UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

sabato 22 luglio 2017

LETTERA AGLI AMICI
di Angelo Gaccione


Sono arrivato al punto di non avere più tempo per me stesso; mi accorgo di essere finito in un vortice infernale che mi stritola. In fondo tutta la mia vita è stata così, sono appartenuto poco a me stesso e quasi per intero allo spazio pubblico che per me ha rappresentato, fin dal principio, un obbligo morale. Ho vissuto due vite in una. Ero giovane e non me ne rendevo conto, ma ora che le forze cedono, e riflettendoci con distacco, in questa notte affannata, mi convinco che di questo eccesso si può prematuramente morire. Oggi penso davvero che Calvino sia morto di questo eccesso. Quando anni fa mi sono recato sulla sua tomba a Castiglione della Pescaia, non ne ero consapevole, e come lo scrittore olandese Cees Nooteboom mi dicevo quanto fossero più vivi dei vivi certi morti.
Condannato dunque a questo eccesso? Ma come uscirne?
Da me non ci si aspetta che questo eccesso, questa indomabile vitalità. Lo considerano come un dato della mia natura, un dato quasi perenne, come se ad essere innaturale fosse il contrario di questo eccesso. Un eccesso permanente in grado di opporsi al dato spietato del tempo e del suo divenire.
Mi vogliono così perché senza questo eccesso non mi riconoscerebbero, ma io sento di aver dato tutto quello che potevo e che devo contenere quell’eccesso.
Lo devo a quanto resta di me, ai pochi veri affetti che mi circondano, e dunque devo contenere questa dissipazione.
Ho detto contenere l’eccesso, non rinunciarvi, perché avverto seriamente per la prima volta, il rischio concreto di una morte precoce.
[Milano, notte del 17 maggio 2017] 
AREZZO PER BERNERI
di Angelo Gaccione

La targa in ricordo di Berneri


Arezzo. È stata davvero una bella sorpresa percorrendo la via Guido Monaco, fra le Poste Centrali e il Teatro Petrarca, alla ricerca delle mie curiosità, sbucare davanti ad una scalinata, salirla e scoprire che era stata dedicata al rivoluzionario ed educatore libertario Camillo Berneri. Berneri è morto in Spagna, assassinato giovanissimo dai criminali stalinisti (vergogna eterna del comunismo) dove era accorso, come altri volontari internazionalisti, per dare man forte alla rivoluzione libertaria antifranchista. Era giusto che a questo intelligente intellettuale la città di Arezzo dedicasse una via, vi si era trasferito con la madre insegnante nel 1916 e vi aveva frequentato anche il liceo. Avendone parlato con l’amico Franco Schirone, storico del movimento libertario, ho saputo che fra i più appassionati promotori, perché tutto questo fosse possibile, c’era Giorgio Sacchetti. 


Camillo Berneri



Sacchetti è a sua volta uno storico del movimento libertario, nato a Castelfranco di Sopra, uno dei più belli borghi italiani, insegna da anni all’Università di Padova. Che splendido gesto, mi son detto, ecco gente che sa come si deve custodire la memoria. Sempre da Franco Schirone ho avuto il suo numero telefonico e naturalmente l’ho chiamato subito. Franco doveva avergli anticipato la mia telefonata, perché era già informato della mia intenzione di stendere questa nota, e ci siamo dati immediatamente del tu. Sacchetti mi ha raccontato come nel 2007 ad Arezzo, in occasione del settantennale della morte, il Comitato Berneri e l’Archivio Berneri avessero promosso un importante convegno internazionale sulla sua figura. 

lo storico Giorgio Sacchetti

In quella occasione era nata l’idea di fargli dedicare una via da parte del Comune. Il Comitato che si formò annoverava cittadini, studiosi, intellettuali e militanti di vari luoghi. Passarono tre anni, ma nel 2010, finalmente, fu apposta la targa con la dedica della scalinata di cui vedete qui le foto. Ci fu una vera e propria festa, allegra e piena di vino e di canti. Non ci crederete, ma questa targa per Berneri mi ha reso Arezzo molto più simpatica. 


APPARENTI BANALITÀ E GESTIONE DEL POTERE
di Franco Astengo


L’evidente crisi delle strutture formali ma anche della sostanza di quella che è stata definita “democrazia occidentale” porta con sé elementi di vera e propria involuzione nella gestione del potere politico, in relazione all’egemonia della tecnica e del prevalere dell’economia nella formazione delle decisioni collettive. Il processo di formazione delle decisioni appare così condizionato sempre più fortemente dal peso dell’intreccio tecnica (compresa quella relativa ai mezzi di comunicazione di massa e di nuova socializzazione virtuale) ed economia, attraverso cui si esprime una forte tendenza alla centralizzazione del potere e alla costruzione di soggettività politiche incentrate sulla figura del “Capo” e sviluppate attorno a quello che si è cercato di definire come “individualismo competitivo”.
 Appare necessaria , questo punto, una discussione proprio attorno al tema della concezione generale del potere e degli equilibri che è necessario mantenere in uno Stato democratico di diritto. A  questo proposito e a modesto giudizio di chi scrive è necessario riaprire una riflessione di fondo attorno al concetto di “potere”, alle forme e alle modalità di detenzione dello stesso, sulla distinzione tra “potere” e “governo” così come oggi può essere realizzata e vissuta nel mutamento di struttura dello Stato e di crisi della cosiddetta “democrazia occidentale”. La concentrazione dello sviluppo tecnologico in funzione quasi esclusiva della comunicazione mediatica, collettiva e individuale, ha portato a uno spostamento nella percezione di quello che può essere definito “immaginario del pubblico” incidendo fortemente sui meccanismi di accumulazione del consenso e di conseguenza di espressione del potere che si realizza così -appunto- attraverso l’immagine, al di là del campo di riferimento sia questo la politica, l’economia, lo spettacolo. Sono nati così fenomeni molto significativi che hanno dimostrato una crescita esponenziale del concetto di “personalizzazione” spinto quasi al limite del “divismo”, nel trionfo dell’apparire in luogo dell’essere e di una nuova forza dell’effimero nel nascondere la realtà complessa del potere reale.


Forse vale la pena riflettere al meglio su questi elementi di novità al fine di comprendere davvero ciò che sta accadendo attorno a noi. L’obiettivo dovrebbe essere quello di attrezzarci al meglio sul piano teorico: sicuramente, sotto quest’aspetto il concetto e la conseguente percezione esterna del potere sono mutati nella valutazione di larga parte dell’opinione pubblica, almeno in Occidente. Un elemento sul quale, con ogni probabilità, il fattore globalizzazione ha inciso in maniera inferiore rispetto ad altre tematiche come, invece, quelle riguardanti la finanziarizzazione dell’economia, la standardizzazione dei meccanismi comunicativi, l’apertura ai flussi di migrazione: tutti fenomeni che nell’ultimo ventennio hanno registrato un forte incremento nel loro peso specifico sulla realtà politica, economica, sociale. Nello sviluppo del pensiero umano il concetto di potere è sempre stato suddiviso in “comparti” (per così dire). Aristotele distingueva nella “Politica” tre tipi di potere in base all’ambito nel quale esso era esercitato: il potere dei padri sui figli, il potere dei padroni sugli schiavi, il potere dei governanti sui governati (vale a dire il potere politico in senso stretto).
In età moderna Locke riprese la classificazione aristotelica allorquando, aprendo il secondo dei suoi “Trattati sul governo”, ribadisce la distinzione tra il potere del padre sui figli, del capitano di una galera sui galeotti e del governante sui sudditi. Ancora Max Weber in “Economia e Società” distingue tra potere “costituito in virtù di una costellazione di interessi” (dunque il potere specificatamente economico) e il potere costituito in virtù dell’Autorità, includendo in questo il potere del padre di famiglia, dell’ufficio o del potere del principe. Nella modernità attorno al concetto di potere abbiamo trovato espressi fattori come potenza, forza, influenza tutti utilizzati al fine di realizzare il condizionamento sociale per trovare obbedienza a un comando che contenga un determinato contenuto.


Su queste basi era maturato il concetto fondamentale di separazione dei poteri (Locke, Montesquieu, Sieyès) destinata a diventare il cardine dello Stato di diritto. In particolare l’abate Sieyès, con la sua teorizzazione dei rapporti tra potere costituente e poteri costituiti, pone le basi per la teoria moderna della Costituzione. Il testo della Costituzione deve essere così inteso come atto normativo mirante a definire e disciplinare la titolarità e l’esercizio del potere sovrano. Da questa concezione del potere e del suo esercizio che, a questo punto, potrebbe essere definita come “classica” è derivata concretamente l’attuazione del principio della separazione dei poteri: tra potere legislativo e potere esecutivo da un lato, e tra potere giudiziario e potere legislativo dall’altro.
Su queste basi prendeva corpo l’idea della centralità del Parlamento, che sovraintende -tra l’altro- all’intero impianto istituzionale previsto dalla Costituzione Italiana del 1948.
Oggi, non soltanto in Italia, questo schema si sta rapidamente modificando.
Lo Stato legislativo ha ormai lasciato il posto allo Stato governativo che produce una sorta di “inflazione normativa” nella forma di decreti e decisioni particolaristiche (è sufficiente esaminare il lavoro del Parlamento Italiano nel corso degli ultimi trent’anni).
Nello stesso tempo la Magistratura ha svolto sempre di più funzioni di supplenza al riguardo della determinazione degli equilibri politici e degli stessi orientamenti legislativi, intervenendo addirittura su temi di diretta pertinenza al riguardo delle fonti stesse di legittimazione delle sedi legislative: si pensi al tema della legge elettorale.
Inoltre i confini del potere politico appaiono confusi rispetto a quelli del potere economico: su questo punto è avvenuto, sempre per restare nell’ambito dell’Occidente e ancor più in specifico del “caso italiano”, una surrettizia (e non completata) “cessione di sovranità” verso le istituzioni monetarie e finanziarie dell’Unione Europea (queste, tra l’altro, prive di una legittimazione politica complessiva che è proprietà soltanto del Parlamento Europeo, provvisto però di una capacità d’incidenza concreta molto limitata).


Uno spunto di riflessione ulteriore può essere suggerito, a questo punto, da un aggiornamento d’analisi al riguardo della teoria della “microfisica del potere” elaborata a suo tempo da Michel Foucault per rispondere proprio all’evidenziarsi di quella “confusione tra i poteri” cui si è appena accennato. La teoria del filosofo francese considera il potere come una risorsa che circola attraverso un’organizzazione reticolare. Si tratta di un punto sul quale l’analisi non si è ancora soffermata abbastanza a fondo e che vale la pena riprendere all’interno di una riflessione dettata dall’attualità di questi giorni. Una riflessione sulla folle corsa che la modernità impone alla ricerca di un verticismo assoluto nella detenzione del potere, nell’assolutismo dell’io come essere esaustivo della finalità umana come punto di ricerca dell’assolutismo politico. Emerge un contrasto evidente, si sente uno stridore terribile proprio tra questa ricerca della verticalità del potere assoluto e l’orizzontalità piatta dello scorrere della vita umana. Un’orizzontalità perenne, che si perpetua nonostante le deviazioni improvvise che un itinerario di vita trova strada facendo. Questi frangenti impongono di tornare a riflettere proprio sull’appiattirsi delle relazioni, sull’impossibilità di riconoscere un ordine e un comando che appaiono inutili nel loro vano dimostrarsi. L’orizzontalità dell’essere reclama il collettivo, il “noi”, e respinge l’io. Il potere non si concentra più al vertice ma si disperde nella società attraverso gli individui: è la tesi della “inflazione del potere” cui Luhmann risponde considerandola come fonte dell’ingovernabilità con la teoria della riduzione del rapporto tra politica e società, e di conseguenza con una sorta di ritorno a forme “decisionistiche” di tipo quasi assolutiste La presa d’atto, in sostanza, della necessità di un potere sovraordinato rispetto al venir meno di confini netti tra potere economico, politico, ideologico, tra poteri costituenti e poteri costituiti oppure ancora tra esecutivo, legislativo, giudiziario. Sorge però a questo proposito una domanda cruciale: come potrà costituirsi, nel concreto, questo potere sovraordinato? Una possibile risposta può venire proprio dall’analisi dell’attualità del caso italiano. La risposta può venire dalla finzione, dalla messa in scena di un potere esclusivamente immaginario esercitato in via personale da un attore capace di interpretare il flusso degli strumenti mediatici (orientati, tra l’altro, sempre più verso il consumo individuale di notizie e di fittizi rapporti sociali e di trasmissione di idee). Una finzione, quella attuata prima da Berlusconi e adesso da Renzi e dai suoi epigoni e/o apparentemente avversari ma in realtà appartenenti alla stessa famiglia politica.


Una finzione sulla quale l’opinione pubblica si adagia avendo introiettato sul piano culturale l’idea della governabilità quale sola sponda possibile per l’esercizio della funzione politica e ricevendo in cambio il “via libera” a una sorta di “anarchismo diffuso” sul piano sociale esplicitato nell’assenza di regole e nel ritorno alla possibilità di esercitare una sorta di “potere privato” su chi s’incontra sulla nostra strada in posizione subalterna.
Una nuova concezione del potere : “di finzione” sul piano del pubblico e “privato” nella concezione, ormai apparentemente egemone, dell’individualismo quale sola fonte di rapporto verso gli altri. L’interrogativo alla fine è questo: quanto tempo potrà reggere questa finzione? Che tipo di replica potrà verificarsi al momento del suo disvelamento? Torno su argomenti già esaminati proprio in questi giorni in una riproposizione che mi pare urgente e di bruciante attualità. Sarà difficile, al momento proprio del disvelamento della finzione, evitare un rinnovamento del nichilismo, come forma estrema della propria soggettiva affermazione di fronte alla “collettività del dramma sociale”.
Costruire un’alternativa sarà compito lungo e arduo: avremo bisogno soprattutto di motivare un senso, un indirizzo, un destino, sfuggendo alla banalità dell’ovvio, alle litanie delle inutili alternanze. Emerge così una nuova qualità della contraddizione governanti/governati con una sostanziale ridislocazione del potere nella definizione delle regole: sarà bene tenerne conto fino in fondo nella progettazione di un possibile divenire politico.

*Per redigere questo testo sono stati consultati: Max Weber “Economia e Società”, Milano 1974; Michel Foucault “Microfisica del potere” Torino 1977, Niklas Luhmann “Potere e complessità sociale” Milano 1979, Roberto Esposito e Carlo Galli, “Enciclopedia del pensiero politico”, Roma-Bari 2005.



PETIZIONE AL MINISTRO DEGLI INTERNI
PROMOSSA DA PISA DA GRABRIELE DE ANGELIS

Ministro degli Affari Interni: Impedire il reintegro nella polizia
degli autori delle violenze di Genova (G8 2001)


Alla cortese attenzione del Ministro degli Affari Interni, Dott. Marco Minniti
Caro Signor Ministro,
Sarà certamente di Sua conoscenza che nel mese di luglio 2017 sono scaduti i termini della sospensione dai pubblici uffici comminata ad alcuni degli ufficiali protagonisti di violenze, lesioni, sequestro di persona, costruzione di prove false, falsificazione di verbali: in breve, di quella che uno stesso funzionario definì una "macelleria messicana". Una serie di gratuite violenze e violazioni dei più elementari diritti che durante e dopo il G8 di Genova del 2001 rese un'importante porzione le nostre forze dell'ordine tristemente famosa nel mondo - una fama certamente non mitigata dalle lentezze giudiziarie e processuali, dalle carriere e promozioni, nonché dalle assoluzioni morali che larga parte della nostra classe politica accordò ai maggiori responsabili di quegli eventi, dimostrando così la fragilità dello Stato di diritto e la precarietà del rispetto dei diritti fondamentali nel nostro Paese.
È notizia di questi giorni, Signor Ministro, che alcuni di costoro, i cui nomi sono facilmente reperibili sui quotidiani, ma che gradiremmo che Lei, dall'alto della Sua posizione, ci confermasse, potrebbero ora essere reintegrati nel servizio di Pubblica Sicurezza. Altri non lo hanno mai lasciato.
La Sua immaginazione Le dirà, Signor Ministro, l'impressione che tutto ciò fa sui cittadini e le cittadine del nostro Paese (per tacere dell'estero), il senso di sconcerto, di disorientamento, di insicurezza proprio di fronte a coloro che la nostra sicurezza dovrebbero garantire, la coscienza dell'arbitrio impunito che ha caratterizzato questa vicenda in tutte le sue fasi, e infine il silenzio di coloro che, con responsabilità di governo, dovrebbero vigilare e far sì che i diritti e il Diritto (il diritto sostanziale, Signor Ministro, non il diritto formale e cavilloso che vediamo all'opera in questa triste faccenda) regnino nel nostro Paese.
Siamo certi, Signor Ministro, che Lei abbia ben presente la portata e il significato dell'eventuale reintegro di queste persone nelle forze di polizia, nonché la permanenza nelle stesse di coloro che una giustizia manchevole e un'opera carente dei governi mai ha colpito con i dovuti provvedimenti.
Siamo altresì certi, Signor Ministro, che Lei vorrà rassicurare i cittadini e le cittadine di questo Paese del fatto che mai e poi mai un tale reintegro diventi reale, né adesso né, per quanto è in Suo potere, in futuro.
Con un cordiale augurio di buon lavoro, i/le sottoscritti/e cittadini/e
Firma la petizione
https://www.change.org/p/ministro-degli-affari-interni-impedire-il-reintegro-nella-polizia-degli-autori-delle-violenze-di-genova-g8-2001/sign?utm_source=action_alert_sign&utm_
RIUNIONE COORDINAMENTO NAZIONALE AMIANTO

Un momento della riunione

Si è svolta  in data 20/21 luglio 2017 nei locali del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi  di Lavoro e nel  Territorio di Sesto San Giovanni , la riunione del Coordinamento Nazionale Amianto per esaminare e discutere la bozza del DDL N. 2602 (Testo Unico in materia d’amianto) elaborato su iniziativa della commissione d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro e malattie professionali . Erano presenti le seguenti associazioni: AEA di Bologna; EARA di Trieste; ContrAmianto di Taranto; AICA di Savigliano CN; Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio di Sesto San Giovanni, Comitato Permanente Esposti Amianto e Ambiente di Milazzo, Gruppo Aiuto Mesotelioma di Lecco, un rappresentante SI Cobas del Piccolo Teatro di Milano;  Sportello Amianto.
Sulla base delle osservazioni inviate da altre associazioni e in base alla discussione dei presenti rappresentanti delle Associazioni, emerge quanto segue.
La nostra valutazione è  assolutamente negativa in quanto il T.U. non rispecchia quanto negli anni richiesto dalle Associazioni e Comitati delle vittime; costituisce un arretramento rispetto ad alcune normative vigenti conquistate.
In particolare il nostro giudizio negativo si incentra su:
1.Ruolo dell’INAIL per il suo evidente conflitto di interessi, essendo sia ente accertatore delle malattie professionali che ente erogatore; quindi noi chiediamo che sia un altro ente ad accertare e certificare le malattie professionali.
2.Il TU non specifica la necessità di un protocollo di sorveglianza sanitaria nazionale, cosa che ha già dato luogo a grandi sperequazioni tra regione e regione, provincia e provincia, con gravi danni per i lavoratori coinvolti; la nostra richiesta è quindi un protocollo nazionale uguale per tutto il paese;
3.Il TU mantiene l’ammissibilità del limite delle 100 fibre litro per l’esposizione all’amianto; noi chiediamo invece che si operi per giungere al rischio zero; per noi “Amianto zero = rischio zero”;
4.Per quanto riguarda il tema della giustizia verso le vittime dell’amianto e non solo, noi chiediamo:
a) abolizione dei termini della prescrizione per i procedimenti che li riguardano;
b) esenzione e abolizione del contributo unificato indifferentemente dal reddito sia per i ricorsi
previdenziali ed assistenziali che per i risarcimenti danni;
c) modifica delle norme procedurali relative all’onere probatorio a tutela vittime;
d) gratuito patrocinio per tutti i soggetti ed esenzione dalla condanna alle spese processuali e legali in caso di sentenza negativa o di rigetto.
Per questi motivi le Associazioni ritengono necessario svolgere alcune iniziative di lotta per rivendicare un’equa giustizia per le vittime. Sui punti di cui sopra chiederemo quindi un incontro alla Commissione che ha redatto il TU
Inoltre, in considerazione delle numerose sentenze di assoluzione dei responsabili della morte di centinaia di lavoratori e della reiterata negazione dei diritti degli esposti ed ex esposti, chiederemo quindi anche un incontro urgente al Ministro della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura.   
AEA di Bologna ; EARA di Trieste ; ContrAmianto di Taranto ; AICA di Savigliano CN ; Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio di Sesto San Giovanni , Comitato Permanente Esposti Amianto e Ambiente di Milazzo , Gruppo Aiuto Mesotelioma di Lecco , un rappresentante SI Cobas del Piccolo Teatro di Milano;  Sportello Amianto.  
ATTENZIONE: ATTACCO ALLA PRIMA PARTE DELLA COSTITUZIONE
di Franco Astengo


L’illustre professor Panebianco questa mattina, 21 luglio 2017, dalle colonne del Corriere della Sera sferra un duro attacco alla prima parte della Costituzione: un attacco molto serrato quasi da far pensare a una nuova stagione di tentativi di deformazione costituzionale come quella che abbiamo appena terminato di trascorrere con il voto vittorioso del 4 dicembre 2016. Nell’occasione si prende a pretesto la proposta della “flat tax” (aliquota fiscale unica al 25%) considerandola la panacea di tutti i mali anzi il provvedimento che, secondo l’autore “darebbe una frustata così vigorosa alla nostra economia da farla ripartire al galoppo dopo decenni di alternanza, tra stagnazione, recessione e bassa crescita”.
Ma c’è un però sulla strada dell’applicazione di questo possibile miracolo: ed è la Costituzione, retro gradatamente socialista secondo il giudizio JP Morgan, che indulge nel difendere un’antistorica progressività della tassazione (L’articolo 53 della Costituzione della Repubblica Italiana recita: Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. E aggiunge: Il sistema tributario è informato a criteri di progressività). Un ostacolo messo lì da un testo costituzionale  che prevede una “Repubblica fondata sul lavoro”, definizione frutto di un “compromesso fra alcune forze (democristiani, socialisti, comunisti) che all’epoca non brillavano per adesione ai principi liberali. Era una Costituzione adatta a qualsiasi uso. Servì ad ancorare l’Italia al mondo Occidentale dopo la vittoria democristiana sui social comunisti nelle elezioni del 1948 ma avrebbe potuto diventare, senza bisogno di revisioni, la carta fondamentale di una “democrazia popolare” se i social comunisti avessero vinto”. Panebianco si è interrogato: “I risultati del referendum costituzionale hanno messo fuori gioco per chi sa quante generazioni la possibilità di riformare la seconda parte della Costituzione 
(essersi mossi su quel terreno è giudicato , da parte del professore, un grave errore da parte dei “riformisti”). Perché allora non cominciamo a discutere della prima? E’ sicuro, tanto per fare un esempio, che la nostra convivenza civile ci rimetterebbe se la nostra Repubblica, anziché essere fondata sul lavoro fosse fondata sulla libertà? E’ sicuro che se il diritto di proprietà, anziché essere relegato tra i cosiddetti “interessi legittimi” fosse riconosciuto fra i diritti fondamentali, quelli su cui poggia la libertà, ce la passeremmo peggio?”. E conclude: “Magari, chissà? Sarà la discussione sulla flat tax che, finalmente, costringerà molti a trattare meno acriticamente i principi costituzionali su cui si regge la Repubblica. E in precedenza aveva scritto: “Forse è arrivato il momento di chiedersi se non sia il caso di intervenire col bisturi sulla prima parte della Costituzione, sui famosi principi”.



Mi pare inutile segnalare, verso chi si è battuto per la difesa della Costituzione nell’occasione dell’ultima tornata referendaria, la pericolosità di queste affermazioni, vero e proprio preludio a un attacco in grande stile attraverso il dibattito sulla flat tax (che qualcuno già pronostica come il vero e proprio “oggetto del contendere” della prossima tornata elettorale legislativa, assieme alla questione dell’Europa). In molti, nel corso dei tanti anni di lavoro in difesa del dettato Costituzionale ( tre occasioni: Bicamerale D’Alema, progetto Berlusconi, deforma renziana) avevamo tentato di segnalare la delicatezza dell’intreccio tra seconda parte (che veniva messa in discussione nelle occasioni citate) e prima parte (fintamente, in quei casi, ritenuta intangibile). Adesso arriva, dalla prima pagina dell’antico “Corriere dello Zar” l’attacco diretto. Occorre avere consapevolezza di questo stato di cose, a partire dalla mancata risposta politica al voto del 4 Dicembre, e attrezzarsi all’evenienza senza ritardi, sottovalutazioni, tentennamenti. La lettura di quest’articolo di Panebianco non deve lasciare dubbi: la difesa integrale della Costituzione Repubblicana rimane l’imperativo prioritario per tutti i conseguenti democratici e per la sinistra italiana (che deve considerare questo punto “l’ubi consistam” della sua possibile ricostruzione come soggetto politico). Una difesa che è necessario principi da un altro elemento messo in discussione nell’articolo citato: quello della coerenza tra il sistema elettorale proporzionale e il testo Costituzionale.
IL 28 LUGLIO A BORMIO

La locandina dell'evento

venerdì 21 luglio 2017

DAL PD AL PD (R): TRACCE DI MUTAZIONE GENETICA
di Franco Astengo



Per quel che è diventato il Partito Democratico, potremmo dire quello che Aristotele dice nella Grande Etica: “Come sono i princìpi, così è ciò che ne deriva” [A.G.]

In molte occasioni l’uso di affermazioni riguardanti lo spostamento nel sistema di valori e di posizione politiche all’interno di partiti e movimenti non appare suffragato da concreti elementi di analisi e di riferimenti valoriali. Questo fatto è sicuramente accaduto anche nelle frequenti denunce di “spostamento a destra” del PD, in coincidenza con l’assunzione della segreteria da parte di Matteo Renzi da parte di una molteplicità di osservatori e commentatori politici appartenenti all’area della sinistra: affermazioni infittitesi in particolare durante la campagna elettorale referendaria dello scorso 4 Dicembre e giustificate, prima ancora di un’analisi riferita alla composizione interna del partito, da una valutazione riguardante il merito di quelle che sono state definite “deforme costituzionali” che si accompagnava, è bene ricordarlo, a un progetto di legge elettorale di stampo maggioritario smantellato poi, in buona parte, da una sentenza della Corte Costituzionale. Disponiamo oggi, invece, come probante pezza d’appoggio di una ricerca eseguita sul campo da due ricercatori, Luciano M. Fasano dell’Università di Milano e Nicola Martocchia Diodati della Normale, e pubblicata nel n.1 dei “Quaderni di scienza politica” Aprile 2017 (Erga edizioni) che affronta il tema: “Dal PD nascente di Veltroni al PD secondo Matteo Renzi, trasformazione di un partito politico (2007 – 2015). Si tratta di un’indagine condotta tra i partecipanti alle primarie e ai membri dell’Assemblea Nazionale del PD compiute quando ancora la “scissione” di Articolo 1- MDP non era stata compiuta e quindi, per semplificare, i sostenitori di Bersani e D’Alema erano ancora interni al Partito Democratico (un particolare questo non secondario: i dati espressi nella ricerca risulterebbero sicuramente alterati in una direzione univoca nel caso di ripetizione nell’attualità).
Il primo dato da analizzare riguarda il cambiamento avvenuto nella dichiarazione dei partiti di provenienza da parte dei delegati all’Assemblea Nazionale tra il 2007, 2009, 2013 (fase di consolidamento di un nuovo gruppo dirigente del quale oggi assistiamo alla presa in carico di esponenti legati -appunto- al loro ingresso nell’organismo nazionale proprio in questo periodo). Sotto quest’aspetto i dati indicano come nel 2007 i membri dell’Assemblea Nazionale provenienti dalla Margherita rappresentassero il 26,2% del totale, quelli provenienti dai DS il 43,4% e quelli senza provenienza partitica (o da altre formazioni rispetto a quelle di origine “storica”, PSI, Radicali, centrodestra, SeL) il 30,4%.
Nel periodo tra il 2007 e il 2009 (primarie che registrarono l’elezione di Bersani a segretario sopravanzando Franceschini e Marino) i provenienti dalla Margherita salirono al 33,4% e quelli provenienti dai DS al 44,8% (evidentemente le correnti di origine avevano lavorato sodo) mentre quelli privi di provenienza storica scendevano nettamente al 21,8%.
Netta inversione di tendenza nel 2013 (elezione di Renzi su Cuperlo e Civati): i delegati provenienti dalla Margherita scendono al 21,4% (- 12% tra il 2007 e il 2013), quelli provenienti dai DS al 34,7% (- 10,1% tra il 2007 e il 2013) mentre salgono in percentuale i “senza provenienza” (con prevalenza al loro interno dei “nativi democratici” fino al 43,9% (un incremento nei sei anni di intervallo del 22,1%). Gli estensori della ricerca definiscono questo fenomeno, coincidente con la crisi del post-elezioni 2013 con relativo mancato “smacchia mento del giaguaro”, come un vero e proprio “assalto alla diligenza” di stile duvergeriano (che prese spunto dal famoso telegramma di Giolitti a De Bellis): e non si può non concordare con questa affermazione. Fin qui però siamo nel campo dello spostamento di truppe e del quadro ufficiali con relativi fenomeni opportunistico-trasformistici. Molto più interessante al fine del giudizio complessivo che è necessario formulare sulla collocazione effettiva del PD (nel frattempo diventato PDR secondo la definizione di Ilvo Diamanti) è l’analisi delle priorità valoriali espresse dai delegati appartenenti alle diverse correnti.
A questo punto, infatti, si registra una netta cesura tra l’espressione di valori collettivi e di valori di tipo individualistico. Nelle due tornate di elezione del segretario e dei membri dell’Assemblea Nazionale prese in esame mentre il valore “eguaglianza” supera il 60% tra i delegati delle correnti Bersani, Civati, Cuperlo (rispettivamente 64,41%, 71,74%, 64,29%) il valore “merito” (di assoluto stampo individualistico) raggiunge il 45,81% tra i sostenitori di Renzi e il 36,36% in quelli di Franceschini. Quindi con un innalzamento secco nel passaggio di consegne tra i due candidati provenienti dalla Margherita (Renzi a questo punto era anche già reduce dal famoso “colloquio di Arcore” nella sua veste di sindaco di Firenze). Uno spostamento secco che ha il suo effetto anche sul complesso dell’espressione di collocazione valoriale delle mozioni nel periodo 2009 - 2013: nella mozione Renzi i valori individuali salgono a 8/1 mentre quelli collettivi in quelle di Cuperlo e Civati si collocano attorno ai 9/10.
I ricercatori concludono quindi con un’affermazione complessiva che ricalca, per sommi capi, quella espressa da molti commentatori in occasione della campagna referendaria 2016:”l’ispirazione complessiva degli eletti nella lista Renzi mostra una più marcata tendenza liberale collocandosi in una visione estrema sia sui valori individuali, in positivo, sia sui valori collettivi in negativo (da parte di chi ha redatto queste note d’interpretazione della ricerca c’è da aggiungere anche una certa confusione, nell’area di sostegno di Matteo Renzi, tra il concetto di “merito” e l’espressione di “arroganza”).
Per il PD, sempre a giudizio degli estensori della ricerca, si è aperta – almeno dal 2014 – una nuova stagione: una fase politica assolutamente singolare e del tutto inedita che potrebbe, già nel medio termine. Contribuire significativamente al definitivo distacco del PD dagli orientamenti valoriali, culturali e politici delle due tradizioni da cui ha avuto origine, quella social-democratica e quella cattolico-democratica. Mentre diminuiscono le ragioni dello stare insieme delle diverse componenti che non siano quelle del puro e semplice potere da spartire appare evidente, a questo punto, come si allarghino gli spazi di riferimento al di fuori del PD(R) proprio per via di questo evidente spostamento di carattere politico-culturale. Non mancano però  le contraddizioni da parte di chi -appartenente alle tradizioni storiche d’origine- si colloca ormai fuori o “a lato” del partito. In politica, non dimentichiamolo, non esistono vie “piane come la prospettiva Nievskij”. Probabilmente l’occupazione dello spazio lasciato libero (fenomeno fisiologico nella dinamica politica) potrà essere produttivamente occupato da soggetti capaci di rinnovare le proprie opzioni strategiche esprimendo coerenti sistemi di tipo valoriale. 
La riflessione da aprire è sull’intreccio tra l’espressione di valori collettivi e le nuove contraddizioni che si esprimono nel tumulto della modernità: un’operazione non facile, anzi assai ardua soprattutto nella capacità di espressione di un pensiero alternativo e di profonda trasformazione sistemica. La ricerca però presenta due limiti importanti: non richiede, una volta espressa la “tavola dei valori” alcuna indicazione sul sistema di alleanze e non propone una visione delle relazioni internazionali del partito. Evidentemente il clima politico nel quale è stata svolta risentiva dell’idea dell’autosufficienza di stampo renziano (fattore ben diverso dalla conclamata “vocazione maggioritaria) del resto ben espressosi nel fallito tentativo dell’Italikum e del provincialismo che attanaglia il quadro politico europeo in particolare alla sinistra, nonostante l’altrettanto proclamato europeismo. Europeismo che, naturalmente svanisce, come sta accadendo in questi giorni attorno alla drammatica vicenda dei migranti, al riguardo della quale la sinistra europea nelle sue varie articolazioni  si sta squagliando come accadde al tempo dei “crediti di guerra” oltre un secolo fa.



giovedì 20 luglio 2017

A CASTAGNETO CARDUCCI CON CASSOLA
LIBRI ALLA GOGNA
Domenica 23 Luglio alle ore 21 Angelo Gaccione
converserà in piazza della Gogna sul libro:
“Cassola e il disarmo. La letteratura non basta”.



La locandina del programma

LA LEGALITÀ REPUBBLICANA E LA CLASSE OPERAIA
di Franco Astengo


A 16 anni dal G8 di Genova: un ricordo del 9 gennaio 1950.

Il previsto reintegro in servizio di una buona quota dei poliziotti responsabili delle tragiche vicende legate al G8 di Genova 2001 (oltre alle posizioni assunte da altri attraverso le nomine negli Enti di Stato come nel caso di Gianni De Gennaro) rappresenta l’ennesima, profonda, irreversibile incrinatura tra gli apparati dello Stato, in particolar modo della Polizia, e la vita sociale, civile, culturale, economica del Paese. Una situazione storica non certo risolvibile con le scuse postume e inutili del prefetto Gabrielli, mentre nessuno di lorsignori, Ministri e Prefetti di Polizia, ha mai pensato di rivolgere una parola di ricordo agli operai uccisi nei tanti conflitti a fuoco durante gli scioperi degli anni ’50 e ’60.
Un’incrinatura che ha una storia lunga e passaggi molto aspri il cui elenco risulterebbe molto lungo da compilare: basterà ricordare Piazza della Fontana e il volo di Pinelli, Ustica e quant’altro.
Il G8, la Diaz, la “macelleria messicana” un altro di questi passaggi, una ferita aperta che oggi rincrudisce con questa aberrante storia del reintegro. La legalità repubblicana nel rapporto tra la Polizia e il Paese però fu messa in discussione da subito, nell’immediato del post Liberazione. Prima di tutto con il reintegro (altro che quello che dovrebbe avvenire adesso) dei funzionari fascisti, compresi alcuni incriminati per crimini di guerra avvenuti specialmente nel territorio della ex Jugoslavia: testimonia di questo inaccettabile stato di cose il volume di Davide Conti “ Gli uomini di Mussolini: prefetti, questori, e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica Italiana” uscito poco tempo fa per Einaudi. Volume cui si rimanda per gli opportuni approfondimenti. Successivamente con l’allontanamento dei Prefetti nominati dal CLN. Soprattutto la rottura immediata tra gli apparati dello Stato e buona parte della società italiana avvenne con la classe operaia e i contadini attraverso la repressione che negli anni’40- ’50 si verificò al momento dell’occupazione delle terre e degli scioperi in difesa delle fabbriche colpite dal processo di riconversione dell’industria bellica. Per il movimento operaio la prima metà degli anni '50 costituì quello che in seguito sarà conosciuto come gli anni duri. Gli imprenditori mossero un prolungato attacco al potere sindacale che si era sviluppato negli anni immediatamente successivi alla Resistenza e alla Liberazione.


I licenziamenti di massa furono all'ordine del giorno in ogni grande fabbrica e contemporaneamente furono silurati gli attivisti più conosciuti. Quando il miglioramento economico creò una nuova richiesta di forza-lavoro, gli imprenditori assunsero lavoratori anagraficamente giovani, spesso provenienti dalla campagna, sicuramente troppo distanti cronologicamente per avere partecipato alle lotte del 1943-1947.
Le piccole fabbriche erano in aumento e furono libere di imporre le proprie condizioni sui livelli salariali, sulla sicurezza e sul pagamento dei contributi. Questa offensiva padronale fu intimamente legata a un clima di esplicita repressione politica fomentata dalla guerra di Corea, che aveva drammaticamente acuito la divisione politica interna e mostrava comunisti e socialisti come nemici e traditori della causa della democrazia e della libertà. Gli USA erano ancora visti come integrali difensori di questi sacri valori e le contestazioni del conflitto vietnamita dovevano ancora venire.


Tra il 1949 e il 1951 il PCI, il PSI e la CGIL rischiarono seriamente di essere messi al bando e la repressione poliziesca in tutta Italia fu devastante. Eppure i più gravi tormenti per le classi popolari non venivano dalla repressione politica o dall'offensiva padronale ma dalla disoccupazione di massa e dalla miseria: Nel 1951 si contavano più due milioni di disoccupati.
I caratteri e l'estensione di questa privazione vennero dettagliatamente descritti nell'inchiesta parlamentare sulla povertà: quindici volumi, pubblicati nel 1953, che tinsero di nero un quadro già parecchio scuro. Il 12 ottobre 1951 la Camera dei Deputati deliberava un'inchiesta parlamentare «sulla miseria e sui mezzi per combatterla»; parallelamente veniva avviata anche un'inchiesta sulla disoccupazione. 


Per vent'anni, il regime fascista aveva abolito lo studio e il dibattito sui problemi sociali: le due inchieste -come scrive Paolo Braghin segnavano il ritorno del Parlamento a una tradizione prefascista di indagini svolte dal potere legislativo sulle realtà economiche e sociali del nostro paese: tradizione che aveva prodotto i risultati più brillanti con l'inchiesta di Stefano Jacini sull'agricoltura. Avvennero gravissimi episodi in occasione di scioperi e di iniziative contadine: Melissa, Montescaglioso.
Nel solo 1948 l’anno del 18 Aprile sono 17 i lavoratori uccisi, centinaia i feriti, 14.573 arrestati: tra essi 77 segretari di Camera del Lavoro. L’impiego della polizia nelle vertenze sindacali è una prassi costante. L’episodio simbolo di quel periodo rimane però l’eccidio di Modena del 9 Gennaio 1950 Si dedica a un ricordo di quelle vittime una ricostruzione dei fatti a monito quanto mai attuale di quella frattura della legalità repubblicana da parte della Polizia cui più volte ci siamo richiamati. Una frattura con la parte più nobile, avanzata, politicamente impegnata dell’Italia di allora: la classe operaia verso la quale va ancor oggi il nostro commosso riconoscimento per aver difeso, in quelle circostanze e pagando prezzi di sangue, la democrazia appena conquistata con la lotta di Liberazione.


Questa la cronaca di quella giornata, veramente fatidica nella storia d’Italia.
Poco dopo le dieci di mattina una decina di lavoratori si trovavano all’esterno della fabbrica vicino al muro di cinta, cercando di parlare con i carabinieri schierati. Un carabiniere sparò con la pistola, a freddo, uccidendo Angelo Appiani [30 anni, partigiano, metallurgico] colpito in pieno petto. Immediatamente dal terrazzo della fabbrica altri carabinieri spararono con la mitragliatrice sulla folla di lavoratori che si trovava sulla Via Ciro Menotti oltre il passaggio a livello chiuso per il transito di un treno.
Arturo Chiappelli [43 anni, partigiano, spazzino] e Arturo Malagoli [21 anni bracciante, la cui sorella Marisa fu poi adottata da Nilde Iotti e Palmiro Togliatti] vennero colpiti a morte, molti furono feriti, alcuni gravemente. La gente scappava, cercava riparo dai colpi della mitraglia che continuava a sparare, altri cercavano di assistere i feriti con medicazioni improvvise e li trasportavano al riparo.
Roberto Rovatti [36 anni, partigiano, metallurgico] si trovava in fondo a Via Santa Caterina, vicino alla chiesa, dal lato opposto e distante 500 metri dai primi caduti, aveva una sciarpa rossa al collo. Mezz’ora era passata dalla prima sparatoria veniva circondato da un gruppo di carabinieri scaraventato dentro un fosso e massacrato con i calci del fucile, un linciaggio mortale.
Ennio Garagnani [21 anni, carrettiere] veniva assassinato in Via Ciro Menotti dal fuoco di un’autoblinda che sparava sulla folla. Lo sciopero generale partì spontaneamente appena si diffuse la notizia del massacro. Un’automobile della Cgil con l’altoparlante avvertiva i lavoratori di concentrarsi in Piazza Roma.
Poco dopo mezzogiorno Renzo Bersani [21 anni metallurgico] attraversava la strada a piedi, in fondo a Via Menotti, all’incrocio con Via Paolo Ferrari e Monte grappa, un graduato dei CC distante oltre un centinaio di metri si inginocchiò a terra, prese la mira col fucile e sparò per uccidere. Sei lavoratori assassinati, 34 arrestati, i numerosi feriti trasportati in ospedale vennero messi in stato di arresto, piantonati giorno e notte e denunciata alla magistratura per «resistenza a pubblico ufficiale, partecipazione a manifestazione sediziosa non autorizzata, attentato alle libere istituzioni per sovvertire l’ordine pubblico e abbattere lo Stato democratico». 


Era questa l’Italia “democratica” ricostruita dopo il fascismo da padroni e democristiani. Ricostruita sulla pelle dei proletari e dei lavoratori che venivano sfruttati ferocemente nelle fabbriche e nei campi e, quando si ribellavano, venivano massacrati nelle piazze. Ma cosa stava succedendo a Modena e nel resto del paese in quegli anni? Era in corso dal 1948 una reazione padronale per azzerare la forza dei lavoratori nelle fabbriche e la tenuta dei sindacati e partiti di sinistra, una forza costruita nella resistenza e nell’immediato dopoguerra.  I padroni volevano abbassare il costo del lavoro e aumentare la produttività per orientare la produzione verso l’esportazione. Gli strumenti che usarono: la serrata e i licenziamenti collettivi e selettivi per ridurre il potere contrattuale dei sindacati e delle commissioni interne, l’aumento del ventaglio retributivo, salario sempre più legato alla produzione (cottimo e premio di produzione differenziato), intervento della polizia per sciogliere i picchetti e le manifestazioni; scioglimento dei “Consigli di Gestione”.
Nella città di Modena nei due anni 1947-49, ben 485 partigiani furono arrestati e processati per fatti accaduti durante la lotta di liberazione. 3.500 braccianti arrestati e denunciati per occupazione delle terre; 181 volte la polizia intervenne nei conflitti di lavoro.
Le maestranze delle Fonderie Riunite, con 480 lavoratori – la metà erano donne- nel 1943 parteciparono agli scioperi contro la guerra e per il pane. Dopo la “liberazione” i padroni “tornano proprietari”, è questa la scelta democristiana. Anche il padrone delle Riunite, il fascista Adolfo Orsi amico di Italo Balbo.


Orsi è padrone non solo delle Riunite, ma anche della “Maserati Alfieri”, delle “Candele accumulatori Maserati” e delle Acciaierie. Come altri padroni fascisti ringalluzziti dalle vittoria democristiana del ’48, padron Orsi inizia con tre giorni di serrata, chiamando la polizia a sgombrare i picchetti. È la prima volta, dopo la liberazione, che a Modena la polizia interviene nel conflitti di lavoro. Sarà la prima di una serie di interventi sempre più aggressivi. L’anno prima del “massacro” è il 9 gennaio 1949, è domenica e si tiene a Modena un comizio sindacale in piazza Roma, Fernando Santi, segretario generale della Cgil denuncia i licenziamenti e la serrata alla fonderia Vandevit e alla carrozzeria Padana.
Al termine della manifestazione, mentre la gente rientra a casa mescolandosi con chi esce dalla chiesa, si scatena una selvaggia e inspiegabile aggressione poliziesca con camionette e manganellate e perfino colpi d’arma da fuoco.  Il cambio di rotta era stato deciso dall’alto: colpire senza sosta il movimento operaio e sindacale per interromperne l’avanzata e ridurne la capacità contrattuale. Alla fine di quel ’49, padron Orsi regalò ai “suoi” dipendenti la seconda serrata e il licenziamento di tutti i 560 lavoratori.  L’idea di Orsi era di assumere nuovi lavoratori non sindacalizzati né politicizzati. Le “rivendicazioni” di padron Orsi erano di revisionare in peggio il premio di produzione, abolire il Consiglio di gestione, far pagare la mensa ai lavoratori, togliere le bacheche sindacali e politiche, eliminare la stanza di allattamento che le operaie si erano conquistate per poter andare in fabbrica con i figli.
Dopo un mese di serrata venne la risposta operaia: sciopero generale di tutte le categorie proclamato per il 9 gennaio1950 in tutta la provincia. Ma il prefetto e il questore [non dimentichiamo mai che prefetti e questori erano stati traghettati in blocco dal regime fascista a quello democratico/democristiano] negano alla Camera del lavoro qualsiasi piazza per la manifestazione sindacale. Si racconta che il questore rispose alla delegazione di parlamentari e dirigenti sindacali che chiedevano una piazza: “vi stermineremo tutti”. Dal giorno prima arrivano a Modena ingenti forze di polizia, si dice 1.500 con autoblindo, jeep, camion. Occupano la fabbrica e si dispongono sul tetto con le armi. Da quel tetto spararono con la mitraglia sui lavoratori per uccidere.


Affoga nel sangue il governo del 18 aprile“, titola a tutta pagina l’Avanti! del giorno dopo.
Modena non fu un fatto isolato. In quegli anni iniziava una repressione antioperaia feroce e sanguinosa [nel 1948 sono stati uccisi 17 lavoratori in conflitti di lavoro, centinaia feriti e 14.573 arrestati]. Il sindacato di classe fu buttato fuori da moltissime aziende, oppure ridotto ed emarginato. Dopo quella dura sconfitta che dal ’48 si protrasse per tutti gli anni Cinquanta la classe operaia riprese l’iniziativa all’inizio degli anni Sessanta e risultò determinante la reazione al governo Tambroni appoggiato dal MSI e cacciato in piazza dopo scontri a Genova, Roma, Reggio Emilia, Catania, Palermo e tante altre città che costarono ancora 9 morti, decine di feriti e di arrestati compresi parlamentari del Pci e del Psi.
Una storia da non dimenticare, anzi della quale rinnovare ogni giorno la memoria con il pensiero ai nostri Caduti avendo ben presente da quale parte stava la volontà di violare la legalità repubblicana garantita dalla Costituzione: Costituzione che è stata difesa ancora una volta dal popolo anche nell’occasione del voto del 4 dicembre 2016 e non certo dagli apparati dello Stato. Da Portella della Ginestra alla Diaz, passando per Modena, Reggio Emilia, via Fatebenefratelli a Milano fino alle cariche della Polizia che si rinnovano ancor oggi a ogni manifestazione sindacale è teso il filo nero di una storicamente ingiustificabile repressione verso chi difende il proprio lavoro, la propria dignità e la democrazia repubblicana.



mercoledì 19 luglio 2017

VITERBO, LA CITTÀ DI PIETRA
di Angelo Gaccione


Se dicessi che la cosa più bella di Viterbo sono le rondini, naturalmente spudoratamente mentirei. Ma che volete, non accade in tutte le città il privilegio, e diciamolo pure, il miracolo, di essere svegliato al mattino dal loro garrire e dai loro volteggi. Il loro irrequieto sfrecciare senza posa, senza un attimo di tregua, sembra volerci dire che ogni gioia è breve e dunque questo vorticare festoso deve compiersi tutto intero ora, nell’attimo stesso in cui questa gioia ci è concessa, spensierata e dimentica di ogni coscienza. Finestre che si affacciano sui tetti, come queste della  Residenza Nazareth di via San Tommaso, tetti bassi per lo più, perché torri e campanili devono ergersi a loro presidio, in un confronto bivalente in cui potere religioso e potere civile danno la misura della loro forza. Simboli solidi, terreni, innestati nel corpo vivo della città.
Finestre che guardano cipressi, pini, cedri del Libano e suoni di campane in lontananza: non può desiderare di meglio chi come me giunge da Milano, dove il risveglio è annunciato dal caos dei motori, dai mille infernali rumori metropolitani. Di alcune città si dice che non dormono mai, e chi lo dice lo fa a cuor leggero, e non ha alcuna consapevolezza del delirio che sono diventate, e dove ogni rapporto con i ritmi biologici e naturali è stato violato e stravolto. I concetti di riposo, di quiete, di raccoglimento, di respiro della notte, sono scomparsi; e come noi, le stesse creature notturne ne sono state  private. Più nessuno spazio per il fantasticare e il sogno. Tutto è stato irrimediabilmente annegato, perduto in un eterno fluire, in un eterno presente che non conosce discontinuità, interruzioni, pause.


In un tempo passato, i nobili lasciavano le città per recarsi nelle loro dimore di campagna, le ville, a riposare, a villeggiare. Lì trovavano riposo e quiete. Siamo stati noi moderni a passare dal caos urbano al caos delle vacanze, in luoghi altrettanto affollati e caotici dove non si dorme mai, e ci si intontisce di rumori, di decibel alle stelle fino all’alba, fra alcool, pasticche e porcherie di ogni genere.
In realtà Viterbo, questa vera e propria città di pietra, è fin troppo bella. Basterebbero i suoi 5 chilometri di mura che la racchiudono e le sue 10 porte: Porta della Verità, Porta Romana, del Carmine, Faul, Fiorentina, Murata, sto citando a memoria, o l’intero quartiere medievale di san Pellegrino con le sue volte, torri, porticati, il suo acciottolato, il concio in peperino che trionfa ovunque, per dirne tutta l’importanza.
Manufatti notevoli come il magnifico chiostro longobardo di Santa Maria Nuova, chiese, fontane a fuso e palazzi a bizzeffe, qualunque direzione voi prendiate, e non solo quelle più canoniche come la piazza Plebiscito nel cui perimetro trovate il palazzo dei Priori e quello del Podestà, o la Piazza della Morte che vi conduce, attraverso il Ponte del Duomo, in Piazza san Lorenzo dove svetta il campanile della Cattedrale e troneggia il Palazzo dei Papi. 


Le vie e i corsi sono una continua sorpresa e conviene procedere a caso, sarà la città a venirvi incontro ed a stupirvi. Anche ciò che riterrete minore vi sorprenderà, potrà accadervi con il palazzo Ascenzi, ora sede del Circolo Cittadino Viterbese dove nel giardino scoprirete una magnolia della seconda metà dell’Ottocento e un nespolo selvatico gigantesco. La guerra non ha risparmiato questo palazzo, come mi informa Maria Rita De Alexandris, per fortuna ricostruito subito  dopo. Come il curioso altare della appartata chiesa di san Sisto che si protende verso l’alto con la sua lunga gradinata. Deve aver fatto una strana impressione ai fedeli che vi sono entrati per la prima volta, e si sono trovati il loro celebrante sospeso così in alto. Tuttora l’effetto rimane intanto. Se all’esterno la città si presenta colma di suggestioni, gli interni (palazzi e chiese) sono ricchi di capolavori di maestri che dal medioevo arrivano fino al XVIII secolo. Darne conto in uno scritto così contenuto sarebbe far loro torto. Mi sarebbe piaciuto vedere il Museo della Ceramica della Tuscia (un’altra eccellenza viterbese e dintorni), ma era chiuso. Il Palazzo Brugiotti che lo custodisce è anche tenuto male. Peccato. Come peccato davvero è la chiusura  definitiva dello storico Caffè Schenardi al numero 11 di Corso Italia, nella vicina Piazza delle Erbe. Nato ai primi dell’Ottocento, come tutti i Caffè europei aveva visto passare dalle sue sale e dai suoi tavolini, la vita politica e culturale della città, e ospiti di una certa levatura. Fa tristezza vederlo chiuso e solo un paio di immagini in bianco e nero ne rimandano, agli innamorati come me, l’atmosfera. A questi magici luoghi e alla loro precaria esistenza, ho dedicato molti anni fa un racconto dal titolo “Un caffè accanto al sigaro”, compreso ne La striscia di cuoio, libro più volte premiato. Come fa tristezza vedere lungo i muri di Palazzo Farnese, degli orribili pluviali di lamiera. 


Il punto non è quello che ci è stato lasciato in eredità dalla storia e dalle epoche passate, il punto è come lo custodiamo, come ce ne prendiamo cura. E soprattutto come e con quale coerenza a questi manufatti accoppiamo, facciamo innesti, accordiamo ciò che è moderno perché non stridi, non offenda, non gridi vendetta. Turba, altresì, e angoscia, il silenzio mortale e l’abbandono a cui parte del centro storico pare condannato. Vendesi e affittasi ad ogni passo. Le porte in rovina, i muri sbrecciati, l’acciottolato divelto, le crepe, se non riparati per tempo, finiscono fatalmente per deperire. Lo spostamento di parte della popolazione al di là della cinta muraria, nella parte nuova della città sicuramente più comoda e ricca di servizi, potrà creare problemi al nucleo antico. La città dovrebbe interrogarsi su tutto questo ed aprire una discussione pubblica collettiva. Il rischio è che una grossa parte del centro storico diventi un museo all’aperto degradato, muto e privo di vita. 
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