UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

martedì 10 dicembre 2024

IL MONDO MULTIFORME DI BAJ
di Angelo Gaccione


Enrico Baj

Prima di andare a vedere la mostra di Enrico Baj alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale qui a Milano, ho voluto andare a rileggermi l’intervista che gli avevo fatto oltre un ventennio fa, confluita poi nel volume pubblicato nel 2001 dalla Viennepierre edizioni sotto il titolo: Milano la città e la memoria. L’ho fatto per almeno due ragioni: perché il rapporto dell’artista Baj con le istituzioni pubbliche della città in cui era nato il 31 ottobre del 1924 (giusto un secolo fa), non era stato dei migliori; e perché volevo rinfrescarmi la memoria a proposito di quella che lui stesso nell’intervista definisce “una grande messa in scena di dodici metri di larghezza per 4 o 5 di altezza, più cinque di sporgenza”. 


Baj in una foto giovanile

Mi sto riferendo alla gigantesca installazione realizzata nel 1972 dal titolo I funerali dell’anarchico Pinelli, perché è proprio con la creazione di quest’opera di denuncia sull’omicidio del ferroviere e partigiano Giuseppe Pinelli, che il rapporto fra Baj e Milano sarà destinato a divenire conflittuale e insanabile. L’opera avrebbe dovuto essere esposta nella Sala delle Cariatidi di quell’anno, in occasione della mostra che il Comune aveva fissato a Palazzo Reale, ma un evento tragico e inaspettato farà saltare tutto. Ecco come Baj lo racconta nella mia intervista: “L’inaugurazione della mostra doveva aprirsi il 17 maggio del 1972, il giorno stesso in cui alle 9 del mattino una mano misteriosa sparò al commissario Calabresi…”. Per i lettori più giovani ricordiamo che era stato il commissario Luigi Calabresi a convocare in questura Pinelli da cui uscirà cadavere. 



“La mostra, preparata con gli auspici e con l’accordo del Comune di Milano, fu censurata e mai più riaperta, per via di quella magnifica coincidenza dell’inaugurazione con la soppressione del commissario Calabresi”. Il Comune “era stato sopraffatto dagli eventi”, continua Baj “la destra indicava in me uno dei principali agenti della sedizione, se non addirittura l’ispiratore di quel gesto delittuoso”. Insomma, niente mostra a Palazzo Reale, e l’installazione non venne più esposta a Milano; in compenso venne, nel corso degli anni, ospitata nelle città principali di mezzo mondo. Non andò meglio con quello che era stato battezzato “Spazio Baj”. Era stato aperto a Palazzo Dugnani in via Manin, “uno dei più bei palazzi di Milano” che contiene anche “un affresco meraviglioso del Tiepolo” mi diceva orgoglioso Baj, nel 1986-1987, con una forte donazione: “Ottocento incisioni, cento multipli, una decina di pezzi unici”, ma ha avuto vita breve, “Ha funzionato un anno o due”. I giudizi negativi che allora esprimeva Baj nei confronti della gestione pubblica dell’arte a Milano, erano molto severi, e ne aveva pienamente ragione. 



Questa mostra compresa sotto il titolo “Baj chez Baj” messa in piedi a distanza di oltre mezzo secolo, suona come un vero e proprio atto di risarcimento. Una tardiva riparazione della città, nei confronti di uno dei suoi artisti più geniali ed inventivi. L’installazione del Pinelli arriva nella Sala delle Cariatidi a ridosso dell’anniversario della strage di piazza Fontana e della morte dell’anarchico. E ci arriva con tutta sua forza dolente e drammatica per ammonirci e farci riflettere, come voleva il suo artefice. Ci arriva accompagnata dall’altra gigantesca installazione dal titolo Apocalisse (1978-1983) affollata di mostri divoratori, di occhi, di mani mozzate, di bisce, di arti monchi, di volti umani grotteschi, di teschi, di visceri, di animali, e da un corpus di circa una cinquantina di opere, se non ho contato male. Tra queste spiccano le figure picassiane, i generali che l’artista prende di mira e mette alla berlina appuntando contro le gerarchie militari e il militarismo la sua critica e il suo sarcasmo; gli otto Meccani costruiti negli anni Sessanta con strutture metalliche di colore verde, posizionati su un basamento a specchio che ne amplifica la presenza attraverso il rimando delle immagini nel fondo, dove anche la splendida volta del Salone è andata a conficcarsi creando una suadente rifrazione visiva. 



Strutture che evocano corpi umani e che nella loro immobilità ci danno anch’esse l’idea di una pattuglia di militari posizionati sull’attenti. Le dame idrauliche, o donne fiume, costruite con gli assemblaggi tipici di Baj che non rinuncia a nessun oggetto o parte di esso, se appena appena la sua forma si presta a diventare un occhio, un naso, un seno, una testa o una parte anatomica purchessia che dia eleganza, decorazione, slancio, alle figure che si appresta a comporre. Bottoni, cordoni, stoffe con ricami, medaglie, rubinetti, prese, tubi di plastica, bulloni, dadi, pomelli, e quant’altro. 



In questa fantasmagoria tutta giocata sull’occhio e sullo stupore, Baj ci dice che l’arte si è emancipata dal classico concetto di bellezza e della anatomia come le abbiamo conosciute; ci si presentano invece come sfida ironica in cui non c’è più posto che per la sorpresa, per come gli oggetti, anche i più comuni e abusati della nostra quotidianità, la genialità visionaria dell’artista, la sua capacità manipolatoria sa comporli su una tavola, una tela, un cartone, un pezzo di compensato, per dar loro nuove forme, nuove figure in grado di sorprenderci. 



Due bottoni collocati ai lati di una spirale di cordoncini che diventa una testa, non sono più dei semplici bottoni, sono due pupille, due occhi; così come due pomelli possono diventare un seno, una ferma tende con nappe diventare un collo, la circonferenza di una testa e così via. Allo stesso modo di come i peperoni, le zucchine e ogni tipo di frutta possono comporre una testa vegetale, come ci ha insegnato Arcimboldo. 



Uno specchio frantumato, e in questo allestimento ce ne sono due, può diventare una scultura geometrica astratta da ammirare, ma anche il riproduttore del volto di colui che vi si avvicina per guardare e rimirarsi. Lo stesso vale per i “mobili” che non poggiano su una superficie solida, né hanno una struttura tridimensionale; occupano il limitato spazio di una tavola, o di una tela, che nessun pennello ha dipinto, assemblati come sono da stoffe, e dal repertorio affollato di oggetti da cui Baj attinge. 



Fedele e consapevole come pochi alle sue concezioni teoriche e alle idee che è andato via via elaborando nel corso degli anni, Baj ha dato corpo a quelle idee e a quelle concezioni incarnandole in manufatti estetici di indubbia originalità, costruendosi una cifra personale fantasiosa, ironica, e insieme  riconoscibilissima.



P.S. Con enorme soddisfazione ho appreso che, finita questa mostra, I funerali di Pinelli saranno collocati in pianta stabile nel Museo del Novecento al Palazzo dell’Arengario di Piazza del Duomo. Baj ne sarebbe stato felice, e anche noi.
 


Scheda tecnica

Titolo: BAJ. BajchezBaj
a cura di: Chiara Gatti e Roberta Cerini Baj 
sede: Palazzo Reale Milano Piazza del Duomo 12 
Mostra: Comune di Milano-Cultura Palazzo Reale Electa 
in collaborazione con: Savona, Museo della Ceramica e Albissola Marina, MuDA Casa Museo Jorn 



progettazione dell’allestimento: Umberto Zanetti, ZDA Zanetti Design Architettura 
sponsor tecnico: UniFor 
lighting: Viabizzuno 
Con il supporto di: Vinavil, COOP
media partner: Lucy sulla cultura, Radio Popolare 
catalogo: Electa 



aperture speciali
Martedì 24 dicembre 2024 (Vigilia di Natale): 10.00 - 14.30
Mercoledì 25 dicembre 2024 (Natale): 14.30 - 18.30
Giovedì 26 dicembre 2024 (Santo Stefano): 10.00 - 22.30
Martedì 31 dicembre 2024 (San Silvestro): 10.00 - 14.30
Mercoledì 1° gennaio 2025 (Capodanno): 14.30 - 19.30
Lunedì 6 gennaio 2025 (Epifania): 10.00 - 19.30

 

                

VILLA SCHEIBLER IN CONCERTO




ALLO SPAZIO MICENE PER PINELLI




LE POESIE DI CURTO
di Mauro Pichiassi

 
Francesco Curto
 
Sono profondamente grato a Francesco Curto per il suo Gravidanze del cuore, di cui gentilmente mi ha fatto omaggio, perché non solo mi ha fatto scoprire in un caro amico di lunghissima data un poeta raffinato e profondo che mi ha fatto provare, attraverso la lettura, sensazioni ed emozioni. Questo piccolo volume è diventato per me uno scrigno di splendidi gioielli che ti catturano per la loro grazia e lucentezza. Sono poesie diverse per tema e spessore l’una dall’altra, ma tutte ti colpiscono per la loro incisività, per il modo in cui mettono a fuoco un momento di gioia o di dolore, di speranza o di paura, o focalizzano un problema generale o un tema sociale, oppure descrivono situazioni, comportamenti e persone. Poesie che finiscono per piacerti così tanto da tornare a rileggerle più volte in momenti e tempi diversi, allo stesso modo in cui in certi momenti torni a riascoltare un disco di canzoni del cantante preferito. Rileggere più volte la stessa poesia di Francesco vuol dire tornare a riprovare e rivivere le emozioni e anche le riflessioni sperimentate alla prima lettura con in più, talora, la scoperta di nuovi sensi e significati non colti al primo incontro.
Nel titolo è riassunto il senso della raccolta: la Poesia, quella con la P maiuscola, nasce dal cuore di chi guarda il mondo intorno a sé con gli occhi del disincanto, dell’empatia e dell’amore. Non importa se molte volte dal travaglio del cuore non nascono delle poesie; la sconfitta ci può stare. Anche se si resta a mani vuote il sogno vero del poeta resta (v. La poesia p. 33). In fondo il poeta è un “sognatore venditore di sogni che non costano nulla”, un “paroliere ambulante senza fissa dimora”; due immagini bellissime che colgono l’essenza della poesia di Curto, che con i suoi versi ti accompagna nei suoi sogni e si serve delle parole per rappresentarli, per costruire arcobaleni e comunicare gioia e amore.



Curto ha piena consapevolezza del suo essere poeta e del ruolo che la poesia può svolgere nella vita e nella storia dei singoli uomini.  Se è vero che “i poeti non cambiano il mondo” è anche vero che senza la poesia il mondo è più vuoto e triste e la vita senza poesia è insipida e vuota come un pane senza lievito.  Ma essere poeta e fare il poeta non è facile. Curto riconosce di avere una cartella dove infila alla rinfusa “foglietti di carta con versi presunti”, versi che vorrebbe dimenticare, che invece rimangono lì, nella coscienza, scottano e rumoreggiano. E la difficoltà dell’essere poeta sta proprio nel mettere ordine in quella cartella che porta sempre con sé.  Quello dei poeti è un destino crudele: è amato dalle persone innamorate che ritrovano nei versi dei poeti le espressioni più complete dei loro sentimenti e delle loro passioni, e allo stesso tempo è odiato dai potenti perché non trovano nelle poesie la celebrazione o l’esaltazione delle loro presunte imprese. I potenti cercano servi e adulatori e il poeta non può esserlo perché i suoi versi nascono dalla sua anima, dal suo cuore, e sono espressione di libertà. Curto poeta si descrive attraverso una serie di immagini vivide e incisive: si sente un vecchio bambino che gioca tra le macerie del mondo, un profeta che parla per chi non può parlare, un costruttore di sogni che raccoglie come fiori nei campi della vita; si sente come uno di quei tanti versi infilati nella cartella, che è la sua coscienza, rimasto confuso e sperduto. Non è interessato a quello che diranno di lui, che era un innamorato della vita, perché la morte mette tutto a tacere, per questo egli sente la morte come la sua unica amica, che non guarda in faccia a nessuno e non fa privilegi a nessuno.



I poeti, si dice, sono i più grandi sognatori, i veri costruttori di ponti sospesi sul nulla che portano a realtà diverse da quelle che ci stanno a fianco. I poeti ci regalano sogni e di sogni abbiamo bisogno tutti e per questo leggiamo poesie, perché vogliamo sognare una realtà diversa, magari presi per mano e guidati da qualcuno che ha una sensibilità maggiore e ci fa provare speranza, amore, felicità ma anche di tristezza e dolore. Con i suoi versi Curto ci regala sogni, che lui raccoglie di notte e “conduce come treni inesistenti”. In una sua poesia confessa che la sua missione è “gonfiarti l’anima di sogni/ per farli sbocciare come rose / all’alba domani senza giorno”. Ma il sogno del poeta non è pura fantasia ma è trasfigurazione della realtà o forse osservazione della realtà da una prospettiva insolita, è l’espressione di un desiderio intimo e profondo che ricorda tanto i sogni che si fanno quando si dorme. Il sogno è quanto di più personale il poeta possiede, e tuttavia lo condivide con gli altri; nel sogno il poeta trova la sua libertà più vera, quella che nessuno mai potrà togliergli.


Un ritratto di Curto

Con i suoi versi Curto non ti accompagna solo tra i suoi sogni, ma ti porta a guardare la realtà in cui viviamo, dove si alternano, in un ciclo continuo, gioie e dolori, allegria e tristezza, amore e odio. Ecco allora il poeta soffermarsi a guardare le immagini drammatiche dei tanti disperati che sbarcano sulle nostre coste per inseguire un sogno, una speranza o per sfuggire a una sciagura certa. Ma troppo spesso quel sogno è quasi sempre tristemente accompagnato dalla morte di quanti non sono riusciti a trovare un approdo amico. Oppure ricorda le donne della sua terra che tornano la sera stanche e sfigurate dopo un’intera giornata passata a raccogliere le olive. Quello che viviamo è un tempo duro, grida in alcuni versi che, pur scritti anni addietro, sembrano descrivere la realtà di oggi sconvolta da focolari guerra accesi in diverse parti del mondo. Eppure, si tratta di una realtà immutabile, è anzi il sempiterno tempo del mondo dove, ieri come oggi, “non hanno più lacrime né pane gli ultimi della terra”. Dolore e disperazione canta nel vento il poeta, un dolore che nessuno può lenire o alleviare, neppure le stelle che tutto osservano.



Quella che viviamo è una realtà complessa e difficile, nella quale ogni tanto ti fermi per capire dove ti trovi e a che punto sei arrivato, per interrogarti se il momento o il luogo in cui sei è quello di arrivo o quello di partenza. Questi interrogativi emergono nei versi di “Allora a che punto siamo?”. Dietro un apparente virtuosismo giocato con le espressioni in cui occorre la parola punto, il poeta descrive il disagio di trovarsi, pur tra i tanti punti fermi, a un punto morto. Per questo, in modo sconsolato conclude che tra tutte le incertezze non ci resta che puntare sulla morte.
Dalla lettura dei versi di questo volumetto emerge il mondo interiore ed esperienziale del poeta, i suoi sentimenti, le sue passioni, i suoi sogni, le sue speranze e i suoi ricordi. I ricordi della terra d’origine con la fatica e le pene delle donne e degli uomini impegnati nel duro lavoro dei campi o dei vecchi che al termine della giornata seduti in fronte al sole rievocano i giorni terribili della fame e delle tribolazioni della loro gioventù. Ora guardano verso i monti dove tramonta il sole immaginando al di là di quelli un mondo diverso. Il ricordo della terra d’origine fa da contraltare alla terra d’elezione dove il poeta oggi vive, in sintonia con il santo umbro di cui condivide il nome e con il poeta perugino Sandro Penna di cui condivide sia le vie della città che le vie della poesia. Amori e ricordi di persone che hanno segnato la vita del poeta; e al primo posto quello della madre, alla quale dedica la tenera e appassionata lirica che apre l’intera raccolta. 



Sono versi di amore di una tenerezza struggente quelli in cui evoca i luoghi e i momenti in cui madre e figlio comunicavano allora e comunicano ora anche senza parlare: tanto intesa era ed è la loro relazione. E altre figure e altri amori che hanno accompagnato e scandito la vita del poeta si intravvedono in tanti versi, che sia la sposa di maggio o la donna sognata per la quale raccogliere ranuncoli per coprirla di festa.
In sintesi, un’antologia di poesie dense di significati e immagini che fanno bene al cuore di chi leggendole prova emozioni e suggestioni forse simili a quelle del poeta ma anche molto distanti.

domenica 8 dicembre 2024

CENSIS 2024: IL NAZIONALISMO SENZA NAZIONE
di Franco Astengo



 
Di seguito si troverà una sintesi giornalistica delle principali proposizioni emerse dal rapporto del Censis 2024 presentato oggi 6 dicembre. In precedenza siano consentite poche righe dettata da un’analisi personale:
1) il Censis ha fotografato un’Italia dove la politica, l’azione pubblica, il senso del collettivo ha ormai raggiunto il minimo storico almeno dal secondo dopoguerra in poi;
2) L’analisi di questa sintesi che presentiamo adesso ci dimostra che la passività sociale viene intesa e sfruttata come varco perché si apra il fianco a qualche avventura pericolosa, considerato anche il vento che spira per il mondo;
3) Dovrebbe essere fondamentale il recupero di alcuni concetti-base che tra l’altro stanno dentro per intero alla Costituzione Repubblicana nell’idea dell’uguaglianza, di una democrazia rappresentativa, di una partecipazione popolare al governo del Paese;
4) Alla frantumazione corrisponde quindi l’acquiescenza di massa nell’omologazione della perdita di valori  che si verifica mentre si sta smarrendo il senso del “pubblico” in settori decisivi come il lavoro (in un Paese privo di struttura e di politica industriale) la scuola e la sanità che dovrebbero essere considerati non semplicemente come elementi del “welfare” ma come fattori  fondamentali della coesione sociale;
5) questo governo punta su di un antistorico nazionalismo senza nazione puntando tutto sulla paura. L’idea di una Europa democratica sembra ormai smarrita dentro a una crisi profonda delle relazioni internazionali;
6) Tutti questi elementi giustificano ampiamente la tanto criticata affermazione sulla “rivolta sociale”. Abbiamo bisogno urgente di una gramsciana “rivoluzione intellettuale e morale” tale da funzionare come presa di coscienza collettiva.


 

Ecco la sintesi come ce la stanno offrendo le principali fonti di stampa in queste ore: “Si galleggia e ci si crogiola in una ‘sindrome italiana’ che ci intrappola perché non si arretra e non si cresce. La fotografia del Rapporto Censis 2024 restituisce una stasi che nasconde anche opportunità, slanci che sarebbero dietro l’angolo. Sempre che si decida di non galleggiare, appunto, nel tradizionale problema solving all’italiana che, scrivono ancora quelli del Censis, non basta più. «Ci flettiamo come legni storti e ci rialziamo dopo ogni inciampo, senza ammutinamenti. Ma la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata», si legge nel Rapporto 2024 in cui si dice che negli ultimi vent’anni (2003-2023) ci si è impoveriti perché il reddito disponibile lordo pro-capite si è ridotto in termini reali del 7,0%. E nell’ultimo decennio (tra il secondo trimestre del 2014 e il secondo trimestre del 2024) anche la ricchezza netta pro-capite è diminuita del 5,5%.



In un flash: c’è più lavoro ma meno Pil, il settore del turismo è molto vivace mentre l’industria soffre nonostante l’aumento netto della produttività, manca personale in diverse realtà e il welfare è ipotecato.
Tutto questo succede mentre c’è un nuovo scenario mondiale e un nuovo scenario tecnologico «nei quali le barche non salgono e non scendono più tutte con la stessa marea». I dimenticati che scontano la deindustrializzazione, non sono solo nel Midwest, l’ottimismo autentico, dell’era della globalizzazione arrivate ormai al capolinea. L’Italia sta attraversando profonde trasformazioni che, avverte il Censis, rischiamo di non padroneggiare al meglio. Soprattutto se si sceglie il galleggiamento senza meta di «sempre meno famiglie e imprese che competono», e che a mano a mano saranno «sempre meno abili al galleggiamento». Ecco perché la fotografia del Censis assume i contorni di una trappola se si considera che l’85,5% degli italiani è ormai convinto che sia molto difficile salire nella scala sociale”.

COOPERATIVA “LA LIBERAZIONE”
Piazza Fontana. La strage e Pinelli




ALLA BASILICA DI SAN CARLO
“Messa di gloria” di Puccini




 

A ISEO PER PINELLI




ARTE PER LA PACE
A ChiAmaMilano




 

FESTIVAL BAGUTTA LETTERATURA


Annitta Di Mineo

Annitta Di Mineo, poeta e scrittrice, è l’ideatrice del progetto e fondatrice del 1° Festival Bagutta Letteratura - Milano 2024, che prenderà avvio venerdì 13 dicembre alle ore 10. In qualità di referente di Bagutta Letteratura, una costola del “Gruppo Artisti Bagutta”, una realtà presente da 60 anni, e giusto quest’anno ricorre il 60° della sua fondazione con la presidenza dell’artista Guido Poggiani, ha deciso di lanciare questa manifestazione nella città di Milano, la prima in assoluto, che ha ricevuto patrocinio della Regione Lombardia, del Comune, del Municipio 1, della Libreria Bocca, la più antica d’Italia - 1750 - e di altri numerosi sponsor. Tutti gli eventi si svolgeranno nella sede della Galleria Bagutta di Milano, in Corso Garibaldi n. 17, nelle giornate 13 – 14 - 15 dicembre, mattino, pomeriggio e sera. Un festival che vede la partecipazione di 20 scrittori, tanti gli autori qualificati e di spicco, e tante le proposte letterarie, con tematiche trasversali che toccheranno la poesia, la prosa, la saggistica e altre forme espressive.  
 

Guido Poggiani

Programma
 
Venerdì 13 dicembre
Angelo Gaccione, Gabriella Galzio, Antonio Ricci, Roberto Caracci, Luigi Cannillo, Giuseppe Puma.
 
Sabato 14 dicembre
Francesco Piscitello, Adam Vaccaro, Serena Rossi, Alina Rizzi, Alfredo Panetta & Giovanna Sommariva, Marianna Iliut Costiantynivna, Giuseppe Zarfati.
 
Domenica 15 dicembre
Francesco Di Garbo, Claudia Ambrosini, Cataldo Russo, Alberto Mori, Isabella Sandon Tenca, Maria Pia Abbracchio & Marilisa D’Amico, Annitta Di Mineo.
 
Gli autori avranno l’opportunità di presentare le loro opere, e dialogare con il pubblico, leggere i loro versi.
 
Locandina degli eventi
 


FAVOLE AD ANCONA

 



sabato 7 dicembre 2024

RICORDANDO BORGNA
di Alida Airaghi


Eugenio Borgna
 
Il Direttore di Odissea, Angelo Gaccione, mi ha invitato a ricordare Eugenio Borgna riattraversando le fasi della nostra amicizia: altri, più titolati e competenti di me, hanno già saputo e sapranno evidenziarne l’alto magistero intellettuale e scientifico. Il mio rapporto di familiare e reciproca vicinanza con il Professore è iniziato intorno al 2010, in seguito ad alcune mie recensioni. Da allora si è sviluppato e approfondito, con fasi alterne, fino allo scorso 7 ottobre, quando con l’ultima mail mi comunicava il suo confortante giudizio sui versi di una raccolta inedita che gli avevo fatto leggere, informandosi affettuosamente del mio recupero fisioterapico dopo un’operazione di protesi al ginocchio. Gli ho poi inviato una recensione all’ultimo libro L’ora che non ha più sorelle, pubblicata sul blog SoloLibri il 24 novembre, ottenendo dall’ affezionata e attenta segretaria Nadia l’assicurazione del suo gradimento, insieme al rammarico di non essere in grado di rispondermi personalmente. Voglio credere sia stato così, anche se temo fosse già molto malato. Eppure, solo a metà luglio mi scriveva con relativo ottimismo: “Non so come dirle ancora la mia gratitudine per questa sua presenza amica. A presto. Il suo Eugenio Borgna”.



Decine le lettere e i biglietti che ci siamo scambiati in questi anni, parlando di tutto: di fede e politica, di poesia e di musica, delle nostre famiglie e dei nostri lutti, con una confidenza che si accresceva attraverso le sue frequenti e lunghissime telefonate. Ci scambiavamo le pubblicazioni, le sue accompagnate sempre da un biglietto scritto con una grafia tonda, larga, generosa, e con termini di squisita gentilezza, a volte addirittura di estrema umiltà, quasi dovesse scusarsi di aver osato sconfinare da psichiatra nel campo della letteratura. Nel volume La dignità ferita del 2012 ho ritrovato questo messaggio: “Non so cosa sia questo libro, Alida, se di psichiatria o di antipsichiatria, di psichiatria morale e di psichiatria salvata dalla poesia; ma lei vorrà aiutarmi a ricercarne il senso: se questo c’è? Grazie, e in amicizia”.


Borgna

Ci siamo incontrati di persona solo due volte, a Milano nel 2012 in occasione di una conferenza a cui mi aveva invitato, e alcuni anni dopo nel corso di una sua inaspettata e graditissima visita a casa mia, a Garda. Ricordo la trepidante agitazione all’idea di conoscerlo, il timore di deluderlo con la mia scorbutica timidezza. In realtà, nelle due ore trascorse in un bar della Stazione Centrale, aveva parlato quasi sempre lui, grande affabulatore com’era, ma spiandomi nel volto qualsiasi espressione, in particolare quella di colpevole imbarazzo quando ci aveva avvicinati un’anziana deforme per chiederci l’elemosina. Avendogli comunicato l’assoluta incapacità che provo di affrontare il dolore, mio e degli altri, lui che del dolore altrui si era occupato per tutta la vita, mi aveva consolato: “È la cosa più difficile, guardare in faccia la sofferenza”.
Più disteso era stato il secondo incontro a casa mia, che aveva lodato per la luminosità e l’ordine e la cura delle piante, con mio grande compiacimento. Era stato inflessibile sulle indicazioni del pranzo: un toast e un succo di pera, a cui avevo aggiunto di mia iniziativa un uovo alla coque di cui lo sapevo goloso. Così alto e magrissimo com’era, non gli risparmiavo le raccomandazioni a nutrirsi di più, e a volte mi comunicava con soddisfazione quasi adolescenziale di avere optato al ristorante per un menù più consistente del solito. Poi ricambiava le mie attenzioni commentando “da medico” le diagnosi sull’artrosi che gli sottoponevo, o il percorso terapeutico per la depressione che seguivo da dieci anni, esortandomi a lasciar perdere gli psicofarmaci e ad affrontare con maggiore coraggio l’esterno e i rapporti con gli altri.



A un certo punto la nostra amicizia ha corso il rischio di infrangersi, per colpa dell’irrigidimento che mi impongo quando temo che un legame diventi troppo coinvolgente in termini affettivi ed emotivi. Mi è successo spesso, soprattutto avanzando con l’età, di interrompere rapporti a cui tenevo, per il timore di soffrire troppo se si fossero guastati per qualsiasi ragione, dopo le tante gravi perdite patite. Avevo rifiutato il suo invito a passare dal “lei” al “tu”, e addirittura gli avevo chiesto di non telefonarmi più. Cosa che immagino l’abbia ferito, perché mi ribadiva spesso la sua gioia per la nostra amicizia. Addirittura in una dura e permalosa mail lo avevo accusato di maschilismo (lui, così attento e sensibile alla fragilità femminile!), perché aveva osato scherzare sulle mie troppe paure, con allusioni da me ritenute inopportune e mortificanti. Il Professore, che si firmava, “il suo Eugenio”, capiva e scusava, conoscendo le difficoltà ambientali che avevo vissuto con le mie figlie per tanti anni, e le nostre sofferenze. Capiva e scusava da amico e da psicanalista.  



Sono felice di essere riuscita, l’anno scorso, a esprimergli il mio rammarico per alcune estemporanee irritazioni nei suoi confronti, e la gratitudine invece per i tesori che il nostro rapporto mi aveva regalato: “Gentile Prof. Borgna, spero stia bene, e che il caldo non la faccia soffrire troppo. Qualche giorno fa è morto un caro amico, lasciandomi il rimpianto di un immotivato allontanamento, come succede spesso al mio calvinismo severo. E allora mi è venuto da pensare che per un certo periodo siamo stati molto amici anche noi, e poi io mi sono chiusa a chiave nel mio dolore, per quello che mi succedeva intorno. E ho interrotto i rapporti con tutti. Si sbaglia sempre, non bisognerebbe mai perdere di vista nessuno, nemmeno chi ci ha fatto del male. Così avevo scritto in una poesia, pensando che avrei potuto essere più affettuosa e più attenta anche con mio marito, mia mamma, mio papà, gli amici che ho trascurato. E quindi mi scuso anche con lei, se non sono riuscita a dirle che la sua vicinanza mi è stata cara. Alida”, “Mia gentile Alida Airaghi le sono infinitamente grato della sua mail che mi è giunta segnata da questo grande dolore che è conseguito alla morte di un suo caro amico. Le parole con cui mi dice questo sono come sempre molto gentili, umane, nostalgiche, luminose e poetiche. Infinite grazie di ogni sua mail che mi giunge come una azzurra colomba trakliana, anche se giornate come queste accrescono la nostalgia e il dolore per le persone care che non ci sono più. Non posso dimenticare le sue splendide poesie che rileggo e che sono di una bellezza e di una malinconia dolorosa, ma irrorate del fiume della speranza che è la sola cosa che possa dare un senso al nostro dolore. Grazie di tutto con grande nostalgia. Eugenio Borgna”.
Non so se il rimpianto, insieme alla mia riconoscenza, possano raggiungere il caro Eugenio Borgna, lì dove era certo di arrivare, con la sua limpida fede nell’eternità dell’anima. Ma in qualche modo, pur da non credente, lo spero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CHUCHILL AT WAR: UN SERIAL DA VEDERE  
di Luigi Mazzella


Churchill

Churchill at war (Churchill in guerra) è un serial di quattro episodi, in parte recitato da attori professionisti e in parte ricavato da spezzoni documentaristici, rielaborati digitalmente (a colori), programmato in streaming da NETFLIX che sembra creato appositamente per spiegare, al colto e all’inclita, il fenomeno Donald Trump, raccontando di un altro “caratteraccio” della Storia Occidentale. Il Churchill della serie è descritto certamente come un individuo di eccezionale intelligenza politica, di grande temperamento e di forte carattere, di prevaricante e prepotente personalità, di pungente e caustica ironia (ma anche di teneri affetti familiari) ma è terribilmente ostico e difficile da trattare non solo per i nemici come Adolf Hitler e Giuseppe Stalin ma anche per gli amici come Franklin Delano Roosevelt che, negli ultimi tempi, a mala pena lo tollerava. Riconosciuto “grande” per la sua lucidità politica (dalla Storia e dopo la sua morte) ma denigrato in vita, in patria e fuori, da pennivendoli e politicanti da dozzina (e dagli stessi elettori se, nelle prime votazioni a guerra finita, gli fu preferito il modesto Clement Attlee) il Winston Churchill che emerge dalla storia narrata (che detto, per inciso, ignora del tutto la presenza e il ruolo dell’Italia e di Mussolini nella Seconda guerra mondiale, (tamquam non esset) rappresenta ai miei occhi una conferma dell’irrazionalità  che contraddistingue tutta la vita dell’Occidente. 



La mia tesi è che sia molto difficile prevedere che cessi all’improvviso l’assuefazione degli Occidentali all’irrazionalismo (anche il più folle) dopo l’abitudine contratta, per oltre due millenni, di credere in fole e utopie, religiose e politiche, dimostratesi non solo irrealizzabili (com’era prevedibile) ma portatrici di morti e di distruzioni (superiori in misura enorme al previsto). Credo che il cancro di cui è affetto l’Occidente (con le sue guerre a gogò avviate dalle potenze egemoni, con i suoi genocidi, stermini, attentati terroristici e quant’altro) potrebbe essere curabile solo se i suoi abitanti riprendessero l’abitudine di “pensare” (secondo l’insegnamento della filosofia presocratica e sofista) ai problemi dell’unica vita razionalmente credibile e, nei fatti, concreta e reale (quella terrena) e abbandonassero quella di “credere” nell’irrealtà di mondi fantasiosi (iperuranici, post-rivoluzionari  o ultra terreni). Purtroppo, sia nel Vecchio e sia nel Nuovo Continente, tutti appaiono totalmente  indifferenti alla ricerca delle cause di tanto sfacelo (che sembra non avere equivalenti nel resto del globo) e senza ricerca delle cause non v’è terapia immaginabile.


Camus


Un tentativo di approfondire il tema, sia pure soltanto sotto un aspetto limitato e particolare, è stato fatto da Albert Camus con L’homme révolté (L’uomo in rivolta) con la previsione che le ideologie (chiaramente sia di destra che di sinistra) a causa del loro carattere totalitario e con la pretesa giustificazione della violenza in nome di un fine superiore nonché del sacrificio dell’individuo per il bene collettivo, potessero trasformarsi in dittature a seguito di rivoluzioni politiche. Così come, aggiungo io, anche gli assolutismi di natura religiosa possono generare atti di terrorismo, governi fortemente autoritari e guerre sante. Ciò che Camus non ha considerato esplicitamente è che, anche senza giungere alla “patologia” e alla “degenerazione” della loro natura iniziale, gli assolutismi, ideologici e religiosi, attraverso i loro possibili incroci, innesti, coinvolgimenti reciproci, sono in grado di stravolgere, nella vita ordinaria e di apparente normalità quotidiana, la razionalità nel comportamento di una massa enorme di individui, condizionandone fortemente la  capacità di convivere nel rispetto della dignità e della libertà umana. 



In definitiva, io ritengo che non sia necessario attendere la comparsa della malattia degenerativa degli assolutismi ideologici e religiosi per cogliere il pericolo insito in ogni credenza utopica per sua natura “totalizzante”. In altri termini, anche senza i bubboni della peste nazista e comunista e quelli dei genocidi e stermini motivati dalla diversità religiosa la vita quotidiana in Occidente resta pur sempre “minata” e in grado di scoppiare da un momento all’altro per quanto “annacquate” e “innocue” possano apparire quelle ideologie in abiti cosiddetti democratici. L’irrazionalismo resta, nel profondo, e condiziona aprioristicamente ogni scelta anche sul più semplice dei problemi della res publica. (Si è a favore o contro a seconda della scelta del nemico irriducibile da combattere).


Blair

Trovo, cioè, che la nostra società contemporanea e di avanzata tecnologia si muova, in Occidente, in un clima di precarietà totale e di pericolo costante, oltre che nella confusione operativa di chi abbia un pensiero deviato dall’irrazionalità.
Per usare una terminologia tradizionale, pure essendo convinto che gli aggiornamenti lessicali, terminologici e concettuali richiedono, oggi, una tempestività diversa da quella in uso nei tempi andati potrei dire che viviamo in un clima “da basso impero”, anche se oggi non possiamo  riferirci all’esistenza di un’entità statale costituita da un esteso insieme di territori e/o di popoli diversi (per lingua, religione, origine etnica, usi e costumi) a volte anche molti lontani ma sottoposti ad un’unica autorità rappresentata da una persona fisica detta “imperatore”. Tale terminologia sarebbe certamente d’altri tempi e puzzerebbe di stantio ma nella sostanza esprimerebbe la situazione dell’Occidente, oggi, che esso costituisce una vasta aggregazione di Paesi egemonizzata dagli gli Stati Uniti d’America (con l’appendice del Regno di Gran Bretagna) dove tutto avviene per spinte del tutto irrazionali.



Concludo, dicendo che l’Occidente, lungi dall’esserne la culla, può rappresentare, in un futuro non so quanto prossimo o lontano, la tomba della libertà. 

E ciò per la ragione più volte detta e cioè che la sua cultura è solo un incrocio di assolutismi, astratti e intolleranti, di natura sia religiosa (monoteismi mediorientali) sia filosofica (hegelismo di destra e di sinistra, id est; fascismo e comunismo). La gente, naturalmente, ne attribuisce la causa a motivi diversi, indicati con stereotipi e parole prive del loro significato originario. E usa quei concetti desueti, blaterando di “neo-liberismo”, di danni del “capitalismo avanzato” del “populismo”, del “sovranismo”, di effetti della “globalizzazione” e di altre amenità, come armi contro presunti avversari politici, senza rendersi conto della loro inattualità e obsolescenza. Si usano tali, parole divenute prive del loro significato originario, non accettando che la realtà politica ed economica è talmente cambiata da richiedere un tipo di analisi prettamente filosofica e ben diversa da quella cui l’opinione pubblica è stata abituata, partendo dalla convinzione errata di vivere in un vero regime democratico. 



Se sul piano internazionale, c’è un blocco egemone anglo americano (con prevalenza del secondo termine sul primo) che elabora una politica definibile approssimativamente “pauperistica” che impone nei propri Paesi e in quelli dominati (quasi colonialmente) e che prescinde totalmente da indirizzi  scientifici di economisti, giuristi e altri uomini del sapere accademico, perché si sostanzia in una somma di provvedimenti idonei a tenere buono il “popolo bue”, proprio ed altrui, ciò è dovuto solo al fatto che la gente ha rinunciato a fare uso del suo raziocinio a ciò sospinta da prelati e ideologi. Questo blocco, al potere con continuità preoccupante, non crede più nell’alternanza e vagheggia una linea politica che è quella del Partito Democratico Americano e del Laburismo inglese, influenzato non a caso dal ritorno in auge di Tony Blair, consulente bene inserito nel sistema finanziario giudaico-americano.
 

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