni sociali, ma anche di intuire in largo anticipo i loro possibili sviluppi, di precorrere quindi i tempi» (ibidem). A questo proposito è interessante citare, tra i tanti, il brano tratto da «Mi fa male il mondo - seconda parte», canzone-prosa dello spettacolo E pensare che c’era il pensiero (1995-96), in cui, riferendosi alla tv italiana, si parla di «grande libero mercato delle facce. Facce facce... facce che lasciano intendere di sapere tutto e non dicono niente. Facce che non sanno niente e dicono di tutto. Facce suadenti e cordiali con il sorriso di plastica. Facce esperte e competenti che crollano al primo congiuntivo». Vien da pensare a ciò che avrebbero scritto Gaber e Luporini se avessero conosciuto Facebook, il grande libero mercato mondiale delle facce che trionfa, in un’epoca che, come ha scritto di recente il sociologo Luciano Gallino, è contrassegnata dalla sconfitta del pensiero critico e dalla «vittoria della stupidità» (L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino, 2015)
Ma non si può chiudere questo paragrafo senza accennare al fatto che Gaber è tutt’altro che un «apocalittico» e che la sua lunga battaglia polemica è stata sempre orientata alla ricerca dell’autenticità, della pienezza di vita, della libertà che è anche responsabilità, dello spirito critico. Ricorda Germani che la coscienza critica e la dialettica negativa, mutuate dai filosofi francofortesi, sono sempre legate all’utopia, nel senso costruttivo del termine. Perciò, «l’ultimo messaggio di Gaber, espresso nella canzone-prosa Se ci fosse un uomo, consiste proprio nell’esortazione ad “immaginare un neo-rinascimento / un individuo tutto da inventare / in continuo movimento”» (Germani, cit.).

Altri temi: la morte, Dio e l’uomo
Gaber non si tira indietro neanche di fronte al tema della morte, nonostante sia possibile parlarne soltanto rispetto alla morte degli altri, dal momento che la propria morte resta fuori dalle esperienze esistenziali possibili. L’approccio al tema è, come sempre, mutuato dalle fenomenologie tipiche dell’esistenzialismo, di cui tutta l’opera di Gaber costituisce in qualche modo un prolungamento. La morte rivela, come altre esperienze radicali della vita (l’amore, ad esempio) la nostra impotenza, fa emergere sentimenti nascosti, contraddizioni, paure, ansie, ipocrisie.
Ma c’è un’altra morte che preoccupa Gaber e riguarda la dissoluzione del soggetto, l’alienazione totale dell’individuo, che non sa più essere persona, ma si lascia manipolare dalle mode, dai poteri occulti, quello dei media e quello delle merci. È la imminente morte dell’uomo occidentale che, con echi del Nietzsche di Così parlò Zarathustra (1883), Gaber denuncia con modalità ricorrenti lungo tutti i suoi spettacoli. Ci torneremo più avanti.
Infatti, prima di tornare a parlare dell’uomo, Germani analizza la peculiarità del concetto di Dio che emerge dagli spettacoli di Gaber. Si tratta di un Dio immanente, che nulla ha a che vedere con il Dio delle religioni positive, con i loro dogmi, culti e rituali. Contrario a tutti i dogmatismi e a tutti gli assoluti, nei confronti dei quali continua a far appello alla necessaria ed auspicabile rinascita del pensiero critico, Gaber si dichiara laico e seguace del dubbio. Il Dio di Gaber rappresenta l’«essenza del pensiero», è un «Dio interiore […] che coincide con la ricerca stessa, con la sete di conoscenza e verità» (Germani, cit.) ed è, pertanto, capace sia di violenta indignazione che di profonda pietas.
Anche Dio, negli spettacoli di Gaber, rimanda pur sempre all’uomo, che costituisce, infine, il centro di tutto il suo teatro, uomo «inteso non come soggetto assoluto, ma come individuo concretamente esistente» (ibidem).
Germani osserva che quella di Gaber «è una sorta di fenomenologia dell’esistenza, uno sguardo rivolto alla condizione umana nella sua totalità, non chiusa quindi in se stessa, ma aperta e attraversata da tensioni e problematiche che investono anche la sfera sociale, politica ed economica […una] indagine appassionata intorno all’esistenza e alle sue possibilità, ai suoi drammi e ai suoi dilemmi, alle sue speranze e alle sue paure» (ibidem).
Come abbiamo visto poco sopra, Gaber e Luporini percorrono senza infingimenti tutte le tappe della spaventosa deriva antropologica dell’uomo occidentale, ma nel contempo, rifacendosi a Nietzsche, auspicano l’avvento di una sorta di oltreuomo, dotato di «una nuova coscienza» (titolo di una canzone-prosa dell’ultimo spettacolo di Gaber, Un’idiozia conquistata a fatica, 1997-2000): è «l’urgenza di un uomo migliore» e la «necessità di una spinta utopistica» (ibidem) che possano dare origine ad un nuovo umanesimo e a un nuovo rinascimento, al culmine di «questo nostro medioevo» (Gaber, Luporini, «Se ci fosse un uomo», Io non mi sento italiano, cd postumo, 2003).

Il pensiero libero
Rendere possibile un nuovo rinascimento dipende soprattutto dalla riscoperta del pensiero, che costituisce l’essenza di tutta l’opera di Gaber negli ultimi trentatre anni della sua vita e del suo lavoro: «teatro del pensiero», secondo l’icastica e perfetta formula con cui lo ha definito Germani:
«Il pensiero cui tende tutta l’opera di Gaber non è l’affermazione di un sapere organicamente costituito, né tantomeno di una specifica ideologia, quanto uno slancio, una tensione ideale che vuole essere tutt’uno con l’esistenza, con l’esserci, qui e ora, dell’uomo. È la spinta utopica che cerca di dare un senso concreto al nostro essere nel mondo […] Questa tensione è per Gaber qualcosa di “fisico”, non è mai astratta, deve in qualche modo essere carne […]» (Germani, cit.).
A questo proposito Germani cita la canzone «Un’idea» che già nello spettacolo del 1972-73 Dialogo tra un impegnato e un non so, esprimeva, con la geniale invenzione del «mangiare un’idea» per renderla carne, la possibilità di fare un’autentica rivoluzione, per poter costruire «un individuo compiuto /cosciente e intero», esigenza che troviamo ribadita nell’ultimo spettacolo, Un’idiozia conquistata a fatica (1997/2000), con la canzone «Il luogo del pensiero», in cui si sottolinea l’urgenza di tale necessità con i versi «cominciando da adesso / prima che l'uomo muoia / nel grande vuoto del suo successo» (Gaber, Luporini, cit.).
Possiamo concludere con le parole di Germani, in cui mirabilmente si sintetizza tutto il senso dell’opera di Gaber e della sua scelta di vita: «Essere una persona: è questo l’obiettivo cui deve tendere il pensiero. Un pensiero davvero libero, non condizionato dalla società o dalla dittatura del mercato, dalla compra-vendita delle idee» (Germani, cit., corsivi nostri).

La copertina del libro
Mauro Germani
Giorgio Gaber. Il teatro del pensiero
Editrice Zona, 2013
Pagg. 162  € 15,00


ACQUA
Da: Poesie per Hastings

Phlebas II

Dissimulano oscuri flutti e ampie maree,
disperse le membra di Phlebas (1) il fenicio,
capostipite dei morti d’acqua innumerevoli
negli equorei cimiteri del Mediterraneo.
Oh, marinaio avvolto nel torpore profondo
di bruna pelle d’annegato, levigata appena
dall’abissale limo, dalla carezza sinuosa
di nere alghe in capigliature fluttuanti,
t’affacciasti all’imbocco dei porti serrati,
respinto esule, sul ciglio di sponde sicure.
Noi, sulla riva d’approdi inespugnabili
volgemmo ostili al tuo sguardo esausto
muto diniego, ti respingemmo lontano
fino a che l’onda nera sommerse le membra
e si chiuse, cupo sepolcro verde del mare,
sulle tue diafane ossa sbiancate, Phlebas,
il fenicio, macchia nell’incerta nostra memoria.

1) Phlebas, il capostipite dei morti annegati, in La terra desolata, di T. S. Eliot


Mare oscuro
Cosa riflette lo specchio nero del mare
quando lo sguardo appena lo sfiora?
Della luce, subitanea l’oscillazione
vivida nell’inquieto suo tremare, poi
oltre quella cresta sottile di spuma,
altra luce ci avvolge densa e sontuosa
lucida come il dorso nero dell’orca
che ogni ansia placa in silenzio muto.
Chiudiamo gli occhi, sotto le palpebre
l’oscuro suo peso ci preme, ci chiama
al torbido sonno d’un oblio abissale.


 Da Smarrito il dominio
(Lavacro primigenio s’attende dall’alto
d’acqua incontaminata a purificare il mondo
a dissetarne le arse terre e vuote
i raminghi animali docili e sgomenti, e l’uomo
prima che, per avidità, tutto distrugga)

Piove, dunque, fitto e quasi senza requie
sui selciati soffocanti, sugli squamosi embrici
sulle cuspidi e le cupree guarnizioni risonanti,
entro tremuli fogliami di miseri giardini e orti
cinti d’aggrovigliate siepi nei sentieri folti,
passaggi dell’uomo e docili bestie erranti.

Piove sugli erti terrapieni, sui binari morti
sulle arcate dei viadotti e degli svincoli
sui percossi asfalti di sobborghi desolati
sconvolti dalle piaghe dei binari scintillanti.

Piove distillando cristalli argentei nella luce; 
piove corrente acqua su labbra disseccate,
scende in rivoli dalle dita verso l’alto tese e
filtra tiepida tra serici capelli e folte chiome,
trema sulle nostre palpebre con cura lieve,
limpida agli occhi dona sguardo impavido,
e battezza i corpi nostri attoniti allo sdegno,
mentre, assetata la terra avida s’imbeve.

Claudio Zanini

SUITE PER UN BASSOTTO

di Alberto Giovanni Biuso

Copertina del volume

C
’è qualcosa di «ctonio e impenetrabile» (Alcibiade, p. 39) nel legame che unisce Giuseppe (Pino) Longo ad Alcibiade, il suo cane bassotto nano a pelo lungo, qualcosa che in questo racconto emerge con tutto l’enigma e la potenza di ogni vero amore.
Nato il primo agosto del 1998, Alcibiade ha vissuto un’infanzia terribile in mano a una coppia di giovani sposi farabutti che ne facevano occasione e vittima dei loro litigi. Abbandonato, fu raccolto da Pino e da Tiziana, diventando parte essenziale della loro famiglia, affetta - come l’autore afferma con autoironia - «da bassottismo cronico, la nostra casa è un bassottaio dei più saldi e inamovibili, è un covo di feticismo bassottistico» (19).
Giovane e in piena forma, Alcibiade ha subìto l’andare degli anni e la potenza del tempo, senza perdere però la «dignità e compostezza» con le quali stoicamente vive la sua vecchiaia (92). È in ogni caso evidente quanto l’errore di Cartesio sia clamoroso. Considerare queste magnifiche creature delle macchine è stato davvero indegno della grande mente del filosofo. A confutare un errore storicamente spiegabile ma comunque inaccettabile è anche la semplice osservazione  che «se smonto una macchina posso rimontarla, se smonto Alcibiade non posso rimontarlo» (78), così come non sarebbe possibile rimontare Cartesio una volta che lo si fosse smontato. La vita, infatti, questa realtà così evidente e sfuggente, è una struttura/funzione irriducibile a qualunque meccanismo, anche il più raffinato.
La suite per bassotto ben si coniuga quindi alle riflessioni che Giuseppe O. Longo conduce da sempre sull’umano e il postumano, sul tempo che siamo, sulla corporeità che ci costituisce. E questi sono infatti i temi principali del libro, i quali emergono in filigrana dal racconto del legame tra Alcibiade e i suoi genitori umani, «un legame che sta sotto e oltre ogni ragionamento, concetto, pensiero razionale, un legame che pesca nelle profondità del tempo, nell’antica alleanza primordiale tra uomo e cane, ma che supera il rapporto di utilità reciproca, di reciproco aiuto e di mutua assistenza, per colorirsi di affettività allo stato puro. Consanguinei, gli animali, nostri compagni di viaggio, usciti, quale più quale meno, dalle caverne della storia, dalle profondità dei millenni» (21-22).
La corporeità di questo legame straripa nell’energia, nella baldanza, nel coraggio di Alcibiade, in questa «cosa viva e morbida e grande, che è piena di tiepido sangue, che ha gli occhi e la pelle e il muso caldo e umido» (13). La corporeità degli animali che la corporeità dell’animale umano continua a offendere, violentare, divorare, squartare, in una tremenda follia antropocentrica che sembra non placarsi mai nella feroce varietà delle sue forme.

Che pensieri atroci! Ma sono pensieri apotropaici, servono a esorcizzare il terrore, il male, la ferocia che si annidano in ogni essere umano, come un nucleo puzzolente, pronto a sgorgare all’esterno, e quante volte nel corso della storia è uscito a fiotti, quel nucleo di fetida malvagità, e quante volte nella vita quotidiana ci sentiamo sull’orlo del baratro, ci sentiamo capaci di atti enormi, senza rimedio sulla terra e nel cielo.
[…]

Lui si spaventò, si rattrappì tutto, e poi ringhiò. In quel ringhio avvertii la disperata rivolta dello schiavo contro il tallone che lo schiaccia, sentii secoli di ribellioni soffocate nel sangue, sentii l’urlo degli animali sacrificati, sbudellati, squartati senza possibilità di difesa dall’uomo, questo essere che a volte mi appare davvero come il flagello del creato (47).



Un’affermazione, quest’ultima, che conferma la radice unitaria e gnostica del pensiero di Longo; radice che emerge chiara, geometrica, appassionata, nella varietà dei suoi romanzi e dei racconti.
In uno dei suoi testi teatrali (Il cervello nudo, Nicolodi editore, Rovereto 2004) Longo immagina un ingegnere che non riesce a sostenere il sentimento di colpa per aver generato macchine capaci di soffrire, talmente «uguali a noi» (31) da provare angoscia, pianto e nostalgia. Naturalmente questi artefatti siamo noi, sono gli umani e tutti gli altri animali: tutto ciò che è vivo, ha sensibilità, può soffrire perché fatto di materia che autodivora se stessa.

Come si è inconsapevoli del groviglio delle radici, della compatta oscurità (per miglia e miglia) della terra che sorregge e nutre le foreste, come si è inconsapevoli dei miliardi di vermi e insetti che in ogni istante vivono e muoiono instancabilmente accanto a noi (dietro i tramezzi, sotto i pavimenti, per entro le travi, tra le zolle dei giardini, nella mota degli stagni, nel fango dei viottoli, per i campi), mangiando, rodendo, triturando, avanzando verso le insondabili mete prefisse al loro istinto di conservare e perpetuare la stirpe, formando una cieca feroce invincibile massa di zampe, squame, èlitre, chele, pungiglioni, un’armata ottusa e potente, invisibile ma pronta a balzare dall’ombra per sterminare i cani gli orsi gli umani, per divorarne le carni le membra i corpi con fauci indifferenti e inesauste, inoculando veleni, succhiando il sangue, nutrendosi di feci e deiezioni, trasformando col corpo il cibo in escrementi e gli escrementi in cibo per i mangiatori di rango inferiore (i funghi, i licheni, le alghe, i microbi, i batteri, i virus), immerso tutto questo spietato affaccendamento nell’implacabile lavorio del mondo che si fabbrica giorno per giorno e giorno per giorno si distrugge senza fatica e senza rimorso.
(Squilli di fanfara lontana, Mobydick, Faenza, 2010, 81-82)

Magnifica pagina, questa, nella quale si allarga all’universo e alla materia che tutto lo compone quella carnalità istintiva e insieme cerebrale, quell’erotismo raffinato e selvaggio che intridono tutta l’opera di Longo, anche quella saggistica: «Con la sua riottosa propensione al peccato, con la sua imbarazzante capacità seduttiva, con la sua scandalosa attività copulatoria, con la sua miserabile caducità, con la sua caparbia resistenza all'imperialismo della ragione, il corpo si è sempre opposto all'aspirazione filosofica e scientifica di costruire un mondo puro, asettico, durevole: aspirazione che tocca il suo culmine nel Novecento con l'impresa dell'intelligenza artificiale funzionalistica» 
(Scenari con simbionte, in «Il Giornale della Filosofia», n. 14, anno 5, numero 2, maggio-settembre 2005, 22).
In un’altra pagina il corpo di un uccello, di un pavone

urla, un urlo alto e tenuto, di strazio, una domanda, un’invocazione ai recessi, ai segreti penetrali, ai lari antichi, a le messi, su su, là, dopo i diroccati castelli e le brevi piane, dopo le bionde vigne e i tabernacoli, sul popolo dei vivi e dormienti, un’invocazione che andava e andava, e intorbidava i sogni, sollevando fremiti e ignorati sussulti dal sonno, svegliando i cani sull’aie che ora si rispondevano a lungo con tristi ululati, in uno smarrimento che pur si chetava a poco a poco, tornando nel seno della placida notte soggiogata…(Squilli di fanfara lontana, 78).


Al cuore della vita c’è il nostro desiderio di essere padri e madri, vale a dire di «mettere al mondo un’altra solitudine per curare la propria [che] è un delitto forse ancora più infame» (L’acrobata, Einaudi 1994, 67). Sì è vero, «è terribile la facilità con cui si può mettere al mondo un essere umano: è un atto che chiunque può compiere con leggerezza, ma i cui effetti sono duraturi e devastanti», un atto con il quale ci allontaniamo dalla «gioia, [che è] proprio l’antitesi di quel piacere acre e convulso» senza il quale, «forse, la specie si estinguerebbe, e con essa il dolore associato alla carne» (Ivi, 141-142).
Una trappola, la definisce il Narratore. Ordita da qualche incapace divinità che prova e riprova ha saputo soltanto costruire palazzi di dolore e fondamenta di pianto, instillando in ogni ente e relazione «il germe del proprio disfacimento» (Ivi, 149), moltiplicando una «moltitudine sterminata che nei millenni ha invaso la terra e continua a moltiplicarsi senza ritegno», generando una «massa di carne […] irrimediabilmente soggetta al dolore» (Ivi, 69) e capace di infliggere agli altri animali nei macelli «atrocità impassibili, decapitazioni, torture, ferocia allegra e gratuita, gli uomini come le bestie, le bestie come gli uomini» (Ivi, 102).
Nell’Acrobata il personaggio forse più dolente ma anche più dignitoso e più calmo    -Tommaso - dà voce alla dottrina secondo cui «il mondo nel quale noi viviamo, quello che ti vedi intorno anche in questo momento, non è il mondo vero, non è il mondo definitivo» (Ivi, 79) poiché il vero mondo - che possiamo solo sperare esista - è «un mondo di luce, anzi nemmeno di luce: un mondo di silenzio» (Ivi, 80), mentre il mondo in cui viviamo «era un fallimento totale, ed era giusto […] che dovesse essere quanto prima sostituito da qualcosa di meno imperfetto, in cui se non altro ci fosse meno sofferenza per tutti, anche per me»  (Ivi, 154).
In Alcibiade gnostica è la dinamica tra la luce e le tenebre che fa da sfondo a una acuta e dolente riflessione sull’abitare contemporaneo, sulla distanza che abbiamo posto tra i nostri spazi così ben irrigiditi e la calda vita animale che noi stessi siamo ma che tendiamo a eludere, a ignorare:

Com’è triste e disadorna una casa senza cani o senza gatti […] Quella che Le Corbusier chiamava appunto con metallica freddezza machine à habiter. La razionalità troppo spinta che progetta costruisce case del genere rischia di uccidere per eccesso di luce. Noi umani abbiamo bisogno dell’ombra e della penombra, del contrasto luce-buio e figura-sfondo, del chiaroscuro che fornisce il senso della profondità spaziale e temporale, dunque il senso della storia, l’ombra lunga del passato e la prospettiva del futuro: è nella stratificazione della storia e delle storie, dei racconti e dei significati, delle esperienze e dei ricordi e dei presagi che sta il senso della nostra vita. E gli animali, in particolare i cani, ci aiutano a scoprire, o almeno a rincorrere, il senso di questa nostra indecifrabile esistenza. Non è uno slancio verso il basso, non è una spinta regressiva: confrontandoci con il cane, guardandoci nello specchio che esso ci offre, riusciamo a capire molte cose di noi stessi: per differenza e per analogia. (23)


Di tale infinito gioco tra le tenebre e la luce è parte consustanziale il destino di morte che pertiene a ogni cosa viva. Longo narra l’inevitabile decadere di Alcibiade come se fosse una metafora universale dell’amore e della morte: «Anche lui se ne andrà: mi sforzo di parlarne con freddezza, ma so che il dolore sarà grande, e cerco di anticiparlo, cerco di discorrere tra me e me ogni giorno un po’ con questa morte, per abituarmi all’idea, per attingere forza e stoica sopportazione» (26); «Ma so che è lì, come è lì il pensiero della mia morte» (95).
Il libro si chiude sull’inevitabile malinconia di ogni finitudine, redenta però dall’abbraccio che ancora l’uomo e il suo animale possono scambiarsi. Segno che «anche se la vita mangia sé stessa tutto rientra in una sorta di ordine cosmico che lenisce ogni tribolazione» (99-100).
Un ordine, un’armonia anche musicale, che questa suite è riuscita a trasmettere con l’emozione matematica che della scrittura di Longo rappresenta la cifra, la bellezza.
La Suite per bassotto si inserisce perfettamente nell’opera di Giuseppe O. Longo, scrittore triestino e universale, le cui pagine ne fanno uno dei più fisici e insieme simbolici tra i maestri contemporanei della parola, intrisa la sua opera di un filo indistruttibile di angoscia e tuttavia rivolta in ogni istante e in ogni sillaba a qualcosa che qui e ora riusciamo soltanto a intravedere ma la cui certezza è matematica. Qualcosa che, al di là di ogni dolore, è e sarà una gioia pura. Luminosa.

Giuseppe O. Longo
ALCIBIADE
Una suite per bassotto
Ed. Il Cerchio, Rimini 2015
Pagine 107, € 15,00

 

POESIE INEDITE
Laura Margherita Volante
















VERITÀ

Oltre i miei occhi
c'è il cielo che s'infiamma.
Oltre la mia mano
c'è il vento che rintocca.
Oltre il mio pensiero
c'è la nube che di verità rischiara.

CANNE

Il mondo si distrae
nel vuoto ego
della canna fumaria
e poco s'accorge di quella canna
che scrive in aria coriandoli di fumo
per cadere in gelida cenere
d'un fuoco  mai acceso.

 ***
        
VELENI
di Laura Mar  gherita Volante

•L'ignoranza è la gemella della cattiveria...
•Chi riceve doni da casato...s'accasa.
•Omoaffetività. L'anaffettivo è contro natura, non l'essere umano.
•I libri sono flebo di ferro che portano ossigeno al cervello.
•Cogito ergo sum. Più nulla è secondo natura, ma secondo idiozia contagiosa
a ripetere come pappagalli le frasi celebri senza pensarne di nuove...
•Chi vive la vita di un altro non s'accorge di averne una propria.
•L'onestà prevede un'unica linea di comportamento: retta!
•Sgarbi immaginabili. Le capre belano su fb i “mi piace” sui post-eriori...
•Terra! Terra! Schiavitù è avere tutto non potendolo fruire...
•A scoppio ritardato. I “vu cumprà” girano sulle spiagge da trent'anni
e c'era chi comprava i rolex patacca per darsi delle arie. Ora scoppia il problema,
sfuggito di mano rolex compreso.
•Immigrazione è il boomerang della memoria storica.
•I muri sono tombe dell'umanità.
•Meglio i graffiti dei griffati con i tagli nei jeans...
•Terremoti. Scosse e urla della Terra atterrita dagli orrori.
•Il silenzio racconta ciò che le parole non dicono.
•Se la gallina vecchia fa buon brodo, quella dalle uova d'oro ha il culo sfondo.
•Gli interrogativi tentano di capire ciò per cui non v'è risposta alcuna.
•L'artista trasfigura la realtà rivelando la misteriosa profondità del reale.
•La vita è un quadro dipinto con i colori dell'anima.


90esimo compleanno del The New Yorker
di Michela Beatrice Ferri

Il 21 febbraio 2015 il “The New Yorker” compie 90 anni. A celebrare il suo compleanno, la copertina, “Nine for Ninety”. Scrive sul numero del 16 febbraio 2015 la designer Francoise Mouly: «When the magazine’s editor, David Remnick, asked me months ago to think of ways to celebrate our ninetieth anniversary, I knew at least where to start: with the cover of the very first issue, from February of 1925, by the art editor Rea Irvin. That image, of a “starchy-looking gent with the beaver hat and the monocle”, so effectively established the magazine’s tone that it was published, nearly unchanged, every February until 1994. Later dubbed Eustace Tilley, the magazine’s presiding dandy has since been parodied, subverted, or deconstructed on most of our anniversary covers».
Vi spiego la storia del The New Yorker –rivista tra le più note al mondo, tra le più curate e raffinate nello stile– che ha ospitato i maggiori scrittori americani contemporanei, come Philip Roth e Jerome David Salinger ed altri autori di rilievo come Alice Munro, Vladimir Nabokov e John Updike. I fondatori della rivista furono Harold Ross, direttore della testata «Stars and Stripes», e sua moglie Jane Grant, giornalista del «New York Times».
Pubblicato da Condé Nast, è nato nel febbraio del 1925 come settimanale e ora pubblica 47 numeri annualmente. L’intenzione era quella di creare una rivista connotata dall’umorismo sofisticato. La prima sede della rivista fu al 25 West 45th Street di New York City. Raffinatezza cosmopolita e splendide copertine che sono considerate opere artistiche caratterizzano questo strumento.


Anche la filosofa Hannah Arendt scrisse per il The New Yorker: fu autrice di testi pubblicati tra il 1963 e il 1977. La sua collaborazione con il The New Yorker è nota perché ha portato alla stesura del saggio: Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil.
Si veda un articolo pubblicato sul The New Yorker, dedicato al suo reportage:
Questo saggio riprende il resoconto che l’autrice pubblicò come corrispondente del The New Yorker per il processo ad Adolf Eichmann, gerarca nazista catturato in Argentina nel 1960, processato a Gerusalemme nel 1961 e condannato a morte il 15 dicembre 1961. L’esecuzione di Adolf Eichmann avvenne il 31 maggio del 1962 per impiccagione.
Il New Yorker inviò a Gerusalemme una giornalista per seguire il processo ad Adolf Eichmann, rapito da agenti del Mossad in Argentina e portato a Gerusalemme per essere processato per i suoi crimini. Quella giornalista era Hannah Arendt. Il film che la vede protagonista, “Hannah Arendt”, di Margarethe Von Trotta, ricostruisce questa vicenda.

                                                    
ADDIO A MARY-LOU
L’emozionante e commovente lettera del poeta americano Don Burness, amico e collaboratore che qui pubblichiamo, è stata scritta, come egli stesso ci informa, poche ore prima della morte della sua adorata Mary-Lou. Un sodalizio affettivo ed intellettuale lunghissimo, il loro, che li ha tenuti uniti fino alla fine. Don le ha dedicato un numero consistente di poesie, e siamo certi che Mary-Lou e il bassotto Yoshi, sono state le persone che ha più profondamente amato nella sua vita. Forse qualcuno si stupirà che io usi qui la parola persona riferita a un cane, ma chi ha posseduto una di queste creature, sa bene cosa intendo dire. Siamo grati a Don di averci mandato questa preziosa lettera: la dedichiamo a noi stessi e a quei lettori che hanno potuto in questi anni leggere i suoi scritti poetici e letterari prima sulle pagine del nostro giornale e poi nella bella ed elegante edizione della “Biblioteca di Odissea” pubblicati nel 2012. Per quella occasione Don era venuto a Milano per parlare della sua poesia ed incontrare gli amici italiani. Claudia Azzola si era messa subito a disposizione e aveva aperto il suo salotto letterario. Io stesso ne avevo fatto un resoconto sulle pagine di “Odissea” e a testimonianza di quel piacevole e amichevole incontro, rimangono numerose foto. Fu in quella occasione che mandai in regalo a Mary-Lou una copia del mio Cd “Mater purissima”, sapendo quanto lei amasse la musica. Al rientro negli Stati Uniti in una lettera a Max Luciani (traduttore per “Odissea” dei suoi testi) per ringraziarci dell’accoglienza e delle belle ore passate assieme, Don ci informava che Mary-Lou dopo aver ascoltato il Cd disse: “Quando morirò dovete suonare questa musica”. Considerammo queste parole come un fausto esorcismo: le persone che ci sono care vorremmo fossero eterne. Purtroppo a distanza di circa 3 anni Mary-Lou se n'è andata. C’è un verso di un poeta persiano dell'XI secolo, Omar Khayyâm, che così recita: “Spuntammo su dalla terra, e ce ne andammo col vento”. È il nostro destino.

A Mary-Lou il nostro ricordo, a Don il nostro abbraccio. (Angelo Gaccione)       

Lettera a Mary-Lou da Don

Rindge. (USA) 4 gennaio 2015, ore 23,00


Mary-Lou e Don Burness

Mia cara, cara Mary-Lou,
Oggi, quando sono arrivato in ospedale c'era poesia come lo è stata la nostra storia per oltre 50 anni. Mi hai sentito entrare nella tua camera ed hai allungato la mano per toccarmi. Mi è stato detto che tu non ti eri mossa di una virgola per tutto il giorno, eri così debole. E stavi lì - mostrandomi come hai sempre fatto, l'amore, la tenerezza, che sono stati al centro della nostra vita.
Ho scritto volumi di poesia per te, mia musa. Non c'è davvero nulla di nuovo da dire. Ma vedendoti morire - è così triste, eppure guardandoti, c'è qualcosa di sublime. Ho avuto soggezione di te per anni e anni - vedo la stupida commedia dell'uomo, poi ti guardo e vedo un mondo migliore.
Ho letto molte lettere che mi hai scritto nel 1970, 1971, 1972, mentre ero in viaggio in Europa. Che bello da parte tua lasciarmi libero di conoscere il mondo - e sempre, ovunque io sia andato, sei stata il mio porto, sei stata la mia stella del nord. Le tue lettere - affettuose, perspicaci, letterarie - scrivevi di Lessing e di Fromm, di Dickens e Mozart – si animano, ed eri solamente nella  metà dei tuoi 40 anni. Ora hai 88 anni e come Roxanne, alla fine, sei così fragile, così impotente. Ma ce l'abbiamo fatta grazie soprattutto a te, alla tua saggezza, al tuo impegno totale verso Don e Mary-Lou. La nostra storia non ha mai avuto cali. È una luce, è un fiore nel deserto.
Siamo stati fortunati. Abbiamo vissuto a lungo insieme. Non sarò solo - la tua essenza sarà con me fino al giorno della mia morte. Le nostre risate, i tuoi seni perfetti, la tua immensa felicità, il tuo intelletto abbagliante ed il solo puro divertimento per tutto. Con te ho vinto alla lotteria della vita. Sarai viva domani, quando verrò a farti visita?
Quindi ti sto scrivendo questa lettera anche se penso che non la leggerai. Se sarai viva domani te la leggerò. E se non sarai viva farò lo stesso.
Buonanotte mia cara, ti adoro, e buon viaggio.
Tuo Donald

(Mary-Lou è morta quattro ore dopo che questa lettera è stata scritta).
(Trad. italiana di Max Luciani)


Mary-Lou Burness  era nata il 12 agosto del 1926 a Waltham, Massachusetts. Dal 1968 Rindge è stata la sua dimora con molte avventure e soggiorni in Francia, Spagna, Italia, Nigeria, Messico e il suo amato Portogallo.

Letteratura ed arte sono state il centro della vita di Mary-Lou. Andava settimanalmente alla Memorial Library di Ingalls a cercare libri. Tra gli scrittori ammirava soprattutto Marcel Proust e Wilfred Owen. Tra i pittori aveva un’alta considerazione di Vermeer, Monet e Mark Rothko.

Letter to Mary-Lou from Don
Ridge (Usa) 11 pm 4 january 2015

My darling, darling Mary-Lou,
Today when i came into the hospital there was poetry as our story has been for over fifty years. You heard me enter your room and you reached out to touch me. I was told you had not moved one iota all day, you were so weak. And there you were - showing me as you always have the love, the tenderness, that has been at the center of our lives.
I have written volumes of poetry for you, my muse. There is really nothing new to say. But watching you die – it is so sad and yet looking at you, there is something sublime. I have in awe of you for years and years – I watch the stupid comedy of man and i look at you and I see a better world.
I have been reading many letters you wrote to me in 1970, 1971, 1972, while i was traveling in Europe. How lovely of you to set me free to know the world – and always wherever i went, you have been my harbor, you have been my north star. Your letters – affectionate, insightful, literary – you wrote of Lessing and Fromm and Dickens and Mozart – come alive and you were only in your mid 40s. Now you are 88 and like Roxanne at the end, you are so frail, so helpless. But we did it thanks mostly to you, your wisdom, your total commitment to Don and Mary-Lou. Our story never sags. It is light, it is a flower in the desert.
We were lucky. We lived a long time together. I will not be alone – your essence will be with me until my dying day. Our laughter, your perfect breasts, your immense happiness, your dazzling intellect and just the sheer fun of it all. With you I won life's lottery. Will you be alive tomorrow when I visit you?
So I'm writing you this letter even though you won't read it. If you are alive tomorrow I will read it to you. And if you are not alive I will do the same.
Bonne nuit ma chère, je t'adore et bon voyage.
Ton Donald

(Mary- Lou died four hours after this letter was written).




ARTE
AL MET DI NEW YORK
la mostra più importante sul cubismo degli ultimi trent’anni
di Michela Beatrice Ferri


NEW YORK. “Cubism. The Leonard A. Lauder Collection. Braque. Gris. Leger. Picasso”: con questo titolo apre a New York la mostra più importante sul cubismo degli ultimi trent’anni. Allestita al Metropolitan Museum, l’esposizione rimane aperta al pubblico dal 20 ottobre al 16 febbraio 2015 dopo una preview durata dal 16 ottobre al 19 ottobre scorsi. Per la prima volta vengono presentate le 81 opere dalla collezione del magnate dei cosmetici Leonard Lauder, che nell’aprile del 2013 aveva promesso di donarle al Metropolitan Museum di New York. Le opere di Georges Braque (1882-1963), Juan Gris (1887-1927), Fernand Léger (1881-1955) e Pablo Picasso (1881-1973), per la prima volta proposte in pubblico tutte insieme includono icone come “Il Nostro Avvenire è nell'Aria” e “Donna in Poltrona (Eva)” di Picasso, “Il Violino: Mozart Kubelik” di Braque, “Testa di Donna” di Gris.

Solo un anno e mezzo fa, il 9 aprile 2013 il New York Times con un articolo a firma della giornalista Carol Vogel aveva annunciato l’evento storico nel mondo dell’arte: il Cubismo in arrivo, finalmente, sulla Fifth Avenue con 34 Pablo Picasso, 17 Georges Braques, 15 Fernand Léger e 15 Juan Gris. Queste opere, per un valore complessivo di oltre un miliardo di dollari, sono state da raccolte dal signor Lauder nell’arco di quattro decenni per dare vita alla “The Leonard A. Lauder Collection”. Gli esperti ritengono che la raccolta sia tra le migliori del mondo, superando probabilmente quelle del Museum of Modern Art di New York, dell’Hermitage di San Pietroburgo e del Centre Pompidou di Parigi. «In un colpo solo questo dono mette il Metropolitan Museum all’avanguardia per l’arte dell’inizio del ventesimo secolo», ha commentato il direttore del museo, Thomas Campbell. Si tratta di un dono straordinario che trasformerà ancora una volta l’assetto del Metropolitan Museum.
A curare l’esposizione la storica dell’arte e curatrice privata per Lauder, Emily Braun, e la curatrice del Metropolitan Museum, Rebecca Rabinow, che assieme hanno curato un catalogo dedicato alla mostra, edito dalla prestigiosa Yale University Press. Questa grandiosa esposizione ha portato alla luce gli studi sulle origini del Cubismo come fenomeno artistico d’avanguardia e ha posto al centro dell’attenzione il collezionismo di Lauder e la sua attrazione per questo movimento che sconvolse la tradizione del dipinto, rivoluzionando il modo in cui gli artisti vedevano il mondo e aprendo la strada alla pura astrazione che avrebbe dominato l’arte occidentale nei decenni successivi.
Lauder acquistò per curiosità la prima opera cubista nel 1976: si trattava di una tela di Légere presa da Sotheby’s. In seguito continuò a selezionare con accuratezza dipinti e opere dell’avanguardia, per creare così la sua preziosa collezione. Per raccontare come questo insieme di opere è stato magistralmente raccolto, nella mostra al Metropolitan Museum sono esposte anche fotografie della residenza in cui Lauder conservò la sua collezione fino al momento della donazione. «Sono stato trascinato nel Cubismo perché era un fenomeno artistico interessante e complicato. Mi sembrava che ogni dipinto avesse una chiave», ha dichiarato Leonard Lauder.


Il magnate ha promesso che continuerà ad aggiungere altri capolavori alla collezione del Metropolitan, tra cui alcuni papier collé di Gris, e una grande varietà di famose serie di Léger. «Tutti dicono che il Metropolitan Museum è uno dei migliori musei al mondo. Per me, invece, è il migliore al mondo», ha detto Leonard Lauder alla presentazione dell’esposizione, sottolineando che con la donazione ha voluto restituire qualcosa alla sua città qualcosa di prezioso, definendo il Cubismo un punto fondamentale per la storia dell’arte del ventesimo secolo.
Il percorso espositivo è stato studiato per evidenziare l’evoluzione dello stile di questa avanguardia. Nelle prime sale i colori protagonisti sono io bianco e il nero, per poi passare ad opere con una ricchezza di colori sempre maggiore. Tra le opere in mostra ci sono i lavori di Picasso “The Scallop Shell” (1912), “Woman in a Chemise in an Armchair” (1913-1914) e diverse immagini legate a “Les Demoiselles d'Avignon”. Vi è anche il suo “The Oil Mill”, un raro paesaggio dipinto in un villaggio catalano nel 1909. L’opera, passata di generazione in generazione nella famiglia di un collezionista francese, per settant’anni non era stata esposta al pubblico. Si tratta di una delle prime immagini cubiste comparse sulla stampa italiana, dove nel 1911 fu riprodotta in una provocazione-analogia con il movimento futurista: conosciuta nel nostro Paese come Il mulino (da olio)”, fu la prima opera di Picasso ad essere vita in Italia, e fu fonte di ispirazione per l’avanguardia futurista. Tra le molte opere vi sono, di Braque: “Violin (Mozart/Kubelick)” (1912), e “Composition (The Typographer)” (1918-1919); di Gris: “Head of a Woman” (1912) e “Portrait of Mme Cézanne after Cézanne (1916); di Léger “Houses under the Trees” (1913) e “Three Women” (1920).



Grazie al supporto di un gruppo di amministratori e sostenitori, tra cui lo stesso Leonard Lauder, il Metropolitan Museum ha istituito un nuovo centro di ricerca per l’arte del Novecento: il “Leonard A. Lauder Research Center for Modern Art”, che costituirà un centro documentazione e di collezioni d’archivio, dove potrà essere condotta la ricerca di approcci innovativi per lo studio della storia del cubismo, le sue origini e la sua influenza. Il nuovo centro è stato immaginato dal signor Lauder come un mezzo per porre in dialogo l’arte contemporanea del Metropolitan Museum con le proprie collezioni enciclopediche. Ogni anno due nuovi destinatari riceveranno una borsa di studio biennale per sostenere la ricerca mirata su tutti gli aspetti del modernismo.

                                                     

AMERICANA
di Michela Beatrice Ferri

In un giorno, la memoria di due statunitensi:
Saint Elizabeth Seton e Thomas Stearn Eliot



In questo testo voglio ricordare una Santa e un poeta, entrambi statunitensi: Elizabeth Ann Bayley Seton e Thomas Stearns Eliot. Si tratta di due figure che presentano solo due punti in comune tra loro: l’essere nati negli Stati Uniti e l’essere scomparsi il 4 gennaio.
Esattamente sei mesi prima del 4 luglio, il 4 gennaio i cristiani cattolici che vivono negli Stati Uniti ricordano Elizabeth Ann Bayley Seton. Santa Elizabeth –nata a New York il 28 agosto 1774 e morta a Emmitsburg il 4 gennaio 1821– è stata la prima Born American ad essere canonizzata nella storia: papa Paolo VI la proclamò santa il 14 settembre 1975. All’età di diciannove anni Elizabeth Ann Bayley –questo il suo cognome da nubile– nata in una famiglia episcopaliana, sposò il commerciante protestante William Magee Seton con cui ebbe cinque figli. Quando il marito si ammalò, i medici consigliarono loro di intraprendere un viaggio in Italia: fu così che nel novembre del 1803 i coniugi Seton sbarcarono a Livorno. William Seton vi morì il 27 dicembre 1803 e venne seppellito in quello che oggi si conosce come l’Antico cimitero degli inglesi. Fu proprio in Italia che Elizabeth Seton cominciò ad avvicinarsi al cattolicesimo: per trovare sollievo al dolore della scomparsa del marito, venne portata da alcuni conoscenti a visitare il Santuario della Madonna delle Grazie a Montenero. Si dice che fu proprio dopo una celebrazione liturgica in questo santuario che Elizabeth Ann decise di diventare cattolica. La prima chiesa al mondo dedicata alla Santa statunitense si trova proprio a Livorno. Fondatrice di opere di carità, Elizabeth Ann Seton rimane nel cuore degli americani per la sua opera verso i bisognosi.

Il 4 gennaio 1965 moriva Thomas Stearns Eliot. Cinquant’anni fa. Nacque il 26 settembre 1888 a Saint Louis, nel Missouri. Qui il nonno paterno di Eliot era stato tra i fondatori della nota Washington University. A partire dal 1906 Thomas frequentò la Harvard University e proprio ad Harvard si formò il poeta che conosciamo. Per il cinquantesimo anniversario della sua morte, rileggiamo la Quinta Parte (What the Thunder Said) del poema The Waste Land:


V. Ciò che disse il tuono

Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati 
Dopo il silenzio gelido nei giardini 
Dopo l’angoscia in luoghi petrosi 
Le grida e i pianti 
La prigione e il palazzo e il suono riecheggiato 
Del tuono a primavera su monti lontani 
Colui che era vivo ora è morto 
Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo 
Con un po’ di pazienza
Qui non c’è acqua ma soltanto roccia 
Roccia e non acqua e la strada di sabbia 
La strada che serpeggia lassù fra le montagne 
Che sono montagne di roccia senz’acqua 
Se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere 
Fra la roccia non si può né fermarsi né pensare 
Il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia 
Vi fosse almeno acqua fra la roccia 
Bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
Non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere 
Non c’è neppure silenzio fra i monti 
Ma secco sterile tuono senza pioggia 
Non c’è neppure solitudine fra i monti 
Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano 
Da porte di case di fango screpolato
Se vi fosse acqua 
E niente roccia 
Se vi fosse roccia 
E anche acqua 
E acqua 
Una sorgente 
Una pozza fra la roccia 
Se soltanto vi fosse suono d’acqua 
Non la cicala 
E l’erba secca che canta 
Ma suono d’acqua sopra una roccia 
Dove il tordo eremita canta in mezzo ai pini 
Drip drop drip drop drop drop drop 
Ma non c’è acqua
Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto? 
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme 
Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca 
C’è sempre un altro che ti cammina accanto 
Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato 
Io non so se sia un uomo o una donna 
– Ma chi è che ti sta sull’altro fianco?
Cos’è quel suono alto nell’aria 
Quel mormorio di lamento materno 
Chi sono quelle orde incappucciate che sciamano 
Su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata 
Accerchiata soltanto dal piatto orizzonte 
Qual è quella città sulle montagne 
Che si spacca e si riforma e scoppia nell’aria violetta 
Torri che crollano 
Gerusalemme Atene Alessandria 
Vienna Londra 
Irreali
Una donna distese i suoi capelli lunghi e neri 
E sviolinò su quelle corde un bisbiglio di musica 
E pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta 
Squittivano, e battevano le ali 
E strisciavano a capo all’ingiù lungo un muro annerito 
E capovolte nell’aria c’erano torri
Squillanti di campane che rammentano, e segnavano le ore 
E voci che cantano dalle cisterne vuote e dai pozzi ormai secchi.
In questa desolata spelonca fra i monti 
Nella fievole luce della luna, l’erba fruscia 
Sulle tombe sommosse, attorno alla cappella 
C’è la cappella vuota, dimora solo del vento. 
Non ha finestre, la porta oscilla, 
Aride ossa non fanno male ad alcuno. 
Soltanto un gallo si ergeva sulla trave del tetto 
Chicchirichì chicchirichì 
Nel guizzare di un lampo. Quindi un’umida raffica 
Apportatrice di pioggia
Quasi secco era il Gange, e le foglie afflosciate 
Attendevano pioggia, mentre le nuvole nere 
Si raccoglievano molto lontano, sopra l’Himavant. 
La giungla era accucciata, rattratta in silenzio. 
Allora il tuono parlò 
DA 
Datta: che abbiamo dato noi? 
Amico mio sangue che scuote il mio cuore 
L’ardimento terribile di un attimo di resa 
Che un’èra di prudenza non potrà mai ritrattare 
Secondo questi dettami e per questo soltanto noi siamo esistiti, per questo 
Che non si troverà nei nostri necrologi 
O sulle scritte in memoria drappeggiate dal ragno benefico 
O sotto i suggelli spezzati dal notaio scarno 
Nelle nostre stanze vuote 
DA 
Dayadhvam: ho udito la chiave 
Girare nella porta una volta e girare una volta soltanto 
Noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione 
Pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione 
Solo al momento in cui la notte cade, rumori eterei 
Ravvivano un attimo un Coriolano affranto 
DA 
Damyata: la barca rispondeva 
Lietamente alla mano esperta con la vela e con il remo 
Il mare era calmo, anche il tuo cuore avrebbe corrisposto 
Lietamente, invitato, battendo obbediente 
Alle mani che controllano
Sedetti sulla riva 
A pescare, con la pianura arida dietro di me 
Riuscirò alla fine a porre ordine nelle mie terre? 
Il London Bridge sta cadendo sta cadendo sta cadendo 
Poi s’ascose nel foco che gli affina 
Quando fiam uti chelidon – 
O rondine rondine Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie 
Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine 
Bene allora v’accomodo io. Hieronymo è pazzo di nuovo. 
Datta. Dayadhvam. Damyata. 
Shantih shantih shantih
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