UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

martedì 27 maggio 2014

TRIBUNA LIBERA E SOPRATTUTTO APERTA
Con questo scritto apriamo un dibattito sull’esito
del recente voto elettorale. Ogni contributo è ben accetto.




26 maggio 2014: un’ode in prosa

Voglio iniziare questo 26 maggio commettendo un errore: scrivere di Politica e farlo di getto, prima di esser fuorviato dai milioni di distinguo che grandineranno durante la giornata e proseguiranno per molto tempo ancora, e che saranno in gran parte finalizzati soprattutto dall’assalto al carro del vincitore. Alle cinque del mattino, le prime luci dell’alba hanno lasciato intravedere la grandezza di un popolo, gli italiani, che è riuscito a scuotersi dal giogo pesantissimo delle urla, degli insulti, degli interessi personali, delle pezze a colori gabellate per programmi, delle vivisezioni, delle comunicazioni di delinquenza, del razzismo, dell’ignoranza, dell’assenza di ogni valore e di quant’altro di incivile, di incolto, e anche di stupido lo abbia bombardato da anni, ormai, con crescendo viscerale e incontrollato in questo ultimo mese.
Ai capelloni bercianti, magari anche truccati da seriosi e silenziosi manager di qualcosa non bene identificato; agli interessati miliardari ondivaghi (almeno in politica), forti di un successo anche basato sull’egoismo e sull’utilizzo personale delle leggi, come i primi impresentabili in Europa e non solo, è stato inviato un segnale a mio parere più che preciso: gli italiani non sono quegli stupidi creduloni ignoranti ai quali molti si sono rivolti ed ai quali molti continueranno a rivolgersi.
Forse veramente esiste quella “maggioranza silenziosa” che riesce a reggere un Paese difendendolo dalla incoscienza e dalla onestà relativa di tutti coloro che inseguono il potere per il potere e quindi per se stessi e per i sodali, e che si costruiscono partiti e movimenti su misura.
Magari anche riuscendo a conquistare una poltrona da ministro.
Il quaranta per cento degli italiani manda al vincitore di queste europee un messaggio altrettanto chiaro: vogliamo premiare chi, finalmente e dopo lustri perduti, ha dimostrato di “ voler fare” e di volerlo rapidamente. E chi crede nell’Europa. In estrema sintesi, chi pensa che se le cose vadano male o non così bene come si vorrebbe, il sistema migliore non è distruggerle, non è cancellarle, ma lavorare per cambiarle.
Ed è qui che nasce il problema.
Andare di corsa e fare qualcosa ha dimostrato che l’abbandonare “il non fare” è una forte argomentazione per ottenere il consenso. Ora è a mio parere assolutamente necessario che si pianifichi con estrema attenzione il “che cosa”, il “quando”, il “come”, il “perché”, “il dove” bisogna cambiare ed ovviamente “il chi” deve provvedere.
E altrettanto ovviamente, “quanto costa” e “dove si reperiscono” le risorse necessarie.
Questo è il compito che Renzi e il Governo hanno dinanzi a sé. Un compito immane, anche perché forse le risorse culturali a disposizione sono più limitate del sopportabile.
E oltre a dover “pianificare”, occorre che il Governo comunichi correttamente e compiutamente ai cittadini. Si tratta di portare a conoscenza della comunità ciascuna pianificazione di gestione. E farlo nei dettagli. E farla accettare.
Che mi pare sia proprio quanto è sempre mancato, in Italia certamente, in Europa forse: la pianificazione e la gestione degli “scambi politici”.
Le priorità? La scala di Maslow è una indicazione affidabile, perché ci dice quali bisogni vanno soddisfatti con priorità e quali prodotti sono in grado di farlo. E se i Valori ai quali ci si ispira sono a loro volta chiaramente identificati e comunicati in modo da poter essere condivisi…
Vuol dire rivedere il concetto stesso di Politica e quello di Democrazia.

Paolo Maria Di Stefano

Care e cari tutti.
Confermo la riunione indetta per GIOVEDI 29  MAGGIO  H.  17.30  presso la sede di Chiama Milano,Via Laghetto 2 (MM1 San Babila/Duomo – Università Statale)

Il nostro Appello “Non costruite nuove autostrade…” ha raccolto adesioni di 21 associazioni/comitati e di 127 cittadine/i impegnati e competenti.
Nessun  “illustre” destinatario si è degnato di rispondere. Soltanto un riscontro di ricevuta da parte dell’Ufficio di presidenza della regione Lombardia
e del sindaco Pisapia. Ho provato con qualche quotidiano (ad es. con “Il Manifesto”, come da e mail precedente, e con Radio Popolare): silenzio e muro di gomma!
 Come continuare ed estendere la nostra iniziativa?
L’impegno scritto nell’appello di costituire un Comitato di Difesa Legale e Risarcimento Danni  occorre mantenerlo: lavoriamo da subito a coinvolgere persone
disponibili e competenti , nonché professionisti che si mettano a disposizione gratuitamente (ecologisti ed esperti  in campo agro-alimentare, avvocati e competenti in
legislazione ambientale di livello europeo, medici, architetti ed urbanisti, professionisti che lavorano nei settori della mobilità e della trasportistica, dei beni culturali ed ambientali, dei parchi e del verde, ecc.).
Occorre ragionare sulle prossime azioni da intraprendere: agorà /manifestazioni a Palazzo Marino e nella sede della Regione; usare gli strumenti previsti dai regolamenti
dei Consigli Comunale e Regionale per portare direttamente in quelle sedi la nostra voce. Inchiodare alle loro responsabilità i consiglieri comunali di Milano e della Regione
Lombardi. Bombardare di e mail i parlamentari e in modo particolare il presidente del Consiglio Matteo Renzi, che ha ricevuto tantissimo consenso elettorale (ennesimo uomo della provvidenza?)…
Riunire le nostre forze e farci sentire come cittadinanza attiva responsabile e propositiva: elaborare proposte diverse sulla gestione dell’Expo: forse c’è qualche possibilità
di raggiungere alcuni obbiettivi, in particolare quelli contenuti nell’appello (no canale, blocco delle opere stradali che si possono non fare più, in primis la Gronda nord a Quarto Oggiaro…),
ma anche richiedere la rimozione di opere brutte che deturpano la bellezza del nostro patrimonio monumentale (ad es. le strutture aliene, come info point expo., al Castello Sforzesco….).
Proporre di investire in opere di manutenzione e abbellimento soprattutto delle periferie di Milano e della sua area metropolitana.
L’Expo potrebbe forse ancora, nonostante le scelte pesanti ed insostenibili dal punto di vista ambientale ed economico, diventare una occasione per gli investimenti di miglioramento
qualitativo dell’ambiente urbano – e delle periferie, al primo posto – e quindi dell’abbandono della persistente   politica a senso unico del cemento e della speculazione,
della rendita fondiaria ed urbana e della corruzione.
Occorrerebbe una vera svolta. Senza farci illusioni, facciamo almeno sentire la nostra voce e il nostro punto di vista.
Expo e città / cittadinanza metropolitana, superamento del comune unico di Milano e della politica maniacale della cerchia del suo centro storico, decentramento democratico e partecipativo, policentrismo e mobilità metropolitana sostenibile ed efficiente. ECC.
Mentre mi scuso per il tempo che vi sottraggo, leggete le mie sintetiche schematiche considerazioni come possibile scaletta di discussione ed approfondimento comuni.
A giovedì, un caro saluto
Giuseppe Natale   
3476502062      




             

giovedì 22 maggio 2014

IL FILOSOFO E LE CIPOLLE
di Fulvio Papi


Fulvio Papi, Decennale di "Odissea" Sala del Grechetto
Biblioteca Sormani 29 settembre 2013 (foto, archivio Odissea)


Poiché sono un filosofo chiunque avrebbe il diritto di chiedermi la traduzione di parole come Entfrendung, Wahrheit, Aufang, Vorstellung, Spaltung, distinguendo quelle di uso comune che passano alla filosofia e quelle che appartengono più propriamente a un lessico teorico. Ma non credo che l'immaginario “costui” possa però chiedermi di narrare la storia delle cipolle comperate al supermercato. E invece è una vicenda molto interessante. Le cipolle sono state coltivate in Olanda (che associavo invece ai tulipani). Sono state raccolte, messe in contenitori adatti e poi avviate a un lungo viaggio suppongo in treno. Poiché la loro destinazione era una località in provincia di Ferrara, suppongo ancora che l'ultimo tratto l'abbiano fatto su un autocarro. Quivi le hanno “lavorate” distribuendole in sacchetti che hanno di nuovo viaggiato fino a Milano per finire in un supermercato dove il “consumatore” (parola orrenda) le ha comprate trovandone una non commestibile. Ed è comprensibile dopo un viaggio che avrebbe creato problemi anche a un esploratore dell'Ottocento che poi avrebbe tenuto la sua relazione alla Società geografica di Londra.
Si sa che le merci viaggiano più dei signori ricchi nell'ultimo tratto romantico tra Baden Baden, Parigi e Montecarlo. Ma le cipolle? Il prezzo finale tra costi di produzione e una distribuzione complessa non è difficile da immaginare. Aiutandoci con i prosciutti della Baviera distribuiti da ditte importatrici, che appaiono -per una induzione ovvia- come locali produttrici, e le famose patate finite in televisione, si potrebbe tentare di scrivere la malora (la parola nel significato degli scritti di Fenoglio) della nostra agricoltura che non ignori però le mozzarelle di bufale malate e i pomodori nati su terreni inquinati da scorie decennali. La storia sarebbe istruttiva sugli errori compiuti sul territorio da ideologie autoritarie e da politiche cieche che non hanno capito molto su quali potevano essere le più adatte condizioni di sviluppo. Ovviamente erano rischi e non certezze, ma probabilmente minori rispetto a quelle che corrono oggi i lavoratori e tutta la popolazione di Taranto. Dato la pochezza dei tempi non vorrei che qualche politecnico, e anche monocultore, volesse internazionalizzare il lavoro storico suggerendo la sua scrittura in inglese. Naturalmente ogni lingua ha il suo contesto scientifico o popolare (faccio colpa alla tivù di aver distrutto la musica delle parlate locali). E per aiutare i politecnici ricorderò che persino Hegel scrisse la sua tesi in latino come se la si dovesse leggere a Roma. Anche se sul tedesco comunque aveva la stessa opinione di Herder. Una lingua che però non è proprio identica ad Amburgo o a Stoccarda (come sapeva un grande scrittore russo come Nabokov che, del resto, era emigrato in America).

Non bisognerebbe mai cominciare a viaggiare con le cipolle.

martedì 20 maggio 2014

IL NOSTRO DOLORE È IL GERME DELLA NOSTRA RABBIA

Riceviamo e pubblichiamo queste informazioni e queste foto
mandate in giro per il mondo dalla DAF turca, sul massacro 
annunciato dei minatori, che da anni avvisavano Stato e Governo
sulle tremende condizioni di lavoro nelle miniere, e sull'inesistenza 
di misure di sicurezza. Come sempre gli sfruttatori dei lavoratori 
hanno fatto orecchi da mercanti. 
Accanto alla traduzione italiana pubblichiamo anche il testo
nella versione originale inglese.




Turchia. L'incendio che si è sprigionato nella miniera di carbone di Manisa-Soma il 13 Maggio, è divenuto uno dei più grandi massacri avvenuti in queste terre. A causa dell'incendio, centinaia di minatori sono stati avvelenati dal monossido di carbonio. Il numero dei lavoratori che sono morti cresce di ora in ora. Il Ministro dell'Energia, il Ministro del Lavoro ed il Primo Ministro hanno cercato di nascondere il numero reale di minatori che sono morti, dichiarando che si trattava di “un triste incidente sul lavoro”. Il Primo Ministro ha affermato che “Questo genere di incidenti può avvenire sempre.”
Mentre migliaia di persone stavano aspettando vicino alla miniera e cercavano di ottenere notizie riguardo ai propri parenti che si trovavano nella miniera di carbone, le ambulanze, i carri funebri, i veicoli frigoriferi, mostravano la gravità del massacro. Il numero dei minatori morti cresceva: 78, 151, 245, 282...
Il numero sta ancora crescendo. Coloro che sono responsabili di questo massacro, stanno cercando di legittimare queste “morti” dicendo “è il destino”. Ci sono proteste in tutta la regione. Le persone sono nelle
strade affermano che non si tratta del destino né di un incidente, questo è un massacro fatto dallo Stato e dalle aziende. Il 14 Maggio la polizia ha attaccato le persone che contestavano coloro che hanno determinato questo massacro. Lo Stato e le sue forze armate hanno pensato di poter prevenire questa rabbia con i proiettili di gomma ed i gas lacrimogeni. Ma quelli che erano nelle strade gridavano insieme: “Stato assassino!”
I funzionari dello Stato e le compagnie energetiche sostengono di essere in cordoglio. Ma essi sono gli assassini che hanno forzato delle persone a lavorare a centinaia di metri di profondità dalla superficie per
guadagnare i soldi per vivere. Essi sono gli assassini che hanno forzato le persone a lavorare in condizioni in cui la morte è inevitabile. Abbiamo con noi il dolore per quelli che sono stati uccisi in miniera dai capitalisti e dallo Stato. Noi siamo nelle strade con la rabbia contro questi assassini. Noi non siamo in cordoglio, questa è rivolta. Il nostro dolore è il germe della nostra rabbia!
Azione Anarchica Rivoluzionaria
(Devrimci Anarşist Faaliyet – DAF)




























Our sorrow is the seed of our rage

The fire that appeared in the coal mine in Manisa-Soma on 13th of May, became one of the biggest massacres in these lands. With the fire, hundreds of coal miners were poisoned by intensive carbon monoxide. The number of the workers who had been died, increased hours by hours. Minister of energy, minister of labour and prime misinter tried to hide the real number of the miners who had been died while declaring that “it was a sad work accident”. The prime minister declared that “These kind of accidents could happen anytime.” While thousands of people were waiting near the mine and trying to get news for their relatives who were in the coal mine, the ambulances, funeral vehicles, cold storage vehicles showed the seriousness of the massacre. The number of the dead miners increased; 78, 151, 245, 282…
The number is still being increased. The ones, who are responsible for this massacre, are trying to legitimate the “deads” by saying “this is destiny”. There are protests whole around the geography. People are in the streets claiming that it is not destiny nor accident, it is a massacre
of state and companies.
On 14th May, police attacked the people who protest the creators of this massacre. State and its armed forces thought they can prevent this anger with plastic bullets, tear gasses or gas bombs. But the ones who are in the streets shout together: “Murderer state.”
State officials and bosses of the energy companies are claiming that they are mourning. But they are the murderers who forced the people work hundreds of meters far from the surface for gaining money to live. They are the muderers who forced people to work in such condititions where dead is inevitable.
We hold the sorrow of the ones who were murdered in the mines by capitalists and state. We are in the street with the anger against these murderers. We are not mourning, this is rebel. Our sorrow is the seed of our anger!
Revolutinary Anarchist Action

domenica 18 maggio 2014

INVITO IN BIBLIOTECA


Cari Lettori, cari lettrici,
vi segnalo una serie di splendidi scritti di vari autori:
il lungo saggio di Bianchi su Rebora nella Rubrica
"Il Pane e le Rose", quello di Gilberto Isella (stessa
Rubrica) su Gregory Corso e la beat generation,
quelli di Seregni, Papi, Colombo, ecc. e il testo poetico
di prima pagina del poeta Lelio Scanavini.
Buona lettura. (A.G.) 

sabato 17 maggio 2014

UNA POESIA INEDITA DI LELIO SCANAVINI


Al centro della foto il poeta Lelio Scanavini



DISORIENTE
A cosa è valsa questa fatica?
Non siamo approdati a nulla.

Gli infiniti
potevano essere ignorati.

Le divergenze
sono indefinitamente grandi.

Il significato
è puntiforme in un punto dello spazio.

Si annichiliscono tra loro
i processi di creazione e distruzione.


Lelio Scanavini

venerdì 16 maggio 2014

L’Europa come patria
Di Giovanni Bianchi

Il punto di vista
R. Prodi

Prendo le mosse da un'osservazione di Romano Prodi: "C'è una dose di schizofrenia nella politica europea: l'analisi guarda al futuro, ma la prassi pensa solo al presente immediato". Una schizofrenia che l'Italia non corregge ma anzi accresce facendo largo scialo del populismo trionfante, così lontano dal pensiero strategico da rendere addirittura mirabile la sintesi prodiana. Per metterla sul drammatico si potrebbe anche osservare che è così che si è affamata la Grecia pensando alle elezioni nel Nordrhein-Westfalen e decidendo di salvare piuttosto le banche. Per cui l'interrogativo diventa se si possa fare una grande costruzione politica senza una solida cultura politica. Ed anche, in subordine: si può creare una moneta a prescindere dalla politica?
C'è un minimalismo europeo che ritroviamo già alle origini della Comunità e che era ben rappresentato da Monnet, il quale faceva osservare che sarebbe stato impossibile, già allora, consolidare e far prosperare i singoli Stati al di fuori di una dimensione che tenesse conto delle nuove misure della geopolitica. Tuttavia non mancano progetti che abbiano dignità e che si collochino anche in questa fase all'altezza della situazione. È il caso dei c3dem (cattolici democratici) che hanno recentemente prodotto un testo – "L'Europa nostra patria: un rinnovato progetto di buona politica comune" – che merita il massimo dell'attenzione.
E dirò subito che dal mio punto di vista è centrale nel documento il richiamo al rilancio del modello sociale europeo, perché fa corpo con la missione inclusiva, fin dagli inizi, della forma democratica dell'Unione. Possiamo anche diventare Stati Uniti, ma la differenza l'hanno già indicata loro definendoci figli di Venere diversi dai figli di Marte. Non è solo una questione di welfare: è una questione di democrazia ed anche geopolitica. Anche se i mediterranei hanno purtroppo  smarrito memoria e orientamento.
Il documento dei c3dem, redatto dallo storico Guido Formigoni, ha il pregio di mirare l'attenzione su tre questioni vere e di bruciante attualità: l'esigenza oramai universalmente avvertita di superare l'austerità; il rilancio del modello sociale europeo in grado di promuovere l'inclusione attraverso un solido welfare (quantomeno rispetto agli altri); un nuovo protagonismo europeo nel mondo: quello che la vicenda ucraina denuncia come drammaticamente latitante.

A. Spinelli

Le elezioni imminenti
La grande novità di queste elezioni europee -secondo l'acuta analisi di Bartolo Ciccardini- sta nel fatto che per la prima volta il Parlamento Europeo, che uscirà dalle urne del 25 Maggio, eleggerà direttamente il Presidente dell’Unione Europea, che non sarà più il portavoce dei governi che lo hanno scelto, ma il vero rappresentante istituzionale dei ventotto paesi che formano l’Unione. Un piccolo passo per la burocrazia, ma un grande salto per la politica.
I due candidati dei partiti maggiori, sono, per ora, Jean-Claude Juncker, del Ppe (Partito Popolare Europeo) e Martin Schulz, del Pse ( Partito Socialista Europeo). Si va delineando così un sistema bipartitico che potrebbe essere molto importante per la nascita di un vero e proprio Governo europeo. Siamo quindi ad una svolta molto importante, di cui dovremmo occuparci di più. Ci siamo già lamentati che in Italia le elezioni europee si siano trasformate in una sorta di sondaggio sui consensi di Berlusconi o di Grillo. Ma i sondaggi d’opinione si consumano presto e la realtà politica finirà con l’imporsi. Per ora dobbiamo constatare quanto siamo lontani da quello che accade in Europa. Banco di prova scoraggiante è la crisi ucraina, che mette non soltanto in gioco i rapporti con la Russia di Putin, particolarmente delicati per l'approvvigionamento energetico. L'iniziativa di Obama fa risaltare l'assenza di una politica estera europea. Assente come sempre e secondo copione lady Ashton, nonostante la "teoria dei cappelli" la ponga anche come capo delle forze armate europee, incerta e riluttante, anche in questo caso secondo copione, l'iniziativa di Berlino. E alle cautele di Angela Merkel fa da contrappunto la presenza ai vertici di Gasprom di Schoreder, quasi a testimoniare una linea alternativa possibile in qualche modo memore del classico Drang nach Osten.
Il risultato è la continua latitanza dell'Unione sia ad Est come nel Mediterraneo: dove la mancanza di politica estera e di iniziativa è espressione dell'incertezza dell'Europa su se stessa e sul proprio destino. E quindi sulle strade in tutti i sensi percorribili, dal momento che non soltanto in una fase di crisi globale sovranità politica e politica economica si tengono strettamente.
Da che mondo è mondo -e non soltanto nella modernità- il rapporto tra il commercio e la bandiera continua a funzionare anche quando viene sottovalutato.

I casi italiani
M. Renzi

Matteo Renzi, appena diventato segretario del Partito Democratico, con il suo cipiglio decisionista ha risolto una vecchia questione: ha fatto aderire il Partito Democratico italiano al Pse, Partito Socialista Europeo, che presenta candidato alla carica di Presidente dell’Unione europea, Martin Schultz.
È probabile che moltissimi elettori del PD non sappiano nulla di Martin Schulz e non sarà certo il suo nome ad aumentare i voti del partito. A disturbare i rapporti fra Renzi ed il candidato Schultz è giunto anche un intervento molto inopportuno del candidato socialista, il quale, ricordandosi di essere tedesco, aveva rammentato all’Italia che prima deve adempiere ai propri compiti, mettere a posto il bilancio, e poi dare dei suggerimenti. A questa uscita Renzi ha giustamente risposto dicendo che l’Italia sta mettendo in ordine i suoi conti non perché ce lo chiede l’Europa, o Martin Schulz, ma perché ce lo chiedono i nostri figli…
Nel secondo semestre del 2014 l’Italia presiederà il governo dell’Unione. Potrebbe essere una grande occasione per realizzare un programma europeo per la soluzione della crisi economica superando le troppo dure strettezze imposte dalla Merkel, ma né Schulz ha dato prova di grande interesse a questo problema, né Renzi ha avuto il tempo di farsi apprezzare in Europa. Questa dissonanza allontana, ancora di più, se ce ne fosse stato bisogno, tutta la sinistra italiana dal vero contenuto politico delle elezioni europee.
Andiamo così ad un elezione che sa di bipartitismo con il partito italiano aderente al Pse che non è sulla stessa lunghezza d’onda del candidato socialdemocratico europeo. Queste del resto possono risultare riflessioni tutte teoriche perché non è da escludere l'ipotesi che Renzi possa guidare il governo europeo con un presidente eletto del Ppe.
Ci sarebbe probabilmente voluta una campagna elettorale “europea” in grado di impegnare  tutti i socialisti d’Europa in un forte progetto “antirigidità”. In altre parole, facendo una pressione sulla Merkel, non da “italiani”, ma da “socialisti europei” per rompere l’accerchiamento che il caso Berlusconi ha creato contro di noi. Ma forse non era realistico pensare che Renzi, impegnato quotidianamente nei capricci italiani, avrebbe potuto occuparsi della campagna europea. Così il nostro tradizionale provincialismo finisce per risultare troppo prossimo agli egoismi delle piccole patrie, accettando il terreno degli avversari interni, con una riduzione degli orizzonti europei a quelli della nazione.
A. De Gasperi

Per una non casuale specularità la situazione non è migliore sull’altro lato dello schieramento. Il candidato del Ppe è, come ricordato, Jean-Claude Juncker, Governatore della Banca Mondiale dal 1989 al 1995. Jean-Claude Juncker assunse dal 1995 la responsabilità di Governatore del Fondo Monetario Internazionale e di Governatore della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. E’ stato presidente dell’Eurogruppo, carica da cui si dimise per protestare “contro le ingerenze franco-tedesche”. Già capo del governo del Lussemburgo, fin da giovane è presidente del Partito Popolare Europeo. È un personaggio carolingio (osserva sempre l'informatissimo Ciccardini) di quell’area franco-tedesca che ha dato molti uomini all’Europa.
Juncker è il candidato della Signora Merkel. Ma questo non sarebbe un difetto, dato che la signora Merkel è la vera leader del Ppe oltre che essere la Cancelliera della più forte tra le nazioni che compongono l'Unione Europea. Il suo difetto più grande è quello di essere il candidato sbagliato della signora Merkel. La Merkel ha realizzato la sua supremazia sul Ppe commettendo due gravi errori. Il primo errore è stato quello di prendere il potere in Germania eliminando in malo modo, in maniera ruvida e non del tutto corretta, una personalità politica come Helmut Kohl, grande leader e  democratico-cristiano a tutto tondo. L’attacco fatto dalla Merkel su presunti errori morali di Kohl, ha liquidato in modo innaturale la grande politica di Kohl, che voleva la Germania dentro una forte Europa perché aveva paura di una Germania troppo potente. Diceva Kohl di voler salvare la Germania da sé stessa.
Era riuscito a raggiungere l’obbiettivo, ritenuto da tutti impossibile, dell’unificazione tedesca, affermando che attraverso l’Europa voleva opporsi ad ogni volontà egemonica rigida ed inflessibile, che è sempre stato il lato oscuro del nobile civismo della nazione tedesca.
La Signora Merkel, nata ed educata nella Germania orientale comunista, figlia di un pastore protestante, cresciuta nella ostile neutralità della Chiesa Luterana sopravvissuta nel duro regime comunista, non ha nulla della grande sensibilità europea dei democratici cristiani, Adenauer, De Gasperi e Schumann, educati nel cattolicesimo democratico che parlava la lingua delle università tedesche.
M. Schulz


Il secondo errore della Merkel è conseguente al primo: la Merkel ha ammesso i partiti conservatori nel Ppe, tradendo l’essenza intima della Democrazia Cristiana europea. Non è stata solo una sua colpa. Purtroppo ha potuto farlo perché è improvvisamente e irreversibilmente finita la direzione morale e culturale che la Dc italiana aveva saputo dare al Ppe. Una Dc malamente scomparsa in Tangentopoli dopo essersi identificata con lo Stato, secondo un processo che fu chiaramente denunciato da Enrico Berlinguer.
Ma con Angela Merkel il Ppe non è solo diventato la destra europea, ma ha perfino accolto nelle sue file il partito di Silvio Berlusconi, che ancora oggi è il membro italiano più importante del Ppe. Ora questa contraddizione è venuta al pettine a causa di una uscita infelice di Berlusconi che rimprovera i tedeschi di aver cancellato il ricordo dei Lager, cosa incredibile più che stupida, essendo i tedeschi, non i soli ad aver fatto i campi di concentramento in Europa, ma i soli a ricordarlo e a condannarlo.
A questa offesa ha reagito in modo deciso, come era giusto, la Cancelliera ed in modo ancor più preciso il lussemburghese Juncker, Presidente del Ppe. Ma non potevano pensarci prima? E qui appare tutta la loro debolezza.
Non possiamo quindi meravigliarci troppo se le elezioni europee si sono trasformate in una noiosa rappresentazione della crisi italiana con la irrimediabile decadenza di Berlusconi, con gli abituali paurosi azzardi di Grillo, con la fatica immane del povero Renzi per tentare di fare riforme in un Paese confuso e stralunato.

A. Merkel

Cosa succederà? In Europa, andrà tutto bene. La Merkel otterrà la sua vittoria, ma si troverà probabilmente costretta a ritirare il suo candidato e ad accettare un candidatura forte,  suggerita dai conservatori inglesi o comunque scelta nell’estremo Nord. Gli italiani saranno danneggiati comunque dal fatto che non ci sarà un risultato del Ppe che non sia da noi a prevalenza berlusconiana. Alfano è alle prime armi e Casini alle ultime…
A sinistra Schulz non è riuscito a mobilitare un presidente francese, Holland, in sala di rianimazione, ed un promettente premier italiano in rodaggio e considerato non a torto “troppo italiano”. La speranza è che ritorni a volere l’Europa la Germania vera, quella di Adenauer e di Khol, quella dei tedeschi che guardavano con rispetto e con fiducia alla “strana” Democrazia Cristiana italiana, che non riusciva ad essere un partito conservatore e non voleva ammettere i conservatori nel Ppe, specialmente se inglesi euroscettici.
Un sintomo buono c’è. I vescovi tedeschi hanno fatto un appello ai cattolici tedeschi per difendere l’Europa “sociale”. La Merkel è avvisata. (I Vescovi italiani invece prolungano il loro silenzio.)
Perché i vescovi? Perché si tratta della porzione di classe dirigente più prossima per cultura   
-attraverso il filo bianco della dottrina sociale della Chiesa- alla forma cattolico-democratica che ha pensato la nostra patria Europa. Mi suscita qualche brivido e perfino rischio di irritarmi con me stesso sul punto di esternare una simile riflessione proprio nei giorni che vedono la reiterata incriminazione di Gianstefano Frigierio, uno dei vertici democristiani di Tangentopoli. Quando tornai dall'ultima spedizione nella ex Jugoslavia scrissi che il reciproco ostacolarsi delle cancellerie europee, tra chi pensava l'Europa democristiana e chi la voleva invece socialdemocratica, aveva condotto alla dissoluzione politica dei Balcani Occidentali, con gli americani che erano dovuti intervenire a togliere, in particolare nel Kosovo, le castagne dal fuoco.
Mi sto ricredendo... Se torno ai padri fondatori, devo rendermi conto che, con l'eccezione di Spaak, tutti pensavano, da de Gasperi ad Adenauer, da Schuman a Monnet, con le categorie democratico-cristiane. Al punto che pare lecito chiedersi se, esaurita quella forma di pensiero e quei testimoni, non sia anche svanito il luogo culturale dal quale l'Europa è stata pensata. Una forma svuotata dall'interno per la presa di distanze di Angela Merkel dal sentire di Helmut Kohl, per la sostituzione del suo pensiero con la presenza della destra conservatrice inglese e non soltanto, con l'attenta cura del tinello tedesco che ha sostituito quella dell'idealità germanica, con l'eccessiva prossimità e l'asservimento dei superstiti della Cdu, come Scheuble, alla Bundesbank e in generale alle ragioni del mercato...

E. Berlinguer

Un pensiero va anche alla "terza via" riaggiornata per i laburisti e per Tony Blair da Anthony Giddens. Non ne è rimasta traccia. Al punto che mi assale il dubbio che di terza via effettiva non ci sia che quella antica e democristiana. Al punto che in questa luce perfino Jacques Delors può apparire una variazione socialista interna alla terza via democratico-cristiana. E mi sovviene di come il cardinale Ruini, allora presidente della Conferenza Episcopale Italiana, invitasse ai corsi di formazione riservati agli altri quadri del cattolicesimo sociale italiano proprio gli uomini del circolo di Delors. E tutti sanno quanto fosse di lunga lena e caratterizzata da acuta cocciutaggine l'attenzione del Cardinale Presidente alla tradizione democratico-cristiana.
Quanto alla socialdemocrazia? Forse risulta istruttivo riflettere a dove sia collocato l'ultimo suo grande leader: Schoreder. È nel vertice di Gasprom, dal quale guarda con realismo e lungimiranza alle posizioni di Putin e agli interessi della Germania sui casi tragici dell’Ucraina. Resta la mossa fulminea e geniale di Matteo Renzi che ha collocato il PD italiano d'un balzo nell'alveo del Pse. Si è parlato di taglio del nodo gordiano. Messi a tacere in un colpo quanti avevano giurato in precedenza che non sarebbero morti socialdemocratici. Si trattava in effetti di giaculatorie elettorali.
Renzi, che è culturalmente postideologico e che non mostra alcuna angoscia per l'assenza di fondamenti, ha capito da subito che non era il caso di tagliare alcuno nodo, per la semplice ragione che il nodo non c'era più da tempo.
Quel che resta sul tappeto è la forma europea e il suo destino. Può essere pensata a prescindere da una cultura -certamente nuova- in grado di darle fondamento?
L'altra considerazione riguarda le radici culturali dell'Unione vista "da sinistra". I comunisti europei -quando consideravano la socialdemocrazia un inciampo e un insulto- faticarono non poco a prendere le distanze dalla Mosca bolscevica. Non l'unità europea era l'orizzonte, ma l'internazionalismo operaio. L'Europa non doveva quindi essere pensata in quanto tale. Unica eccezione nel nostro Paese l'anomalia di Giorgio Napolitano, poi a lungo presidente del Movimento Europeo. E ciò curiosamente e virtuosamente a dispetto del suo maestro Giorgio Amendola, che riuscì sempre a coniugare una grande e spregiudicata attenzione alle ragioni del capitale con una stretta fede staliniana.
Quanto alle socialdemocrazie (e non stiamo pensando per carità di patria a quella italiana) non sono invece mai riuscite ad elaborare un'idea europea all'altezza di quella democratico-cristiana. E dunque gli esiti attuali sono in linea con uno scarso retroterra.
Anche le sinistre francesi non hanno mai brillato su questo terreno. Il comunista Maurice Thorez è la pietra di paragone adatta per fare risaltare la lungimiranza dell'eurocomunismo di Enrico Berlinguer. E la lettura de L’Humanité mi ha sempre depresso al pari di quella dei bollettini parrocchiali. Credo del resto non sia un difetto di visione attribuire a Fabius il definitivo affossamento via referendum del trattato costituzionale europeo. Con un rimpianto per la disattenzione evidente dei politici francesi – Giscard d’Estaing in testa – a quanto invece hanno saputo produrre ed offrire gli storici di lingua francese, da Braudel a Le Goff.
Rioccupandoci dei casi tedeschi, se è indubitabile la statura di statisti di Willy Brandt e Helmut Schimdt, mi pare necessario mettere in rilievo come l'idea europeista sia cresciuta in particolare tra i verdi tedeschi, da Fischer a Cohn-Bendit, il quale ultimo dando l'addio al Parlamento europeo ha giustamente osservato che purtroppo "l'Europa ha il cuore freddo". Dove evidentemente la passione stabilisce un rapporto molto stretto con l'intelligenza politica.
Tornando a noi, un minimo di respiro storico è in grado di renderci edotti di quanto siano solide nel nostro Strapaese le radici di un ostinato provincialismo insieme a quelle, tutto sommato analoghe, dei nuovi populismi.
Di un ultimo trend mette conto occuparsi. Quello che riguarda i popoli che sono approdati all'Europa dei 28 dopo avere passato decenni dietro la cortina di ferro. In più di un caso hanno scelto di entrare prima nella Nato che nell'Unione. Come a dire che entravano in Europa pensando all’America...

D. Cohn-Bendit
Il secondo errore
Il secondo errore di questa campagna elettorale europea agli sgoccioli è avere accettato il terreno degli euroscettici che hanno trasformato la consultazione in un referendum intorno all’euro. E quindi nell'avere di fatto legato il destino dell'Europa ai livelli della sua moneta, alle speculazioni e agli umori che intorno ad essa vanno creandosi.
Grave soprattutto la dimenticanza che riguarda le origini della nostra moneta, dal momento che ogni moneta ha radici e si colloca all'interno di una sovranità, e non di rado conserva i suoi  arcana imperii al di fuori delle notizie date in pasto all'opinione pubblica.
Bisogna riandare alla caduta del muro di Berlino e alla decisione di Helmut Kohl di procedere alla riunificazione della Germania anche mediante la parità del marco: quello occidentale e quello orientale in vigore nella Ddr. Perché si trattava di porre le basi della soluzione di quello che soprattutto ad occhi italiani poteva apparire il rischio di un "mezzogiorno tedesco". Immaginabili la frenesia e lo sconcerto che attraversavano le principali cancellerie europee. Le telefonate tra Parigi e Londra, mentre da Roma Giulio Andreotti non celava le proprie perplessità affermando con un sarcasmo non tutto diplomatico: "Amo così tanto i tedeschi che di Germanie continuo a preferirne due".
L'euro è dunque la risposta ai timori di un'Europa che paventa il dilagare dello strapotere del marco e della Buba. Come si vede, ancora una volta l'intelligenza del problema sta nella radice che chiarisce insieme il destino e le difficoltà.

La stagione

M. Tronti
Difficile definire questa  stagione, che a Mario Tronti appare segnata da storie minori, in fuga dalla profezia e dalle utopie, con un rumore di fondo invariabilmente in mibemolle… È la musica, forse, di questo post moderno, dove al “post” è assegnata la funzione di indicare quel che  non siamo in grado di criticare e tantomeno di cambiare. Ma è proprio soltanto così? Un paio di decenni fa rispondere era più facile: l’ordine internazionale di Yalta delineava un quadro in cui orientarsi. Oggi non è più così. È crollato il vecchio ordine internazionale e quello nuovo è in una faticosa fase di gestazione. Questa davvero è la nostra condizione.
Questa percezione del passaggio d’epoca è essenziale per parlare oggi dell’Europa. E ci obbliga a pensare Europa. A pensare europeo. L'Europa che verrà è un’Europa oltre se stessa. Oltre il sogno americano. Spiace per l'Alta Corte tedesca, ma Europa non è la copia degli Stati Uniti d'America. Altro il nostro federalismo. Là dove la legge governava gli spazi, qui oggi le etiche sono chiamate a governare il consumismo. Non soltanto tribunali, ma cattedrali, sinagoghe e moschee. Non più tedeschi, francesi, italiani, ma meticci di un mondo in  progress. L'Europa non è Stato federale analogizzabile agli Usa perché è processo e procedimento, e quindi, a partire dal Vecchio Continente, sogno di futuro. Non più la scritta sulla parete del tribunale che dichiara la legge uguale per tutti, ma l'opinione pubblica, i suoi guasti “medievali", le ondate dell'emozione (e qualche riedizione di caccia alle streghe), il Papa alla finestra dell'Angelus romano e il gracchiante altoparlante del muezin importato. Al suo interno, e anche sui confini, gli spazi chiedono di essere ricontrattati. Detto husserlianamente, le diverse "regioni" ridisegnano rapporti, vicinanze e lontananze, compatibilità e incompatibilità, spazio privato e spazio pubblico, religione e laicità dello Stato... Fino a strapazzare i classici, alla invitante maniera di Saul Bellow.
Quest'Europa è modello da implementare. Plastico. Tuttora ignoto a se stesso. Non solo avidi mercanti e burocratici banchieri. Non la merce al centro, ma il lavoro e la relazione: questo suggerisce la crisi finanziaria esplosa alla fine d'agosto 2008. Nessuna tirchieria mentale condurrà questa Europa in un porto sicuro, perché il suo unico destino è il mare aperto. Illuminanti in proposito alcuni discorsi di papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in Slovenia nel maggio 1996. Rivolgendosi ai religiosi nella cattedrale di Ljubliana, il Papa Polacco così si esprimeva: "Il ricordo del passato deve spingere a progettare il futuro."  E ne indicava le ragioni: “Questa è l'ora della verità per l'Europa. I muri sono crollati, le cortine di ferro non ci sono più, ma la sfida circa il senso della vita e il valore della libertà rimane più forte che mai nell'intimo delle intelligenze e delle coscienze.” Per dedurne: “Il clima attuale di angoscia e sfiducia riguardo al senso della vita e lo smarrimento manifesto della cultura europea ci sollecitano a guardare in modo nuovo ai rapporti tra cristianesimo e cultura, tra fede e ragione. Un rinnovato dialogo tra cultura e cristianesimo gioverà sia all'una che all'altro, e a trarne vantaggio sarà soprattutto l’uomo, desideroso di un'esistenza più vera e più piena.” A trarne vantaggio sarà anche la complessa laicità della patria Europa, senza la quale nessuna forma politica europea può risultare all'altezza dei tempi e duratura.
Se dunque da una parte emerge il vuoto lasciato dalle ideologie e si fa strada un significativo risveglio della memoria delle proprie radici e della ricchezza d'un tempo, dall'altra viene indicata l'esigenza di impostare in modo corretto e aggiornato i rapporti tra le nazioni e la stessa idea di nazione. Osserva il cardinale Dionigi Tettamanzi: "Su questo punto il magistero di Giovanni Paolo II chiede che questi problemi siano risolti seguendo i principi di sussidiarietà, di solidarietà e di responsabilità: principi tra loro inscindibili e da applicare in modo unitario e simultaneo. In particolare il Papa lancia il concetto di "famiglia delle nazioni". Nel suo discorso all'Onu nell'ottobre 1995 egli rileva che “il concetto di famiglia evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici rapporti funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per sua natura una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, su un rispetto sincero. In un'autentica famiglia non c'è il dominio dei forti, al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti. Sono questi, trasposti al livello della "famiglia delle nazioni", i sentimenti che devono intessere, prima ancora del semplice diritto, le relazioni fra i popoli”.[1]
Può quello che viene ancora abitualmente chiamato Vecchio Continente confrontarsi con un simile orizzonte? La risposta viene ancora una volta dal Poeta: senesco sed amo.[2]

Papa Francesco

Ora questa concezione, e quindi l'identità dell'Europa, viene determinata da una serie di fattori e di elementi di diverso ordine, da quello geografico a quello antropologico, da quello culturale a quello ecclesiologico. L'Europa alla quale il Papa pensa è un'Europa intera e considerata nella sua globalità, non più divisa in due tronconi o ridotta alla sola sua parte occidentale. Da qui l'invito ad allargare lo sguardo oltre ogni confine naturale, nazionale e artificiale per abbracciare tutta l'Europa e tutti popoli del continente, "dall’Atlantico agli Urali, dal Mare del Nord al Mediterraneo". Così si espresse il Papa la prima volta il 10 settembre 1983 alla celebrazione dei "Vespri d'Europa" nella Heldenplatz a Vienna. Con l’avvertenza, appunto, di non mettere tra parentesi il Mediterraneo, là dove una lunga utopia rischia di morire, perché, come ha sconsolatamente scritto Predrag Matvejevic: “Dopo la caduta del Muro di Berlino è stata costruita un’Europa separata dalla “culla dell’Europa”. Le decisioni relative alla sorte del Mediterraneo sono state prese comunque senza coinvolgerlo. […] Tanto nei porti quanto al largo, “le vecchie funi sommerse”, che la poesia si proponeva di ritrovare e riannodare, spesso sono state rotte o strappate dall’intolleranza o dall’ignoranza. […] L’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non s’identificano affatto. […] L’11 settembre 2001, insieme alle fiamme e alla polvere delle Torri gemelle di New York, è emersa una crisi di sfiducia di dimensioni planetarie, con il conseguente peggioramento dei rapporti tra l’Occidente e il mondo arabo e islamico. La situazione è precipitata e ha toccato il fondo dopo i sanguinosi attentati di Londra e di Madrid.”[3]
P. Matvejevic

Esiste una via di sortita? E’ possibile un progetto comunemente condiviso? Per Matvejevic “i progetti per l’alleanza delle civiltà rappresentano in parte una reazione viva allo scontro delle civiltà, secondo la ben nota formula usata dal professore americano Samuel Huntington, morto recentemente, nel suo libro Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Questa “teoria” richiede un approccio particolarmente critico. Non si tratta di uno scontro delle componenti culturali di una civiltà, di culture in quanto tali. Si scontrano infatti le espressioni delle culture alienate e trasformate in ideologie, quelle che operano non più come contenuti culturali, ma proprio come fatti ideologici. Il pericolo è noto da tempo: una parte della cultura nazionale si è trasformata, nelle varie epoche e nei diversi luoghi, in ideologia della nazione. Aspettiamo una nuova cultura che ci sostenga. Siamo impazienti: non sappiamo se la letteratura, i suoi vari modelli, generi, discorsi possano aiutarci davvero. Forse con essa sarà almeno più facile sperare.”[4]

Il versante essenziale
Non a caso un versante essenziale dell’iniziativa europea è il suo modello di società. Lo Stato Sociale, così come lo abbiamo conosciuto e come lo stiamo trasformando, è stato una invenzione europea. Trasformare sicurezze corporate in diritti di cittadinanza ha comportato un lungo cammino che ha visto al suo centro il movimento dei lavoratori e l’espandersi della sensibilità sociale delle istituzioni. Una democrazia sociale, una democrazia sostanziale… Non bastava, non è bastata una democrazia liberale. Oggi si tende a contrapporre uguaglianza e libertà. Lo Stato Sociale europeo è stato di fatto una terza via tra una libertà insensibile all’uguaglianza (America) e una uguaglianza  senza libertà (la Russia Sovietica). Poteva esserci una libertà responsabile, aperta alla dimensione dell’uguaglianza proprio mentre esaltava la libertà delle persone? Appunto, persone e non meri individui… E’ possibile una diversità non estranea alla solidarietà? E’ possibile una uguaglianza che valorizzi la diversità? Siamo stati un grande campo di sperimentazioni. Non si è certo trovata la formula magica, ma si è intravista una via, si sono fatte esperienze, si sono sedimentate istituzioni che ci fanno oggettivamente diversi dagli altri.
Possiamo discutere, e lo si è fatto per decenni, dei vari tipi di Stato Sociale: nordico, continentale, mediterraneo. Ciò che accomuna sotto le formule è la sensibilità sociale delle istituzioni. Un capitalismo compassionevole sarebbe da noi una regressione antropologica e civile. C’è, insomma, uno stile di vita europeo, una percezione dei diritti e dello Stato che è un valore da proporre e da continuare a produrre.
Proporre non vuol dire imporre. Non si impone la libertà e non si impone la democrazia. Il conflitto geopolitico comporta questa molteplicità di modelli, di soluzioni all’esperimento sempre aperto della vita associata. La lunghezza e la complessità della nostra storia può essere una risorsa inesauribile per creare un’altra possibilità, non unica, alla variegata storia del mondo.
E quando parliamo di stile di vita europeo parliamo anche di una misura diversa della vita. E’ immaginabile una città europea di 24 milioni di abitanti? Le “piccole” città dell’Europa, il suo “piccolo” mare rispetto allo sconfinato oceano non sono una “riserva indiana”, ma possono indicare una dimensione nuova ai processi in corso. Nell’oceano immenso ci siamo stati e da protagonisti. Non ci siamo rinchiusi negli spazi fermi, nei mari chiusi. C’è sempre stata una frontiera da oltrepassare. Sono state le nostre “Colonne d’Ercole”. Dallo stretto di Gibilterra a Costantinopoli abbiamo dialogato con l’oceano e altri mari, a loro volta approdi di popoli immensi e lontani. Ma siamo stati anche in grado di dare misura agli spazi infiniti. La distribuzione delle città, la rioccupazione delle campagne, il ripopolamento delle colline, la riscrittura dell’ambiente sono tutte compatibili con l’incredibile sviluppo delle nuove tecnologie.
Hanno senso megalopoli interminabili nelle straziate periferie del mondo? Hanno senso monoculture umilianti che desertificano la terra di uomini e di società?
Una Europa della solidarietà e dell’accoglienza è una Europa che misura i processi della globalizzazione riportandoli al loro profilo umano. E’ l’Europa del “radicamento”, di cui parlava Simone Weil, contro lo sradicamento di una globalizzazione senza politica. Per questo diventa decisiva la funzione dell’Europa: l’Europa del dialogo. La caccia al terrorista sta disseminando nel mondo focolai di guerre inconcludibili, che non preparano un nuovo ordine. In questi ultimi decenni abbiamo assistito a guerre senza politica, a guerre lasciate lì, perennemente aperte. Una politica estera europea non può adeguarsi allo stato delle cose: ne uscirebbe annullato il suo ruolo nel mondo. Da dove il malinteso? L’Europa non è negli statuti, bensì nelle origini e nel processo lungo il quale si va costituendo. Non rientra nei canoni della cultura giuridica tedesca, e si distanzia dalla visione che ne ha la Corte Costituzionale germanica che le assegna un profilo troppo simile a quello dello Stato Federale statunitense. Così come non appartiene alla cultura dell’innovazione che implica continuismo ed inerzia, ma a quella della trasformazione: delle forme e -si spera- dei soggetti. Non è insidiata dai referendum avversi di Irlanda, Olanda e Francia, ma dall’idraulico polacco… Proprio perché i nuovi europei la guardano più dal punto di vista del Welfare che da quello di Giscard D’Estaing e dell’équipe che con lui ha prodotto la Carta.  Per questo Europa è figura che matura lentamente e nella storia e sulla scena politica. Insomma, questa Europa, direbbe Dossetti, non è da fissare in una fotografia, ma da seguire in una sequenza filmica.

G. Napolitano
Conclusivamente è dunque possibile dire che senza una rinnovata cultura politica non si dà forma europea. Non basta più l'allontanamento da due guerre disastrosamente apocalittiche che costituì l’incentivo primario al pensiero e all'azione dei padri fondatori. E per quel che riguarda l'Italia appaiò le posizioni pur tanto distanti di Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli.
Senza un adeguato orizzonte politico quest'Europa non può crescere né persistere, e l'infinita discussione sull'euro riguarda in effetti più le modalità di una zona di libero scambio che quelle dei futuri "Stati Uniti". Un discorso che accomuna in una generale povertà da riconoscere le vecchie come le nuove generazioni. Che in particolare mette il dito sulla natura della classe dirigente, anche quella che si espone al voto di maggio.
Senza un fondamento culturale adeguato finiremo per votare la parte elettiva di una pur necessaria burocrazia. E se la politica fa sempre i conti con la necessità prima che con il sogno, è anche vero che i cuori degli europei non possono essere scaldati dalle liturgie della democrazia, ma restano comunque in attesa di nuove passioni e di chi le sappia suscitare.

Note
1.Citato in Dionigi Tettamanzi, Giovanni Paolo II e l’Europa dei due polmoni, pro manuscripto, Genova, 7 ottobre 1998, p. 8.
2.Ezra Pound, Pisan Cantos, trad. it. Canti Pisani, Guanda, Parma, 1979, p. 125.
3.Predrag Matvejevic, Mediterraneo, così muore un’utopia, in “Corriere della Sera”, sabato 28 febbraio 2009, p. 46.
4.Ibidem                                                                                             



   



L'arresto dei furfanti che avevano fatto dell'Expo una vacca da mungere,
ha dato ragione a Luigi Caroli e alla Rete dei Comitati che si sono battuti
con ogni mezzo per impedire la devastazione di alcuni parchi cittadini, con
la scusa delle cosiddette via d'acqua. Ora sappiamo quali interessi c'erano
dietro quelle scelte. Caroli e i Comitati hanno sin dall'inizio suonato l'allarme
per impedire questo ennesimo saccheggio di denaro pubblico. Caroli lo ha fatto
anche con i suoi versi satirici che "Odissea" ha più volte ospitato.

QUESTA VIA NON LA VOGLIAMO
di Luigi Caroli

Poi che Sindaco fu eletto
cittadin non ha rispetto
spesso maramaldeggiato.
Ladri invece han coccolato.

Quando furono arrestati
non li aveano mai incontrati?

(voi che ne pensate?)

CI HA MENTITO PISAPIA
NON VOGLIAMO QUESTA VIA!

(la VIA D’ACQUA naturalmente)

Serve solo a dare soldi
a decin di manigoldi.
Arricchire sol gli amici
cittadin non fa felici!

Faccia prima case e scuole
se danar spendere vuole.

(dopo aver aumentato le tasse)

EXPO è scusa soltanto
per Milan non sarà vanto.

(il capo dell’ONU ha chiesto la cancellazione della sua immagine
sovrastata dal marchio EXPO)

Giovanil non c’è lavoro
le prebende son per loro.

(i giovani, se vorranno, lavoreranno gratis)

Vadan via tutti i corrotti
nostri cuori sono rotti.

Tiriam giù le recinzioni
mandiam via questi minchioni.
Non vedete che soltanto
di schifezze menan vanto?

(chi ha ideato EXPOgate?
 chi l’ha approvata non si vergogna?)

Se ne azzeccano nessuna
perché dire ch’è sfortuna?
E se piazza DUOMO è prato
han mill’alberi segato.

Diana Adaluciachiara
il potente nucleo dichiara:
“SI DEVE FAR STRATEGICO CANALE”
signore, potrebbe finir male.

Pensier frutto è di studio serio
o cercan nel canal il re Frigerio?

(il principesco corruttore dell’opera)

STRATEGICO sarà per vostri affari!
Attente! Non saremo sempre ignari.

(chi sa racconti)

E CHI NON LOTTA CONTRO LA CORRUZIONE
INDEGNO E’ GUIDAR CITTA’ O NAZIONE
Si presenta all’elezion per far quattrini

d’inganni ha fatto oggetto i cittadini.
2034???

Devo ammettere di avere inteso in maniera superficiale, o ristretta, il fenomeno Renzi ed il renzismo. L’ho inizialmente preso per un semplice cialtrone, un guitto dell’ambiente di twitter, un ambizioso arrampicatore con metodi più o meno berlusconiani, un furbo parvenu che sfruttava le ambiguità, le ipocrisie e la burocrazia di partito del PD per costruire un potere personale. Come tanti homines novi della storia, dai tempi di Cicerone a quelli del totalitarismo.
Mi devo ora ricredere. Renzi costituisce un fenomeno molto più grave e pericoloso di quel che sembrasse a prima vista. Una mutazione “genetica” ben più profonda di quel che fosse il craxismo per Berlinguer. In altri termini, Renzi non è il sintomo di una tradizionale arretratezza etico-culturale italiana, come appunto potevano essere Craxi o Berlusconi, o le vecchie gerontocrazie postcomuniste. Renzi è il segnale della punta estrema della malattia della modernità, di quella deriva antropologica che ci sta sottilmente pervadendo (prova ne sia il consenso – forse effimero? – con cui sta abbagliando l’opinione pubblica): una volta tanto, l’Italia non insegue, è all’avanguardia dei tempi!
Provo a schematizzare le forme culturali tipiche che si riassumono nella figura di Renzi, gli stereotipi ed i cliché etico-comportamentali che il renzismo porta pienamente alla luce e sintetizza. Sia ben chiaro, non è che compaiono solo in lui, né per la prima volta. Li troviamo sparsi in molte modalità contemporanee, politiche, giornalistiche, mass-mediatiche ed informatiche, ma in Renzi si unificano e giungono a compiutezza, al servizio (consapevole) di un progetto personale e lobbistico di potere e, contemporaneamente, come prefigurazione -inconsapevole, e dunque ancor più tragica- di quello che potrà essere l’etica e la cultura della società futura.
Una precisazione: tutto quanto segue va ormai al di là della querelle se Renzi sia di “destra” o di “sinistra”. Quelle di Renzi sono strategie e modalità formali che lui decide di riempire con i contenuti che ritiene opportuni, ma questi contenuti sono -e gli sono- irrilevanti. È ovvio, i contenuti ci devono essere, come in uno scatolone che deve essere riempito, ma che siano piume o pietre dipende solo da come è fatto lo scatolone e a che cosa gli serve. E dunque, come tali, possono cambiare continuamente, a seconda delle necessità e dei fini immediati. Bene, iniziamo:

LA PERFORMATIVITÀ.
Si punta tutto sul “successo”, sull’efficacia dell’operazione, indipendentemente da fini, valori, giudizi etici od estetici. Non è un caso che si insista così tanto sulla “cultura del fare”: che non significa niente. Fare COSA? Sono tante e diverse le cose concretamente da fare, da una guerra nucleare ad innaffiare i gerani… ma si pretende di affermare l’operatività in quanto tale, e di richiederne l’approvazione perché si è operato. Il parametro del successo a prescindere diventa il parametro del consenso: basti vedere quanti l’hanno votato alle primarie perché ‘ci avrebbe fatto finalmente vincere’. Vincere chi, come, perché? Non ci si è posti il problema…

IL QUANTITATIVO.
Il criterio di valutazione delle performance finisce per essere semplicemente una quantità, un numero - per di più, spesso, isolato e non relazionale. Ecco l’insistenza su misurazioni astratte e divinizzate, tipo ‘85 euro per lavoratore’,‘150 auto blu in meno’, le date delle riforme, etc. cosa vogliono dire, oltre ad essere il mantra propagandistico per sostenere ‘ecco, abbiamo fatto, abbiamo raggiunto l’asticella numerica’, per di più fissata da noi stessi? Scompare così ogni elemento di giudizio qualitativo; ma, anche a volere restare sul semplice piano quantitativo, avrebbe, per quanto limitato, un senso soltanto in un’ottica di proporzioni, di percentuali, di tendenze, di raffronti sistemici. Ma i numeri come divinità autosufficienti intimidiscono, danno sicurezza ed apparenza di serietà a chi li usa, spengono le eventuali obiezioni. E alla conclusione si mettono in fila, una tantum, i numeri dei voti, elettorali o sondaggiati, il più uno.

LA VELOCITÀ COME MITO.
Non mi dilungo. C’è una sfilza di riflessioni teoriche e letterarie, ben più articolate delle mie, e di esperienze concrete sulla lentezza. Qui vengono bruciate tutte, per di più sull’altare di una velocizzazione che viene, innanzitutto, affermata e raccontata, più che realizzata…È una velocità come bandiera, come ideologia, che serve a giustificare il ridurre in modo superficiale a macerie tutto ciò che è meditazione, approfondimento, articolazione, esperienza interiore, consapevolezza, progettualità non generica, etc. Ed accelerando si anticipa, si spingono più in là i problemi ad un futuro che tutto vedrà risolto.

L’ URGENZA.
Come meccanismo colpevolizzante, che giustifica la fretta, impone la semplificazione e travolge i bisogni dei singoli e dei gruppi sociali: siamo sempre in una situazione ‘d’emergenza’, siamo sempre all’ultima spiaggia, in una crisi emergenziale da cui possiamo uscire solo se cogliamo l’ultima chance che ci viene offerta, dopo Renzi il diluvio, guai a chi si sofferma a pensare o perlomeno ad emendare. Prendere o lasciare. Urge cogliere l’attimo, ma quel che cogliamo è la fregatura sotto cui dobbiamo chinare la testa, imposta in malafede sfruttando l’urgenza, o in incompetente buonafede perché si deve fare subito e non si capisce quel che si sta facendo.

IL RIVOLUZIONARISMO.
Va di moda dirsi tutti rivoluzionari di qualcosa. Qualunque modesto cambiamento si veste da ‘rivoluzione’. Abolire cento consiglieri provinciali ingrossando i carrozzoni regionali, sarebbe una rivoluzione. Mettere un giovane incompetente e confuso al posto di un vecchio marpione esperto, una rivoluzione. E perché non capovolgere il rosso e il verde dei semafori? È l’ideologia  della rivoluzione recitata, o autoproclamata per definizione. Come il partito rivoluzionario istituzionale in Messico. Il tutto affiancato, ovviamente, dalla retorica mediatica del nuovo ad ogni costo, come migliore in quanto tale. Ma chi l’ha detto, tanto per esemplificare, che una “nuova” legge elettorale debba essere comunque migliore di alcune “più vecchie”, purché costituzionali?

IL SERVILISMO TECNOLOGICO.  
Dovrebbe essere evidente: eppure ancora si spacciano gli strumenti tecnologici nuovi come prova di modernità e progresso sociale, ma sono solo strumenti. È chiaro che la BIC è più efficiente della penna d’oca, ed il CD del disco in vinile (fermo restando che per motivi affettivi o estetici potrei preferire di usare penna d’oca e vinile) e quindi li si usa, ma ciò che conta è ciò che ci si scrive o suona…idolatrare le slides o twitter (e chi li utilizza come ‘grande innovatore’), se non è una profonda ingenuità, è una forma di passività che ci assoggetta a potenze estranee, e ben strumentali e strumentalizzatrici. Ci si dimentica forse che il nazismo era un’avanguardia tecnologica?

IL DISCONOSCIMENTO DEL LIMITE.
Tutto ciò si completa in quello che è il paradigma complessivo del renzismo: “Il disconoscimento del limite”. Il limite va riconosciuto, non necessariamente per rispettarlo, forse meglio per trasgredirlo, ma bisogna conoscerlo. Invece il mito modernista/futurista della fretta, l’innovazione a prescindere e ad ogni costo, il battere i pugni per avere successo (o perire), le sparate roboanti che poi partoriranno i topolini, i conti della serva truccati da rivoluzioni, i bonapartismi ricattatori “o così o pomì”, le arroganze minacciose tipo ‘solo io salverò l’Italia’ -senza precisare come e con che mezzi- ‘o me ne andrò’, l’impunità di poter dire tutto e il contrario di tutto (“L’Italia taglierà le spese militari” e “L’Italia  si impegna  a mantenere un ruolo forte nella Nato”) a prova di smentita, tradiscono tutte la stessa malattia mortale: un modo di pensare da delirio d’onnipotenza. Che prelude, temo, alle forme paranoidi pienamente compiute di una società prossima ventura che annuncia. Ma stiano attenti, Renzi o chi sulla sua scia come lui, a non suscitare la vendetta degli dèi: basta poco, uno scacco individuale o storico ad annichilire ogni hybris…

Conclusioni. Se si trattasse solo di Renzi come individuo, mi basterebbe aspettare sulla riva del fiume che passi il suo cadavere…e passerà, come passa quello di Berlusconi. Ma temo che sia una ben più insidiosa e contagiosa avanguardia storica, basta vedere quelli che gli scodinzolano intorno per sospettarlo: e allora, se non sarà oggi, sarà fra vent’anni. Quello che non si è realizzato nel 1984 di Orwell sarà, certo con modalità molto più sottili, suadenti, consensuali,  per il 2034?

I combattivi, i ribelli a questa prospettiva cerchino di mettergli in tutti i modi, con qualunque mezzo, i bastoni fra le ruote. “Gli andati, rassegnati, soddisfatti” ci si adattino o ci sguazzino, per illusione, autoinganno, salto opportunistico sul carro, gusto di stare comunque, o finalmente, dalla parte che vince. Per me, tento almeno di comprendere di che morte mi si vuole fare morire, senza farmi prendere in giro. Di disertare, perlomeno da quanto si celebra e mi si racconta.
L. S.

Privacy Policy