IL GRIDO DELL'ORSO
Torre dell'Orso (LE) |
Dell'Orso sembrava
di sentir la voce
fin là nella grotta,
che dal mar
ne portava l'urlo.
Ignari eran a festeggiare
con custumi e artifizi
la SS. Madonna
dell'Annunziata
gli abitanti della città,
mentre l'Orso gridava
a tutti quanto stava
per accadere alla
spiaggia di San Foca.
Paola Gentili
LETTURE
IL VENTO E LA MOTO
Una nota di Fausta Squatriti al libro di Grazia Livi
È l’attesa di eventi minimi che come valanga rotolano e
travolgono lasciando chi li ha subiti
tramortito anche se salvo, la cifra narrativa dei racconti di Grazia Livi. La
sintesi tagliente della mai compiaciuta descrizione, nella sua esattezza li
innalza a paradigma dello stato di attesa conseguente alla psicologia
femminile, che Livi conosce e narra con struggente pertinenza. Facile sarebbe
cadere nel trito, parlando di bacetti, manine, piedini, spruzzini di saliva,
parolucce; spira invece nelle righe della tenerezza materna verso il figlio
piccolo, una brezza di purissimo amore cui l’osservazione in quanto fenomeno
non toglie il mistero. “...l’anima mi entra in tutte le ossa per ammorbidirle,
e due parole soltanto si posano sulla mia lingua. Due parole soltanto, due
petali: bambino divino”.
La giovane madre nel cui stato di
appagamento Livi c’immerge, è la medesima che, con feroce precisione si
distacca, più avanti, da ogni retorica visione dell’amore materno, evidenziando
l’esistenza di quella terra di nessuno che distanzia ogni essere dall’altro. Il
bambino antagonista uscirà vincitore sulla magra logica dell’adulto, che
spietato lo identifica in un “nanetto” dispettoso. Il bambino ha una sola arma
di difesa, per rimanere al centro del mondo; pur di avere la madre tutta per
sé, ne provoca la collera. La scala dei valori ascende dal quotidiano
all’universale con forza epica sorprendente. Il ciclo intero della relazione
madre figlio, in questi racconti che si leggono come un romanzo, è dispiegato
senza pietà. Arduo è il percorso del rapporto con l’altro da sé. I personaggi
dei racconti cambiano nome, anche se sono sempre gli stessi, Madre, Figlio, e
defilati, padre, amici. E ci sono case, strade, vento, dirupi, Natura entro la
cui oscura selva si annida una Parca illogica e possente, la Paura. E c’è
l’Attesa che gli eventi funesti sfuggano alla Parca distratta, che i minimi
dettagli rimangano al loro posto, che l’incubo si smentisca sbriciolando le sue
stesse previsioni con il chiarore del giorno, quando le piccole cose portatrici
della storia di vita che anche attraverso di loro si dipana, riprendono le
giuste proporzioni.
L’Eroe-centauro cavalca la macchina, giovane
femmina e amante incinta di infiammabile propellente. La femmina Madre è
radicata alla terra, nella distanza sempre più ampia tra il corpus vulnerabile
del sentimento del conservare, e quello del Figlio del distruggere per cercare.
La sua energia mentale galoppa a pari passo con quella del proprio corpo, con
la stessa urgenza con la quale il sangue racchiuso nelle vene tempesta di
battiti il cuore. La moto è oggetto e metafora, la Madre va scalzata,
l’alleanza tra il Figlio e la Madre era necessità biologica, ora non più. La
Madre cui si nega l’intimità della condivisione, entra nel personaggio
della Maria piangente, cui il figlio
dice “Non mi scavare, Ma’, fatti gli affarucci tuoi, elimina i confronti che
non c’entrano un cazzo”.
La Madre nutrice allestisce una
mensa che rimane deserta, il cibo amorevolmente preparato si sciupa nei piatti.
L’universo maschile si lascia lambire solo per stanchezza. Il marito schiantato
dalla fatica ha il corpo flaccido, i peli grigi e radi, si addormenta in
mutande. “...Il suo respiro forte, roco, saliva e scendeva come da una
fossa...” Per riscattarlo Livi lo trasforma in placido animale che si lascia
toccare, inconsapevole, mentre la narrazione entra nello specifico di una
favola allegorica. La Donna si intrufola nel corpo innocente dell’animale,
sotto la sua calda pelliccia
“...picchiettavo con due dita
sotto la coda, attorno a un foro piccolo piccolo, docile e oscuro. Mi
accompagnava un ronfìo assorto, così assorto che tutto il mondo era sparito
nella profondità...”. La femmina ricorre allo stratagemma del gioco per
condividere la propria psiche con quella del maschio, proprio come aveva fatto
con lei il bambino. Allora il gioco trovava in lei solo una doverosa
condiscendenza, quando non un netto rifiuto, ora la donna vi ricorre per
salvarsi dalla solitudine. L’immaginazione trasforma la fossa in profondità.
“Più volo e meno m’arriva il tanfo del paese
in cancrena”. Il Figlio è consapevole, come lei lo voleva, è libero, non accetta benedizioni,
farebbe posto a Dio solo per sfidarlo, come un individuo qualsiasi, schiacciato
tra l’aria e le ruote del bolide. Messo alle strette, l’amore della Madre si
concentra sull’incolumità fisica. La Mater dolorosa sta dentro la casa, con la
sua inutile benedizione, con i sonniferi; l’ansia le invade la mente, fa
inceppare la successione della logica, annienta il corpo. La sua vita si ferma.
“Accurre donna/omo che cavalca el mondo e rege s’è chiamato/cadde per sua
follia/accurre piena de doglia/accurre donna mia”. La Mater Dolorosa ha perso
il potere, a nulla le giova essere stata, come con ironia l’aveva definita il
marito, “la Gran Signora della
Riflessione”. La Mater Dolorosa attende umilmente la benevolenza del Figlio,
chiede senza esigere, timorosa di perdere tutto. Riprende il suo ruolo di nutrice
dedita a difenderlo, soltanto negli incubi: “De spine se coroni/chi rege s’è
chiamato. Lei si voltò infuriata e li disperse a sassate. Riprese a correre
singhiozzando: “Figlio mio disgraziato! Figlio mio insanguinato! Figlio chi
t’ha ammazzato?”.
Livi ci fa ripercorrere la via
della croce, ma il suo dolore è culturale, il Figlio non si immola, l’umanità
ha già sprecato una occasione.
Questo testo è psiche
materializzata in gesti; il tempo narrativo serve all’analisi della paura,
fatta brillare nell’insignificanza del fatto compiuto. L’azione è densa di
colore capace di accendere in chi legge la propria commozione condotta dalla
limpidezza del linguaggio, verso la condivisione del dolore dell’esistenza.
Questa raccolta di racconti ci
offre, nella palese verità del suo scavo psicologico, un trattato sul rapporto
Madre-Figlio di rara precisione scientifica, espressa attraverso il linguaggio
narrativo. Grazia Livi non smentisce la propria vocazione di saggista che entra
nelle vite degli altri per amore, e finisce per dovere loro spiegare come sono
fatti, per dovere.
Fausta Squatriti
LETTURE
di Claudio Zanini
Giuseppe O. Longo |
IL FASCINO DELLA
SIGNORA NESLADEK
commento su Avvisi ai naviganti di Giuseppe O.
Longo
Rimane a lungo nella memoria, come un segreto rovello e
un’inspiegabile nostalgia, il fascino della pallida signora Nesladek, evocato con
brevi tratti nel racconto Il fiore del
viandante. Fascino arcano che, come l’intensa fragranza di certi fiori
morenti, ha turbato e stordito (oltre a me) il giudice Scheimer, “salvandolo”
tuttavia, dal male oscuro, dall’ossessione che lo affliggeva.
All’opposto, il protagonista
di un altro racconto, Avvisi ai naviganti,
non si salva, non trova una donna fascinosa che lo redima, irrimediabilmente afflitto
da una singolare ossessione. Ha la percezione che un microscopico bisturi gli sezioni
ininterrottamente il cervello. Fosse vero, gli dice il dottor Krajlevic, medico
della clinica in cui è ricoverato, non sentirebbe nulla, poiché il cervello non
ha sensibilità alcuna. Tuttavia, questa spiegazione razionale non fuga la
certezza dell’incessante lavorio del bisturi. A questa certezza si accompagna quella
di sentire, con l’intero suo corpo, i
moti marini del Mediterraneo, delle sue maree e delle sue correnti, dell’incrociare
di navi e bastimenti, di velivoli, di branchi di pesci, in un immane lavorio
ricettivo d’immedesimazione e sensibilità.
Tale è l’ossessione che
perseguita il singolare malato del primo racconto, che offre il titolo all’affascinante
libro, Avvisi ai naviganti di
Giuseppe O. Longo (Mobydick – 2001). In realtà, a una prima lettura, questo testo
può apparire come un repertorio di ossessioni e malattie, ciascun personaggio
ne soffre e ne è posseduto. Tanto, si potrebbe sostenere, che il male oscuro di
ciascuno, annidato nel profondo del proprio essere, è il nucleo dal quale si
forma e plasma la vita; la determina, non tanto dolorosamente, quanto ne
diventa il senso, una sorta di destino ineluttabile concluso con una morte, in
un certo qual modo, preparata. “Tutti noi, prima o poi, ci uccidiamo… (Infatti)
la malattia è un suicidio mascherato”, sostiene un personaggio del racconto Il fiore del viandante.
Si mette, dunque, in scena
l’ossessione di malattie, malformazioni, anomalie che inquinano l’esistenza dei
personaggi diventando quasi, come si diceva dianzi, il senso della loro vita, mentre
indirizzano ogni loro discorso, sguardo, gesto, come nei personaggi di La moglie del fornaciaro, di Scarpe di ferro, dove, una povera donna
porta con sé la mutilazione dei piedi -divorati, lei bambina, da una scrofa-
che determina l’intera sua vita. Oppure, di Non
mi piacciono le cose troppo dolci, in cui la protagonista è afflitta da una
miopia congenita progressiva.
Assalita dal senso di
colpa per quel figlio nato male e costantemente rimproverata dalla madre, si
tormenta della sua inadeguatezza. Inseparabile dal corpo, è, dunque, la
malattia che irrompe violenta con la sua realtà materiale, bruta, mostruosa, affermando
un tremendo e ineluttabile, principio di realtà. Tuttavia, man mano si procede
nella lettura, al tema del male oscuro e della relativa ossessione (presente in
quasi tutti i racconti), si viene sovrapponendo e diventa dominante la
dimensione del femminile. O meglio, accade che il motivo del male, assuma nel
femminile una dimensione più vasta profondamente esistenziale e coinvolgente.
Si ripresenta, dunque, nel
pensiero, l’inquietante presenza della signora Nesladek, insediata
nell’inconscia memoria, con il suo destino di donna assente, ma votata totalmente all’assidua cura dell’odiata
suocera. La cui morte segna anche l’ineluttabile sua morte.
Nel racconto Il fiore del viandante (che, a mio
avviso, rimanda alle atmosfere di Zweig o Schnitzler), Jelena Nesladek, moglie
dell’omonimo procuratore presso il quale il giudice Scheimer è ospite, suscita in
quest’ultimo, nonostante si scambino rari sguardi e parole, una tempesta di
sentimenti, sogni, ricordi, antiche aspirazioni.
C’è in lei, lontana e
assente ma allo stesso tempo ardente come un fuoco che segreto avvampi, “un che
d’inaccessibile e nascosto, e anche una piacenza tutta corporea, non spenta ma
insoddisfatta.”
Nonostante “… un viso
sciupato, quasi sbiadito, labbra carnose e sensuali, su cui pareva gravare un
divieto (…) Il desiderio di lei era così forte che si sentiva quasi sdoppiare:
e quella tensione si traduceva in una sorta di mancamento (…) mi sono
innamorato di lei, si disse, e gli parve una sciagura.”
Dalla
consapevolezza di un amore “sciagurato”, impossibile, di una passione cocente
ma inespressa, che lui stesso da un lato respinge, affiora alla coscienza
l’urgenza d’un mutamento, d’una vita diversa, d’una “muta dolorosa”. Al
momento, nulla succede, Scheimer parte, il ricordo di Jelena sbiadisce, la
passione si spegne, tutto si perde in lontananza. Tuttavia, la vita di Scheimer
avrà una svolta, cambierà in modo radicale, mentre nel lettore resta,
perturbante, l’arcano fascino della signora Nesladek, immagine fugace e
inafferrabile, delineata con pochi tratti magistrali da O. Longo.
Passiamo a donne più
carnali. Nella moglie del fornaciaro, dell’omonimo racconto, che esibisce di
fronte al piazzista d’enciclopedie Huber la pancia deturpata dalle cicatrici
fino a scoprire la peluria del pube, la presenza della malattia si mescola
torbidamente con l’erotismo e la sessualità, in una continua oscillazione tra
desiderio e repulsione, come se sempre fosse presente e all’opera il processo
corruttivo della carne. Huber palpa questo ventre violato, il grosso grumo
maligno che affiora, sfiorando i neri riccioli del pube; tocca la pelle bianca,
morbida, ne sente il fascino ma, allo stesso tempo avverte l’inguaribile sofferenza
della carne martoriata. Questa esibizione del ventre devastato e sensuale turba
profondamente l’io narrante, che dice “non ci siamo abituati al corpo
femminile, nonostante Jung, Freud e tutto l’immaginario che da millenni ci
pervade”. In effetti, malgrado tutta l’empatia corporea e spirituale che
possiamo provare, il femminile
rimarrà sempre e inevitabilmente (e per nostra buona sorte, direi) altro.
La moglie del fornaciaro è
una donna che, oltre alla malattia, ha sempre subito, nel ruolo di serva al
servizio di tutti, l’umiliazione e l’indifferenza dei suoi stessi congiunti.
Tuttavia, è a lei che grava sulle spalle il peso del mondo, è lei che trascina
con il suo corpo sfibrato la vita degli altri (del marito che quasi non s’accorge
di lei, dei figli lontani) e, infine, accoglie anche quella del timoroso
piazzista Huber.
Quest’ultimo beve smodatamente,
fino a ubriacarsi. Attenzione, l’ebbrezza alcolica costituisce un motivo
ricorrente in diversi personaggi maschili. Uomini che bevono per sentirsi
adeguati o forse per ritornare a uno stato d’euforico stupore infantile, essere
accolti, salvati dalla solitudine. E per dominare la soggezione che suscita in
loro il corpo altro della donna,
oppure soffocarla con un feroce atto di violenza, come in La verità amabile.
Il corpo femminile,
dunque, si mostra quale elemento perturbante che, in questa dialettica delle
ossessioni (mali oscuri in cui è dissimulato il confuso malessere del vivere), concede la dimensione di segreto e
trepido impulso al coinvolgimento dell’altro. Se l’uomo di Avvisi ai naviganti delira la sconfinata vastità del Mediterraneo, nella
solitudine del suo letto d’ospedale, il femminile accoglie, con dolore e istintiva
gioia, ogni altra vacillante e timorosa creatura.
In La greca del Maryland, l’incontro avviene dopo un esitante riconoscimento,
al termine d’un crescendo ansioso e commovente, di segreti indizi.
Così, è la moglie
dell’oculista Liboff, nella cui casa è ospite il ramingo e disilluso
protagonista di La stagione dei viaggi
-sofferente d’un difetto oculare- a suscitargli l’immagine di un cielo in cui
rosseggiavano dei “relitti del tramonto”, accesi da un vago presagio di
speranza; “qualcosa di teso, misericorde e compiuto, come il viso silente di
Dio”.
Nessuna donna affasciante
e caritatevole in Saturno dal tetto del
bunker, dove il professor, Valich spinto dall’ottusa ostilità dei colleghi
di facoltà, si ritira in montagna, per riflettere sui modelli formali
dell’idrodinamica. L’assoluta solitudine e l’osservazione telescopica di
Saturno, gli permettono di portare a termine il suo straordinario trattato; che,
rifiutato da parte degli editori e stampato in proprio, è ostacolato dai
colleghi e respinto dalle biblioteche. In conclusione, Valich decide di “farla
finita con i colleghi, con la facoltà e con i problemi della facoltà”.
Decisione repentina ed enigmatica, come del resto tutta la sua vita. Qui, pesa
l’assenza del femminile. L’unica donna in scena è la bizzarra sorella, mentre
la moglie di Valich era morta giovane a seguito d’una tremenda malattia .
Solo e malato è il
cantante di lieder nell’ultimo
racconto, A Zenoburg. Affetto da una
sindrome diagnosticata nel corso d’una cena di beneficenza dal medico suo
vicino di tavolo, a causa delle unghie a
vetrino d’orologio, sintomo rivelatore d’una terribile malattia polmonare, egli
in realtà patisce la sindrome dell’uomo
solo. Febbricitante, in una stanza gelida in cima a una torre, soffre,
atrocemente, l’assenza d’una donna che gli sia vicina, che condivida il suo
confuso malessere del vivere, lo accompagni amorevolmente in quel protrarsi del
suo “suicidio mascherato”.
Nella propria sensuale creaturalità,
d’ogni corpo si coglie la pesantezza della carne, la sua corruttibilità, il suo
duplice presentarsi, allo stesso tempo, attrattivo e respingente. Esprime bene
questo concetto la percezione dell’odore:
“Un odore forte e
selvatico cui basterebbe poco, un cambiamento minimo per diventare sgradevole (…)
ma che proprio da questo precario equilibrio trae una capacità di eccitare
continua e ineguagliabile”. Poi, “… il sentore vero dell’epidermide, quello che
esala dalle sudorazioni e dai processi fermentativi e che costituisce
l’impronta aromatica d’ogni persona… “. E “… sentivo l’odore che si lasciava
dietro (…) vortici d’aria con tracce olfattive distinte (…) dagli odori della
casa e del cibo a quello del suo corpo, del suo profumo, del suo vestito (…)
dalla nuca, dalle ascelle, dalle altre profondità... “ e, ancora,
“quel suo odore doveva (…)
acquistare un che di acre e forse stantio per il lieve sudore del sonno per il
fermentare della carne per le esalazioni e le lente minime suppurazioni che
sempre un corpo produce…”
C’è la frase che affiora misteriosa
in una conversazione ferroviaria e risuona nella memoria nel racconto La verità amabile. Una frase di cui, più
avanti, si scoprirà il senso e che costituisce un rovello che dolorosamente si
dipana e rivela una vicenda atroce.
Qui il corpo femminile, brutalmente
violato, è nel medesimo istante, inevitabilmente accogliente, poiché la sua
materia, la sua carne, le sue mucose, i suoi tessuti, i suoi recessi più
intimi, funzionano comunque a dispetto di ciò che accade, della sofferenza e di
ciò che elabora il cervello e la volontà vorrebbe dominare.
Infatti, la vocazione alla
maternità (invidiata da diversi personaggi maschili) si manifesta
inconsapevolmente, subito con immediati sintomi, quasi come il rivelarsi dell’ossessione
e, con i medesimi impulsi, condiziona discorsi, sguardi, gesti, silenzi; magari
soltanto per via di sfumature, dettagli rivelatori. Come è sottilmente notato in
un precedente romanzo di O. Longo, Di
alcune orme sopra la neve (Mobydick, 1990), la vocale finale in uno stesso nome
(Mario, Maria) esprime un’ineguaglianza di genere, nello stesso tempo
differenza minima (i corpi maschile e femminile non sono granché dissimili) ma,
tuttavia, incolmabile. Quella vocale finale denota la facoltà di generare o no;
quindi l’esistenza di un sistema corporeo finalizzato a un fine completamente diverso
a quello maschile. Una piccola crepa che si spalanca su un abisso insondabile.
Nell’affascinante racconto
La greca del Maryland, dove il
protagonista si reca a una festa, e fruga, nella camera da letto, la biancheria
intima della padrona di casa, nella struggente ricerca di una sorta di
intimità, si ha un repentino rovesciamento di prospettiva, determinato da un
piccolo dettaglio (un cambio di vocale finale, appunto) che illumina il
protagonista in una luce diversa, opposta, da quella in cui lo si era visto
all’inizio e conferisce alla vicenda un sentimento di struggente
partecipazione.
È un bisturi affilato e
sapiente, come quello del paziente di Avvisi,
lo strumento impiegato da O. Longo (un bisturi linguistico raffinato e
impietoso), per analizzare con rara maestria carni e anime femminili (vengono
in mente certi ritratti muliebri, sia dell’espressionismo tedesco, sia di
Willem De Kooning, oppure della pittura minuziosamente analitica e materica di
Lucien Freud; ritratti d’un realismo che affonda le sua osservazione nella
carne viva e dolente, nelle anime smarrite e straziate).
Spesso i corpi sofferenti
diventano aridi, freddi e aspramente respingenti. Non tutte e non sempre le
donne accolgono; quando invecchiano, spesso diventano aride, infecondi involucri
d’ossa spolpate da spostare di peso lungo ripide scale.
Nel racconto Con quelle gambe troppo secche, in una
vicenda che accade mentre si parla d’altro, con fumosi discorsi ricordati a
malapena e intrecciati tra loro, si dice che “le donne aspettano la nostra morte
per piangerci ma, soprattutto, per consolarsi di una vedovanza attesa da
sempre… ci dànno l’affetto e il sesso, ma per fiaccarci, ci danno il cibo come
si dà conforto all’ammalato terminale che non debba saper nulla della sua
prossima fine.” Dietro, c’è tutta una storia di “disprezzo, odio, amarezza,
sesso e certo la magrezza della suocera (…) delle sue gambe rigide e secche…”
Gli uomini, questi malati
terminali, lungo il fatale protrarsi del loro “suicidio mascherato”, spesso reagiscono
bevendo; oppure come il giudice Scheimer, cambiano radicalmente. Ma, più
sovente, regrediscono nelle loro vane illusioni, rincorrono patetiche
nostalgie, quando non si fanno sparare per cogliere una rosa (Rosa al confine) o s’angosciano per un rovello
quale quello che angustia il personaggio di Brasato
per tre. Il piatto di carne, che il protagonista divora con famelica
ingordigia, diventa una sorta di allucinata rivalsa che si conclude con
grottesca ironia, una specie di crocifissione in un piatto di brasato.
Se le ossessioni nella
loro varietà hanno un denominatore comune, la loro resa letteraria si avvale
d’un linguaggio che presenta registri assai diversi.
L’affascinante scrittura
di O. Longo, che da voce a questo testo, è ricca e impetuosa come la corrente
d’un fiume che travolge, incorpora e trascina detriti organici, putrefazioni e
grovigli, pietre e metalli preziosi. Il tempo presente si sovrappone e mescola
a quello passato di un vissuto da dove affiorano memorie, nostalgie, sensazioni,
e dove palpita una costante sensualità diffusa dei corpi. Toccare, guardare,
carezzare, annusare, leccare, ascoltare: sono azioni che sostanziano il
vissuto.
Si va dal monologo
interiore di Avvisi, che non è lo stream of consciousness joyciano, denso
di materiali che irrompono dall’esterno, ma una sorta di delirio intorno a un
labirintico Mediterraneo, che dilaga all’interno del cervello del protagonista;
a un tipo di scrittura che richiama Thomas Bernhard nell’avvolgersi su se
stessa intorno a un nucleo (l’ossessione) per via di ripetizioni e
rispecchiamenti, mentre progredisce inesorabile (Saturno dal tetto del bunker);
ai discorsi intrecciati a incastro; alla polifonia di vari monologhi; alle
composizioni di brevi brani mescolati a frammenti di memoriali, discorsi diretti
declinati al condizionale, per rimarcare l’estrema soggettività e l’aleatorietà
di ciò che si dice.
A questa ricchezza di modi
narrativi si accompagnano l’ironia e il sarcasmo, ovunque serpeggianti, come
vena guizzante e irridente, entro la scrittura. Molte situazioni drammatiche
subiscono inattesi capovolgimenti, veri colpi di teatro – O. Longo è anche autore
teatrale - che danno alla scena sfumature tragicamente farsesche e, per il
lettore, assai divertenti. Accade, si è notato, come la scrittura s’avvolga, di
tormentosa ripetizione in tormentosa ripetizione, in una progressione quasi
insostenibile di cui si mette a nudo il meccanismo cui soggiacciono e sono
prigionieri i personaggi. L’abbrivio in cui è travolto il protagonista di Brasato per tre e il finale sono d’una comicità
esilarante. La sepoltura di Valich, la sua grottesca sorella (in pelliccetta e
scarpe da ginnastica) e i maldestri becchini, sono clamorosamente farseschi; il
suo scontroso isolarsi ha momenti che fanno ridere. Il volto di Huber a una
spanna dal ventre e dai riccioli del pube della moglie del fornaciaio, suscita
il riso, amarissimo visto il contesto drammatico. L’ebbrezza alcolica dei
personaggi maschili vira sempre verso il burlesco, mentre l’ossessione
raccontata e ripetuta all’infinito rivela il comico che spesso suscita ilarità irrefrenabile.
A proposito del linguaggio
di O. Longo, vorrei citare qui la raccolta Squilli
di fanfara lontana (Zelig – Mobydick, 2010), posteriore ad Avvisi, soltanto per accennare come la
narrazione - sempre avviluppata intorno a nuclei oscuri e dolenti, nodi e
rovelli irrisolvibili attraversati da lancinanti nostalgie – si sviluppi in
modi diversi, più densi e concentrati, se così posso dire. Si contrae entro brevi
frammenti racchiusi - inizio e fine - da puntini sospensivi per sottolineare un
momento del fluire del vissuto mettendolo sotto il fuoco d’una lente d’ingrandimento.
Schegge di vita in cui apparentemente non succede nulla di decisivo o di
particolarmente interessante; tuttavia, dove vengono avvertite inquietanti
avvisaglie di qualche accadimento futuro, come i lampi all’orizzonte d’un
temporale che non si sa se si abbatterà su di noi o passerà lontano; oppure,
dal profondo della coscienza, affiorano memorie rimosse, fulminee e
sconvolgenti.
È come se nello scorrere
monotono dell’esistenza si aprisse una falla, una crepa causata da un gesto,
una parola, un ricordo, una ferita non rimarginata, una nostalgia indefinita,
come quella suscitata dalla fugace apparizione della signora Nesladek. Certo,
nostalgia d’amore e bellezza. Quest’ultima, tuttavia, si rivela, appare, è
presente nel linguaggio della narrazione, come per esempio, nell’osservazione
della natura che avvolge le vicende e nella resa dei corpi delle creature,
visti con amore dolente e compassionevole.
Giuseppe O. Longo
Avvisi ai naviganti
2001
Moby Dick Edizioni
Pagg. 219 € 11.36
Biografia
Giuseppe O. Longo è nato a Forlì e vive a Gorizia. Ha
pubblicato I romanzi L’acrobata
(Einaudi, 1994, tradotto in Francia da Gallimard), La gerarchia di Ackermann (Mobydick, 1998, tradotto in Francia da À la
croisée) e Di alcune orme sopra la neve (Mobydick,
2007), e – sempre per Mobydick – le raccolte di racconti Congetture sull’inferno (finalista Premio Chianti e Premio
Bergamo), I giorni del vento (1977,
finalista Premio Penne), Il fuoco
completo (2000, Premio Selezione Comisso), Avvisi ai naviganti (2001, Premio Latisana, finalista Premio Feudo
di Maida e Premio Dessì, tradotto in Francia da À la
croisée), Prove di città desolata (2003), Trieste: ritratto con figure (2004), La camera d’ascolto (2006), Squilli di fanfara lontana (2010), Il Ministro della Muraglia (Trasciatti, 2010).
È autore di un trentina di radiodrammi, di monologhi e opere teatrali. Ha
pubblicato, infine, alcuni saggi dedicati al rapporto tra uomo e tecnologia.
L’OPERA OMNIA DI CORRADO CICCIARELLI
Corrado Cicciarelli |
Un volumone di
ben 896 pagine in formato 16 x 24, questo il corpus che raccoglie l’opera completa del poeta, narratore e
drammaturgo ligure Corrado Cicciarelli. Dentro c’è tutta la sua produzione,
saggistica e creativa: da “Alla stazione
di Sian” a “L’amore inquietante”;
da “La Porta di Holsten” a “Il sacco di Sant’Agostino” composto a
quattro mani con Aldino Leoni, dal teatro “Il
mondo è fuori con il cuore in gola” a “Una
vita di parole” che porta come sottotitolo “autobiografia di un
mendicante”, e così via. Non sono sicuro che questo volumone raccolga tutto ciò
che Cicciarelli ha scritto nel corso del suo lunghissimo itinerario di
scrittore, (mezzo secolo di scrittura, di buona scrittura), per esempio non ci
sono i suoi scritti politici apparsi su vari organi di stampa. Ci sono però le
poesie e le fiabe; i racconti e le riflessioni più speculative. Il lettore si
trova tuttavia a disposizione una mole consistente di materiale e potrà farsi
un’idea esaustiva delle sue capacità e della sua duttilità, in grado di
spaziare dal romanzo al teatro all’arte e via enumerando. Rimarrà in ogni caso
doppiamente sorpreso, non solo perché si troverà (ed è la prima volta che
accade, almeno a mia memoria, nel campo della letteratura) davanti ad un libro
che porta come titolo il nome dell’autore: come a dire “il libro sono io, sono
io fisicamente, non solo nelle parole, dunque questa non è semplicemente carta,
ma è carne, sangue, nervi, pianto, gioia, dolore, perdita, in una parola: è vita”. Un corpo vivo rappreso nella
carta.
Nella nota introduttiva firmata dallo stesso autore,
Cicciarelli ribadisce apertamente e senza schermo questa verità. Scrive
infatti: “Questo non è un libro. Sono io, il mio corpo, la mia vita. […] Ignoto lettore, tenendo questo libro tra le
mani mi hai acceso e mi stai abbracciando, sfogliandolo mi accarezzi; grazie,
il tuo gesto d’affetto mi fa ancora battere il cuore e respirare ceneri”.
L’altra sorpresa è la copertina interamente nera, funerea.
Quando l’ho ricevuto con dedica, me ne sono sorpreso, perché gli scritti non
hanno assolutamente nulla di funereo e sono in larga parte pervasi da una vena
ironica raffinatissima; ho scritto un messaggio a Corrado per chiedergli il
perché di una tale scelta e questa è stata la sua sintetica risposta:
“Caro Angelo,
il libro è
volutamente funereo perché rappresenta la mia trasformazione da uomo a libro,
quindi è una specie di tomba simbolica dell’autore...”.
La copertina del libro |
Dunque una specie di bara su cui campeggia il suo nome
anche nel titolo, come fosse inciso su una lastra marmorea. Uomo-libro o
libro-uomo, come più vi aggrada. Un’indicazione da prendere sul serio e dunque
un invito al lettore, ad avvicinarsi a queste pagine con il rispetto e la
delicatezza con cui ci si avvicina ad un corpo e ad averne cura. È in questo
spirito che io ne ho cominciato la lettura; alcune delle opere contenute nel
volume le avevo lette in tempi diversi nelle singole edizioni, ma vederle ora
tutte assieme in questa opera omnia, vi assicuro che l’effetto è molto più
coinvolgente.
Angelo Gaccione
Corrado
Cicciarelli
“Corrado
Cicciarelli”
Busco Editrice 2014
Pagg. 896, € 20,00
[Per chi vuole procurarsi il volume, basta scrivere alla
Redazione di “Odissea”, penseremo noi a girare la richiesta all’autore]
Alla Carlona
Un racconto di Cesare Vergati
Il marito alla moglie voleva certamente fare dono di compleanno –
il genetliaco propriamente a festeggiare il giorno di sabato a suoi ormai
quarantasette anni – così frettolosamente si recava la grande città – là dove
la gente sa trovare regali vari ricchi meravigliosi dicono quanto spesso
insoliti per forma e contenuto – la meta acquistare semplici eppur d’oro
orecchini magnifico ornamento – la tradizione secolare secondo – se l’aspetto
ad anello – buccola davvero piacevole a vista – il ricordo i pendenti
probabilmente e nonna – al cuore in vanità ed eleganza – colui che corre a non
perdere treno appena avviato – correva, l’abilità il ragazzo capace superare
ogni ostacolo a piena lena la pratica del gioco e lotta con compagni d’età –
finché arrivava – sano e salvo – a negozio – il senso la vendita gioielli
mirabili al grande gusto, attrazione le donne ed altri – risoluto a comprare
più begli orecchini in materia oro – l’intento far massimo piacere a consorte –
la coniuge quanto tempo la comune vita – forse l’idea porre la donna in
firmamento le belle femmine questa rurale zona il mondo, così parimenti – la
stessa rapida corsa, medesimo stile d’animo intensa pari passione – l’uomo
tornava a casa ora a ragione di preparare e scatola in giusto impacchettamento
regalo – se ispirato cercava – quanto affannosamente – esattamente piccolo
involucro atto a contenere i gioielli a materia splendente oro – poiché
finalmente riusciva – il cercatore che trova a tenacia e determinazione – il
togliere minima scatola i fiammiferi – oramai vuota sebbene vecchia in vissuto
ed esistenza – riposta in ambiente stantio a molta polvere – stanza buia per
insetti e malodore – per cui felicemente determinato il rurale sicuramente faceva
uso il comune contenitore in qualità cofanetto sublime scrigno in immaginazione
la moglie a felicitare più bel giorno la grande festa, manipolva comunque
nervosamente la scatola una volta a fiammiferi – vecchia in cartone squallido a
sapore – il naso di viventi e sensibili – la muffa umido quasi a corpo molle se
tuttavia all’entusiasta sembrava come supremo elemento per gioia
indimenticabile la amata in eterno donna – fin d’infanzia a sogno il matrimonio
perché più alto destino il figlio il fattore che seduce figlia il notaio il
grande paese agricolo – mentre adesso gli occhi a commozione il pensiero sempre
a fantasticato volto la sposa da tempo tanto e lungo la soddisfazione – la fortuna
a lui e sfortuna ad altri – aveva peraltro fisso sguardo a scatola slabbrata
quanto già brutta a visione persino l’estraneo il forestiero a cose questo
genere sebbene profano – il dolore il guerriero a ferita slabbrata – l’estro di
accomodare l’oggetto il fine riporre in ultimo gli orecchini due quale ospite a
leccarsi e labbra in sapere lo squisito pasto a breve. Al contempo il contadino
contento, che presume molto di sé in campo a lui ignoto – faceva la cerca
ancora più il nastro a seta – il modello quello sensuale a dare la fanciulla
acconciamento i capelli a piega lo sposalizio – l’accanimento vigoroso il cane
a fiutare la volontà strenua a stanare la rinchiusa selvaggina – poiché lo
stretto tessuto e lungo, l’indole morbida e lucente, indubbiamente stava – a memoria
d’uomo – in ripostiglio – luogo angusto tetro al pensiero – dove ebbene attrezzi
sporchi il lavoro strumenti vari l’antico tempo quindi in disuso la cosa morta
al consorzio umano – eppure tale striscia, il noto colore l’azzurro mostrava
sfilamenti per ogni dove sfilacciature malvagie allo sguardo e vieppiù la
azzurrea correggia – il desiderio l’apparire grazioso fiocco – veniva a luce il
giorno a manifestare e tante macchie – l’unto d’olio possibilmente a macchina
il lavoro in campi – disgustose chiazze – a ribrezzo dicono il fanciullo questi
quando estivi paraggi – chiazze macchie che il rurale anzi sapeva amare – lo
strano impulso ad oggetti guasti – così l’aiuto conosceva abili dita il grande
lavoratore in abito il sarto – perfetto artigiano in maniera d’artista – l’uomo
a far felice la donna – faceva nodi e l’apparenza la lettera a sgorbi, il
passante a mostra come voluttuoso il pregusto atteso bacio d’amante volutamente
in fretta e furia – l’impiegato a sbrigare una pratica orfano di cura – la sola
eccitazione comporre alfine il pacco piccolo regalo – il genetliaco la moglie –
a suo modo forziere al di dentro d’oro gioielli orecchini – a fare allora bella
figura persone e cose di qui l’atto di custodire preziosi oggetti a difesa –
l’orgoglio inalterabile la cassaforte a sempre inviolata – e tuttora le mani
calde comunque fregava - l’impegno questa volta accurato il cuoco – quando a
suo raro turno – il fiammifero su carta vetrata, al sorriso pienamente – già
quasi pago in suo attuale desiderio; in piedi su soglia la lignea robusta porta
il rurale soffriva l’attesa la moglie a presto l’arrivo a dimora, quando il
solenne momento il marito alla moglie il sublime dono, quella ancora formosa
femmina piacevole a delicate carezze – eppure al primo sguardo solo – severa
l’austera forma l’indignato a punire – quale funesta collera – l’insolente,
irrispettoso omuncolo e terribile castigo – la fredda femmina – a smorfia
completo disgusto con il volere lo sputo su cosa ignobile – tornava il capo la
figura altrove a recarsi in città il nuovo acquisto se il contadino – afferrato
in infinita angoscia inenarrabile ansia – nuovamente stava la futura attesa la
femmina desiderata chissà a portare il nuovo scrigno la nuova scatola il fine
il presente fatto concepito a reale comme
il faut.
IN MEMORIA DI MARCO GAL (1940-2015)
di Giuseppe
Zoppelli
Marco Gal |
Chi
devo oggi ricordare: l’amico Marco Gal, il poeta Marco Gal, l’uomo privato o
l’uomo pubblico? Per ognuno di essi, in trentacinque anni di frequentazione, di
amicizia e di sodalizio letterario ho un’infinità di ricordi e, forse, non mi è
possibile distinguerli. L’ultima uscita pubblica di Marco, ad esempio, è
avvenuta quattro mesi fa, il 9 ottobre scorso a Saint-Vincent -quando l’uomo
era già stanco e provato, già piegato e piagato dagli anni, dai malanni e dal
peso della vita- allorché abbiamo
presentato la sua ultima opera poetica, che comprende le quattro raccolte
precedenti, quanto significativamente intitolata Sèison de poesìa (“Stagioni di poesia”, puntoacapo Editrice, 2014),
a testimoniare che ogni raccolta pubblicata nel corso del tempo ha
rappresentato una tappa e una particolare stagione del suo vivere, forse consapevole
che era arrivata l’ultima.
Oggi, col senno di poi, sono ancora più
felice che Marco abbia fatto in tempo a veder pubblicata l’opera di una vita e
che almeno quella sera abbia ricevuto dai presenti i giusti e meritati onori,
visto che in Valle ha raccolto molti meno riconoscimenti di quanto gli sarebbe
– secondo giustizia – spettato. Io ho perso un grande amico, ma la Valle
d’Aosta e il patois hanno perso un grande poeta. Chi sia e cosa sia un grande
amico vorrei dirlo con le parole di un altro poeta: «Un grande amico che sorga
alto su me / e tutto porti me nella sua luce, / che largo rida ove io sorrida
appena / e forte ami ove io accenni a invaghirmi…». Che cosa significhi invece
per Gressan, per la Valle d’Aosta e per il patois la perdita di un grande poeta
lo lascio nuovamente dire ai versi di Vittorio Sereni: «Ci vuole un secolo o
quasi / […] / ci vuole tutta la fatica tutto il male / tutto il sangue marcio /
tutto il sangue limpido / di un secolo per farne uno…».
La
bibliografia poetica di Gal è presto detta: la
sua natura meditativa, che lo porta alla poesia verso i dodici anni, è ancor
più accentuata da una grave malattia che lo colpisce all’età di sedici. Vulnus che lo lascia ai margini della
vita: la poesia diventa allora strumento privilegiato di introspezione, di
fantasticheria, di relazione col mondo sensibile e spirituale. Nel 1965
pubblica la sua prima raccolta di versi, in lingua italiana,
Canti di ricerca, in cui compaiono anche sette poesie in
francese. Pubblica in seguito il breve saggio Elementi per una socializzazione della cultura (1966), testimonianza
del suo successivo impegno socio-politico, prima di far uscire la seconda
raccolta in italiano Felicità media
(1968). Alla metà degli anni ’80 la svolta linguistica: l’incontro con l’opera di Eugenia Martinet lo
conduce verso il dialetto. Nel 1991 vede la luce la raccolta di poesie in
francoprovenzale Ëcolie (“Acque
perdute”), con trasposizione dei testi in francese e in italiano, cui
seguiranno A l’ençon (“Sul limite”, 1998),
Messaille (“Libere acque della sera”, 2002) e A l’aberdjà (“A l’albore serale”, 2007). All’attività poetica va
aggiunta quella di antologista della letteratura francoprovenzale valdostana e quella
di promotore culturale e animatore di riviste letterarie; mentre l’interesse
per la storia locale, che coltiva parallelamente alla poesia, porta alla
pubblicazione di alcune opere di carattere storico-etnografico su Gressan o su
altre realtà locali.
Di tutti i ricordi che ho di Marco, desidero
in quest’occasione parlare solo dell’ultimo perché -a ripensarci- comprende
l’amico, il poeta, l’uomo e forse racchiude il senso di una vita. La prima
domenica di gennaio sono stato in ospedale a trovare Marco sofferente, col suo
respiro affannato, col suo cuore affaticato e debole, avvolto nel torpore dei
farmaci. Sul comodino vicino al letto c’era una raccolta di poesie di un nostro
comune amico poeta, il quale gliela aveva spedita qualche giorno prima. Sono
rimasto sorpreso nel vederla perché a me non era ancora arrivata e ancora l’aspettavo.
Ho preso in mano la raccolta e, con entusiasmo, ho detto a Marco dell’arrivo
del libro, ho pronunciato il nome dell’autore, gli ho letto la dedica che gli
aveva fatto e gli ho ricordato che avevo scritto io la Prefazione. A quel punto
Marco ha spalancato i suoi occhi di un azzurro infinito, che fino a quel
momento erano rimasti socchiusi e sonnacchiosi, come ricevesse una scossa
vitale, una ventata di aria fresca, come si risvegliasse all’improvviso in lui
una ragione di vita, come volesse lì -sul momento- ancora ragionare insieme di
libri e di versi, come abbiamo fatto tante volte per molti anni; e per qualche
secondo mi ha guardato con quegli occhi chiari spalancati come se avesse tutto
compreso. Ognuno di noi è un mistero, ma mi piace pensare che in quel punto e
in quel momento si sia raccolta e concentrata tutta l’esistenza di Marco. La
sua vita è stata segnata, fino all’ultimo respiro fino alle ultime forze, da
una grande passione, dalla passione di tutta una vita che ha dato senso al suo
operare qui sulla terra, ai piedi e all’ombra della sua amata morena: è stata
segnata dalla passione vivificante per la poesia, che ha illuminato e
riscattato -anche in quell’istante- il suo esistere.
Anche
quest’ultimus angulus Italiæ che è la
Valle d’Aosta ha oggi il suo grande poeta, e non in italiano o in francese ma
nella lingua materna e materica, nell’idioma della terra (impastato di terra),
nella lingua del terroir; in quei
suoni e in quelle parole in francoprovenzale (patois di Gressan) a cui Marco
Gal ha dedicato non poche liriche, tra cui la bellissima Lenva: Dze predzo de viëille pa-olle, scrive il poeta, «Parlo antiche
parole / nate con la mia carne vivente, / sbocciate nel mio cervello / nei suoi
antri sconosciuti / e scaturite come musica del tempo / frustate dalla mia
lingua, / suoni cresciuti per secoli su bocche amare, / lisciati e sbattuti tra
i denti del tempo, / scaturiti dalla vita / come sorrisi e grida / e come
un muschio di dolore / sul tormento
della carne / e del cuore». E dico “anche oggi” perché la cultura valdostana ha
avuto i suoi grandi poeti pure nel passato più o meno recente, da quando -a
metà del XIX secolo- è nata la letteratura in patois: lo ha avuto con
Jean-Baptiste Cerlogne nella seconda metà dell’800 e con Eugenia Martinet nella
prima metà del Novecento; a formare -con Gal oggi- una formidabile triade di
poeti in francoprovenzale valdostano, ma anche a tracciare una storia e una
tradizione della letteratura e della poesia patoises,
di cui i tre suddetti sono solo i “maggiori”, ai quali si affiancano non pochi
poeti cosiddetti “minori”.
E
lo ricordo solo per sconfessare coloro che pensano che la Valle d’Aosta non
abbia espresso una propria cultura, anche letteraria, o per informare coloro
che non conoscono la letteratura valdostana e la poesia in francoprovenzale; anzi,
che ancora dimenticano nei loro studi linguistico-letterari il francoprovenzale
o che, parlando magari di un poeta e narratore valdostano, dimenticano la letteratura
in patois: pregiudizio duro a morire che ancora si è ripetuto di recente. Un
critico, recensendo su «Tuttolibri» una raccolta poetica in italiano di Daniele
Gorret, ha esordito scrivendo: «È così rara Calliope in Val d’Aosta. Così rade
le voci liriche». E siccome, poi, subito dopo nomina Cerlogne e la Martinet,
credo che se oggi avesse tra le mani Sèison
de poésia di Marco Gal, dovrebbe ricredersi o, se non altro, non
dimenticare di aggiungerlo agli altri due, dei quali -semmai- l’erede non è
tanto Gorret, come suggerisce il recensore, quanto Gal stesso, anche per l’uso
della lingua materna.
Del
resto la poesia di Gal ha attirato, ormai da anni, l’attenzione della critica
più avvertita e sensibile: di lui hanno scritto -tra gli altri- Franco Loi,
Franco Brevini, Achille Serrao, Bianca Dorato, Giovanni Tesio, Anna De Simone,
Dante Maffìa ecc. ecc. Da ultimo mi piace ricordare la recente inclusione di
una sua poesia, con relativo commento, da parte di Paolo Febbraro sull’inserto
domenicale del «Sole 24 Ore» dello scorso 10 agosto. Per quanto mi riguarda,
sulla poesia in patois di Marco Gal, nel corso degli anni passati, ho detto e
scritto molto, e dunque non vorrei ripetermi; vale allora la pena ricordarlo
concentrandomi sul manipolo di poesie inedite che conclude il volume Sèison de poésia. In realtà queste
ultime cinque poesie con cui si congeda l’autore, assaggio forse di una futura
possibile raccolta, bene rappresentano l’opera nel suo insieme. Qui non ci sono
camosci che saltano e valanghe che tuonano: «La mia poesia -ha avuto modo di
precisare Gal- non è di cultura alpina, non celebra le ardue vette, né
ripropone quadretti tradizionali […]. Credo che essa sia della poesia, tout
court, non della poesia dialettale, ma della poesia che si serve del dialetto
come espressione linguistica, rigorosamente, come di una vera lingua e, in
particolare della lingua francoprovenzale nella parlata della località di
Gressan. Tale parlata è permeata della cultura del luogo (per ciò si carica di
valdostanità) e della mia vicenda personale, che non deve, se non in rari casi
apparire in prima persona. Dopo vent’anni di poesia in lingua, e dopo la
visione di tristi esempi, mi pongo il problema di come rendere poesia,
traendone suoni e colori dalla lingua materna; e vi scopro una ricchezza
inesauribile, tutto sta nell’usare degnamente lo strumento patois. Tutto sta,
non nel fare della poesia patoisante, ma nel fare della vera poesia in patois. […].
I temi da me
trattati sono assai diversi, come diversi sono i temi della vita. Direi che il
tema della giovinezza e della bellezza vi dominano; ma vi sono pure quelli
riguardanti la fede, la vita, la tradizione e cultura, incontri con
persone e personaggi. Direi che la sensualità e la ricerca del piacere
sono in gran parte presenti come lo spirito vitale dell’esistenza. Pochi
accenni personali e familiari, trattati con molto pudore, come con pudore è
trattato ogni sentimento. Naturalmente tutto in una esuberanza della natura,
intesa come madre, amica, partecipe e scenografa intima».
Idole
(“Idolo”) -fin dal titolo- presenta una commistione, appunto come in altre sue liriche,
di “sacro” e “profano”, di “pagano” e “cristiano”. Al mondo e alla cultura
profana e pagana appartengono la bellezza e l’idea classica di perfezione, il
ripetersi ciclico dell’esistenza e il carpe
diem di “tre giorni d’amore”; al mondo e alla cultura sacra e cristiana
appartengono invece il donarsi, il fare dono di sé stessi (“Ci doniamo nel
silenzio” dice il primo verso), il sopratempo come espressione di eternità,
l’immagine del cilicio, con quello che ne consegue in termini di peccato,
dolore, sofferenza, assenza (che è anche, in Gal, assenza di un Dio).
All’“idolo pagano”, di cui dice la poesia, spogliato dunque di ogni riferimento
alla morale religiosa, si contrappone qui l’“animalità sacra” in cui sembra
identificarsi l’io poetico, e in cui la sacralità è semplicemente quella della
naturalità della vita, come naturale è la vita dell’animale senza la
sovrastruttura ingabbiante della cultura, della storia, della morale e
dell’etica. Così come assolutamente naturale è la bellezza, che non sembra possedere
connotazioni storiche: non a caso il poeta utilizza -per lei, per il sorriso,
per l’esistenza stessa- il termine botanico “fiorisci”, in quanto frutto di una
forza naturale. Ma poi sottotraccia, al di là del sacro e del profano,
dell’idolo pagano e dell’animalità sacra, corre -in questa che è una poesia
d’amore- una leggera vena malinconica giocata nella dialettica tra giovinezza e
vecchiaia, tra tempo presente, passato e futuro, nella consapevolezza che anche
la bellezza è destinata a sfiorire e dunque l’io poetico «sempre arde di quello
/ che più non sarai»; ecco svelato perché il cilicio di cui sopra è associato
metaforicamente all’assenza (“cilicio dell’assenza” è detto): dolore continuo e
pungente per quello che più non sarà o che non potrà più essere, nonostante la
bellezza da qualche parte continui a fiorire e nonostante essa continui a
rinascere dentro di noi sfidando il tempo e la vecchiaia. Gal è un “fedele
d’amore”, come dicevano gli stilnovisti, perché -via Nietzsche- è “fedele alla
terra”, ovvero alla naturalità dell’esistere, al dato biologico, alla forza
vitale, all’istinto, al dionisiaco, anche se mantiene una dizione in versi
apollinea.
In Nèi tchoupin-a (“Neve tardiva”) Gal si
spoglia del proprio autobiografismo, la seconda poesia delle inedite non
rimanda all’io poetico ma -come in altre liriche delle precedenti raccolte- alla
vicenda di un personaggio, a cui Gal guarda sempre -chiunque egli sia- con
giusta pietas: in questo caso si
tratta di Teresa, quasi centenaria, e della sua fedeltà alla vita e al suo
“mondo di luce agreste”. Il testo propone un parallelo tra Teresa e la sua mucca
Stellina, che lei stessa -in un tempo lontano- portò al macello: entrambe
resistono alla morte imminente, entrambe esprimono un istintivo attaccamento alla
vita. Ancora una volta prevale il bios,
la forza e l’istinto vitale, eros che
si contrappone al freudiano thanatos
e all’istinto di morte. E infatti la “luce agreste” si contrappone al buio
dell’Ade, e il su (Stellina «su /
verso casa indicava e ti tirava») si contrappone al giù (la mano fredda «giù ti tirava»). Ed ecco spiegato il titolo:
la neve tardiva è l’ultima, è l’ultima neve di primavera, quella che -anche se
troppo bagnata per fermarsi per attecchire e per restare- resiste, non vuole
smettere di cadere con i suoi fiocchi larghi e pesanti, prolungando l’inverno
della nostra vita o, meglio, le sèison
della nostra vita. Ma, a dispetto del calendario, dei solstizi e degli
equinozi, le stagioni non muoiono da un momento all’altro, anzi si prolungano
l’una nell’altra, muoiono l’una nell’altra, come scrive Sereni: «così -non lo
dissi- per durare / porta la sua radice nell’estate / la primavera, morendovi»
(Verano e solstizio). Questo
insegnava, del resto, il mondo agreste e contadino: la ciclicità della vita
perché – scrive Pascoli a sottolineare l’alternarsi di vita e morte – «Nasce l’erba sopra le fosse». Gli ultimi tre
versi della poesia di Gal, poi, sono impreziositi da una reminescenza
leopardiana: «allorché una mano fredda, / lontano dal tuo mondo di luce /
agreste, giù ti tirava», rimandano infatti alla chiusa di A Silvia: «tu, misera, cadesti: e con la mano / la fredda morte ed
una tomba ignuda / mostravi di lontano». Ritornano precisamente il sostantivo mano, l’aggettivo fredda e l’avverbio lontano.
Pe bolèrio (“Per funghi”), la terza poesia
delle inedite, è un canto in onore della natura; del resto, nella produzione lirica di Gal, essa è quasi sempre
presente: la Dora, le acque (come non ricordare, in tal senso, alcuni
significativi titoli delle sue raccolte: Ëcolie,
Messaille, A l’aberdjà), i prati, i fiori, gli alberi, i frutteti, i pascoli,
i boschi, la morena di Gargantua, la
montagna, i ghiacciai ecc. Qui, sotto una pioggerellina leggera, si va per
funghi inoltrandosi in un bosco dai colori autunnali, anzi una vera e propria
tavolozza di colori si squaderna alla vista, senso che -insieme all’olfatto- domina l’intero testo: incontriamo infatti la
nebbiolina, il verde profondo, gli alberi rossi, le “chiazze di sole”, le
foglie, le erbe; e poi, appunto, i profumi del bosco che “impazziscono” e il
profumo dei funghi in tavola. A incrinare l’idillio con la natura incontriamo
però, improvvisa, una violenta sinestesia: il “grido del profumo” del terz’ultimo
verso, che ci mette in allerta, quasi udissimo un grido d’aiuto provenire da
qualcuno o qualcosa che si sente minacciato e in pericolo. E infatti il piacere
non può essere sorbito intatto, puro, non può essere vissuto senza colpa e
senso di colpa: «E, sul tavolo di cucina, / al grido del profumo / sentiamo
come un primordiale / piacere e rimorso di rapina». Piacere e rimorso si
fondono in commistione, come appunto una sinestesia: l’uomo gode dei piaceri e
dei frutti della natura, di quella natura primordiale che da sempre
-lentamente pazientemente- dà forma e
vita ai suoi prodotti alle sue ricchezze ai suoi doni, di cui però viene
frettolosamente depredata e rapinata dall’uomo stesso. Certo, oggi non si tratta solo di rapinare la
natura delle sue ricchezze: il rischio è semmai la sua distruzione da parte
dell’uomo, signore e padrone irresponsabile della terra, il peggiore dei
predatori. Forse Gal potrebbe condividere le parole di George Byron: «C’è una
gioia nei boschi inesplorati, / c’è un’estasi sulla spiaggia solitaria, / c’è
vita dove nessuno arriva vicino al mare profondo, e c’è musica nel suo boato. /
Io non amo l’uomo di meno, ma la Natura di più» (Il pellegrinaggio del giovane Aroldo).
La presenza
della natura occupa di sé tutta la quarta poesia di questa sezione degli Inediti: Plèisi d’éve (“Piacere d’acqua”) riprende del resto, sin dal
titolo, l’ultimo verso della precedente “Per funghi”. Vi compare, infatti, il
“piacere”; ma qui le plèisi non è
dell’uomo che gode dei beni della terra, quanto della natura stessa nella sua jouissance: gli ontani lungo le rive del
fiume (e del tempo) «scrollano gemme d’acqua crepitanti»; «i cespugli sulla
morena arida gioiscono» per la pioggia; il mondo è uno «scrosciare d’acque
battesimali». Il tempo è come annullato (e infatti le rive sono “senza tempo”),
è come se contemplassimo un paesaggio primordiale agli albori del tempo, anzi
«come nel primo giorno della creazione». La pioggia ha compiuto il miracolo di
riportarci a un “mondo puro”, incorrotto, vergine, primigenio, a un paese -direbbe
Ungaretti- innocente, a un mondo senza il peccato originale -peccato tutto
umano, troppo umano- un mondo che ancora attende il battesimo. La presenza
dell’uomo, in questo quadretto naturale, è del tutto marginale: egli compare
solamente negli ultimi tre versi, investito dalla luce serale bagnata. In
questo senso non è la natura a dover essere battezzata o -peggio- violata
dall’uomo, ma è l’uomo stesso ad essere quasi purificato dalle “acque
battesimali”, immerso letteralmente nelle acque, chissà –forse- anche
prenatali, quelle che ci avvolgono nel ventre materno. Si tratta comunque,
ancora una volta in Gal, di un battesimo panico, laico, di una religione del
tutto naturale, senza divinità, in presenza del solo dio Pan: l’acqua penetra
ben oltre la pelle, in profondità, a purificare persino i nostri sogni, come se
l’uomo -immerso nelle acque battesimali- potesse rinascere e riemergere
purificato, mondato, privo del peccato, dimentico della propria storia che,
come suggeriva Walter Benjamin proprio nelle Tesi di filosofia della storia, spesso non è altro che un accumulo
di rovine e di macerie, “una sola catastrofe”.
La copertina del libro pubblicato dalle edizioni Puntoacapo |
Più
equilibrato si fa invece il rapporto tra uomo e natura nell’ultima poesia degli
Inediti, quasi idilliaco o, se non
altro, essi sembrano interagire in totale accordo e comunione d’intenti. Froui (“Frutto”) è una sorta di fermo
fotogramma: abbiamo una scala appoggiata ad un albero di pere, una scala però
che non sembra deturpare o turbare il paesaggio agreste, tanto in sintonia con
esso da sembrare appoggiata al “muro del cielo”; e la presenza umana non
costituisce una minaccia, tanto che –serenamente- «le pere mature dormono / nel
loro profumo», mentre «Il sole dondola / in cima alla scala». E questo
movimento, questo dondolio consente il passaggio indolore alla presenza umana:
infatti come il sole, ondeggia anche la gonna di una giovane ragazza sulla
scala mentre coglie i frutti. Non solo, ma anche la sua voce matura, come le
pere, lassù in alto, in cima alla scala; ella stessa si fa fiore, si fa frutto,
si fa desiderio, irraggiungibile per quelli che appartengono alla “razza -direbbe
Montale- di chi rimane a terra” (Falsetto);
anche lei desiderata -come il frutto stesso che sta per essere colto- riposa
dentro un lungo silenzio, come la pera matura dorme nel suo profumo.
Forse anche le
poesie sono frutti da cogliere, eppure sempre imprendibili, irraggiungibili, in
qualche modo inesplicabili, sempre sfuggenti, sempre resistenti ad ogni
spiegazione ed interpretazione, per quel nocciolo di mistero che sempre pulsa
incandescente dentro di loro. In una parola: le poesie sono inesauribili. Per
questo, del decalogo di Daniel Pennac, suggerirei al lettore di ritenere, per
le poesie di Marco Gal, «il diritto di rileggere». La lettura di una poesia è
un incontro. Solo in apparenza con un testo. In realtà è l’incontro con un
individuo. In quanto persona, in quanto individuo-mondo, in quanto opera-mondo.
E anche un incontro con sé stessi: in fondo, si legge sempre sé stessi. E come
ogni altro incontro è un incontro etico con l’Altro (da sé e di sé). Così si
frequenta una poesia, e con essa si entra in colloquio (critico o lettore che
si sia), come si frequenta -entrando con lui in rapporto e confidenza- un
amico. Per questo la si legge e si rilegge infinite volte, in infiniti
incontri.
LIBRI
Søren Kierkegaard
e la metafisica di Aristotele –
Un percorso di
lettura
La copertina del volume |
Ingrid Basso,
dottore di ricerca in Filosofia e traduttrice letteraria dal danese, nel suo
saggio affronta il pensiero di Søren Kierkegaard, in una prospettiva del tutto
nuova e originale: le radici aristoteliche nel pensiero e nell’opera del filosofo
danese.
Come già ebbe ad annotare Heidegger, Søren Kierkegaard è
un “pensatore religioso”, non però un teologo né un filosofo cristiano, dato
che egli resta a sé e che né la teologia né la filosofia possono annoverarlo
nella loro storia.
Vi è dunque una sorta di inafferrabilità critica di
Kierkegaard che deriva dalla sua produzione frutto di un lavoro frenetico e
appassionato, ma in cui non è facile individuare una struttura sistematicamente
intesa e razionalmente pianificata. Ma che discende, altresì, da una differenza
ontologia, qualitativa del pensatore danese. Differenza da cui prende forma
l’intera riflessione kierkegaardiana, il cui nucleo teorico consiste nella
tematizzazione della frattura tra realtà e idealità, tra essere e pensiero, ma
la cui base dell’impianto speculativo è sottesa alla metafisica aristotelica
della priorità dell’atto sulla potenza, che attraverso la filosofia di
Schelling e di Trendelenburg è passata nella riflessione kierkegaardiana.
Tuttavia la lettura che Kierkegaard fa di Aristotele non
è solo mediata, ma è anche “interessata”, nel senso cioè che il filosofo danese
utilizza i testi aristotelici per portare avanti la propria prospettiva e non
per comprenderne a fondo l’autentico dettato. In particolare la critica alla
filosofia hegeliana operata da Kierkegaard, non è fine a se stessa ma è svolta
in previsione di un’alternativa valida che può essere portata avanti proprio
grazie gli strumenti artistotelici, derivategli attraverso la mediazione degli
studi di Trendelenburg e di Schelling. Il primo soprattutto aveva ripreso in
mano Aristotele per avvalorare una nuova forma di “realismo” o, perlomeno, per
correggere gli eccessi del panlogismo idealista hegeliano. Kierkegaard riprende
tali studi con l’intento di dimostrare che ciò che conta è la scelta che
necessariamente si pone in campo etico. Il confronti critico con il testi
aristotelici permettono quindi al filosofo danese di fondare prima e sviluppare
poi i temi fondamentali della sua riflessione, quali l’esistenza singolare, la
possibilità (sempre intrinseca nella storia), la scelta.
Particolarmente interessanti sono le pagine finali
dedicate alle riflessioni di Kierkegaard sulla liberà umana, intesa non come
mera possibilità logica ma come movimento, come il darsi dell’essere nella
libertà, riflessioni che appunto affondano le loro radici in Aristotele.
Completa il volume un’ampia bibliografia delle opere
dell’autore danese e degli studi critici che ne sono stati fatti.
Sabrina Peron
Ingrid Basso
Søren Kierkegaard e
la metafisica di Aristotele – Un percorso di lettura
Albo Versorio Edizioni, 2015
Pagg. 116, € 12,00
di Angelo Gaccione
Francesco Curto |
Ho letto con profondo piacere Effetti diVersi di Francesco Curto, che raccoglie le sue più
recenti prove poetiche. Il libro è diviso in due distinte sezioni, una sezione
in lingua italiana e una sezione in lingua dialettale. Della sezione italiana
parlano diffusamente sia il prefatore Sandro Allegrini (che lo segue
criticamente da qualche tempo) sia Roberto Segatori che firma la postfazione, e
dunque non entro in merito. Tuttavia un accenno mi pare doveroso, almeno per sottolineare
un aspetto per me fondamentale. Vengono evidenziati i temi poetici di Curto, la
fedeltà alla propria materia, al proprio universo (l’amore, l’indignazione, la
memoria, la nostalgia, ecc. ecc.), ma stranamente non viene preso in
considerazione lo stile dell’autore, come se questo fosse un aspetto
trascurabile e non il centro della sua officina estetica. La cifra che lo
caratterizza e lo distingue. Per quanto mi riguarda conta più il modo (cioè lo
stile), che la cosa (cioè la materia). La materia, per quanto aulica ed
importante sia, non può di per sé nobilitare lo stile; viceversa, lo stile può
nobilitare e riscattare qualsiasi materia, anche la più infima e spoglia.
Insomma, per dirla nel dialetto che ci accomuna e che è anche un fondamento
della mia visione estetica: “U cuntu nun
cunta/ cunta cumi si cunta”. (Il racconto non conta, conta come si racconta);
ovvero: la storia ha poco importanza, quello che conta è come essa si racconta,
il modo di condurla, cioè lo stile. Per il poeta questo è ancora più importante
perché si serve di un numero molto inferiore di parole, rispetto a quello di un
narratore. La scelta delle parole è per lui importantissima, ma lo è
altrettanto il modo come le struttura, le incatena, le organizza; come le fa
figliare, vibrare, risuonare dentro di noi, accenderle di visioni, di suoni, di
echi, di colori; come riesce a conferire loro un altro senso, e così via. Ora a
me pare che questo libro, aldilà della fedeltà ai temi, segna stilisticamente uno
scarto interessante e positivo nel percorso poetico di Curto, e che la maturità
ha contribuito di molto a migliorare. Un buon critico potrebbe indagarlo nei
singoli testi distinguendo il grano dal loglio.
Il poeta F. Curto in un disegno di Sara Cavallini |
Ma veniamo alla sezione dialettale
titolata Le mie radici, e che mi ha
particolarmente interessato per una serie di ragioni. La prima è che Curto
aveva solo episodicamente e di striscio affrontato la lingua madre, e al
lettore poteva sembrare più una civetteria che una reale esigenza espressiva.
Qui invece ci troviamo davanti ad un numero significativo di testi
e il discorso cambia. La seconda è che non avevo notizie da decenni (fatta
eccezione per delle satire anonime a sfondo politico o per raccolte di proverbi
e canti popolari del passato) di materiali poetici prodotti in lingua
dialettale da autori nuovi nella città di provenienza del poeta, e questa di
Curto è stata per me una felice sorpresa. Quanto al mio amore per le lingue
madri e alla loro difesa, l’ho testimoniato spesso sia per iscritto, sia
organizzando a Milano incontri specifici, e la loro perdita è per me un vero
delitto non solo culturale. Non fosse altro, come sappiamo, perché dalle lingue
dialettali deriva il nostro idioma nazionale, e tuttora vi permangono in
abbondanza termini e lemmi di quelle lingue, compresa quella di Acri che il
poeta Curto utilizza per i suoi versi vernacolari. Ho letto dunque con
particolare attenzione i suoi testi dialettali, e ho fatto questa lunga
riflessione per chiarire prima di tutto a me stesso alcune cose, e per
dialogare apertamente con lui nella maniera più leale e affettuosa, considerata
l’amicizia che ci lega da tanti anni.
Sono sicuro
che la spinta a scrivere in dialetto gli sia venuta da un profondo amore per
quei luoghi e per quella lingua, e che è stata un’esigenza sentita e vera. E
perciò bisogna dargliene atto e affrontare la sua sfida nei termini seri e
costruttivi che merita. I miei rilievi critici non vogliono assomigliare per
nulla a quelli di un noioso e pedante professore, ma ad aprire con lui un
confronto, perché sono sicuro che Curto ha gli strumenti giusti per correggere
il tiro e realizzare poeticamente delle cose interessanti, con una lingua che
presenta molte insidie e difficoltà.
È possibile che gli oltre quarant’anni
di vita a Perugia abbiano in parte attenuato la memoria grafica della lingua
dialettale, non avendone praticata la scrittura; può darsi che egli abbia badato
alla semplice vocalità della parola (suoni e ritmi rimasti in lui ben vivi)
cercando di ristabilire attraverso essa il contatto affettivo con le radici,
senza altra preoccupazione, ora che con l’età la memoria si è fatta sedentaria,
come direbbe Proust; o forse la fretta e una certa superficialità lo hanno
tradito. Non si spiega altrimenti l’uso del pronome personale, usato nella forma dialettale indifferentemente
in iu e in quella italiana io (vedi ad esempio i testi
rispettivamente alle pagine 68, 70, 78, 79), quello del termine “riminieari” usato a pagina 66 nel
significato corrotto di “oziare”, o il continuo cambio dei dittonghi una volta
nella forma acrese ea e una volta in
quella di stampo cosentino ia. Va
detto inoltre che nel parlato acrese popolare la consonante l va letta e scritta come fosse una d
(es. dimunu e non limunu; ciedu e non cielu); che
il plurale delle parole femminili termina in i e non in e (es. seggia/seggi; tassa/tassi); che addirittura la consonante l si può mutare in r (colpa – curpa) ecc.
L’uso dei
dittonghi poi, è fondamentale perché serve a distinguere i dialetti di uno stesso
ceppo, e a connotare le sfumature presenti nel parlato di una stessa area
geografica. Nel De vulgari eloquentia
Dante ci informa di come i Bolognesi di Borgo san Felice parlino in maniera
differente di quelli di Strada Maggiore. Gli acresi di Padìa, quartiere dove
Curto è cresciuto, parlavano un dialetto con sfumature diverse di quello di un
acrese di Serricella. Il modo di usare il dittongo da parte degli acresi di
Serricella, era motivo di canzonatura da parte degli acresi inurbati,
soprattutto commercianti e professionisti. E altrettante differenti sfumature
si potevano cogliere fra il dialetto di una popolana o un manovale e quello di
un borghese acculturato. Dico si potevano cogliere, perché ora le cose non sono
più così rigide, e il dialetto ha subìto una sorta di omologazione
territoriale. Un po’ come l’uso della lingua italiana con il suo livellamento
al ribasso. È difficile oggi sentire alcuni
dei fantasiosi termini arcaici usati dalle nostre nonne; se ne sono
andati definitivamente con la loro scomparsa.
Come si sa le lingue si evolvono, si
mescolano, si contaminano, si corrompono, come qualunque corpo vivo. Le giovani
generazioni si omologano non solo nei gusti e nei comportamenti, ma anche
nell’uso dell’italiano medio, rimuovendo come una vergogna la lingua
dialettale, la lingua madre. La stupidità del sistema scolastico, l’aspirazione
piccolo borghese dei ceti popolari, l’egemonia della piccola borghesia, ha
minato i dialetti e li ha in parte cancellati. Restituire alla lingua
dialettale la sua corretta fonetica e la trascrittura segnica originale, è
dunque un’opera di resistenza necessaria per la memoria e per la storia di un
luogo. L’imprecisione può rivelarsi un’operazione in perdita, se chi verrà dopo di noi non troverà le tracce
autentiche di quella parola, dei suoi luoghi e dei suoi significati.
Nelle dieci
o più poesie che compongono la sezione dialettale del libro (qualcuna ha
l’andamento della ballata o della filastrocca, e le quartine mi evocano la
forma popolare della villanella), Curto ha usato diversi termini oggi poco
frequentati. Lo ha fatto consapevolmente per ricongiungersi anche temporalmente
all’humus che quelle parole evocano, e ai volti che le hanno pronunciate. Ha
fatto cioè, una doppia operazione, una di verità: ha definito la cornice
storica, e una di memoria: ha fatto rivivere poeticamente luoghi e uomini che
li incarnavano. È una scelta molto importante.
La
parola e la cosa
Io non ho memoria della parola “Bar” in
dialetto, semplicemente perché fino alla generazione dei nostri nonni, esso non
esisteva concretamente come “esercizio pubblico”, luogo di ritrovo e di
piacere. I Bar compariranno molto tardi nei paesi: in città c’erano i Caffè, le
cioccolaterie, le torrefazioni (col tempo tutte queste funzioni saranno riunite
in un unicum, compreso la vendita dei gelati artigianali).
Da noi
c’erano le Cantine (di certo un lascito della dominazione spagnola, Cantina in
lingua spagnola si scrive come l’italiano) intese come rivendite di vino,
spesso situate sotto il piano strada, e come ritrovo popolare. In questi luoghi
la lingua dialettale fioriva o rifioriva. Il gergo si arricchiva, ed erano in
uso i proverbi ed il coltello, il canto d’amore o di protesta. Tutto questo è
morto da tempo anche da noi. I signori invece frequentavano i salotti, i
borghesi i Caffè e infine i Bar. È naturale, dunque che non ci fosse la parola
dialettale per definirlo. Quando i Bar arriveranno, il nome è già definito, ma
non appartiene al luogo, è un termine di importazione preconfezionato.
Col tempo le
cantine spariranno (in molti luoghi sono già sparite). I giovani bevono birra,
coca cola, spritz, cocktail, aperitivi e liquori di ogni sorta, nei pub, nelle
discoteche e in locali etnici fra i più diversi. Se si ubriacano non è certo di
vino. Nelle cantine ci andavano gli operai, gli artigiani e i contadini, non
certo professionisti: avvocati, medici, notai; sarebbe stato oltremodo
sconveniente. Il vino si beve ora prevalentemente a casa o al ristorante; vini
nazionali ed esteri, costosi e selezionati, spesso comprati in eleganti
enoteche.
Un giovane
che si incuriosirà del dialetto, poniamo fra trent’anni, dovrà trovare
trascrittura e lemmi secondo la forma esatta in uso fino a quella data. Ecco
perché l’operazione letteraria è fondamentale, come la registrazione orale di
proverbi, canti e modi di dire. Ed ecco perché io spero che Curto compia una
messa a punto del suo dialetto, e continui a scrivere versi ancora più belli di
quelli contenuti in Effetti diVersi,
superando anche i limiti dell’endecasillabo, la necessità della rima e
ampliando il suo registro. Operazione non agevole, dal momento che non tutte le
parole sono trascrivibili, e la loro esistenza è possibile solo nella formula dell’oralità.
Sono per lo più termini che hanno provenienze diverse dalle due lingue
classiche antiche, o hanno subito una corruzione. Si pensi, tanto per fare un
esempio, all’espressione popolare “jes
jes bonusia”, dove quel jes è da
intendersi con il latino Jesus (Gesù), e il secondo termine bonusia è l’unione di due parole,
l’aggettivo bonu (bene, buono) con il
verbo essere alla forma imperativa (sia).
Come si può vedere questa espressione che all’apparenza suona criptica e
misteriosa, se correttamente decodificata si svela per quella che realmente è,
un invocazione di scongiuro dal male rivolto al Cristo.
Effetti diVersi
Futura
Edizioni, 2014
Pagg. 94, €
12,00
IL GIUSTO VERSO
Poesie inedite di Angela Cassola
Angela Cassola |
GATTO
Adagiato tra le carte del letto il
gatto
osserva quando pulisco casa:
“finalmente si ricrea
un ordine!” e intanto invia
comandi silenziosi
che ordisce tra sé con saggezza.
Diventa un uomo che vola
per la stanza.... una mosca,
una lucertola, una farfalla
notturna, vittime di un
fulmineo
passaggio; imperioso,
ha occhi sottili, sicuro
verso un'area
di padronanza disponibile.
O cuore mio nascosto,
gatto inceppato che rimugini
di tristezze franate su me,
mi assalti in agguati
di nostalgia e desiderio
accecati e non esci mai fuori come
premio
nella dolce stagione sopraggiunta.
[Aprile 2014]
VIALE CASSALA
Eppure ho avuto intuizioni
acute,
fulminee, dirette dal profondo;
inavverate, disadattate, sì,
ma pulsanti di ignoti
significati
ulteriori per un luogo
qualunque,
dove la mente specchiandosi,
fosse in grado di cogliersi.
Si rompe un tasto, dal computer
salta via,
e il giorno dopo vedo volare
gli occhiali lasciati sul tetto
dell'auto;
sviata dalle emozioni nella corsia
preferenziale
della circonvallazione di destra,
corro quasi
a ritroso, ma fallisce
l'immaginazione incauta,
sulla la strada petrosa degli
automezzi rollanti.
Perché non posso fermarmi un
attimo,
da alienante smarrimento
compulsata,
a ragionare tra me e il lume del
presente?
Habitus consolidato,
strati di giorni senza
risonanza,
oggi che potrei raccogliere,
arrestarmi
ancora dalle parti del picciolo.
Abitudine sconsiderata,
guardare
i frutti maturi dalla
finestra,
con il fiato sospeso nell'angolo
come
una straniera stritolata avvinghiantesi
al capezzale.
Tuta scala cestello, testa e ossa
rinforzate,
sia fatta cenere di questa
ossidata resistenza!
[Novembre 2014 – Gennaio 2015]
NON CADERE NELLE 2014 FORESTE ASSEDIATE
Ci sono entrati dentro la mente,
come nel sogno!
Attraversammo le foreste
passandoci pronti ad
accudirle,
ma erano ridondanti di presenze
estranee
inumidite e inzuppate dell'aria famigliare
che ci presero come
sostentamento,
ci smangiavano, come un
tesoro
ci nascondevano.
Arrivare al mare scrosciante
non era una soluzione
neppure,
il mare è sempre troppo lontano
nella sua nitida linea di luce
serena;
.
per niente altro lastricati di
incubi,
solo per essere più riconoscibili
all'uscita,
ma non c'era nessuno ad
accoglierci poi,
col berretto o col cartello.
Per la stanchezza finimmo
distratti,
dimentichi, soggiogati, come i
compagni
di Ulisse sull'isola Eea, a sbocconcellare
golosi frutti e pane dolce senza
parole,
così nella foresta dei simboli ci
siamo perduti.
O ci salvammo con il gioco
mettendo i soldatini in prima
linea:
persistenza del sé tra una
mossa
e l'altra, un nodo di complicità,
una forma di resistenza all'oblìo.
[Novembre 2014- Gennaio 2015]
AFORISMI
di Laura Margherita Volante
L'arte è
cultura e la cultura è arte.
L’amore
ha a che fare con l’anima non con il sedere.
Al fine di
non rompere l'equilibrio della mediocritas
il portatore di cultura viene messo in isolamento...per evitare rischio di
contagio.
Simbologia
odierna: fra rotonde e pale giri e raggiri...
Ieri chi era
colto veniva ascoltato, oggi parla da solo.
Non c'è
rispetto per la vita in una cultura di morte.
Le 3D della
crisi: deresponsabilizzazione, disimpegno, deculturizzazione.
Denaro con
destinazione ai dritti...distorti moralmente!
Murales. C'è
chi imbratta il proprio volto per proteggersi l'anima e chi imbratta i muri per
riprendersi l'anima...
In una
cultura di morte si mescolano le fotografie del vuoto.
Il politico
corrotto non è più coperto dall'omertà e allora fa l'indiano...
Chi ha la
coda di paglia tollera l'intollerabile.
Effetto
tranquillità: affetto.
...E la
storia continua quando non ha nulla da insegnare agli ignoranti senza memoria.
Umanità
cercasi. Quale la speranza per i buoni visto che discendiamo dagli assassini di
Abele e di Gesù...?
Un bimbo inizia a sorridere a due mesi. Poi man mano che cresce e
s'accorge dove è malcapitato il sorriso lascia spazio alla depressione.
Chi è preso
dalla sindrome di apparizione fa sparire chi ha intorno...
Expo. Il
cibo italiano ha l'oro in bocca...
Allo sfacelo
solo uno sfavillio d'amore può far ancora sorgere il sole.
Francesco Siani -Cuore- |
Senza
amici è impossibili vivere…il resto è noia.
Presidente?
Altezza mezza bellezza, ma priva di statura per il ruolo non è matura…
La
sindrome di onnipotenza è un virus che colpisce gli spiriti deboli.
Quando
c’è invidia l’aria è pesante anche attraverso l’etere.
Evanescente.
Lo stato aeriforme diventa grandine se passa allo stato solido…
Sublimare
le difficoltà in arte e cultura aiuta a sopportarne il peso.
Usi
e costumi. Ieri era in uso l’arte delle bare. Oggi è costume l’arte del barare…
Ieri
si usavano le bare per onorare i cari defunti, oggi è in uso gettarne in mare
le ceneri…
Libertà
di espressione è l’uso libero della parola che danza senza pestare i piedi di
chi non sa danzare…dopo sono calli amari.
Igiene
mentale è quando si dà ragione ai matti…
Essere
matti in un mondo di pazzi è già una salvezza.
Manca
il buon senso in nome di individualismi per cause perse.
Senza
cultura economia e finanza girano intorno a se stessi mangiandosi la coda…
I
cattivi per il gusto di criticare sono sempre in agguato.
Expo
si fa in tre per le Marche…ma che si faccia in quattro per l’Italia!
Elezioni:
che Mattarellata, degna di Petronilla!
La pazienza è un
esercizio costruttivo che dà buoni frutti.
Saper aspettare i tempi maturi rende il frutto ancora più dolce e succoso.
Sindrome del
maresciallo. Uomini che dagli ordini di una madre severa
passano a quelli di una compagna che li fa rigar dritti
Gli egoisti non
si aspettano nulla dal momento che sono egoisti anche per gli altri...
Chi brucia il
tempo per far soldi non s'accorge di essere solo polvere che finirà in
cenere...
Devastare la
bellezza è un crimine contro l'umanità.
Mutamenti. Ieri
si osservava la realtà, oggi la virtù è trovare il giusto punto di equilibrio
tra reale e virtuale.
Cambiando
l'ordine degli addendi il risultato non cambia, così in amore
quando in mezzo c'è un letto...
Chi teme di farsi chiamare nonna è già vecchia
Come va? Sempre in salita, ma nessuno mi ha mai dato una
spinta...
La gelosia è
acida come uno yogurt scaduto
La poesia è la mia anima pura.
L'infinito è
l'inchiostro di ogni nostra molecola.
Tenerezza, amore e commozione: il patrimonio strutturale che
fa di un essere la sua magia.
Pedagogista cercasi.
Si trovano psicologi e criminologi quando ormai il danno è compiuto.
Quando il passato
torna è per pareggiare i conti...
Nei tempi
dell'orrore è bene ricordare il “divide et impera”.
Elezione Presidente della Repubblica. Similia similibus:
Casini presidente?
Sguardi
di Gabriele Scaramuzza
di Gabriele Scaramuzza
Sguardi è il titolo di un libro uscito lo scorso anno ad Annone
Brianza, presso Cattaneo Paolo Grafiche. Solo ora ho potuto vederlo, ne ho
apprezzata la veste elegante, la scelta delle poesie e le suggestive fotografie
di Alberto Locatelli, cui si deve anche una breve premessa in versi: Immagini e parole. Onorina Dino ha scritto
una poetica pagina introduttiva, seguita da una di Angelo
Casati , da una di Nicoletta Orlandi
un’ultima di Roberto, che riprende anche versi di Baudelaire. La
sostanza del testo è poi costituita da un alternarsi di poesie di Antonia Pozzi
e di Angelo Casati , che anima una
sorta di dialogo a distanza tra persone che non si conobbero, ma delle quali
una, don Angelo, ha vissuto, e vive, con partecipazione quel che ci resta dell’altra.
Il
libro ha coerenza interna: le poesie tutte, e quelle di Antonia in particolare,
non sono accostate indifferentemente, come in una antologia che renda conto,
senza prender posizione, delle variegate sfumature degli scritti di Antonia - scritti
che peraltro talvolta sono giocati su registri discordi tra loro. Sono
piuttosto scelte con criterio, le poesie, oculatamente, per la loro idoneità a intonarsi
alla cornice del testo, e a rispondere alle poesie di don Angelo e alle
immagini di Locatelli, pure inscritte armonicamente in Sguardi. Anche questo è un pregio, e non da poco.
Colpisce
innanzitutto la tensione spirituale che anima gli scritti e le immagini
raccolti nel testo. In essi tutte le cose sono colte non nella loro immanenza
naturalistica, né in una loro presenza spettrale, come le radici dell’albero o
la superficie del mare nella Nausea
di Sartre. Non sono bloccate in un’acre assurdità; vengono bensì vissute nello
slancio del loro oltrepassarsi verso un’alterità dai contorni non ancora
fermati. L’ignoto può presto tingersi dei colori, se non della ferma speranza,
dell’esitante attesa -come accade nell’ultimo sguardo di Roquentin, cui il
giardino sembra infine sorridere, quasi volesse lanciargli una proposta di
senso- che forse solo il progetto della scrittura saprà accogliere. Così è per
le accensioni delle foglie d’autunno in Rossori
di don Angelo: “Che cosa avranno intravisto / per portarne il volto
infiammato?”
Certo,
l’alone di inconoscibilità, ciò che non sappiamo, forse è orribile, stando a
Rimbaud. Ma vi sono Sguardi per cui l’ignoto
si apre al conforto della fede, il mistero si anima di luci nell’orizzonte
della trascendenza. Non ci si arresta alla superficie malcerta delle cose, ma
se ne presagisce la profondità di creatura che trova in Dio una propria quiete.
Antonia
non sarebbe arrivata a tanto, ma certo avrebbe colto nelle cose il cenno a un
oltre che stupisce e inquieta. Don Angelo parla di “sospetto che dietro il velo
che avvolge le cose ci sia il sacro”. Sarebbe stata anche di Antonia la fiducia
in un sacro non confessionale, del tutto refrattario alla violenza rapace di
ogni presunto Gott mit uns.
“C’è
un oltre che abita le cose e solo chi sta in ascolto dell’oltre che le abita
non le invade, violentando, ma dà loro fiducia ad uscire”. Poco sotto don
Angelo, in una sua pagina iniziale, dice di “occhi che accarezzano e non con
aneliti predatori” , e si vorrebbe che anche lo sguardo di ognuno, e il
proprio, avesse quegli occhi. È giusto sapere con rammarico che: “Noi raramente
misuriamo quale perdita di vita sia l’andarcene indifferenti e senza sussulti.
Senza emozioni per il filo d’erba” - un’emozione che trascende la praticità del
mero consumo. Don Angelo richiama Ermanno Olmi, il tema di un amore che conosce
la foresta nel modo dell’ “inginocchiarsi e guardarla da vicino”.
Nel
testo suggestivamente compare il termine stupore. La meraviglia è all’origine
della domanda filosofica sul mondo, si sa; ma anche innesca un anelito di
sublimità. Contiene una promessa di bellezza che interroga le cose, risponde
allo stupore chiedendo, e spremendone la spiritualità - oltre ogni loro
irrimediabile esser così. Le cose vengono spiate nell’attimo del loro
schiudersi al valore estetico, che è promessa e fiducia di senso, anzi raccoglie
la domanda di senso, e la
concretizza. La bellezza non è solo interrogazione sul senso, ma gli dà carne, lo
offre a tutti nella vita dell’arte, nella fattispecie della poesia.
Le
poesie di don Angelo sono un dialogo con Dio (“Ci parliamo noi due soli, / o
Dio”). Preghiera, scritta da Antonia
il 20 ottobre del 1932 e presente in Sguardi,
a p. 127, non è certo un inno all’esistenza di un senso; è disperata preghiera
piuttosto perché un senso si dia, anche se a volte lo si sente sfuggire, e se
ne avverte la fragilità.
Non
credo si concluda su questa apertura alla trascendenza la vita di Antonia, e ce
ne si può rammaricare. Non sappiamo come dovette apparirle la luce sulla neve
nell’ora del suo ultimo viaggio senza ritorno verso Chiaravalle. Il suo sguardo
poteva anche smarrirsi in orizzonti di insensatezza e di disperazione che alla
fine ebbero il sopravvento in lei. Ma i versi che ora leggiamo in Sguardi sono pur suoi, fanno emergere
una parte, e significativa, della sua personalità: Antonia è stata anche questo,
e se ne deve tener conto. Tra gli sguardi cui è dedicato il libro dovremo
certamente annoverare lo sguardo che sanno volgere ad Antonia -e di questo si
deve esser loro grati- don Angelo e suor Onorina, pieno di empatia, capace di
riscattarne una spiritualità talvolta soffocata da sguardi prevenuti o da
incomprensivi tabù. Coraggioso infine, se ci si cala nel clima cui appartengono
gli autori di questo libro.
Antonia Pozzi e Angelo Casati
Sguardi
Ed. Stampatore
Paolo Cattaneo Grafiche, Oggiono, Lecco
Pagg. 139, 2013
Foto di Alberto
Locatelli
S.i.p.
IL
“CASO” GARÇONNE
di Chiara
Pasetti
Audace,
stuzzicante, originale e intellettualmente raffinata la scelta di Irene
Bignardi di inaugurare la nuova collana Sonzogno «Bittersweet», nata con
l’intento di scoprire, recuperare e proporre testi, spesso dimenticati,
appartenenti a un passato recente, quello della prima metà del Novecento, con
un titolo che rappresenta una vera ri-scoperta: La Garçonne, dello scrittore francese (nato in Algeria) Victor
Margueritte (1866-1942). Considerando che l’unica versione italiana di questo
romanzo, La Giovinotta (ad opera di
Decio Cinti, scrittore e traduttore molto vicino a Marinetti, a cui si devono
anche le prime traduzioni di poeti quali Baudelaire, Verlaine, Mallarmé),
risale allo stesso anno di pubblicazione dell’edizione francese, il 1922, il
battesimo della collana Sonzogno curata da Bignardi risulta ancora più
prezioso. In realtà questo libro, quasi sconosciuto in Italia, vendette solo in
Francia settecentocinquantamila copie, e subito dopo la pubblicazione ne vennero
tratti due film e una pièce teatrale
curata dallo stesso Margueritte: un successo editoriale a dir poco esplosivo,
che nel giro di qualche anno divenne un vero e proprio fenomeno sociale,
accompagnato e sicuramente anche favorito da un grande succès de scandale che coinvolse le autorità politiche, le
istituzioni culturali, la stampa e l’opinione pubblica. Margueritte, prima di
questo romanzo «scandaloso», aveva pubblicato altri testi, introducendo temi
sociali, in particolare legati alla condizione femminile, come la parità tra i
sessi, l’emancipazione della donna, l’union
libre, e per questo era considerato
una figura di spicco nel mondo letterario e intellettuale dei primi due decenni
del XX secolo; già presidente della Société
des Gens de Lettres, nel 1914 aveva ricevuto la carica di cavaliere della Légion d’Honneur. Nel 1907 la sua prima
opera realizzata senza la collaborazione del fratello Paul, intitolata Prostituée, in cui si affrontava il tema
crudo della prostituzione e dello sfruttamento della donna da parte dell’uomo,
venne considerata «altamente morale». Per continuare la sua battaglia, di
stampo pacifista, venata di un socialismo radicale (cui alternerà posizioni
fortemente reazionarie, che lo porteranno anche ad assumere inquietanti toni
antisemiti) a favore delle rivendicazioni femministe, affermando l’importanza
dell’emancipazione sessuale, economica e intellettuale delle donne, lo
scrittore realizza negli anni Venti una trilogia dal titolo emblematico La Femme en chemin, di cui La Garçonne
costituisce il primo atto. E fa scoppiare un gigantesco caso letterario. La
Chiesa mette immediatamente all’indice il romanzo, la Société che l’aveva eletto suo presidente lo abbandona, e la stessa
Légion d’honneur apre una causa, che
terminerà il 2 gennaio 1923 con il decreto di radiazione: l’autore de La Garçonne
è accusato di immoralità e pornografia, di essersi compiaciuto nel descrivere
«scene di devianze sessuali ripugnanti», e dunque di aver compiuto un
deplorevole «outrage aux moeurs». E, come scrive Margueritte difendendosi dalle
accuse, è sempre «per ciò che contiene di verità
che un’opera nuova shocca i contemporanei». Qual è la verità che Margueritte, o
meglio la sua protagonista, la garçonne
Monique Lebrier, ha sbattuto in faccia all’élite
parigina degli «anni folli» con «un realismo eccessivo»? Monique è una jeune fille ventenne, intelligente, très jolie, nata in una ricca famiglia
di industriali che durante la guerra hanno accumulato molto denaro. Frequenta i
corsi della Sorbona, pratica sport, e nonostante sia del tutto disinteressata
alla vita di società, tanto da apparire stravagante agli occhi degli altri, è
una femme moderne a tutti gli
effetti. Promessa sposa al fabbricante di automobili Lucien Vigneret, che lei
ama senza riserve e con generoso abbandono, non conoscendone (ancora) la reale
natura arrivista e senza scrupoli, crede nell’amore e ripone tutti i suoi sogni
nel futuro matrimonio. Alla scoperta della relazione clandestina di Lucien con
la modista Cléo, Monique decide senza ripensamenti di rompere il fidanzamento.
Si concede a uno sconosciuto il giorno stesso della rivelazione del tradimento,
lascia la casa dei genitori, sconcertati dal suo comportamento urtante e fuori
dagli schemi, e da lì evolve: abbandona la jeunesse
e entra nella garçonnesse, acquisendo
così i tratti distintivi della garçonne.
Da quel momento Monique prenderà coscienza del proprio corpo, decidendo di
sperimentare anche una relazione saffica con una star del music-hall, ma
soprattutto di darsi a più uomini, di abbandonarsi al vizio (tra cui anche
quello dell’alcol e delle droghe, oppio e cocaina); apre un atelier di decorazioni di interni,
garantendosi l’indipendenza economica che grazie al suo talento le consente
addirittura di raggiungere l’agiatezza, trascorre le giornate nella propria garçonnière, stordita dall’assunzione di
sostanze narcotiche, o nei locali notturni dove si diletta in balli considerati
licenziosi, tra cui il tango (ma anche lo shimmy
e il fox-trot, complice la diffusione
del jazz), si lascia tentare
dall’idea della maternità (che non potrà concretizzarsi) senza voler essere la
sposa di colui con cui avrebbe il desiderio di generare un figlio, e viene
infine sedotta da un romanziere, Régis, che fin dal nome (da Rex, rĕgĕre) vorrebbe “governarla” e
sottometterla, cancellandone la vita da garçonne,
ma otterrà il solo risultato di rendere quest’anima «assetata di assoluto» (echi
di Mallarmé, parente di Margueritte...) ancor più disillusa e stanca, e
bisognosa di un amore «nuovo», degno, che nella terza e ultima parte del
romanzo Monique incontrerà.
Van Dongen "Lei che guida" |
Scegliendo
di intitolare La Garçonne il suo
romanzo, e non con il nome della protagonista, l’autore fornisce una chiave
interpretativa importante, anche per le accuse che gli vennero rivolte: sta
ritraendo un type umano, un exemplum e non un unicum, destinato proprio grazie a lui a divenire un mythe. Conducendo i dati analitici del
reale ad uno stadio di tipificazione e normalizzazione, Margueritte descrive il
«type actuel de jeune fille, de la jeune
femme française». A onor del vero il termine garçonne era nato alla fine dell’Ottocento dalla penna di Huysmans,
che opponeva a questa donna la «femme
hommasse», la virago, ma solo grazie al romanzo di Margueritte finirà con
l’identificare un nuovo tipo femminile: da figura letteraria, la garçonne diventa quasi subito figura
estetica e soggetto sociale, qualificando e aprendo a una nuova forma di vita
femminile appunto garçonnière, il cui
tratto distintivo, come già in Huysmans, è prima di tutto l’unione e la separazione
di forme di vita e del corpo differenti. È soggetto di confine, unione di
antitesi, che si pone in una zona liminale, e per questo disorienta, seduce,
intriga, inquieta. È perturbante, crea disordine, la garçonne, perché possiede, fonde, con-fonde al contempo tratti “non
maschili” e tratti “non femminili”, sia nel comportamento sia nella sua silhouette. La garçonne porta i capelli corti e tinti (il taglio à la garçonne), si trucca pesantemente
gli occhi di nero, indossa tailleur o abiti scollati allo scopo di appiattire
la già longilinea figura (con preferenza per i kimono e i pigiama, che
testimoniano di un gusto orientalista anch’esso volto a evocare, nell’immagine
dell’odalisca, scenari di lussuria e voluttuosità), pratica sport per avere un
corpo tonico e muscoloso, balla, fuma sigarette, guida l’automobile, ha
un’estesa e aggiornata cultura (che privilegia gli autori contemporanei, tra
cui Freud e Blum, e quelli che si fanno portavoce delle posizioni più liberali
sull’emancipazione femminile). La sua «brama di indipendenza» la rende,
«fisicamente e moralmente», uguale agli uomini, che seduce e spaventa per tutte
queste caratteristiche, che incarnano una «nuova versione della grazia
femminile», e ancor più per la raggiunta consapevolezza del suo essere corpo e
anche carne, di cui riconosce come naturali, liberata da falsi pudori, i
desideri, gli istinti, il piacere
(termine che ricorre nel romanzo).
Van Dongen "Per la Garconne" |
A metà strada, fin dal nome e dai suoi
derivati, tra il garçon manqué e la garce (la «sgualdrina»), la «maschietta»
vive pienamente ma anche tormentosamente la sua identità, presentendo che si
tratta di uno stadio che la condurrà, non senza fatica e dolore, come una
moderna Minerva (soprannome dato da Lucien a Monique all’inizio del libro), al
conseguimento di una maturità di femme
più piena e appagante, proprio perché attraversata dalle esperienze torbide,
gioiose, angeliche e diaboliche, feconde e sterili, della garçonne che è stata. Alla fine di questa bittersweet symphony, sembra dirci Margueritte, Monique Lebrier, essere
«singolare» (ma, profeticamente intuisce l’autore, «che si stava già
moltiplicando in migliaia di esemplari» in carne e ossa), non fa la guerra agli
uomini, non vuole competere con loro, ma chiede soltanto, come tutte le garçonnes degli anni Venti (e anche di
oggi), che gli uomini facciano i conti con lei in quanto «creatura unica» che
«non somiglia alle altre», essere straordinario e straordinariamente ibrido e
tuttavia completo, dalla vitalità incontenibile da cui, malgrado tutto e tutti,
sempre sbocceranno fiori. Se poi questi fiori nascono, anche, dal letame, chi
ci pensa quando se ne aspira il profumo?, suggerisce l’autore alla fine del
romanzo, omaggiando Flaubert («chi sa a quali succhi escrementizi dobbiamo il
profumo delle rose?»), e ricordandoci una canzone, ben più avanti nel tempo, su
sterili diamanti e fertili concimi per i fiori di De André, altro grande poeta
di tante garçonnes-femmes contemporanee, «anime salve», che
salvano. Se stesse, le donne, tutte, e gli uomini. Ma solo quelli in grado di
ri-conoscerle e, proprio per questo, di amarle.
Victor
Margueritte, La garçonne, traduzione
di Giulio Lupieri, postfazione di Irene Bignardi, «Bittersweet», Sonzogno,
Venezia, pagg. 268, euro 16.
(riscoperto
e rieditato in Francia solo lo scorso anno: Victor Margueritte, La Garçonne, préface de Yannick Ripa,
«Petite Bibliothèque Payot», Payot, Paris 2013, pagg. 320, € 8,65)
*In versione ridotta
questo testo apparirà sul Domenicale de "Il Sole 24Ore" del 21 dic. 2014.
Manifesto Mitomodernista
Tomaso Kemeny |
Il manifesto
poetico che qui pubblichiamo, è stato
ideato e redatto dal poeta Tomaso Kemeny.
Qualcuno dirà che
il tempo dei manifesti è finito, e noi rispettiamo tutte le opinioni. Tuttavia
i
10 punti di questo
documento contengono molti idee (e pensieri) che vale la pena discutere e
dibattere. “Odissea” come sempre ospiterà quanti vorranno dire la loro.
1.
Poesia
è energia di ricominciamento (“immer wieder”!)
2.
Basta
con la poesia ingabbiata nel nostro piccolo ego, alla sua infelicità
individuale, storica, intellettuale, basta con l'incapacità di amare il tutto
senza chiedere niente.
3.
Realizzare
nel mondo un'utopia estetica è anche moralità profonda.
4.
Il
mito non è solo pensiero selvaggio o copertura ideologica di connotazione
conservatrice, ma è irruzione del sacro nel tempo storico, la sua energia
metamorfica permette nuove avventure per l'immaginazione.
5.
Il sublime nasce dall'esigenza di libertà
individuale ed esige che ciò che si vive sia nel segno del bello e del buono.
6.
Il
pensiero etnocentrico radica a un centro fisso nel mondo, alla propria patria,
il pensiero mitico è circolare, ci unisce ci porta a origini comuni, a una
fratellanza primigenia.
7.
Il
mito è il racconto del sogno che l'universo fa di se stesso attraverso il
nostro linguaggio.
8.
Un'idea
è valida se diventa azione, a presto l'occupazione simbolica del BCE a
Francoforte, per l'unità delle differenze dell'Europa nella bellezza.
9.
Il
desiderio, esteticamente vissuto, esige l'eccesso contro la miseria della
mediocrità, del risparmio. Come disse il sofista Callicle in Gorgia “os
pleiston epirrhein” (“versare il più possibile”).
10. Primato necessario della bellezza
sull'economia, sulla politica, perché la bellezza è base della civiltà,
permette di distinguere immediatamente il giusto dall'ingiusto, il bene dal male.
Tomaso
Kemeny anche per i mille mitomodernisti d'Italia e del Mondo.
(Ottobre 2014)
POESIE DI FINE ANNO 2014
di Laura Margherita
Volante
Laura Margherita Volante |
VIVO
Nascita/morte/rinascita
e la vita se ne va lenta
fra sussulti di conchiglie
e scricchiolii di fossili.
Nel deserto un granello
di sabbia è vivo
da far nascere erba
in acque di mare.
NUDA VERITÀ
Nel silenzio delle viole
il cavallo non parla
ma vede e sente
l'impalpabile voce
del piacere che chiama.
SEME
E' un ritorno all'essenza
attraverso i colori e i profumi
del tempo pronto ad accogliere
il suo più intimo atto d'amore.
FUOCO
Sognasti l'amore e ti fu negato
ogni qualvolta che ti sfiorò
con petali di rosa:
fuoco sulla pelle al chiaro
di luna. Ogni stella
un bacio rubato, ogni meteora
una scia di luce nel vento
gelido del deserto.
Una rosa fra dune e monsoni
cautamente muore.
FRATTURE
Fratture sulle pieghe del tempo,
il mio tempo,
sempre più fragili per lo strappo finale.
Fratture i ricordi accantonati
fra dischi e libri ascoltati e
riascoltati fra le pagine della vita.
Sono lì raccolti in sacre tombali.
Lapide è il cuore inciso e spento
su tracce di copertine sbiadite.
STATUA
C'è una colonna dove siedi
per guardare il mare
cercando il volto della vita.
Da ogni crespo d'onda
si muovono sguardi curiosi
ed inquieti per la nascita fatale
del tempo di ogni tempo andato...
Ritrovato poi nei tuoi occhi stanchi
di vedere annegare la vita
tra flutti infestati di orche assassine.
La placida culla in sciabordio
giunge vuota alla riva
come il fondo di occhi smarriti.
Statua di sale ora è la vita...
TRAFITTI
Chi prova tenerezza,
la tenerezza è sua
come goccia di rugiada.
Chi prova amore,
l'amore è suo
come brezza di mare.
Chi prova commozione,
la commozione è sua
come un raggio di sole
che trafigge...
MASSE
Le masse pregano
e uccidono
su agonizzanti rovine
e il Dio di ognuno che fa?
È accaduto che una luce
cadesse dal cielo
ed il pensiero
piombasse nel buio.
In occasione della pubblicazione di questo testo inedito, abbiamo chiesto a Laura Margherita Volante, una breve riflessione sul suo interessante progetto legato alle risorse e alle bellezze del territorio di cui il vino ne è l'anima.
“La promozione dei prodotti di un territorio è la sua
poesia in una visione di progresso. Storia di emozioni fra vino e cultura: una
narrazione che si espande in una danza di papille gustative, suggestive e toccanti. Il vino è accogliente
con la sua coppa o calice raffinato per se stessi o per un amico. Il suo succo
è un dono regale che attraversa il tempo e lo spazio per arrivare al mito,
all’arte, alla tradizione, alla terra e ai valori ad essi legati. Il vino è meditativo
e dialogico. Esso va assaporato ritrovando lo scandire quieto del tempo, per
fermarsi percorrendo un viaggio interiore e dialogare con l’anima, che si fa
arte. Il connubio tra il nettare di Bacco e la cultura si è celebrato fin dai primordi”.
CANDIA
Ti ho incontrata a Candia
lungo le rive del tempo
vieni a bagnarti nelle languide onde
di un tormento antico,
musa o mia musa,
ciò che è passato non tornerà più,
tu hai accarezzato il profondo
recondito mio temerario e pavido cuore.
Passeranno gli anni dell' Universo,
non dimenticherò il punto
in cui ho incontrato il mio volto eterno.
Tiziano Rovelli
CONFESSIONE DI UN IPERSENSIBILE
Sono d'accordo
con Lucio Battisti quando enunciava in una sua canzone che “...amarsi un po'
è come bere, aiuta sai a non morire, volersi bene partecipare difficile come
volare...”.
Esiste il sesso puro, esiste nei sogni, esiste nella realtà.
“Amarsi un po'”come
recita la canzone di Battisti implica un bacio sulla guancia di una donna, un
lungo bacio sulla bocca e un abbraccio in cui senti stretti al tuo corpo i seni
nudi di lei.
Io sono lontano dalle tue realtà, lontano anni luce e ci
potremmo incontrare solamente nella banalità e nella fattualità concreta
quotidiana od anche mai.
Questo non implica necessariamente che il mio modo di essere
si connoti come onirico, si sostanzia invece di mille rivoli, di mille scorci
urbani o soltanto di un cambiamento di umore o di un cambiamento di panorama.
Svolto una via e trovo nuovi orizzonti da immaginare.
Un profumo, un alito di vento, una magnifica donna mi
portano in pianeti lontani e sconosciuti.
Il mio universo non è qui con il mio corpo uno e
materializzato è lontano abissi astrali dalla tua realtà confinata dalla
realtà; piccolo sacerdote del nulla e operaio dei tuoi istinti.
Non conosco il concreto quale esso è, mi accingo a vivere
nella metafisica di una bolla evanescente fuori dalle sensazioni che mi
procurano i cinque sensi senz'altro aldilà di essi nella sublimazione degli
stessi.
Vivo costantemente nell'etereo paesaggio che mi appare
nell'immersione nel liquido amniotico.
Mia madre ha partorito fantasia e sogno.
Rovelli Tiziano
RICORDO DI UN MATTINO D'ESTATE
Dalla finestra
della stanza esposta a oriente verso la corte entra il sole di una mattina di
agosto, entra la melodia di una canzone ed io bambino sognavo.
Nel mattino tranquillo, quieto, assolato, sereno, sonnolente
di un qualsiasi giorno di una estate qualsiasi; fuori la campagna, i prati, le
case rustiche, le strade, i cortili polverosi e ghiaiosi.
Una estate lontana, inafferrabile, ineffabile, una mattina
sconosciuta che si perde nel tempo, un mondo lontano, diverso, una melodia che
trasporta i miei pensieri e i miei piccoli sentimenti ed entusiasmi lontani nel
tempo e nello spazio.
SONATA PER UN RONDINOTTO
Sei caduto pulcino di rondine dal nido ed io ti ho ucciso,
io fanciullo. Prima che approdassi al volo, appena nato, la sacrilega mano
mia ti ha scagliato violentemente al suolo. La mamma ti ha cercato volando all'impazzata e stridendo
quasi urlasse. Vorrei incontrarti nell'aldilà e che tu mi perdonassi, fanciullo a cui un fanciullo ha dato la morte. Mamma uccisa dal tuo figlio in culla. Sei morta a causa della mia nascita.Vorrei incontrarti nell'aldilà e che tu mi dessi quell'amore che io non ho mai avuto.
IL PICCHIO
In un piccolo
lercio sporco tozzo di parco, seduto su una panchina anch'essa lercia e
scrostata del film di vernice, nel meriggio di una insolescenza
autunnale all'ombra di grossi alberi percepivo, nel quasi totale silenzio, come
un chiocciolare sordo, sicuramente di volatile, ma quale specie e poi
dov'era, non lo vedevo seppur guardassi e scrutassi attentamente, muovendomi e
muovendo il capo nel fogliame e nella ramaglia. Ad un tratto eccolo, per un
brevissimo lasso di tempo lo scorsi, poi lo persi di vista nell'inferno verde
delle foglie e delle ombre che esse creavano ambigue e disperse col penetrare
incerto e svolgente creando riflessi verdognoli dei raggi solari.
Era un picchio che faceva il suo verso picchiettando sul
tronco dell'albero ai intervalli regolari quali il muoversi regolare della sua
testa che beccava il legno. Picchio che picchi il tuo picchiettare, il tuo
regolare chiocciolare sordo si ripete all'infinito, come se
picchiettassi sul mio cranio per giorni e giorni, per notti e notti in un infinito
stillicidio di battute tamponate e attutite dalla fono assorbenza dei miei
capelli, in un rimbombare cieco, in un risuonare insensibile fino a che l'alba
arriverà.
Arriverà l'alba radiosa del solstizio d'estate, arriverà
l'alba radiosa, luminosa, accecante che segna e sogna, come il tempo che fugge,
il giorno 30 giugno, giorno della mia nascita e della mia rinascita.
Quando ero
piccolo i miei genitori mi mandavano a scuola ben azzimato e per finire mi
dotavano di un fazzoletto pulito e stirato. Il fazzoletto è diventato l'icona
della mia esistenza. C'è chi ha scelto come riferimento nella sua vita valori
assoluti: Dio, la Patria, il dovere. Io ho scelto come valore assoluto la
relatività del fazzoletto. Ogni giorno lo cambio, la notte lo tengo a portata
di mano infilato nelle braghe del pigiama. E se mi accorgo di non averlo più lo
cerco affannosamente finché lo trovo. Credo che i fazzoletti di carta per me
siano assolutamente superflui. Una invenzione dissacrante e diseducativa della
moderna società dei consumi. Per me questo piccolo lembo di stoffa colorato è
un punto di riferimento su cui misurare la volontà determinata e perspicace del
vivere quotidiano. L'amore della famiglia.
Tiziano Rovelli
IL FAZZOLETTO
IDILLIO
Vi parlerò dei miei 18 anni. Il sabato sera io e la mia morosa lo passavamo insieme ed anche la
notte a dormire in una casa di famiglia che si trovava in periferia. La mattina
appresso stavamo a letto fino a tardi e facevamo l'amore. Al risveglio il sole
era già alto nel cielo di un azzurro intenso. Dalla finestra della stanza non
si percepiva alcun rumore, solo si era gioiosamente colpiti dal colore celeste
uniforme di quel cielo del mese di maggio. Il clima era mite, tutto intorno la
freschezza dei verdi prati. Mi sentivo libero, appagato e felice. Che
fantastica domenica! Andavamo a pranzo
in una vicina cascina. Stavamo seduti sotto il portico di terra battuta
all’aria aperta intorno ad un vecchio tavolo di legno eroso dai tarli, eravamo
circondati da una miriade di gatti; uno cieco da un occhio cercava da mangiare.
Si mangiava bene in quella trattoria alla buona, cibo genuino, vino buono e
prezzo modico. Accanto al nostro tavolo un clochard ripuliva una coscia di
pollo ungendosi il mento e la barba. I gestori non facevano distinzioni e non
erano esosi anche se qualcuno non aveva di che pagare. Ora non c'è più la
trattoria e neanche quella ragazza.
Tiziano Rovelli
PAESE
Italia love
Paese con le sue valigie,
che barriere non erige.
Paese sempre in movimento,
senza un vero cambiamento.
Paese degli anziani afflitti
e dei giovani sconfitti,
perché a forza di sognare
hanno smesso di lottare.
Paese senza un gran futuro,
in cui la casta tiene duro.
Paese che ha un grande passato
oggi ormai dimenticato.
Paese dove lo stupore,
passa dal televisore
e dal video che lo ammalia.
Tanti auguri alla mia Italia.
Paola
Gentili
LAURA MARGHERITA VOLANTE
Una poesia e 14
aforismi
PAPAVERI
Selvaggi vi ergete
da vele spiegate
e biondeggianti
fragili ed effimeri
fanti d'onore
lasciate deserti
punteggiati di sangue.
***
Aforismi
di Laura Margherita
Volante
1.Le parole buone
fanno bene al cuore e al cervello soprattutto di chi le dice.
2.La vita è a
cicli. Ognuno è un gradino dopo l'altro verso il cielo sconfinato.
3.La depressione
non colpisce gli imbecilli, ma i coltivatori di pensiero,
che quando si fa lucido si ripara all'ombra del male
oscuro...
4.Alcuni nel
voler dimostrare di essere ciò che non sono risultano patetici...
5.L'opposizione
pesante senza disprezzo è costruttiva, di contro ottiene l'effetto opposto...
6.Boomerang.
Quando si dà il bene tornano carezze.AFORISMI
1.Chi va in cerca
di fondi prima o poi il fondo lo tocca...
2.I deboli sono
pericolosi, infatti possono trovare qualsiasi motivo o menzogna per avere la
forza anche di uccidere.
3.Le nature forti
trovano sempre la forza di rialzarsi
4.Nella cesta di
mele sane se ce n'è una marcia si butta via, ma nella cesta di mele marce anche
quella sana marcisce...
5.Il popolo
quando è povero becca... pur di sperare nella disperazione.
6.Baci baci baci.
Ma poi cos'è un bacio se non la lingua fra i denti non tuoi, che succhia
roteando fra carie e piccole afte?
7.La crisi
sociale è dovuta all'assenza del pater...
8.Una società di
struttura debole si misura dai crimini ad oltranza.
9.Tessuto
sociale. Quando è in usura è ora di cambiare telaio.
10.I rampanti
marketing per farsi strada fra i meandri del mercato...volano molto basso.
11.Si dice che
ogni stagione ha i suoi frutti. La prima è quella delle banane, l'ultima è
quella delle mele cotte.
12.Nella vita
bisogna metterci il cuore che poi ci pensa lei a prendere a ceffoni...
13.Usi e costumi.
Ieri la società si impegnava nel culto dell'arte. Oggi s'impegna con ogni mezzo
nell'arte del culto di sé.
14.Usi e costumi.
Ieri la ventiquattr'ore serviva al commesso viaggiatore. Oggi serve per
commesse in fuga...ARTE
L'ARMONIA ESTETICA DI GIANCARLO MANDOLINI
PERUGINO A FANO (per una lettura francescana)
di Laura
Margherita Volante
L'ultima opera di Giancarlo Mandolini dal titolo “Perugino a Fano per
una lettura francescana” è
stata presentata l'8 dicembre presso la Chiesa Santa Maria Nuova di Fano con il
Presidente della Fondazione della Cassa di Risparmio di Fano Fabio Tombari e
con la presenza di Bonita Cleri, Storica dell'Arte dell'Università degli Studi
di Urbino “Carlo Bo”. Volume edito da Fondazione Cassa di Risparmio di Fano e stampato
presso Artigrafiche STIBU di Urbania(PU).
L'autore con questo testo,
pregevolmente illustrato, intende sottolineare il profondo rapporto spirituale
fra Umanesimo e francescanesimo, sfatando l'idea di un'arte religiosa fuori dal
tempo.
Il Nostro, infatti, prova grande
ammirazione per le pale d'altare del Perugino, che da secoli ornano la chiesa
di Santa Maria Nuova, di fronte alle quali fin da adolescente ne fu abbagliato
emotivamente. La motivazione quindi che spinge fra Mandolini, in questa ricerca minuziosa elegante delicata, è di dimostrare
il rapporto fra cultura e francescanesimo attraverso la narrazione pittorica di
Pietro Vannucci, detto il Perugino. Il libro si apre con una meravigliosa
introduzione di apertura poetica sulle creature dell'Universo, testimonianza
del Dio vivente in ogni respiro della Terra.
L'arte sacra è il volto di un Dio
salvifico, che è amore in un'alleanza con l'uomo tra il bello e la fede. Si può
affermare, quindi, che tutto il testo è un inno di gratitudine alla Bellezza
del Creato.
Molti storici e critici d'arte
hanno ben delineato la figura di Pietro Vannucci, detto il Perugino, attraverso
l'unicità delle sue opere di elevata ispirazione classica, ma nessuno ha colto
il carisma francescano, che aleggia in modo tangibile in Santa Maria Nuova a
Fano.
L'abbandono contemplativo di
fronte alle pale del Perugino, site nella chiesa, è un ritorno alle radici,
alla storia, alla riflessione e alla preghiera rivolta alla santa genitrice di
Dio: Maria. Secondo il Nostro tutta la produzione artistica di questo luogo
sacro incarna lo spirito francescano, che trapela da ogni elemento sia esso
pittorico scultoreo o decorativo. La bellezza artistica non è altro che
espressione dell'Osservanza francescana, che si fa canto musica e danza in un
inno a Maria. L'armonia estetica di forma e contenuto è l'anima pulsante che
vibra attraverso le pagine di Giancarlo Mandolini.
I capitoli si stagliano fra il
Perugino, i suoi dipinti e l'Osservanza francescana nel contesto in cui opera
in una dimensione mariana. Indi con l'analisi critica delle due pale, che
ornano l'altare: l'Annunciazione e La Madonna in trono con il bambino e i
santi, Mandolini va alla scoperta minuziosa delle geometrie nascoste, che
racchiudono intimamente l'armonia del Creato.
In questa cornice risaltano i
volti femminili, espressione di intensa mitezza, dolcezza e maternità, ma
velata di tristezza, come presagio e attesa di un dolore per quel figlio che
portano in braccio.La Pietà del Perugino sovrapposta alle pale della Madonna
col bambino e dei santi, sta invece a rappresentare la sofferenza umana del
Cristo, mentre La predella mariana, situata sotto la pala dell'altare può
essere interpretata come un Magnificat in un'unità artistica, evangelica,
dottrinale e teologica.
In ultimo non poteva mancare
secondo l'autore il capitolo dedicato alla Madonna in trono con il Bambino e i
santi a Senigallia.
“Arte e francescanesimo, vivendo nel tempo, s'incontrano
mirabilmente, direi si baciano, in un corteggiamento inesauribile ed eterno".(G.M.)
Grazie alla mia amica giornalista
ed esperta di comunicazione Cinti Loredana,
ho avuto occasione di conoscere Padre Giancarlo Mandolini, studioso
rigoroso e appassionato di arte dal punto di vista di San Francesco, di cui
bene interpreta lo spirito attraverso le opere di artisti dell'Umanesimo e
del Rinascimento italiani. La figura di
Padre Giancarlo Mandolini si inserisce nello scenario ambientale dei
francescani Frati Minori a Falconara Marittima (Ancona), dove il Convento
francescano si erge in tutta la sua semplice suggestione per l'eredità
spirituale del Santo fondatore.
Accanto alla grande Biblioteca
Francescana, considerata un bene culturale universale nasce, per iniziativa del
Prof. Armando Ginesi e del Nostro, la Pinacoteca Internazionale di Arte
Francescana Contemporanea “In nome di Francesco”. La Pinacoteca, oltre ad
esporre in un vasto spazio di circa 800 metri quadrati una ricca e varia
collezione di opere di artisti contemporanei, noti e meno noti, provenienti
dall’Italia, dall’Europa e dall’Africa, è e rimane, per volontà del suo
direttore fra Giancarlo Mandolini, sia una realtà artistico-culturale viva e
rinnovabile sia un polo spirituale e culturale di opere che documentino lo
sviluppo del Cristianesimo nelle Marche e il consolidamento del francescanesimo
nel territorio. Il Museo sviluppa la storia francescana nel tempo a partire da
san Francesco d'Assisi, progredendo con Jacopone da Todi, da san Giacomo della
Marca, da san Giuseppe da Copertino, da san Pietro d'Alcantara, da san Pasquale
Baylon, a san Massimiliano Kolbe, sino ai giorni nostri. Sono presentati
dipinti a soggetto francescano di autori moderni e contemporanei tra cui Bruno
da Osimo, Elvidio Farabollini, Enzo Borri, Aya Nagy, Enzo Bonetti, Vittorio
Amadio e Ciro Canale. Una sezione è dedicata alla scultura con opere in pietra,
in cotto, in legno, in bronzo, in rame e in gesso.
Giancarlo Mandolini |
*Frate minore, delegato per i Beni culturali e le biblioteche dei
Frati Minori delle Marche, direttore della pinacoteca internazionale In nome di
Francesco e della biblioteca Francescana e Picena di Falconara Marittima. Ha
pubblicato: Un uomo al di là dell’effimero (quattro edizioni), Uno Scrigno nel
Bosco (1995), L’Arte della scagliola nel Barocco marchigiano (1997), Sante
Brancorsini (2001), Distruggete quel convento (2003), Pacifico da Sanseverino
(2007), Silvestro da Bologna e Gian Francesco Paltriniei, artisti nel dipingere
la pietra di luna (2008), Ciro Pavisa - l’Arte, la Fede e la Natura (2009), P.
Alfredo Berta, per la Chiesa e nella Chiesa (2009), Un Santo, una Chiesa e una
Fraternità (2010); nel medesimo anno, in collaborazione: La Macchina volante
settecentesca di fra Nicolò Betti e Frate Antonio (2011); nel 2012: P.
Ferdinando Diotallevi e San Francesco e la pecorella di Osimo, nel 1013: La
Beata Mattia, il suo monastero, la sua gente; nel 2014: I Frati Minori nelle
Marche - Il Passaggio del fronte - La Resistenza - Gli Sfollati - Gli Ebrei.
Ha curato: Un Centenario da
ricordare (1997), Il Santuario del Beato Sante di Mombaroccio, il Responsorio
di San Pasquale di Gaspare Spontini (2000), I Frati Minori delle Marche
missionari nel mondo (2002), In nome di Francesco (2005). Ha scritto quattro
libretti oratoriani per i musicisti Claudio Guidi Drey (Banfield-Argentina),
Giacomo Bellucci (Conservatorio G. Rossini di Pesaro).
Attualmente collabora con le riviste Infinito
letterario di Ancona e Memoria Rerum di Fano.
Lentius, profundius, suavius
era il mantra di Alexander Langer,
il più grande tra gli ecologisti
e non soltanto
Jobs act
Invece di
obbligarci
ad essere felici
dolcemente ci
costringono
ad essere
vincenti,
come stecchiti
levrieri
o cavalli da
corsa
(o forse muli)
senza riposo
un gran premio
dopo l'altro.
Marinetti,
hai preso un
granchio:
la velocità,
orrenda,
ci divora
e Venezia,
languida d’acque
e di risacche,
sopravvive e
vive
perché il sogno
si è fatto
cocciutamente
pietra.
Slow
Anche i topi
sono veloci.
Anche la
gazzella
un minuto prima
dell'artiglio
materno
di una leonessa
senza nome.
Giovanni Bianchi
DON BURNESS
Due testi inediti del poeta americano
tradotti da Max Luciani
Don Burness a Milano con Angelo Gaccione nel settembre 2012 |
Paneriai
Silence
a forest
a
woodpecker pecking
a place of
meditation
apart from
my guide
I am the
only person here
where
day after
day
year after
year
not that
long ago
hundreds
thousands tens of thousands
of Jews
were gunned
down
dumped into
pits
Babi Yar of
the North
it is
silent
it is
lovely
it is a
forest
of madness
married to evil
today in
Iraq
young men
dig their own graves
as their
murderers
with total
indifference
gun them
down.
(Vilnius, Lithuania
16 september 2014)
16 september 2014)
Paneriai
Silenzio
una foresta
un picchio che picchietta
un luogo di meditazione
a parte la mia guida
io sono l'unica persona qui
dove
giorno dopo giorno
anno dopo anno
non molto tempo fa
decine di migliaia, centinaia di migliaia
di ebrei
sono stati freddati
gettati in pozzi
Babij Jar del nord
è silenzioso
è bello
è una foresta
di follia sposata al male
oggi in Iraq
giovani uomini scavano la propria fossa
perché i loro assassini
con totale indifferenza
possano ucciderli.
(Vilnius, Lituania
16 settembre 2014)
16 settembre 2014)
A love
poem of sorts for Wislawa Szymborska
you and
Mary-Lou
remind me
of another
lovely
women
wise women
aristocratic
dignified elegant deep
eyes
dancing
a playful
smile
a lot of
monkeying around*
a wink
at the
jester life
I have come
to Krakòw
out of respect
for you
and because
as you said
perhaps one
or two
in a
thousand
really
really love art
here at
Radowicki cemetery
i have
found your grave
simple
elegant lapidary
and of
course
you chose Italian marble
so my dear
Wistawa
here in
your glorious city
i kiss you
life is
always hello and farewell
yet
sometimes amber magic
dances into
the room.
(Krakòw, Poland
12 september 2014)
12 september 2014)
*There are
various photos of Szymborska playing with monkeys
Una poesia d'amore di sorta per Wislawa Szymborska
Tu e Mary-Lou
mi ricordate entrambe
donne belle
donne sagge
aristocratiche dignitose eleganti profonde
occhi danzanti
un sorriso giocoso
un sacco di scimmie intorno *
un occhiolino
alla vita giullare
Sono venuto a Cracovia
per rispetto nei tuoi confronti
e perché
come dicesti
forse uno o due
su mille
amano l'arte per davvero
qui al cimitero di Radowicki
ho trovato la tua tomba
una lapide semplice ed elegante
e tu naturalmente
hai scelto marmo italiano
così mia cara Wistawa
qui nella tua città gloriosa
ti bacio
la vita è sempre ciao e addio
ma a volte è magica ambra
che danza nella stanza.
(Cracovia, Polonia
12 settembre 2014)
12 settembre 2014)
*Ci sono svariate fotografie della Szymborska che gioca con
le scimmie
SABRINA PERON
Sabrina Peron |
The
Swimlosophy (The Swimmers Philosophers)
Dormiva...?
Poi si tolse e si stirò.
Guardò con occhi lenti l'acqua. Un guizzo
il suo corpo.
Così lasciò la terra.
(S. Penna, Il nuotatore)
«L'uomo è un essere terrestre, un essere che calca. Egli
sta, cammina e si muove sulla solida terra»1. Purtroppo. Il “purtroppo” sta per il rammarico e l’amarezza
che ogni nuotatore prova per la sua - prima o poi ineluttabile - collocazione
sulla solida terra. Sta per il
riconoscimento della sua finitudine, quale essere terrestre2 contrapposto all'ápeiron che ritrova nell’acqua,
inteso come principio che annulla ogni ordine terrestre3. Il “purtroppo” sta anche
per il rimpianto che il nuotatore patisce non appena esce dall’acqua. Perché il
nuotatore non sta nell’acqua, egli sente
l’acqua e la sente come il suo elemento primario4. Ma non lo è, anche se ciò viene
ammesso dal nuotatore con qualche riserva (ed con un fondo di incredulità): «ho
sempre creduto alla teoria dell'evoluzione acquatica dell'uomo», scrive
Deakin nel suo Diario d’acqua5. Il nuotatore, dunque, sa che «l'esistenza umana e
l'essere umano sono, nella loro essenza, puramente terrestri, e hanno solo la
terra come riferimento»6, ma ciononostante egli si ritiene un’eccezione7. Per lui, l’archè,
il principio, è l’acqua. L’acqua così determina il suo punto di vista, le sue
impressioni8 ed il suo modo di collocarsi nel mondo, inteso non come
globo terreste ma come globo terracqueo9. Ogni nuotatore vive così nella condizione di Melusine:
sente bisogno di nuotare per riattingere periodicamente le energie necessarie
alla sua esistenza terrena10 («perché l’acqua è la mia preghiera che mi libera da
ogni male»)11.
Stretto di Messina |
E se come riteneva Talete l’acqua, è l’elemento atto a
tenere connesse tutte le cose,12 per il nuotatore ciò ancora più vero, dato che per egli
l’acqua è l’elemento che lo tiene connesso al mondo ed alle fatiche della vita
quotidiana. Con l’acqua (elemento primario della vita), dunque, il nuotatore
sente una particolare affinità fino a condividerne in qualche misura il mistero13: «l’acqua è H2O, due parti di idrogeno, una
di ossigeno, ma c’è anche un terzo elemento che la rende acqua e nessuno sa
cosa sia»14. La domanda se sia possibile un'esistenza umana diversa,
non determinata in modo puramente terrestre, nel nuotatore trova una (scontata)
risposta affermativa e se nelle «reminiscenze remote, spesso inconsce degli
uomini, l'acqua ed il mare rappresentano il misterioso fondamento originario di
ogni vita»15, nel nuotatore esse rappresentano non solo il fondamento
originario, ma anche l’essenza quotidiana della sua esistenza. Perché ad egli
gli si aperto dinanzi un mondo diverso da quello della terraferma. Alla domanda
cruciale qual è “dunque il nostro elemento?”, il nuotatore risponde,
senza esitazione: l’acqua (perché in cuor suo considera la terra come un mero
luogo d’esilio). E come per Talete, l’acqua gli si «presenta come una metafora
che non riesce a sopportare il peso di ciò che con essa intende esprimere»16. Per i nuotatori di acque libere17 (o marathon swimmers18), poi, la prospettiva si amplia ulteriormente. Lo spazio
sempre sfuggente del mare, per essi si apre verso un altrove che lusinga con promesse di rigenerazione19 e di vita nova. Una continua affermazione di volontà che sceglie il mare
come oggetto di sfida che riempie la vita20. Per loro il corpo, chiamato direttamente a sfidare il
mare senza intermediazioni date da altri mezzi che non siano la forza delle
braccia e la spinta delle gambe, diventa l’oggettivazione della loro volontà,
la volontà dunque «come parafrasi del corpo, che ne spiega il senso
dell'insieme e delle sue parti»21. Del resto, se la prima e più semplice affermazione della
volontà, è «l'affermazione del proprio corpo», e se questo «con la sua forma e
con la sua organizzazione teleologica, rappresenta lo spazio della volontà»22, per il nuotatore lo spazio in cui questa volontà si
esprime alla massima potenza è l'acqua. Nel gurgite vasto23, il nuotatore sa che la sola cosa che dipende da lui è
unicamente la sua volontà24, mentre, per tutto il resto, egli è in balia delle onde,
delle correnti, dei venti e, last but not least, della vita marina che
lo popola. Alla volontà si affianca poi la (forte) motivazione, intesa come
legame che connette tra loro i molteplici atti di cui è composta la traversata
in acque libere. Non si tratta difatti della semplice unione di movimenti
nell'acqua (presa, trazione, bracciata, respirazione, gambata, presa, trazione,
bracciata, lungo più lungo), trattandosi piuttosto di un ampio campo di vissuti
che si susseguono, che provengono l'uno dall'altro, che si compiono sulla base
e per il volere dell'altro che li ha preceduti e che tendono tutti verso
qualcosa di oggettivo25: la meta d'arrivo, ma anche la sfida disputata tra una
geografia della mente ed una geografia una reale26 e che quando viene raggiunta, compie una metamorfosi che
trasforma il nuotatore in una persona diversa da quella che é entrata in acqua 27.
Nel mare -regione ingovernabile e dominio
dell’insocievole-28il nuotatore vive nel pozzo dell’eternità, in una
sorta di sospensione dalla vita. Ma dalle sue profondità affiorano, cariche di
energia che riempiono (illusoriamente) il vuoto che il nuotatore si è lasciato
intorno e proprio allora, isolamento e vuoto si dilatano e l’inghiottono: non
c’è più passato, non c’è futuro ed il presente è tutto in aspettative di
approdi (quasi) impossibili29. Del resto il mare non è mai stato amico dell’uomo, ma,
semmai, complice della sua irrequietezza, un pericoloso fiancheggiatore delle
sue ambizioni: ma tutti i sogni di gloria, di dominio e di avventure, e lo
sprezzo per il pericolo, sono svaniti come immagini riflesse nello specchio,
senza lasciare alcuna traccia sul volto misterioso del mare30 (come scrive Rimbaud, l'eternità, con tutti gli umani
sogni di gloria, é andata insieme al mare).31
Questo un
nuotatore di acque libere lo sa, ma sa anche che «il
bello del nuoto, in sé e per sé, è che tutto si concentra nel “qui e
ora”: non una briciola della sua intensità ed essenza può fuggire nel
passato o nel futuro»32.
Il comune sentire sul nuoto di lunghe distanze, ritiene
che «ore e ore di monotoni e ripetitivi
movimenti, senza alcuna relazione visiva o tattile con ciò che accade
all'esterno, sia un esercizio infinitamente noioso»»33. Ma, chi l’ha provato sa che «coprire una distanza a nuoto è come scalare una montagna.
Guardi verso l'altra riva e ti senti perso. La meta appare minuscola in
lontananza»34. Eppure si addentra, dentro più dentro, là dove il mare
è mare:35 e una volta in mare, il nuotatore comincia a rilassarsi
e a perdersi nel ritmo, si lasci permeare dalla fluidità dell'acqua, apre i
polmoni e respira più profondamente, diventa acquatico.36 Perché l'acqua «avvolge
il nuotatore lo sorregge e, allo stesso tempo (...) allontana il resto del
mondo e ne occupa il posto. Il nuotatore di lunghe distanze non comunica con
null'altro se non con l'acqua e con il proprio corpo».37 E così accade che «nulla
come nuotare sino al limite dello sfinimento dà il senso di essere vivi senza
essere tenuti agli adempimenti della vita. Nulla come l'assoluta disciplina si
avvicina all'assoluta libertà».38 Il nuoto, quindi, come costante -ed
anche sofferto- esercizio di libertà che si concretizza nella costituzione di
sé in quanto soggetto padrone di se stesso.39 Ma anche come atto incondizionato di
autoaffermazione – attraverso un’assoluta disciplina - della propria libertà.
Il nuotatore di lunghe distanze, non si limita dunque a
fare del nuoto tout court, perché il suo è un nuoto di assoluto, in cui vive
l’istante qui e ora ed al termine del quale esce con un’idea migliore della
vita e di sé stesso, «come se il mare, prodigo di cure, gli avesse dato
l’assoluzione»40.
Una volta toccata l'acqua il nuotatore rimane solo con se
stesso immune dall'influenza esterna: é la solitudine
del nuotatore, per parafrasare Sillitoe41 ed il nuoto, «come l'oppio, può causare un senso di
distacco dalla vita quotidiana [42];
i ricordi, in particolar modo quelli dell'infanzia, riemergono con sorprendente
vigore, ricchi di particolari vividi e precisi»43. Difatti, per il nuotatore, l'acqua, esfoliante del
corpo, non cura solo le arterie e la pressione, ma ha un potere purificatore
che agisce sul pensiero, disintegra la storia, condona le nostre frontiere
mentali, arpiona le angosce, dissolve le paure, polverizza i pregiudizi e,
soprattutto, libera l’immaginazione: «dopo aver sciolto il corpo, sbrogliato lo
spirito eliminato l’Io, la vita del nuotatore è scorrevole, frizzante. Come
champagne ghiacciato»44. Il nuotare diventa così una «tecnica di comprensione di
meccanismi che fuori dall'acqua, quando si dispiegano su una superficie solida,
risultano incomprensibili»45. Del resto, «più intenso è il vivere, più chiara ed
intensa è la coscienza di esso»46, coscienza che nell'acqua si dispiega in un continuum
particolare di mente, corpo, ambiente. E come già sapevano i Romani, ed anche
gli Umanisti, chi non sa nuotare è un ignorante completo: nec litterars
didicit nec natare47 o in altre versioni, neque natare neuqe literas48. Anche se, forse, qualche controindicazione questa
disciplina c'è l'ha: «non
puoi resisterci se non riesci a convivere con te stesso», e poi (ma questo un nuotatore difficilmente l'ammetterà), c'è
il rischio di «un’ipersollecitazione
dell’ego», per il «resto, invece, non ci sono limiti d’età o condizione fisica»49.
Bosforo, la partenza |
Ma nuotare non è così semplice, richiede un controllo
razionale dello spazio in cui si trova immerso e del corpo, chiamato a
fronteggiare, in un elemento che non é il suo elemento naturale (con buona pace
dei desideri più profondi del nuotatore), uno sforzo particolarmente intenso,
continuo e prolungato. Stomaco, petto, parte superiore e inferiore della
schiena, spalle, bicipiti e tricipiti, le gambe, i piedi: tutti insieme
lavorano in maniera ininterrotta, coordinata e continuativa per mantenere il
nuotatore a galla, non farlo affogare e, last but not least, fargli
raggiungere la sua meta50. Richiede altresì la costruzione di un muro
mentale, che impedisce alla stanchezza, al freddo51, alla fatica di entrare e dilagare in tutto il corpo.
Perché la mente, se seriamente motivata, è uno strumento potente e difficile da
sconfiggere, anche in condizioni avverse52. Se la “testa” -invece che fare da traino- non va più
al passo delle gambe e delle braccia, è il segnale che la passione è scemata e
la volontà è venuta meno53: come Odisseo il nuotatore deve evitare di cadere preda
delle «pericolose lusinghe che tendono a sviare il Sé dall'orbita della sua
logica»54, logica, questa volta, puramente acquatica.
In conclusione, il nuotare -soprattutto in
acque libere- evoca il sublime, dimostrandoci, ancora una volta, tutta la
nostra vulnerabilità e finitudine55. É un sublime che, prende al laccio come
un’ingannevole canto di Sirena e diventa un pensiero al di là del razionale,
una sfida, una competizione con se stessi e con la natura. Per il nuotatore in
mare é un «prendere le misure al mare, capire fin dove si può
arrivare ad armi pari, diciamo così. E se proprio non é un'ossessione, certo é
un pensiero totalizzante»56.
«La mia scoperta sul nuoto (…) non è già uno studioso
risultato d’idee architettate nella tranquillità pacifica del tavolino57; ma una
voce della Natura, che io distintamente sentii standomi immerso nelle acque
marine. Essa ebbe nel mare il suo natale»,
(L’uomo galleggiante, ossia l’arte ragionata del nuoto,
di Oronzio De Bernardi,
Avvocato, Esaminator Sinodale e Canonico della
Cattedrale Chiesa della Regia Città
di Terlizzi,
Stamperia Reale di Napoli, 1794).
Note:
[2] Cfr. D. Young, Why swimming is sublime, in http://www.theguardian.com/lifeandstyle/australia-culture-blog/2014/feb/07/why-swimming-is-sublime: «This is a recognition of what philosophers call "finitude": the basic fact of limitation. To exist at all is to be a definite this, and not something else. However free we are, we cannot escape basic biology – these limbs, lungs and blood, this universe of force and gravity» [Si tratta del riconoscimento di ciò che i filosofi chiamano “finitudine”: il fatto basico della limitazione. Esistere significa essere definiti in un certo modo e non in un altro. Per quanto siamo liberi non possiamo sfuggire alla nostra biologia di base - queste membra, polmoni e sangue, questo universo di forza e gravità].
[3] G. Colli, I filosofi sovraumani,
Adelphi, 2009, p. 34: «l’apeiron è in sé un principio che annulla ogni
ordine, ogni individuo è l’infinito indeterminato …ogni atto dell’uomo non deve
compiersi rispetto alla sua sfera limitata e individuale, ma con la coscienza
ed il sentimenti di dover agire seguendo una realtà superiore e infinita».
[4] C. Sprawson, L’ombra del massaggiatore nero (traduzione di
E. Muratori), Adelphi, 2000, p. 24: «la
qualità principale necessaria ai nuotatori è quella di ‘sentire l’acqua’. Essi
dovrebbero usare braccia e gambe come i pesci le pinne, e saper avvertire la
pressione dell’acqua sulle mani per mantenerla nel palmo durante la bracciata».
Nell’acqua il «nuotatore si sente in contatto con la realtà sottostante».
[5] Cfr. R. Deakin, Diario d'acqua
(traduzione di E. Comito) Edt, 2011, p. 168: «ho sempre creduto alla teoria
dell'evoluzione acquatica dell'uomo sostenuta dal biologo marino Sir Alistar
Hardy, che l'avanzò per la prima volta in un articolo sul "New
Scientist" nel 1960. Le sue idee sono state poi sviluppate da Elaine
Morgan nel libro L'origine della donna (...). Hardy e Morgan erano convinti che
nel periodo del Pleistocene in cui la terra era sommersa dalle acque, per dieci
milioni di anni l'uomo, nuotando e guadando nelle secche da mammifero
semiacquatico, fosse approdato sulle spiagge africane e avesse gradualmente conquistato
la posizione eretta».
[6] C. Schmitt, Terra e Mare, cit., p. 12. Si veda anche: D. Young, Why swimming is sublime, cit.: «Taken off the land and dumped into a few feet of water, Homo sapiens is a clumsy species» [Tolto dalla terra e scaricato in pochi metri d'acqua, l’homo sapiens si trasforma in una specie goffa].
[7]Scrive Deakin, «a parte la scimmia proboscidata del Borneo, l'uomo è l'unico primate che fa il bagno per divertimento. Siamo anche gli unici mammiferi glabri come i delfini e, soli tra i primati, abbiamo uno strato sottocutaneo analogo a quello della balena, ideale per mantenere il calore nell'acqua» (R. Deakin, Diario d'acqua, cit., p. 168).
[8] «Nuotando senti il corpo per quel che è,
soprattutto acqua, e prendi a muoverti con essa» (R. Deakin, Diario
d'acqua, cit., p. 3).
[9] Osserva C. Schmitt, Terra e Mare, cit. p. 11: l’uomo
«chiama “terra” l'astro su cui vive, sebbene com'é noto, la sua
superficie si componga per quasi tre quarti di acqua (...). Da quando
sappiamo che la nostra terra ha la forma di una sfera, parliamo con la massima
naturalezza di “globo terrestre” e di “sfera terrestre”, e
troveresti strano doverti, figurare un “globo marino” o una “sfera
marina”».
[10] B. Reale, Sirene Siciliane, Moretti
& Vitali Editore, 2011, p. 46.
[11] F. Cavalli, Sughero, Corebook, p.
19.
[12] Simplicio, Commento alla fisica di
Aristotele, 23, 21 in G. Colli, Sapienza greca, vol. 2,
Adelphi 1994, p. 135. Osserva, C. Schmitt, Terra e Mare, cit.,
p. 13, «generalmente, la paternità della dottrina che vede nell'acqua
l'origine di tutto l'essere è attribuita al filosofo della natura greca Talete
di Mileto (vissuto intorno al 500 a.C.). Ma tale concezione è più antica e al
tempo stesso più recente di Talete. É eterna».
[14] D.H. Lawrence nella citazione di Deakin in Diario d’acqua,
di seguito la poesia in lingua originale:
«Water is H2O, hydrogen two parts, oxygen one, but there
is also a third thing, that makes it water and nobody knows what it is. The
atom locks up two energies but it is a third thing present which makes it an
atom» (D.H. Lawrence, The Third Thing, in The Works of
D.H. Lawrence, 1994, 428).
[15] C. Schmitt, Terra e Mare, cit.,
pp. 12-13.
[16] E. Severino, La filosofia antica,
BUR, 2002, p. 16.
[17] P. Munatones, Open Water Swimming,
Human Kinetics, 2011, p. 103: «Open water swimming can be in saltwater or
freshwater, calm or rough conditions, warm or cold temperature, and still or
with currents, depending on the time of day, the season, and the location»
[Il nuoto di fondo può essere in acqua salata o in
acqua dolce, in condizioni di mare calmo o mosso, con temperatura calda o
fredda, ed ancora con correnti che variano, a seconda dell'ora del giorno,
della stagione, e della posizione].
[18] Scrive C. Sprawson, Swimming with sharks, New Yorker, 23.08.1999: «Marathon
swimmers are different breed from short distance swimmers. Compared with
long, lithe and adolescent figures you see in Olympics, marathon swimmers
appear to be built like bisons rather then like cheetahs (...). These swimmers
need tenacity and a stocky built to withstand the impact of waves and tides,
the sudden nausea inflicted by oil slicks and bilge, the prolonged effects of
salts waters, which causes the lips and tongue to swell (…). So intense and
concentrate are conditions, that marathon swimmers became a prey to delusion
and neuroses that are often beyond the experience of other athletes». [I marathon swimmers sono una
razza diversa dai nuotatori di breve distanza. Rispetto alle figure, lunghe,
agili ed adolescenti che si vedono nelle Olimpiadi, i marathon swimmers
sembrano essere costruiti come i bisonti piuttosto che come i ghepardi (...)
Questi nuotatori hanno bisogno di tenacia e di una struttura tarchiata,
costruita per reggere l'impatto delle onde e delle maree, la nausea improvvisa
inflitta dalle chiazze di petrolio e di sentina, dagli effetti prolungati
dell’acqua salata che fa gonfiare le labbra e la lingua (...). Così intense e
concentrate sono condizioni che devono affrontare che i marathon swimmers,
possono facilmente è diventato una preda di delusioni e nevrosi che sono spesso
al di là dell'esperienza di altri atleti].
[19] B. Reale, Sirene Siciliane, cit., p. 45.
[20] Ad
esempio la «piscina: non appena la scorgiamo», con il suo «azzurro immutabile come la
legge ci elettrizza. Il suo colore suscita desiderio di andarsi a gettare a
capofitto». Tuttavia, la
«piscina declina una seduzione, ma senza fascino» (C.
Guerard, Piccola filosofia del mare (traduzione di L. Brioschi),
Guanda, 2006, p. 42 e p. 56).
[21] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà
e rappresentazione (traduzione di N. Palanca) Mursia, 1996, p. 369.
[22] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà
e rappresentazione, cit. p. 374.
[23] Publio Virgilio Marone, Eneide, I,
118: «Rari nantes in gurgite vasto». Dal vocabolario Treccani on-line in
http://www.treccani.it/vocabolario/rari-nantes-in-gurgite-vasto/: «rari nantes in gurgite vasto ‹... ġùrǧite
...› (lat. «rari nuotatori nel vasto gorgo»). – Emistichio dell’Eneide (I,
118), riferito ai naufraghi di una delle navi di Enea distrutte dalla tempesta
scatenata da Giunone, usato talvolta, in senso fig. e scherz., per indicare
poche cose o persone disperse in ambiente vastissimo o tra moltissime altre.
Con alterazione del sign. originario (rari interpretato come «scelti»), la
prima parte della locuz. è stata adottata come nome di società di nuoto (Rari
Nantes Florentia, ecc.)».
[24] P. Munatones, Open Water Swimming, cit.,
p. 290: «Open water swimmers’ athletic background are not as important as
theirs willingness to swim, without lanes, lines, and walls in a dynamic
environment» [per i nuotatori di acque libere, le loro capacità atletiche
non valgono quanto la loro volontà di nuotare senza corsie, linee e pareti in
un ambiente dinamico].
[25] E. Stein, Psicologia e scienze dello
spirito (traduzione di A.M. Pezzella), Cittá Nuova Editrice, 1996, p. 51;
inoltre a p. 77: «grazie alla motivazione che permette il passaggio di un
atto all'altro atto, crescono nel flusso del vissuto le strutture dell'atto e
quindi della motivazione».
[26] Cfr. R. Deakin, Diario d'acqua, cit.,
p. 56.
[27] Cfr. J. C. Oates, Occhi di tempesta (traduzione
di A. Ragusa), Mondadori, 2005, p. 5: «come quando attraversi a nuoto un
fiume reale, imprevedibile e infido, e se riesci a raggiungere l'altra sponda
sei una persona diversa rispetto a quella che è entrata».
[28] C. Guerard, Piccola filosofia del mare,
cit., p. 24. Come scrive Joseph
Conrad, il mare non ha compassione, non ha fede, non ha legge, né memoria. La
promessa che offre perpetuamente é grandissima; ma l'unico segreto per averne
il possesso si chiama forza, forza - la forza insonne e gelosa dell'uomo che
entro le proprie porte sta a guardia di un agognato tesoro (cfr. J. Conrad,
Lo specchio le mare (traduzione di R. Prinzhofer e U. Mursia) Mursia,
2006, p. 224).
[29] B. Reale, Sirene Siciliane, cit.,
p. 54.
[30] J. Conrad, Lo specchio del mare, cit.,
pp. 205 - 206. Si vedano anche i versi di Italo Testa: «A chi
appartiene l’acqua che il nuotatore / misura, in lente bracciate solcando / lo
specchio informe di un cielo vuoto? /A chi appartiene, se nel flutto affonda/
la silhouette dorata nella luce?» (I. Testa, Gli aspri inganni,
Edizioni Lieto Colle, 2004)
[31] A. Rimbaud, L'eternité: «Elle
est retrouvée. / Quoi ? - L'Eternité. / C'est la mer allée / Avec le soleil».
[32] R. Deakin, Diario d'acqua, cit., p. 97. In proposito
come non pensare all'epilogo di disincanto ed illusione del Nuotatore di John
Cheevers: «aveva fatto quello che si era proposto, aveva attraversato a
nuoto la contea, ma ora era così inebetito dallo sforzo che il suo trionfo gli
appariva senza senso» (J. Cheevers, Il nuotatore, traduzione
di M. Papi, Fandango Libri, 2000, p. 54).
[33] B. Biancheri, La traversata, Adelphi, 2012, pp. 71-72. Scrive
Gianni Mura: «Il nuoto è noioso, ripetitivo e dà sempre l'idea di essere
quello che è: uno sport. A calcio, a tennis, a basket, anche a pallanuoto si
gioca. Il nuoto, si fa. Assente il gioco, assente la fantasia, resta il dubbio
fascino del lavoro paziente, di settimane e mesi per abbassare il proprio
limite» (G. Mura, Ma il nuoto non fa divertire, in La Repubblica,
19.09.2000).
[34] R. Deakin, Diario d'acqua, cit., p. 177.
[35] R. Deakin, Diario d'acqua, cit., p. 177.
[36] Sono le parole finali del capolavoro di Stefano
D'Arrigo: «un mare di lagrime fatto e
disfatto a ogni colpo di remo, dentro,
più dentro dove il mare è mare»
(S. D'Arrigo, Horcynus Orca, Rizzoli, 2003, p. 1094). D'Arrigo, a
sua volta, pare abbia ripreso i versi di Alfonso Gatto: «Come la donna
affonda e dice vieni / dentro più dentro dov'è largo il mare» (A. Gatto,
All'alba ), si veda in proposito AA.VV., Il mare di sangue
pestato (a cura di F. Gatta), Rubettino, 2002, p. 17.
[37] B. Biancheri, La traversata, Adelphi, 2012, p. 72.
[38] B. Biancheri, La traversata,
Adelphi, 2012, p. 72.
[39] Cfr. G. Campesi, Soggetto, disciplina,
governo. Michel Foucault e le tecnologie politiche moderne, Mimesis
Edizioni, 2011, p. 209. In proposito si veda anche A. Petagine, Profili
dell’umano. Lineamenti di antropologia filosofica, Franco Angeli, 2012, p. 86:
«L’esercizio di libertà consiste nel quotidiano, costante sofferto a volte,
orientamento e riorientamento della nostra azione al fine (…). Il legame
tra libertà e felicità è ciò che permette di individuare il senso e la
direzione verso cui l’esercizio della libertà diventa efficace, divenendo così
anche potere di liberazione».
[40] C. Guerard, Piccola filosofia del mare, cit., p. 56 e p. 74: «nuovo, senza memoria, senza promesse…il
mare dispensa saggezza non agisce su ciò che dipende da noi né su ciò che non
esiste più…viviamo l’istante qui e ora».
[42] Cfr. R. Deakin, Diario d'acqua, cit.,
p. 97: «il mio unico scopo era perdermi completamente (...) smarrire la
strada di casa il più a lungo possibile (...) trovare una scia di nuotate e
immersioni in cui dissolvere progressivamente qualsiasi obiettivo». F.
Cavalli, Sughero, cit.: «Così mi butto in acqua per scomparire. E nuoto lungo più lungo».
[43] C. Sprawson, L’ombra del massaggiatore
nero, Adelphi, 2000, p. 22 e p. 143.
[44] C. Guerard, Piccola filosofia del mare,
cit., p. 15. F. Cavalli, Sughero, cit.: «Penso e muoio
dentro. Così mi butto in acqua per scomparire. E nuoto lungo più lungo».
[45] G. Vasta, Quando il tuffo in piscina è
un capolavoro, La Repubblica 09.07.2014: «Percorrendo avanti e indietro
la sua corsia, ricomponendo i pezzi di una storia personale sempre più incerta,
Jonás scopre che nuotare è una tecnica di comprensione di meccanismi che fuori
dall'acqua, quando si dispiegano su una superficie solida, risultano incomprensibili.
Soprattutto, la piscina è lo spazio attraverso cui non solo si misura il tempo
ma se ne ripristina il funzionamento, un orologio sui generis che al posto
delle lancette prevede il moto uniforme di un corpo orizzontale che solca il
liquido, una costante laddove tutto si disgrega». Si legga anche: M. Pomar, La memoteca, Gruppo Editoriale NovantaCento, 2012, p. 71: «Uno
due tre, respiro. Uno due tre respiro. Uno due tre, respiro. Uno due tre
quattro, respiro. Deve prendere bene il tempo, Michele. Non ha mai avuto
confidenza con la respirazione ogni tre bracciate. Tende a perdere il ritmo. Pensa agli affari suoi,
mentre tira acqua con la forza giusta Né forte né piano: giusta. Lui nuota per rilassarsi, ma non è un appassionato
come gli altri, quei fanatici della corsia accanto. Bracciata, aria, bracciata,
bracciata. E pensa a suo figlio. Ha due
anni, ed è l’unica ragione per cui vive ancora con quella donna che fatica a
riconoscere. Bracciata, bracciata, aria, virata. E come crescerà con questo
clima tra loro? Non è meglio fare il passo decisivo e lasciarsi, abbandonare
convivenza, rancori e ipocrisie? Allunga la bracciata, Michele, forza, tira
acqua e decidi cosa fare di te, porca miseria (…). La esse, devo ricordarmi di
fare la esse sottacqua. E spezzare con il gomito. Si può guadagnare in gara
breve fino al sei o sette per cento. Devo scendere sotto il minuto, stavolta,
anche se la gara è in vasca lunga. E l’obiettivo di quest’anno, su questo non
si discute. Forza, Gabriele, è tutta una questione di volontà, dai. Non posso
farmi fregare nuovamente da Sandro».
[46] E. Stein, Psicologia e scienze dello
spirito, cit., p. 51. Osservazione questa che vale anche per altri
sport, si leggano ad esempio le parole di Sillitoe: «E questo spasso della
maratona è il migliore di tutti, perché mi permette di pensare, tanto bene che
imparo le cose anche meglio di quando sono a letto durante la notte» (A.
Sillitoe, La solitudine del maratoneta, cit., p. 16).
[47] Cfr. Enciclopedia Treccani, voce Nuoto: http://www.treccani.it/enciclopedia/nuoto_res-14b2e48f-8bb2-11dc-8e9d-0016357eee51_(Enciclopedia-Italiana)/. Nonché: O. De Bernardi, L’uomo galleggiante, ossia l’arte ragionata del nuoto, Stamperia Reale di Napoli, 1794, p. IV: «era virtù il nuoto presso de’
Romani, e nacque così tra essi l’adagio Neque litera, neque natare didicit, per
indicare uno sciocco o uno inetto», in http://books.google.it/books?id=mxbB6Y_XpgC&pg=PR2&dq=Essa+ebbe+nel+mare+il+suo+natale&hl=it&sa=X&ei=YuR1VIiyLsjiywOV7YGgAg&ved=0CC4Q6AEwAA#v=onepage&q=Essa%20ebbe%20nel%20mare%20il%20suo%20natale&f=false
).
[48]E. da Rotterdam, Adagio 1.4.13, come si
può leggere in http://www.let.leidenuniv.nl/Dutch/Latijn/ErasmusAdagia.html.
[49] M. Morello, Lo Zen e l’arte di nuotare, in http://www.rivistastudio.com/editoriali/politica-societa/lo-zen-e-larte-del-nuotare/, che così conclude: «Accadde proprio
col presidente Mao, con Benito Mussolini (che amava farsi riprendere mentre
nuotava). E lo dimostra il traversatore dello Stretto di Messina dei nostri
giorni». Scrive Marco Pomar, in uno scritto ancora inedito
dedicato alla filosofia dei quattro
stili del nuoto: «lo stile libero è solitario. O sei
introverso, vuoi stare colo con la riga della vasca o on le alghe, oppure sei
introspettivo, riflessivo, in cerca di qualcosa. Macini vasche, stai da solo e
canti, o cerchi nella memoria la benzina per andare avanti. Lo stile libero à
teorica trasgressione, possibilità di fare cose diverse, quelle che poi non si
scelgono mai. Il dorso è esibizionismo. Cerchi la libertà nelle nuvole, ami guardare
fuori, sentire l’aria che tira, sempre sul chi vive, mai del tutto rilassato.
Il dorso è uno stile di vita, in faccia al sole, attento alle cose ma con una
quota di incertezza, rappresentata dall’incognita invisibile di chi va incontro
al futuro di spalle. La rana è di chi vuole prendersi il suo tempo. Di colui
che non ha fretta ma ama il bello, l’armonia del gesto, il rigore della regola,
la simmetrica come forma artistica. Il ranista non trascura nulla, non ha un
lato preferito, così come non ha un amore dominante sull’altro. Il ranista è
colui che ha scelto la lentezza, e ci ha messo un sacco per deciderlo. Il
delfino è dei tenaci. Coloro i quali prediligono la forza, delle proprie idee e
della verità, dell’abnegazione e dell’allenamento. Niente torti ai delfinisti,
loro non capirebbero. Vince il migliore, paga il merito, il talento non cammina
da solo».
[50] Cfr. D. Young, Why swimming is sublime, cit:
«And when swimming, we are also using more muscle groups. Swimming is called
"low impact" because it supports the body while it works – no
thumping the asphalt with feet. But it is a particularly taxing exercise.
Stomach, chest, upper and lower back, shoulders, biceps and triceps, and the
upper and lower legs, including the feet: all working in a co-ordinated and
continuous way to keep the swimmer from stopping and sinking. Put simply, even
the local pool can suggest danger, by highlighting the continual effort
required to simply keep our head above water. Swimming, whether in salt water
or chlorine, evokes the sublime by revealing just how vulnerable we are».
[51] Cfr. R. Stramrood, What is cold water distance swimming?, in http://www.1vigor.com/article/open-water-swimming-cold-water-acclimation/ : «if you are able to train regularly in these conditions, you should focus your mind on the cold and the changes in your body – become familiar with it. Work on your mind to convince yourself that you can tolerate this while you are in the cold water (rather than when you are in the comfort of home or a warmer swimming pool). Start to build a mental wall that does not allow the cold through» [Se siete in grado di allenarvi regolarmente in queste condizioni, la mente dovrebbe concentrarsi sul freddo, sulle modifiche che apporta al vostro corpo e, infine, familiarizzare con esso. La mente deve lavorare per convincersi che può tollerare tali condizioni, mentre si è nelle acque fredde (piuttosto che quando si è nel comfort di casa o di una calda piscina). Occorre, quindi, iniziare a costruire un muro mentale che non permetta al freddo di penetrarvi].
[52] R. Stramrood, What is cold water
distance swimming?, cit.: «the mind is one seriously powerful
tool to overrule once convinced».
[53] Si legga la testimonianza di un grande campione come Giorgio Lamberti: «Anche
la testa non andava più al passo di gambe e braccia. La passione era scemata e
la vita non era più circoscritta solo a una piscina. Ho tentato inutilmente di
tornare competitivo. E invece ho vissuto l’esperienza di due Olimpiadi in cui
non sono riuscito a esprimere il massimo delle mie potenzialità, forse anche
perché ho preteso un po’ troppo da me stesso nella fase di preparazione. Nuotare
ai massimi livelli è passione, sacrificio, programmazione, tempo: per essere
competitivo devi lavorare cinque ore al giorno. E devi pensare solo al
traguardo successivo. Così nel 1993 ho smesso di nuotare. Avevo solo
ventiquattro anni» (S. Ercolani, Sfide. Lo sport come non l’avete
mai letto, Rizzoli, 2006).
[54] M. Horkheimer - T. Adorno, Dialettica
dell'illuminismo (traduzione di R. Solmi), Einaudi, 1997, p. 54.
[55] Cfr. D. Young, Why swimming is sublime, cit.:«Swimming, whether in salt water or
chlorine, evokes the sublime by revealing just how vulnerable we are».
[56] M. Genco, Nuovo trattato generale dei
pesci e dei cristiani, Prova d'autore, 2013, p. 5.
[57]Oggi può sembrare ridicola l'idea di apprendere a
nuotare "a tavolino", ma forse a quei tempi non era così insolita, se
é vero quello che scrive Sprawson sulle lezioni di nuoto in voga nel 1676: «Lady
Gimcrack descriveva così il marito che imparava a nuotare: Tiene una rana in
una boccia piena d'acqua, legata ai fianchi con una corda, la qual corda Sir
Nicholas stringe tra i denti stando sdraiato bocconi su una tavola; quando la
rana muove gli arti lui fa altrettanto, e il suo maestro di nuoto gli sta
accanto per dirgli se imita bene o male. Quando gli chiesero se aveva mai
provato a nuotare in acqua Sir Nicholas rispose: No, ma nuoto molto
graziosamente sulla terraferma. Mi accontento della parte speculativa del
nuotare, non mi importa della pratica.» (C. Sprawson,
L'ombra del massaggiatore nero, cit., p. 33-34).
LIBRI
La lingua
duttile di Piscitello
di Dante Maffìa
La copertina del libro |
Angelo Gaccione,
nella Ouverture, avvisa, e con
citazioni dotte, che in poesia non è il molto o il poco che conta, ma la
qualità, ciò che si riesce a dire e come si riesce a dire. La Gerusalemme Liberata è la summa perfetta di un mondo, come summa
altrettanto perfetta sono le fulminanti composizioni di Giuseppe Ungaretti e le
sette poesie di Francesco Piscitello. Sette non è un numero casuale e credo
dunque che il poeta abbia voluto anche nel numero darci una indicazione che
deve portare la nostra sensibilità verso una ricezione esoterica. Ma inoltrarci
su questa strada ci porterebbe lontano dai testi per entrare in un discorso di
carattere generale che qui non è il caso di affrontare.
Fermiamoci
alle poesie, innanzi tutto alla lingua usata da Piscitello, un dialetto
milanese duttile e denso di umori, capace di percepire sfumature che altrimenti
si sarebbero perdute. Le traduzioni, quantunque perfette e fatte dallo stesso
poeta, non danno la medesima resa, prendono subito un’aura di letterarietà che
nelle espressioni originarie non hanno.
Dante Maffìa con Giovanni Raboni in una rara foto storica degli anni Settanta (Foto: Archivio Odissea) |
Negli
anni in cui mi sono occupato quasi quotidianamente di poesia in dialetto e non
dialettale (come pretendevano che si dicesse sia Pietro Pancrazi, sia Mario
Sansone e sia Giacinto Spagnoletti quando si trattava di autori che uscivano
dalle coloriture vernacolari) ho letto molti libri anche di autori milanesi.
Non ho riscontrato la stessa sensibilità, la stessa freschezza e prensilità di
senso. La tecnicalità, come piaceva dire a Giovanni Giudici, non può sopperire
alla sostanza poetica, non è in grado di cogliere la magia dei sentimenti e delle emozioni. Bisogna che ci sia quel
quid, impossibile da definire, che dia vita alle parole.
A
me pare che queste sette poesie abbiano vita palpitante e riescano a dire con
convinzione di un mondo che si sfalda, anche se “i sogni / non vogliono saperne
di morire: / e a tradimento / tornano sempre a nascere di nuovo”.
Il
tono di Piscitello è pacato, ma esplicito, e credo che I versi inutili, che suggellano la raccolta, siano la chiave
evidente per capire come sente e come si muove il poeta: “A volte mi domando
perché mai / dovrebbe essere possibile / far comprendere con qualche verso /
quel che il cuore ha capito solo piangendo”.
Francesco
Piscitello, “Sett poesii de la vèna
soturna”
(Sette poesie
della vena oscura),
Edizioni Nuove
Scritture, 2014, pp. 20
AFORISMI
di Laura Margherita
Volante
1.Nel caos
generale la riduzione del danno è già un vantaggio.
2.Le eccezioni
restano un esempio con cui confrontarsi e...vergognarsi.
3.Quale famiglia,
se il male si consuma fra le quattro mura?
4.Usi e costumi.
Ieri i monumenti godevano buona salute nonostante le invasioni barbariche;
oggi crollano per le barbarie umane!
5.Godiamo che
molte opere d'arte italiane siano all'estero. Fu la loro salvezza!
6.La scienza ci
ha allungato la vita per farci morire di morte violenta...anzitempo.
7.Con il mio calesse
dal cavallo azzoppato: “Dai che arrivo anch'io...a...a...a ansimante
che mi danno la coppa...il panino!”
8.Usi e costumi
Ieri le bambine si vestivano da fatine, oggi da streghe.
Si cercano mostri, invece di bellezze e le stelle si
spengono.
9.Le
soddisfazioni morali sono il surrogato per una vita priva di affetti.
10.Più difficile
è l'obiettivo sociale più sarà gratificante l'avercela fatta!
11.La distrazione
è difficoltà di comunicazione
12.I distratti
non sono solo egoisti, ma anche irrelati..
13.I distratti
non si mettono in comunicazione nemmeno con le cose.
14.Chi soffre di
narcisismo è già morto. Si guarda allo specchio senza riconoscersi...
15.Chi possiede
senso ludico della vita non sarà mai schiavo del gioco d'azzardo...
16.Mutazioni.
Ieri il clima politico alternava le sue stagioni. Oggi più che alternati...
Sinistrati!
17.La mancanza di
sensibilità riduce la capacità di percezione.
18.Le parole
buone sono lo scudo dell'anima.
19.Quando si
misurano troppo le parole... mancano i contenuti.
20.Chi dà e non
riceve, in sua assenza, tutti ne sentono la mancanza.
21.Chi prende e
non dà, nessuno ne sente la mancanza.
22.Ilaria del
Carretto. Quando la Bellezza sembra non essere di questo mondo il Fato invia la
sua freccia fatale...e non resta che l'incanto di un'effigie divina
cristallizzata nel non tempo.
23.Vedova
allegra? Le vedove rinascono, i vedovi si deprimono...
24.Dieta per
aumento Iva. Meno consumi e più magri...
Lentius
Lentius, profundius, suavius
era il mantra di Alexander Langer,
il più grande tra gli ecologisti
e non soltanto
Aree dismesse
Il padrone
trotterellava
accanto al suo
cane
sovente precedendolo
e poi fermandosi
a orinare
per l'impellenza
della vescica
e annusava il
paesaggio
non
riconoscendone
il drastico
degrado
da capannoni in
produzione
ad aree
dismesse.
Emetteva
conseguentemente
un latrato di
risentita nostalgia
e un mugugno
sconsolato
che malamente
alludeva
a una speranza
irrimediabilmente
arrugginita.
Una notizia
carpita di sguincio
a Radio Popolare
prima di uscire
gli rallegrava
il cuore:
al vecchio
Torino
era riuscita
l'impresa
di battere nel
derby l’odiata Juve.
Giovanni Bianchi
LIBRI
Il nuovo libro di Angela Passarello
Angela Passarello |
Non
è facile dare voce alle profonde emozioni e agli stati d’animo che ho provato
leggendo la silloge Piano Argento di
Angela Passarello. Ho apprezzato molto le introduzioni di Giampiero Neri e di
Giulia Nicolai che hanno saputo cogliere l’originalità e le peculiarità di
questa poesia.
Mi
è sembrato di rivedere il mondo verghiano con la dimensione della coralità che
costruisce il racconto. Comari parlano sull’uscio, commentano i fatti, mentre
il paesaggio arso della campagna o il “mare amaro” si concretizzano davanti ai
nostri occhi. Possiamo, inoltre, pensare ai personaggi del romanzo “L’Esclusa” di Pirandello che lottano per
vivere, per superare una visuale angusta che li imprigiona.
Angela,
in modo personale e autonomo si ricollega ai grandi scrittori siciliani del XIX
e XX secolo, donandoci l’affresco del suo “Piano
Argento”, cortile del centro storico di Agrigento. Ed ecco Nina la zoppa,
il lattaio che recita i versi di Cielo d’Alcamo, il cantastorie, Lia che cerca
di contestare le ataviche tradizioni.
Si
staglia la famiglia dell’autrice. La nonna, sarta, con la sua singer “di smalto
nero, posta in un angolo della cucina”, sembra favorire la “cucitura”
(U’ritipuntu) tra presente e passato. La memoria diventa prolungamento di un
viaggio che ridà voce alle persone scomparse; per un attimo esse ricompaiono
sulla soglia della vita. Il tempo si ferma in una sospensione ricca di attese. La
madre viene tratteggiata mentre svolge il suo lavoro di infermiera percorrendo
“l’edificio della follia”, in soccorso delle “mischinedde”. Interessante l’uso
di espressioni dialettali che conferiscono maggiore spessore ai ritratti
effigiati. Sempre la madre si reca a trovare Angela a Milano per ammirare le
belle vetrine. Non immagina, forse, quali angosce turbano la figlia, sola in
una città, sovente, inospitale.
Il
padre con la sua valigia in mano “legata con la cinta”, da Dortmund porta
regali ai suoi ragazzi. Gli scarponcini di color cuoio sono indossati con
fierezza. Questi oggetti sono motivo d’orgoglio, vengono quasi accarezzati,
come capitava al verghiano Rossomalpelo.
Leggendo
Piano Argento non possiamo
dimenticare gli animali, tanto analizzati nelle raccolte precedenti. Il loro
timido grido viene soffocato nell’indifferenza: “soltanto la contadina ogni
anno vi deponeva/ una parte di cuccioli di cane/poi si allontanava seguita dai
loro piccoli gridi”. Non si tratta di atteggiamenti crudeli, ma di una realtà
obbligata a certe scelte. Soffermiamoci ora sulle nature morte, che sembrano
dipinte da Morandi: il pane bianco, la tavola, il ferro da stiro, il verso
appoggiato sul tinello coi tulipani. Lo stile è essenziale, asciutto, privo di
sentimentalismo. Angela sa dosare il rapporto tra aggettivo e sostantivo,
adotta una tavolozza che ci desta sensazioni forti, coinvolgenti. La parola si
fa cosa, non si perde in orpelli inutili, mira all’essenza, lasciandoci un’eco
indimenticabile, grazie anche agli enjambement, alle anastrofi e al ritmo del
verso ben scandito.
Maria Cristina Pianta
Angela Passarello
Piano Argento
Edizioni del Verri, Milano,
2014Il testo è tradotto in inglese
L’AFORISMA
Cultura: l’unica droga che crea indipendenza.
Giovanni BonomoELENA GERASI
Un gruppo di poesie inedite
Elena Gerasi (Foto: Archivio Odissea) |
Il gelo
Il freddo stamattina mi attraversa
come il ricordo di noi due
mentre, per mano,
ricordavamo altre mani.
Tu pensavi a lei
e mi stringevi fino a farle male.
Il freddo stamattina mi attraversa
come il ricordo di noi due
mentre, per mano,
ricordavamo altre mani.
Tu pensavi a lei
e mi stringevi fino a farle male.
Le dita del poeta
Avessero le dita del poeta
la stessa nervosa delicata forza
delle dita del pianista.
Piume o pietre sull'avorio
danzano anche le sue solitudini.
Avessero le dita del poeta
la stessa ferma dolorosa forza
delle dita dello scalatore.
Ganci per la sopravvivenza,
virgole di carne a punteggiare
con la vertigine il discorso
tra l'uomo e la natura.
Avessero le dita del poeta
la stessa leggiadra e sensuale forza
delle dita della ballerina.
Parentesi del movimento
lievi a distrarre l'occhio dalla fatica.
Avessero ma hanno,
le dita del poeta,
solo un debole:
parole prese in prestito per raccontare una vita.
Avessero le dita del poeta
la stessa nervosa delicata forza
delle dita del pianista.
Piume o pietre sull'avorio
danzano anche le sue solitudini.
Avessero le dita del poeta
la stessa ferma dolorosa forza
delle dita dello scalatore.
Ganci per la sopravvivenza,
virgole di carne a punteggiare
con la vertigine il discorso
tra l'uomo e la natura.
Avessero le dita del poeta
la stessa leggiadra e sensuale forza
delle dita della ballerina.
Parentesi del movimento
lievi a distrarre l'occhio dalla fatica.
Avessero ma hanno,
le dita del poeta,
solo un debole:
parole prese in prestito per raccontare una vita.
Come si fa con la neve
Ricordati di darmi da bere
e di mettermi al sole.
Rovesciami uno sguardo
addosso e lascialo asciugare.
Ricordami di darti le spalle
e di dimenticarti all'ombra
come si fa con la neve,
o almeno lo si dovrebbe fare.
Mi piacciono le persone rotte
Mi piacciono le persone rotte,
ma non perché le voglio riparare.
Mi piacciono coi loro pezzi
in mano e niente più
da regalare.
Mi piace la loro cattiveria imparata
che non ha niente di naturale.
Se sono fragili montagne di silenzi,
mi piace essere pane
per i loro denti.
Non è che due dolori
facciano una gioia,
o che mi piaccia soffrire,
è solo che le persone felici,
quelle che non hanno mai
rischiato abbastanza,
quelle mai abbandonate,
quelle equilibrate,
quelle senza un odio
mi annoiano.
Anzi no!
Mi danno proprio
Sulla pelle
Sul muro
sagome di corpi al sole,
un’ eco
tremante della carne
di decine di passanti.
Sono i figuranti
impalati
a guardare il tramonto,
cui io volto le spalle.
Il sole mi basta sentirlo sulla pelle.
di decine di passanti.
Sono i figuranti
impalati
a guardare il tramonto,
cui io volto le spalle.
Il sole mi basta sentirlo sulla pelle.
***
Di cosa ho bisogno
Non di sole a picco, che
mi schiacci l’ombra sotto le scarpe.
Non di luce in faccia, che
mi carichi la schiena di ombre pesanti.
Né di ansanti aneliti di luna,
che,
riflessi dalle onde, mi bacino i piedi.
Di luce che veglia le spalle piuttosto ho bisogno
per vedere la mia sagoma oscura camminarmi innanzi.
L'attesa
Spoglia spogliata
virgola sul foglio immacolato
,
nuda sul letto
porgo il fianco al tuo ritorno.
Mia
figlia
Mia
figlia è una mandorla di seta,
in
lei c'è l'Oriente, il cortile e le Ande.
La
guardo crescere
come
una pianta aromatica sul davanzale.
L'unico
miracolo che è concesso
agli
uomini è dare la vita.
Mia
figlia me l'ha restituita, perché io
imparassi
a viverla.
Trujillo
Il cielo su Trujillo è
carico d'oceano
ma l'orizzonte non sfoga in nessuna direzione.
Non assomigli a nessuna cartolina
e non accendi nessun ricordo, così
mi commuovi in rapito incanto.
I luoghi ci appartengono per sempre e
noi mai gli apparteniamo.
Siamo minuscole pedine su sfondi immensi.
La mia città si è
dimenticata di me
e ricordarla farà male per sempre.
Gli alberi crescono
Vent'anni dopo
lungo la stessa strada.
La passeggiavo bambina
in compagnia di mio nonno.
Gli alberi li avevano appena piantati.
I minuscoli cipressi di allora
ora svettano sui palazzi circostanti
e mi fanno ombra al cuore.
Gli alberi crescono lì
dove li abbiamo lasciati.
E anche noi un po' lo facciamo,
così ci ritroviamo a vivere
dall'altro capo del mondo
con in bocca il sapore
della terra di casa.
ANA VICENT
Ana Vicent |
Conversazione
Si sente
il rumore
pesante
delle posate.
Il sapore
assordante
della noia.
Gli sguardi
persi
nel pensiero
di disfare
lentamente
con pazienza
ciò che rimane
di un amore.
***
Pioggia futurista
Gocce scivolano
veloci
lungo la finestra.
Piove in fretta
come tutte le cose a Milano.
Le corse.
Dove andranno
così rotonde
perfette
nella loro geometria d’acqua?
Fuochi d’artificio
trasparenti
che scendono dal bianco.
Lacrime gioconde
Nuvole
Senza cielo.
***
Contratto a tempo
indeterminato
Accetto
Il dolore
Del vuoto
Quando cade dentro l’anima.
Il rumore
Del senso di colpa
Che rimbalza nelle orecchie come plastica.
Accetto
L’irreversibile perdita e ciò che mi resta
Un contratto a tempo indeterminato
Con me stessa.
***
Visioni presbiti
Piccoli pensieri
Veloci, fugaci
Cattivi, rapaci
Che all’improvviso si avverano
Querce squarciate
Mucche e cicogne…
La capacità di preveggenza
È molto più ambigua
Di quello che può sembrare
All’apparenza.
POCO
CONVINTA
Il bene si fa
e si dimentica
come una giornata qualunque
come il solito tragitto
come un volto di polvere
come una stretta di mano
poco convinta
dimentico anche
la spina nel fianco
se il sangue disseta
il mesto vivere.
[23 agosto 2014]
***
BAMBOLE
ROTTE
Alle bambole rotte non s’aggiustano
i pezzi, ma resta la memoria del
dolore
nell’assenza dell’arto.
Dopo il concerto resta il silenzio
di un coro senza voce, resta
lo spartito del canto.
Senza il corpo di spine resta
la nera croce a dire lo strazio
e la speranza di una terra
più buona, più bianca.
[18 luglio 2014]
***
SULLE
SPALLE COME RANA
Devo prepararmi alla scomparsa,
al tuffo nell'acqua, la speranza
sulle spalle come rana pronta
alle più maestose altezze,
tra le dita una foglia
in memoria del mondo.
Mi farò silenzio addosso,
parlerò attraverso i segni,
camminerò con le ombre sino
a smarrire la direzione,
dentro cortili di calce
abitati dai gatti.
Andrò alla ricerca del centro,
del punto di equilibrio
sulla trave di legno, facendo
dei passi cento frammenti,
mille bucce, milioni di soffi
con cui sfiorarti,
ma piano, per non svegliarti.
[28 agosto 2014]
MAX LUCIANI
I sogni di Ulisse
Max Luciani |
Nel mare che vorrei, ogni onda è un sogno,
da cavalcare senza paura alcuna.
Nel mare che vorrei non c'è bisogno,
di stare fermi ad ammirar la luna.
Il mare va affrontato con rispetto,
per non finire nudi alla deriva.
Trasformo ogni mio sogno in un progetto,
prima che esso s'infranga sulla riva.
E allora stringo tra le mani il vento,
le nubi e il sole sono amici miei.
Cavalco queste onde e non mi pento...
è proprio questo il mare che vorrei.
(Milano, 4 novembre 2014)
IL RACCONTO
MIRÒ
Fu l’uomo del
battello di linea, un vecchio basso e tarchiato, dal volto deciso nelle sue
rughe segnate di sole e salsedine, a rimanere senza parole, una volta a terra.
Per tanti anni aveva visto notte e giorno al paese dove abitava, borgo
minuscolo di pescatori suoi antenati da generazioni. Fatto di poche casette
bianche, dalle finestre a portata di voce, di scale strette fra muri con fiori
abbarbicati tra foglie aromatiche, il mare in posa nella piccola insenatura tra
gli scogli, con pietra inclinata d’accesso per le barche. E la chiesa dal
campanile rosa all’apice del picco, terrazzini sul sasso roso dal vento. Ma
quella sera si trattava d’altro, nel piccolo mondo di vicoli dal sapore acre,
disilluso. Mentre tutto non si voleva spegnere, illuminato com’era nel buio
caldo di luna piena dorata, dai riflessi ocra e arancio, ombre e luci, negli
stretti vicoli a scale, creavano disegni dalle forme inusitate. Oblunghi, dal
movimento incalzante avanti a chi saliva, persecutorio dietro a chi scendeva. E
poi i muri, a parte a parte, sembravano prossimi a piegarsi assieme su chi vi
stava in mezzo.
Mario, il Mirò
degli amici da sempre, si fregò gli occhi. Era uomo d’attento impegno nei suoi
viaggi sul mare ma facile a credenze, suo malgrado. Ora, a farlo veder male,
era forse la vista incerta dopo gli abbagli di sole del giorno, o il polpo con
patate gustato a pranzo. Volle scendere dall’oste, per rinfrancarsi e chiudere
ogni pensiero. Entrò e chiese del vino, un bicchiere e poi un altro. Quando
uscì, tuttavia, la luna era ancora là, e le ombre strane pure. Pensò al caldo
singolare di quell’anno, fatto d’umido e afa di terra. Ancora però non si
risolveva quell’incrocio di luci dai sentori di mistero. Si prese allora gioco
di sé, come faceva d’altri, e si lasciò andare. Percorse tre vicoli in croce,
si arrampicò su sino al colmo della roccia e lì, vicino allo slargo con
ringhiera sul mare, entrò nella porticina a monte. In casa nessuno lo attendeva,
al solito. Mirte era in terra da anni. Le altre, conosciute da poco, vivevano
qua e là. Lui, tuttavia, stava bene a quel modo: mare e terra ogni giorno, per
sempre. Tempo prima, è vero, cercava il vagito di un figlio da far crescere
sull’acqua. Non voleva perdere negli anni i segreti del mare. Poi, invece, era
andata così e lui non vi aveva pensato più. Come burrasca di mare la voglia del
figlio era trascorsa. Uomo rude era Mirò. Scommetteva con gli amici quattro
soldi per averla vinta, e spesso aveva successo. Un fondo di sensibile
malinconia e dolce euforia era però in lui. Lo salvava nello stare con quelle,
che per caso trovava. Erano donne sole cui la vedovanza, l’essere distanti dal
marito o troppo vicine a uno di quelli controllori intolleranti, rendeva
libere. Sorridevano bonariamente condiscendenti, alle lusinghe del vecchio
marinaio cui attribuivano più anni, di quanti in realtà avesse. Poi invece
rimanevano prese dai suoi modi bruschi ma sicuri, ricchi di apparente saggezza.
Di nessuna promessa, ma a garanzia dello star bene con lui. Divenivano donne di
sole e fuoco, regine riconosciute per un giorno. Il tempo era per loro
indistinto, sino al suo scadere. E così, ogni volta.
Mirò quella
sera era stanco. Si mise a pensare all’Inverno, quando almeno si dedicava al
riposo. Anche se il paese cambiava volto: diveniva solitario, come eremita
allogato in cima a un colle. Pochissimi fuori casa, i rari locali chiusi. A
sera rintocchi di passi, per le viuzze silenziose, risuonavano come nelle
chiese vuote. Burrasche di mare travolgevano onde cariche d’acqua, gettandole
con schianti fragorosi contro gli scogli. Il mare, d’estate limpido e
accogliente o amante passionale nei suoi furori inquieti, diveniva potenza
nascosta, espressa in tutta la sua violenza. Rocce selvagge sulla costa
sembravano goderne, nella loro presenza inattaccabile. Solo nelle calme
giornate di sole i rintocchi del campanile acquietavano il vento, solito a
infilarsi vorticoso per vicoli e scale. Nella notte calda, dai contorni degli
oggetti lucidi come in un principio di fusione, Mirò aprì i vetri della piccola
finestra sul mare. Il vento entrava libero, invitando al ballo le tendine dei
tempi di Mirte. Il letto a fiorami era schiarito dalla luna, che portava i suoi
riflessi pure lì. Mirò ne rimase soggiogato, quasi in attesa di un gesto solo
per sé. Si affacciò al davanzale, per vederne il lungo riflesso d’oro brillante
nell’acqua nera. La luna, nello specchiarsi in superficie, pareva costretta a
un silenzio estatico, non suo. Tutto intorno ogni cosa taceva. La notte aveva
preso l’animo di ognuno, per trasferirlo segretamente in altro mondo. Solo
quello di Mirò, lasciava ancora presente. E faceva soffrir lui d’incertezza,
sospeso in una dimensione sconosciuta. Sino a che, impaziente d’attendere
qualcosa di lontano e vago a definirsi, decise infine d’uscire. Il campanile
della chiesa aveva già suonato da qualche tempo la mezzanotte. Ciò nonostante
Mirò si mosse spedito, diretto al secondo vicolo dopo il suo. Salì la scaletta,
suonò più volte al portoncino verde, e aspettò. I suoi erano sogni o fole, non
sapeva. Li avrebbe tuttavia raccontati a chi poteva trovarne i perché.
Sorpresa da quel suono notturno, deciso e insistente,
Marinka uscì dal letto dove, per via del caldo, si era addormentata da poco.
Prese lo scialle a maglia di seta nera, con frange lunghe sino a terra, che
usava d’estate per coprire le spalle. Accese il lume a olio. Non era
intimorita. Sapeva, ancor prima di aprire, che qualcuno aveva bisogno di lei.
S’affacciò al portoncino e vide Mirò con un viso grigio,
diverso dal solito che conosceva. L’intenso rumoreggiare delle mareggiate nella
baia vicina, sotto le case, sembrava accompagnarlo in un furore muto. Gli
accennò d’entrare. Lui, senza preamboli, spiegò il motivo della visita. Marinka
disse d’aspettare e andò nell’altra stanza.
Dopo qualche minuto tornò cordiale, quasi euforica. Lo invitò a sedere
di fronte e prese a leggergli il destino, come faceva ad altri.
L’ora notturna era d’aiuto, ma qualcosa si frapponeva tra
loro, rendendole difficile il compito.
Sorpresa della propria incapacità in un atto di lunga
esperienza, come cercasse invano un attracco, in un lago d’acqua senza boe,
s’interruppe e lo guardò nuovamente.
La prese subbuglio nei visceri, unito a tumulto nell’animo.
Si accorse che voleva amare quell’uomo con tutta se stessa. Una lontana
percezione, subito respinta, avuta nel vederlo alla porta in attesa, si
ripresentava ora come forza prepotente, nata per destino in una notte d’estate.
A Marinka,
donna di mare, i destini degli altri servivano a pretesto per rimanere in quel
luogo, come un mirto o un terebinto aggrappato alle rocce sopra gli scogli che,
sebbene sbattuto da vento e salsedine, non se ne va. Da molti anni occupava i
tre locali a ridosso dello slargo della via, detto Delle agavi per i lunghi
steli fioriti che vi sporgevano sotto per un metro e più rivolti al mare.
Marinka, non alta, lunghi capelli e occhi scuri, indagatori, non era giovane,
né vecchia. Il tempo aveva dato al suo volto riflessi di consapevolezza e
stupore continui, non facili a trovarsi. La sua vita, semplice ed essenziale,
le bastava. Vestiva con sete indiane a fantasie fiorite, lunghi orecchini e
collane argentate, dal sapore d’Oriente. In più d’uno, gli uomini avevano
tentato di avvicinarsi, ma nessuno aveva trovato spazio. Era sola e tale voleva
rimanere, nel suo intimo desiderio di conoscere, nel fondo dei destini altrui,
segreti che sicuramente stavano sotto la superficie del mare. Guardava ora Mirò
negli occhi, da cui attendeva più che da ogni altra cosa.
Nelle pupille verdi iridescenti, trovò coriandoli di
mare, nei segni profondi del viso, anfratti di superficie degli scogli. Sentì,
nella voce forte, eco del fragore delle onde, come in un sogno ancestrale che
la visitava ogni notte. Volle intendervi filastrocche di pescatori, dètti sul
giorno e la notte dei tempi di pesca. Vi trovò storie di vite d’altri mondi,
lontani dal paese, ma vicini al loro amore di mare. Si perse nel cercare quegli
echi, che aprivano in lei un varco sconosciuto. E dopo attesa da parte di Mirò,
quando egli le chiese di dire qualcosa per lui, non seppe con quali parole
rispondere. Alzatasi diritta gli si pose di fronte. La luce della lampada rese
calda e preziosa la sua figura, dal luccichio delle gioie agli smerli dello
scialle.
Con tono serio descrisse l’indole inquieta di Mirò. Disse
che le ombre incalzanti, proiettate dalla luna, indicavano le stesse della sua
esistenza di oggi. Annotò che la luna, in luglio, era in maggior pienezza che
nel resto dell’anno, così come vuole la tradizione indiana che festeggia ogni
anno l’evento. Il suo chiarore particolarmente intenso di quelle notti gli
indicava la via da percorrere, oltre l’ombra.
Era, come del resto suggeriva il cerchio, linea che da sé parte e su di
sé ritorna: percorso iniziato dalla casa di lui, che ivi si doveva chiudere,
con un nuovo, vivo riferimento. Marinka,
nell’indicazione offerta dai riflessi della luna, leggeva una chiara allusione
alla creatura femminile, tondeggiante e splendente di luce. Mirò guardava
Marinka sbalordito, come se quanto diceva fosse per lui profondamente nuovo. La
conosceva diversa, lontana da lui come dagli altri uomini. Infine, tuttavia, si
riprese e la osservò. Una forte mareggiata, scagliatasi in quell’istante contro
lo scoglio grande dietro la casa, rese entrambi sordi: nessuno comprese le
ultime parole dell’altro.
Quando il silenzio fu di nuovo sonoro, udirono il ritmo
del cuore, ognuno del compagno. Mirò, ora in pace con la luna, teneva tra le
braccia una donna, sorpresa da un ricordo. Una frase a lei rivolta da un’amica
chiromante, tempo addietro: “Un giorno il mare di un uomo sarà tuo”, allora predizione
ermetica.
Lisa Albertini
PREMIO
VOLPONI
Ancona. È
stato presentato ad Ancona dall’assessore alla Cultura del capoluogo Paolo
Marasca e dall’ex assessore del Comune di Fermo, il premio nazionale “Paolo
Volponi”. Tra gli organizzatori dell’evento, anche Giuseppe Buondonno. In
occasione del ventennale della sua morte, Ancona dedica a Volponi una serie di
appuntamenti culturali per ricordare l'importante ruolo che rivestì nella
cultura del '900, rappresentando anche, per il suo impegno civile, un significativo punto di riferimento di identità
territoriale. Volponi, nativo di Urbino, si spense ad Ancona, ma si può dire
che il suo spirito fu profondamente legato alla sua regione da Fermo ad Urbino.
L’edizione 2014, appena iniziata,
proseguirà fino al 29 novembre coinvolgendo diverse realtà quali Altidona,
Ancona, Fermo, Grottammare, Montegranaro, Monte Urano, Monte Vidon Corrado,
Pedaso, Porto Sant’Elpidio, Porto San Giorgio, Sant’Elpidio a Mare e che ha
avuto un prologo ad Urbino il 29 ottobre scorso con un convegno dedicato al
“Volponi estremo”.
Il 13 novembre presso il Teatro
Sperimentale di Ancona sarà in scena lo Spettacolo teatrale Made in Ilva -
L’Eremita contemporaneo -, composizione
drammaturgica originale sulle testimonianze degli operai dell’ILVA di Taranto
per la produzione Instabili Vaganti con il sostegno di Spazio OFF di Trento.
Definito un capolavoro di teatro fisico, un esempio di “biomeccanica
contemporanea”. (Made in Ilva ha
ricevuto nel 2014 la nomination al Total Theatre Award al Fringe Festival di
Edimburgo, dopo aver collezionato numerosi premi per l’impegno civile e la
sperimentazione).
Il 27 novembre, presso la Sala
Conferenze Assessorato alla Cultura della città, ci sarà la presentazione dal
tema “ Rileggere Paolo Volponi vent'anni dopo (1994-2014)” per la ristampa e riedizione Einaudi sul
percorso esistenziale e poetico dello scrittore urbinate. Il Premio
omonimo, che si rinnova da 11 anni, in
previsione del quarantennale di Pier Paolo Pasolini, che cadrà l'anno prossimo,
dato il profondo legame intellettuale fra le due grandi personalità della cultura italiana,
realizzerà diversi eventi tra i quali quello del 14 novembre su “Il
petrolio delle stragi – il Pasolini politico” con la partecipazione di Gianni
D’Elia, Lorenzo Pavolini, Pasquale Voza. Paolo Volponi e Pier Paolo Pasolini,
due diversi destini, ma uniti dallo stesso sguardo di intellettuale su una
società dominata dalla corruzione, che
Pasolini definì omologazione e
che divenne motivo di dolore per Volponi. Erano entrambi degli “arrabbiati”;
infatti, ci sono la rabbia e lo sconforto di chi si sente sconfitto di fronte
al caos, ad una storia senza senso e, nello stesso tempo, la disperazione di
chi avverte di non poter fare più nulla una strada senza ritorno. A conforto di
ciò emerge forte in loro la difesa irrinunciabile del valore della poesia,
sogno irraggiungibile e riscatto in un
mondo che sembra aver perso il senso della coscienza sociale e del senso umano
della vita.
Infine il 29 novembre a Porto
Sant'Elpidio serata di premiazione dei 3 libri vincitori: “La gemella H” di Giorgio
Falco, Ed. Einaudi Stile Libero; “La vita in tempo di pace” di Francesco
Pecoraro, Ed. Ponte alle grazie; “I buoni”
di Luca Rastello, Ed. Chiarelettere.
“D’autunno è con noi
ogni foglia e ghianda
ed è raggiunto il cielo.
Fra le avellane svolazza
la palomba ferita,
freme il sottobosco
agli scoppi
dei ricci di castagna.
Dolcissima è l’ultima uva
celata fra i pampini rossi,
sul fianco dei monti sale
il fumo delle carbonaie.”
(P. Volponi “Poesie” Einaudi 2001)
“Per essere poeti, bisogna
avere molto tempo.” (P.P.Pasolini)
Laura Margherita
Volante
Corrispondente Marche
“Dirà l'argilla la mano,
la terra, il sacro”
Mostra di Paolo Annibali
Paolo Annibali |
Il Museo Tattile
Statale Omero presenta la sua grande mostra per l’autunno-inverno: “DIRA'
L'ARGILLA la mano, la terra, il sacro” di Paolo Annibali, dall’ 8 novembre 2014
al 15 febbraio 2015 negli spazi della Mole Vanvitelliana. La mostra, a cura di
Flaminio Gualdoni, propone 21 grandi sculture in terracotta più 21 splendidi
disegni realizzati negli ultimi tre anni dallo scultore di San Benedetto del
Tronto, secondo un progetto unitario pensato per il Museo. Catalogo edito da De
Luca Editori d’Arte, con saggi del curatore e di Erri De Luca. Con il
Patrocinio della Regione Marche. In anteprima sarà possibile
"percepire", vedere e toccare alcune sculture.
Il logo del Museo |
L'argilla dirà forse a colui che la
forma: “Che fai?”
L'opera tua potrà forse dire: “Egli
non ha mani?”.
(Isaia 45,9)
Paolo Annibali è uno scultore la cui
mano segue il pensiero con l'uso dell'argilla e di quella sacralità ancestrale
nascosta in ogni essere umano. Il Nostro attraverso un viaggio interiore a
ritroso s'imbatte nei reperti di un'antica umanità, che s'identifica meglio
nella cultura etrusca. In questa ricerca Egli è teso a toccare il senso
dell'esistenza nelle piccole cose e nelle esperienze della quotidianità, nei
gesti e negli oggetti fissandone gli interrogativi sul teatro della vita.
"Dirà l'argilla" come intento di comunicazione, di voci palpitanti
sul destino e sull'avvenire. Uno sguardo, quindi, sul futuro con il monito
preciso sulla fragilità umana e sulla sua grandezza quando se ne coglie la
consapevolezza.
La mente e le mani si collegano
nella sacralità della terra, terra di vita e di morte.
L'opera di Paolo Annibali “Dirà l'argilla la mano, la terra,
il sacro” è stata concepita proprio per il Museo Tattile Omero, la cui
inaugurazione avrà luogo nella settecentesca Mole Vanvitelliana, con più di 20
sculture in terracotta realizzate in questi tre ultimi anni.
Con questa materia primordiale
Annibali riesce a creare forme suggestive e di grande forza plastica, tanto che
la loro anima sembra uscire dalla corposità quasi a volerci raggiungere
dichiarando amore apprensione per il vuoto delle nostre misere esistenze. Tutto
questo nel silenzio di un ideale tempio antico per esprimere la solennità del
momento in una corrispondenza d'amorosi sensi dello spirito infinito fra noi e
gli altri.
Un opera del maestro |
I visitatori, vedenti e non
vedenti, potranno toccare, accarezzare, esplorare le sculture esposte e la
traduzione a rilievo di stupendi disegni in bianco e nero.
Nel rapporto dello scultore con
la materia, impastando acqua e terra, appare la passione che anima il problema
stesso dell’esistenza, del suo significato e della sua meta estrema.
Se l'Arte si riducesse ad una
pura tecnica frenando la passione, essa perderebbe allora la sorgente stessa
del suo interesse per il senso umano della vita, cesserebbe di sognare, di
fantasticare per non abbandonarsi ad una poetica universale al cui centro c’è
la persona.
Laura Margherita Volante
Corrispondente Marche
Dio e dintorni
Frammenti inediti
di Lidia Sella
Chi ha fede
è portato a credere
alle
mille facce
della menzogna.
*
Monoteismo,
monogamia:
monotonia
della monomania.
*
Chi
sa creare somiglia a Dio?
*
Il
robot adorerà come
un dio l'ingegnere che l'ha progettato.
*
La
mia spiritualità non si ciba di
ostie ma di radici indoeuropee.
Professo
la religione del dubbio, le verità rivelate non fanno per me.
Non
ho fratelli, se non per legame di sangue.
Nel
libro della scienza trovo più risposte
che sui testi sacri.
Mi
accontento dei miracoli che Amore e Natura
compiono
di continuo davanti a noi.
Un
universo in continuo divenire, ecco l’unico dogma.
Solo
umani, gli idoli che ho adorato.
Ogni
tanto mi dondolo sull’amaca dell’infinito.
Qualche
sosta lungo il versante laico del sublime.
Fra
le eliche del DNA, il mistero io danzo.
Altro
tempio non conosco
che
il sortilegio colorato del cosmo
e
il suo dolcetragico canto.
Il piromane
Dopo aver acceso la miccia del Big Bang
dove diavolo si è rifugiato Dio
per scampare all’immane onda di fuoco?
Rimase per caso vittima dell’incendio
che Egli stesso aveva appiccato?
Finì forse incenerito dalle radiazioni?
O si disintegrò in mille pezzi
e da ciascun frammento
embrioni di presuntuose divinità
a colonizzare il cosmo?
*
Capolinea
della speranza, il Paradiso.
*
Giovani oggi
Sepolto Dio.
Implosa la
famiglia.
L’Amore? Una fatica.
Schiavi d’Europa
ma senza più lavoro.
Confusi da ambigue
identità.
Recise tutte le
radici.
Scalzati
dal centro dell’universo.
Appesi all’impercettibile
filo
della fisica
quantistica.
Lo sguardo
su un cosmo
sconfinato e muto.
Niente porti né mete.
O speranza.
Solo droghe
corruzione rumore:
quale sapore il
loro futuro?
IL RESPIRO DI
ULISSE
A sinistra della foto Laura M. Volante |
Mi porta la procella
ad Ulisse per mari e terre
sconosciute.
E’ il vento che soffia
è il canto delle sirene
è il lido dove il mare
respira sulla tua
anima stanca di viaggiare
Peregrino Ulisse
ogni sosta di quiete
ogni giro di voragine
tra turbini e turbamenti
ritorna alla meta sicura
Il mare respira dentro
l’amore e la tempesta
e ti urla sangue per l’inganno
Il respiro di Ulisse
scandisce il tempo
nel fluire della vita
che torna dopo
ogni sua morte
E così riprende il viaggio
per quel mare così vivo
che ti respira dentro
libertà d’oceani di sfogare
la forza degli eventi
finita la sosta e la quiete
fra turbini sfide e turbamenti
ti devi fermare davanti
alla potenza del creato…
Il mare respira storie
di eroi e vagabondi
seduta sulle sue onde
e ascolta nel silenzio
il suo respiro infinito
ma non si sa dove andrà
a finire
forse è solo la musica dell’Universo.
Laura Margherita
Volante
AFORISMI
di Laura Margherita
Volante
Paradosso. Chi lo vive evolve...
*
Coloro che sono avvezzi al
perdono...non perdono se stessi.
*
L'individualismo esasperato non è
compagno dell'intelletto. Esso non giova a nessuno, nemmeno a se stessi.
*
Il silenzio è la musica della
Terra.
*
Divorzio. Ponte d'oro al
travaglio di una martire...
*
Crisi sociale. Più estreme
unzioni di battesimi...
*
Gli ipocriti mostrano una luce
che non c'è...
*
Denaro sesso droga sono i generi
di conforto dei naufraghi destinati ad affondare...
*
Dustin Hoffman nelle Marche...
Se Roberto Maroni incontra Gian
Mario Spacca si salutano così:
“ Spacca”
“Maroni”.
“Il Piave mormorò: non passa lo
straniero!”
*
Gli esseri umani usano la mente
che mente, e non pensano.
*
Non è la mente a produrre il
pensiero, ma il pensiero a formare il cervello...
*
L'uomo ha scoperto il fuoco e il
fuoco ha acceso il pensiero. “Sta a vedere che il cibo cotto è migliore?!” E
cosi ha cominciato a cucinare...
*
Sindrome dell'Est. Quando l'uomo
va in andropausa...
*
Usi e costumi. Ieri si diceva che
il treno passa una volta sola nella vita. Oggi le Frecce Rosse passano, ma non si fermano nemmeno alle intermedie stazioni. Ci vuole
una grande stazione di partenza!
*
Gli schemi atrofizzano la
creatività. Dio sottrasse una costola dall'uomo per creare la donna e da una
sottrazione creò due soggetti; non usò l'addizione di un comune ragioniere. Tra
i comuni ragionieri invece la sottrazione all'infinito diventa una moltiplicazione
di beni...quello che non si fa nella vita prima o poi ti rincorre chiedendo il
conto.
*
Tenacia. L'umile goccia quando
buca, il buco non si chiude più.
*
Quale forza? Forti per forza e
deboli per vizio...
*
Oggi si dice
che siamo in una società precaria. E su quali certezze si basava quella di
prima? La precarietà è parte intrinseca della vita. L'unica certezza umana è
l'incertezza cosmica!
*
Chi esiste
resiste. Chi appare... sparisce.
*
Usi e costumi.
Ieri V. Hugo scriveva: “Non morire non è nulla, non vivere è spaventoso”.
Oggi diventa:
Non morire è una scommessa, vivere è spaventoso...”.
*
Sempre giunge
cara gratitudine quando qualcuno fa qualcosa senza che gli sia chiesto...
Chi giudica
invece di capire è all'affannosa ricerca di alibi...per sé
IL PRAGMATISMO POLIEDRICO DI VITTORIO SGARBI
“Buon testo. Acuto e didascalico come la voce di un dizionario”.
Vittorio Sgarbi
Vittorio Sgarbi |
Il breve profilo di Vittorio Sgarbi che qui pubblichiamo, steso da
Laura Margherita Volante, è più di un semplice medaglione biografico; è un vero
e proprio attestato di stima verso un personaggio pubblico spesso e volentieri
al centro di furibonde polemiche, ma di indubbie capacità (valgano per tutti i
suoi buoni libri). Il globo è pieno di adulatori servili e noi di “Odissea” ce
ne teniamo alla larga, ma va riconosciuto a Sgarbi (al di là delle sue
frequentazioni politiche spesso detestabili) il merito immenso (contrariamente
a molti critici e uomini d’arte che si limitano al ruolo di semplici, innocui
scrivani), di porsi radicalmente contro i devastatori del patrimonio artistico
del nostro Paese, e del suo ineguagliabile paesaggio, in maniera frontale e
radicale, collezionando decine e decine di querele. A mia memoria si contano
sulle dita di una mano sola, i personaggi pubblici che si sono opposti allo
scempio dal dopoguerra in poi, e certamente non in modo militante con la
virulenza anarchica di Sgarbi. La nazione italiana da questo punto di vista gli
deve moltissimo, e noi lo riconosciamo. Fosse stato ministro dei beni culturali,
la colata di merda che è stata prodotta in giro non sarebbe stata possibile. Ne
sappiamo qualcosa noi qui a Milano, e proprio sabato scorso ho dato
appuntamento ad un gruppo di collaboratori di “Odissea” per una foto-ricordo
(1° anniversario di “Odissea” in Rete dopo 10 anni di edizione cartacea), in
via Croce Rossa. Ci siamo fatti fotografare seduti sui gradini di quel vero e
proprio mostro urbano che è il monumento al presidente della Repubblica Sandro
Pertini, realizzato durante il delirio craxiano, da Aldo Rossi. Di manufatti
ibridi, idioti ed invasivi se ne contano a centinaia, a Milano come ovunque;
Sgarbi li ha sempre definiti pubblicamente per quello che sono: spazzatura. È
per questo che il ritratto che qui ne ha tracciato Laura Volante, ci è parso
teneramente affettuoso. Al di là di certe esagerazioni che potrebbero suonare
retoriche (ma Sgarbi stesso lo ha definito “Un buon testo. Acuto e didascalico” e dunque ci sentiamo tranquilli), come un gesto di affetto noi lo valutiamo e lo pubblichiamo. (A.G.)
Ancona. Tracciare un profilo esauriente di Vittorio Sgarbi
sembrerebbe un'impresa ardua se non impossibile, ma così non è se si conosce la
combinazione della sua cassaforte animica. Sì, Vittorio così loquace aperto
polemico tendente al turpiloquio è una persona semplice in difesa della verità
nuda, priva di orpelli e di fole. La sua
anima non è altro che la cassa risonante anticipatrice di un tempo remoto, dove
tutto è stato detto: bellezza, armonia, merito, giustizia, veritas.
Gli antichi gli hanno raccontato
la verità sin da Protagora che gli sussurra: “L'uomo è la misura di tutte
le cose” e lui lo sa bene, che misura se stesso contro tutti i produttori e
fruitori di ipocrisia.
Non amo tediare ripetendo quanto
è stato detto del Nostro e della sua complessa personalità. I più gli
riconoscono il merito di essere un prezioso universale conoscitore dell'Arte,
con una memoria elefantiaca e un dinamismo instancabile, ma anche fuori dalle
righe sino a perdere le staffe se attaccato sulle sue buone convinzioni. La sua
biografia evidenzia una cultura poliedrica e un essersi messo in gioco in più
campi socioculturali, portando avanti le sue battaglie con battute,
provocazioni, paradossi esponendosi alle critiche feroci di chi afferma che è
ingovernabile, inaffidabile, incostante, ecc... Ha pagato anche care certe sue
alzate di genio!
Vittorio, incontrato in diverse
occasioni culturali, dal Teatro Petrella di Longiano, dove intervenne accanto a
Furio Colombo nel 1997 sino ad Osimo, lo scorso anno per la Mostra del Barocco,
mi ha sempre dimostrato gentilezza e affabilità. L'ho osservato, ascoltato,
seguito in tivù; forse per la mia
formazione psicopedagogica e per sensibilità poetica, mai mielosa ma
filosofica, mi intriga e mi fa sorridere, perché è vero, spudoratamente vero
pieno di difetti veri. “Esseri se stessi è una virtù dei bambini dei matti dei
solitari” così narra il poeta cantautore De André. Ecco, Vittorio è se stesso,
egocentrico, ironico, istrionico, malinconico, polemico, furioso, logorroico,
buono, amabile, docile... potremmo usare tutti gli aggettivi del vocabolario e
trovarvi uno sgarbo o una carezza. “Potete
individuarmi perché scrivo, potete attaccarmi quanto vi pare, ma non potete
impedirmi di dire ciò che penso, quando lo voglio, non potete condizionarmi”.
Questo pensiero di B. Pascal sembra scritto apposta per lui.
Sono anni che gli scrivo sms corti lunghi, di aforismi, brevi
poesie, battute, barzellette, tessere della mia vita fino a rispondermi sulla
mia perplessità: “Infatti scrivi, sono Diario Vittorio”, senza mai offesa
mandandomi a quel paese. Anzi “li leggo e li trovo arguti”, ha risposto, anche
con gratificanti commenti lapidari sulla mia poesia.
Mantegna "Il Cristo Morto" Brera-Milano |
Il geniale, subitaneo, irrequieto
Vittorio è una persona semplice perché sa pensare in modo semplice, profondo
conoscitore della parola appropriata segue il suo fiuto istintivo per andare
alla scoperta di Scuole d'Arte, di dipinti, di artisti che diano un senso alla
vita e alla verità storica. Perché noi siamo da dove veniamo per capire dove
andremo. E fra spigoli burocratici e macerie, fra pale eoliche e rotonde, si
affanna a esprimere il suo pensiero controcorrente e lui può farlo perché è
Vittorio Sgarbi e lo sa e perciò lo fa, se no perderebbe un'occasione per
affermare il Bello il Buono il Giusto. Forse a volte non usa metodi
convenzionali del perbenismo corrente, quello che chiude gli occhi per non
affrontare il Vero, dietro cui si sguazza nel pantano, dove si annidano le
pantegane fameliche di interessi “particulari”.
Critico e storico dell'arte,
parlamentare della Repubblica ha ricoperto anche prestigiose cariche di
governo. “Premio Internazionale TV Flaiano 2000”, scrive sui più importanti
settimanali e riviste d’arte. Fra i suoi numerosi libri ricordiamo: “Da Giotto a Picasso”; “Un paese sfigurato”; “Dell'Anima”; “L'Italia delle Meraviglie” sino al recente “Da Giotto a Gentile da Fabriano”, la personalità poliedrica e
pragmatica di Vittorio Sgarbi ha dato sfogo alla sua febbricitante passione fra
tormento ed estasi.
Un interminabile elenco che
testimonia l'amore per il suo paese, le sue radici, la sua cultura e la sua
lingua. Infatti non usa termini stranieri. E al di là di ogni polemica il
Nostro ha reso un grande servizio
culturale avvicinando le persone di ogni estrazione sociale a godere dell'arte
e della bellezza nell'accezione più
ampia. Nessuno è perfetto, nemmeno Vittorio Sgarbi, ma è fattivo, il resto sono
chiacchiere amene.
Laura Margherita Volante
Libri
L'autoironia
audace di Bruna Magi
Bruna Maggi |
Bruna Magi, una brillante carriera in campo editoriale che spazia
in vari campi: giornalista, critico cinematografico, scrittrice, autrice di
molti romanzi, ideatrice e conduttrice di Caffè letterari in Liguria da Alassio
a Varazze(Savona). Infatti la nostra nasce a Savona, e vive a Milano dove si è
trasferita giovanissima, per essere assunta a “Gioia” e lavorando in seguito
per diverse testate. Ma ha mantenuto stretto il suo legame con la l'amata
Riviera, tornando spesso nella sua casa di Albissola Marina (SV). Infatti, è
proprio ad Albissola che conobbi Bruna Magi, in occasione della presentazione
di uno dei suoi primi romanzi, se non il primo. Un paio di incontri a cena fra
amici e conversazioni culturali, poi ci siamo perse di vista. Lei a Milano ed
io a Cesena e ora ad Ancona.
Donna impegnata e giornalista di
costume ha pubblicato numerosi romanzi, tra i quali: “Quella paura di vivere”,
“Le due Papesse” (Ed.San Marco 1987),
“La sindrome del Califfo” (Palermo La
luna 1995), “Il ritorno della Papessa”
(Bietti 2000), “La profezia nell'anno dei grandi re” (Bietti 2002), “Fate e streghe sono fra noi?”
(Pentafoglio), (Bietti 2005) e l'ultimo suo romanzo “Prima Pagina” (Edizioni Bietti)
I titoli dei suoi romanzi sono
significativi, perché mettono in risalto l'universo “Donna” con i problemi e le
dinamiche inerenti al rapporto fra i sessi
e la continua competizione del maschio nel voler sottomettere la
“donna/femmina”, la quale in tutti i tempi ha cercato di conquistare una
posizione di dignità, che la liberasse da quei ritratti ben delineati da
Tolstoj a Ibsen, fino al riscatto finale, ma a quale prezzo!
La copertina del libro |
Ma in questa battaglia Angelina Felix è diversa da ogni eroina del
passato, diventa protagonista a tutto tondo fino ad andare in “Prima pagina”, e
nella vicenda conduce una guerra alla pari con lo spregiudicato Luca Falco: lei, giornalista
anticonformista, scevra da compromessi, gioca una sfida di orgoglio e dignità
con Luca, direttore di un quotidiano di successo e collezionista senza scrupoli
di femmine disponibili. ingenue e/o arrampicatrici sociali. Da questo incontro
nasce un intreccio amoroso, le cui vicende animano le pagine della storia di
eros e sentimento. di debolezze umane, in una perenne lotta dei sessi. “Odi et
amo”, ma sulla stessa lunghezza d'onda di sentimento e di scrittura. “Prima pagina” è stato definito dalla
critica il “nuovo Bel-Ami”, spregiudicata creatura di Guy de Maupassant, ma
raccontato da una donna. E lo si ritrova nel protagonista Luca Falco,
giornalista rampante, sfrontato e teso alle vette del successo, capace di
manipolazioni e invaso da un senso di
onnipotenza. Con ironia e autoironia l'autrice scrive una storia d'amore in un
continuo gioco di ruoli e attrazioni, ambientata nella Milano del mondo
dell'editoria.
Il lettore si trova quindi
immerso in una metropoli seduttiva di auto blu, celebri ristoranti d'alto
bordo, vite private complesse e burrascose fra gelosie e sceneggiate, scoop giornalistici
e scorci surreali. La scrittura di Bruna Magi è limpida, coraggiosa, provocante
con un linguaggio tipico dei tempi e dell'ambientazione culturale. Leggendo le
pagine del romanzo si avrà la sensazione di andare sulle montagne russe in un
saliscendi veloce di emozioni, di un cercarsi e un lasciarsi fra attrazione,
erotismo febbricitante di sms, telefonate in una suspense di provocazioni,
attese vissute nel protrarsi di un sottile piacere. Un romanzo che oltre a
rinnovare l'eterna scaramuccia dei sessi e dei sensi, offre anche uno spaccato
avvincente e realistico di un contesto sociale assuefatto e viziato, le cui
luci della ribalta fanno forse ombra all'umana pietas del quotidiano
vivere.
Laura Margherita Volante
MILANO MUSICA PER FAUSTO ROMITELLI
di Cecilia Balestra
Fausto Romitelli |
Quando nel 2012 abbiamo
iniziato a pensare a una grande monografia dedicata a Fausto Romitelli,
compositore tra i più visionari della sua generazione, cercavamo una
programmazione che muovesse energie. In questi tempi di profonde trasformazioni storiche e
culturali continuiamo infatti a credere nella musica e nel suo potere di
trasformazione della società.
Si tratta di un impegno concreto, grazie al quale
abbiamo ideato e organizzato un festival che riunisce musicisti, compositori,
pubblico e numerose istituzioni milanesi attorno alla figura di Fausto
Romitelli, oltre ad artisti europei e
italiani che ne hanno condiviso il percorso artistico, in tutto il suo slancio,
fino al 2004, e che lo considerano un punto di riferimento tuttora vitale.
Attorno alla musica di Fausto Romitelli si
incontrano così a Milano -dal 9 ottobre al 15 novembre 2014, in un arco dall’Alcatraz
al Teatro alla Scala- interpreti storici, come i musicisti dell’Ictus Ensemble,
dell’Ensemble intercontemporain, Mika Vainio e Sincronie, compositori amici e
musicologi.
Con
Marco Mazzolini ,
consulente artistico di Milano
Musica, siamo convinti che la musica di Romitelli sia
espressione di uno spirito autenticamente libero, anticonvenzionale, profondo
quanto sottile e ironico. E che possa costituire un’esperienza d’ascolto forte,
immersiva, centrata sul corpo e al tempo stesso radicalmente critica rispetto
all’omologazione culturale e mediatica, che coglie lo spirito inquieto del
nostro tempo ma getta lo sguardo al di là di esso.
Sempre in sintonia con le
stimolazioni anche visive dei linguaggi in formazione negli anni
Ottanta-Novanta, Romitelli proponeva già sintesi che si sarebbero precisate più
tardi, fuori dalle formule dell’eclettismo e dell’accademismo, accogliendo gli
apporti del rock progressivo e della musica psichedelica in uno stile
compositivo originale.
Fausto Romitelli |
La programmazione mira a
far conoscere il pensiero musicale di Romitelli da più angolature, proponendo
l’ascolto di brani appartenenti all’intera parabola artistica di questo autore
e ponendoli in costellazione con autori del passato e del presente con cui
Romitelli ha concretamente o idealmente dialogato: Debussy , Ravel, Ligeti,
Dufourt, Grisey, Levinas, Murail, Scelsi e altri ancora.
Ricordiamo la prima italiana a Milano Musica , nell’ottobre 2004, dell’opera-video An
Index of Metals, il punto più alto
della ricerca di Romitelli sui rapporti tra musica e immagine, con l’Ictus
Ensemble, che aveva commissionato il lavoro e che torna a Milano nella serata
inaugurale all’Alcatraz. Dalla prima assoluta alla Fondazione Royaumont nel
2003, oltre 50 sono state le esecuzioni di An Index in tutto il mondo.
The Poppy in the
Cloud21 ottobre 1999E ancora, nel 2005, si ricorda la prima italiana
di Mediterraneo I e II, affidati quest’anno a Matthias Pintscher alla
guida dell’Ensemble intercontemporain.
Non sono mancati Professor Bad Trip: Lesson I,
eseguito nel 2000, e Professor Bad Trip: Lessons II & III a Milano Musica.
Questi sono segni concreti di opere d’arte che sono
e rimarranno vitali nell’esperienza e nella storia musicale di domani. Inoltre
costruire il futuro non può prescindere dalla commissione di nuove opere e
dalla proposta di opere dimenticate: la prima assoluta di Meridiana, brano giovanile del compositore, e nuovi lavori
commissionati da Milano
Musica ad autori in dialogo tuttora aperto con Romitelli come
Emanuele Casale, Giovanni Mancuso, Mauro Montalbetti, e a Giovanni Verrando e Riccardo Nova , che con
Romitelli hanno condiviso pensieri, studio e sogni.
Un Festival, con
Romitelli, alle e oltre le “periferie dell’Impero”, in cui il gesto musicale e
poetico apre mondi sonori in contatto diretto con il nostro vissuto.
QUALCHE CONFESSIONE DI UN CRITICO LAICO
di Morando
Morandini
Morando Morandini sul balcone della sua casa di via Ripamonti (Giugno 2014) |
Sono un
milanese che ha passato un ventennio -dal 1929 al 1949, gli anni della
formazione- a Como dove nel 1946 cominciai a fare il giornalista. Quando ero a
“La Notte” negli anni ’50 mi consideravano un critico cattolico perché avevo
lavorato in quei quotidiani cattolici, “L’Ordine” di Como e “L’Italia” di
Milano (ora si chiama “Avvenire”). Quando nel 1961 lasciai “La Notte”
quotidiano di destra, per passare a “Stasera”, quotidiano paracomunista,
divenni un rosso, peggio, un cattocomunista. (Fondare nel ’61 un quotidiano del
pomeriggio dopo 6 o 7 anni di televisione, significava un distacco ignorante
dalla realtà sociale che oggi continua con l’attuale sinistra: hanno scoperto
soltanto nel 2009 l’esistenza del conflitto d’interessi. Quando all’inizio del
1965, dopo 2 liquidazioni e 2 anni e mezzo di libera disoccupazione (con moglie
e 3 figli a carico) entrai a “Il Giorno” dove rimasi per 34 anni, una durata
quasi vergognosa, fu più difficile mettermi un’etichetta.
Mi considero un critico di cinema un po’ anomalo
nell’attuale panorama del giornalismo italiano. Sono uno dei pochi giornalisti
che ha sperimentato tutti e tre i modi principali di lasciare un giornale: a)
licenziamento (da “L’Ordine” di Como); b) abbandono volontario; c) chiusura del
giornale (“Stasera” durò 10 mesi). Fui querelato e condannato due volte: negli
anni ’70 per avere sconsigliato un film senza averlo recensito (poi assolto in
appello) e negli anni ’90, denunciato dalla MacDonald’s. Non sono però un vero
pregiudicato come il miliardario a piede libero di Arcore: in entrambi i casi
fui condannato da un tribunale civile, non penale. Dopo quella del critico
fascista, dal 1945 in poi non ho mai avuto una tessera di partito. Mi considero
un liberal-socialista alla Bobbio, un Bobbio prima ancora di conoscere
l’esistenza di Norberto Bobbio e di leggerlo.
Liberal-socialista con un retroterra di cristianesimo un
po’ eretico e risvolti di anarchismo libertario.
Vorrei che mi si considerasse semplicemente un critico
laico. E negli anni 2000 sono un critico più libero della maggioranza dei miei
colleghi. Per due motivi. Il mio lavoro principale è il Dizionario dei film
Zanichelli in cui i miei giudizi sui film -e quelli di mia figlia Luisa- sono
leggibili molti mesi dopo la loro uscita in pubblico. E ho per editori i
fratelli Lorenzo e Federico Enriques che
-caso ormai raro nell’editoria italiana di oggi- sono due
signori che non mi hanno mai censurato un giudizio.
Sono nato sotto Mussolini, un mese dopo l’assassinio di
Giacomo Matteotti e nessuno -in casa e fuori casa, a Como, città bianca- me ne
ha mai parlato. È l’unico rimprovero che posso fare a mia madre, morta nel
1942, ma so che lo faceva per amore, per paura di danneggiarmi. Sono stato
fascista sino all’estate del 1944, quando avevo vent’anni e non permetto a
nessuno di dire in mia presenza che i 20 anni sono la più bella età della vita.
Ho la disgrazia di passare i miei ultimi anni sotto
Berlusconi e il berlusconismo in quest’Italia sempre più ignorante e incolta,
intollerante e mafiosa, corrotta e clericale. Vivo in un paese democratico
corrotto nel senso del suo patologico, non fisiologico, livello di corruzione
pubblica è coperto più che combattuto. E quand’è combattuto, raramente un ricco
o un potente va in galera.
Qualcuno potrebbe obiettarmi: perché la butti in
politica? Rispondo: per legittima difesa.
In economia sono così ignorante che quando sfoglio le
pagine economiche di un quotidiano non capisco un titolo su due. Preferisco non
occuparmi di politica: per temperamento e per scelta sono inadatto a praticarla
bene: esige una certa capacità di mediazione e di compromessi che non possiedo.
L’ho praticata un po’ da giovane: nei genitori democratici, nei giornalisti
democratici, nei docenti democratici. Negli anni ’60 e ’70 “democratico”
significava essere di sinistra. Oggi mi limito, per la strada o sui mezzi
pubblici di Milano a dare ad alta voce del berlusconiano o del leghista a
chiunque si comporti da maleducato, incivile, arrogante.
Quel che mi sta a cuore e che conosco meglio è la cultura
e, di conseguenza, la crescente volgarità dei costumi. È sempre esistita, ma
senza l’attuale arroganza.
Sono convinto che la destra al governo da quasi vent’anni
sia composta dalla pseudocultura televisiva del PDL berlusconiano (che cambia
nome ogni 5 anni) dall’incultura violenta della Lega e dalla retrocultura di
Alleanza Nazionale. Con un paradosso: dei 3 leader al governo il più
ghibellino, il più rispettoso della Costituzione repubblicana è Gianfranco
Fini. Ovviamente escluso le due brevi parentesi di Prodi, non a caso sabotato
anche dalla sinistra.
Non sono contento neppure dello stato di salute del
giornalismo italiano al quale ancora appartengo, nonostante tutto, visto che
dal 1989 godo di una pensione di giornalista professionista. Vivo in un paese
controllato da una destra capace di tutto e da una sinistra buona a niente,
dalle quali sono difeso su due lati: gli affetti degli amici e soprattutto
delle mie due figlie Lia e Luisa di cui sono orgoglioso e il lavoro,
specialmente per il Dizionario dei film Zanichelli, che riesco ancora a fare
nonostante l’alta età e la conseguente, crescente mancanza di memoria.
Secondo un rapporto del 2008 della Freedom House, società
statunitense che si occupa della libertà e della democrazia nel mondo, l’Italia
si situa al 73° posto della classifica mondiale, nella zona gialla dei paesi
parzialmente liberi, allo stesso livello nell’Unione Europea di Bulgaria e
Romania. Nella stessa classifica gli Stati Uniti sono al 24° posto con la
Repubblica Ceca e la Lituania. All’ultimo posto, n.195, c’è la Corea del Nord.
Pur cercando di coltivare le pratiche del dubbio e dell’autocritica, so di
essere stato un po’ fazioso qua e là in questo rapporto. Ne chiedo venia: ho
già confessato di essere un impolitico. Mi auguro di non aver fatto un comizio.
Aforismi
di Laura Margherita Volante
di Laura Margherita Volante
Contagio da stress? L'antidoto è gioire dei successi
altrui...
Sindrome del guru: farsi crescere la barba
Emergenza crisi è quando l'Italia ha ormai l'acqua fino al
collo...
La gratitudine sta sulla soglia della felicità
Gli irrelati generano mostri
Ignoranza. A chi è pieno di sé non passa niente...
Scandalizzare è l'unica via verso la scomoda verità...
Usi e costumi
Solitudine: fino a ieri qualcuno ti invitava...oggi o ti
attacchi al tram o al lampadario...
Il tessuto sociale non è più formato dalle famiglie, ma da
solitudini alla deriva
I geni hanno una virtù: la modestia
O la borsa o la vita!
Quando cala la Borsa aumentano i suicidi
Denaro sesso droga: i generi di conforto dei naufraghi
abbandonati
Ieri esistenza era essenza, oggi è resilienza
La cultura non conosce né vincoli né svincoli, ma solo la
strada maestra
L'immaginazione galoppa sulle onde della conoscenza
La fantasia spicca il volo sui dati della realtà percepita
La salute è come la mamma, ce n'è una sola...
“Dove Abita L'utopia”
Il nuovo
libro di Stefania Fanesi Ferretti
Ancona. Il libro “Dove abita l'utopia” di Stefania Fanesi
Ferretti è un omaggio all'arte di Libero
Ferretti e al Premio a lui intitolato nel 2000, anno della sua scomparsa. L'autrice Stefania Fanesi Ferretti è motivata dal
desiderio di diffondere la conoscenza dell'opera di Libero Ferretti, del Premio
a lui dedicato, attraverso un percorso poetico-esistenziale
sull'assenza/essenza, su un amore che come soffio di vento lascia attoniti fra
visioni e scritture dell'anima. La piramide è il logo che l'autrice ha scelto
per il Premio Libero Ferretti, che per più di un decennio ha dato rilievo alla
forme dell'arte contemporanea. La piramide rappresenta, quindi, il simbolo
della casa dell'utopia, dimora appartata e privilegiata. La domus dell'utopia,
in dimensione esoterica, emana vita che crea e si rinnova eternamente. Il dvd
di Sandro Ferretti completa l’opera, e contemporaneamente, apre un
dibattito culturale sul sogno, l'utopia,
il “fare arte” dell'artista Libero
Ferretti. La tensione d'assoluto, la sete
dell'oltre e del mistero, il superamento di ogni barriera, del limite che ci
costringe ad una sorta di prigionia dello spirito fa sì che Libero Ferretti,
natura libera, non stia sulla soglia, ma attraverso l'arte vada oltre la soglia
dissolvendo dubbi misteri barriere…
Così il
video-dvd di Sandro Ferretti “Le Forme
Utopiche dei Sensi” riesce ad andare
oltre per far sentire voci e parole surreali, cogliendone la presenza in tutta
la loro intensa realtà.
Voci senza
volto, parole e brani utopici che risuonano in uno spazio ideale e immaginario,
rendendo l'impalpabile magicamente tangibile ed emozionante.
Nel Libro
inoltre: i pensieri e gli ideali utopici di tutti i partecipanti al Premio,
un'intervista inedita di Franco Scataglini a Libero Ferretti, un testo di
Francesco Scarabicchi e un intervento critico di Rossana Bossaglia ne fanno
un'opera dinamica e originale.
Stefania Fanesi Ferretti |
“Dove abita l'utopia” è il viaggio di una vita attraversata da
fotografie e ritratti per fermare gli attimi fuggenti nella tensione sfuggevole
dell'infinito, assoluto, ignoto, misterioso, magico, surreale per acchiapparne
significati, percepibili anche fisicamente. Un invito dunque ad entrare in quella piramide per oltrepassare la soglia tradizionale
dell'arte per raggiungere l'Oltre. E ciò ci rimanda all'Infinito del genio
recanatese Giacomo Leopardi, non a caso conterraneo di Libero Ferretti. E il
figlio Sandro Ferretti non fa altro, con il suo DVD, che raccogliere sia
l'eredità del padre sia la testimonianza dell'autrice, sua madre, in un
rinnovarsi di immagini e voci. Anche qui il simbolo della piramide ben si
addice alla sua triangolatura, al messaggio dello spirito universale che ci
respira dentro. "Dove abita l'utopia” luogo del sogno apparentemente
irraggiungibile, ma che attraverso ogni linguaggio espressivo ed artistico
prende forma e vita consegnandosi alla cultura in continua evoluzione creativa.
Laura Margherita Volante
***
Alcuni cenni sugli autori del libro e
del DVD
Stefania Fanesi Ferretti nasce ad Ancona e nel 1967 si sposa con Libero Ferretti.
Insieme si trasferiscono a Milano dove vivono e lavorano. Interprete e
traduttrice dal tedesco e dal russo collabora con celebri case editrici,
occupandosi anche di critica letteraria, recensioni librarie e collaborazioni
editoriali. Conduttrice radiofonica, programmista-regista di programmi ideati e
condotti da Enzo Biagi spazia la sua attività intellettiva in più settori
culturali.
Sandro Ferretti nasce ad
Ancona nel 1972 portando avanti l'opera dei genitori in campo audiovisivo come
regista, montatore, operatore di ripresa, videoartista. Alcuni suoi video
d'arte sono stati proiettati al Museo della Permanente di Milano. Attualmente
collabora in diversi progetti audiovisivi innovativi per vari Enti Pubblici,
Musei, artisti e Centri di documentazione d'Arte Contemporanea.
ANDREA SOCRATI E LA SUA SORGENTE
Andrea Scrosati |
Andrea Socrati, e se nel nome un destino, mi pare proprio che ben
si calzi ad Andrea la maieutica di socratiana memoria. Andrea Socrati,
responsabile dei progetti speciali per il Museo Tattile Statale Omero di
Ancona, ha ideato questa bellisssima storia, L'uovo cosmico Alle origini
dell'arte occidentale, prendendo spunto, restando quindi in tema, dall'uovo
cosmico, simbolo trovato nei miti della
creazione di ogni civiltà. In genere, l'uovo sta a indicare il principio di un
qualche essere primigenio, il quale sovente si trova nelle acque primordiali
della Terrra rappresentando la scintilla della vita. Nella mitologia Greca,
l'uovo primordiale rappresenta l'uovo cosmico che venne covato dalla divinità
ermafrodita Fanes o Protogonus, vagamente identificata anche con Zeus, Pan,
Metis, Eros, Erikepaios e Bromius, tutte divinità espressioni dell'idea del
sesso e dell'energia vitale, senza distinzione di maschile e femminile, che a
loro volta crearono tutti gli altri Dei. Questo uovo viene quasi sempre
raffigurato con un serpente che si avvolge a spirale attorno ad esso, per affermare che dall'uovo cosmico nulla può
arrestare la potenza creativa della vita.
L'uovo dell'universo diventa così simbolicamente il contenitore dell'anima
imprigionata. Il significato più specifico dell'uovo, però, è proprio quello del
mistero della vita e della sua origine. Un esempio di opera d'arte, in cui
questa simbologia è palesemente raffigurata, è la celebre pala di S.
Bernardino, compiuta da Piero della Francesca tra il 1472 e il 1474, ora a
Brera. L'attenzione di chi la osserva cade immediatamente sulla presenza di un
uovo, situato proprio al centro del dipinto. L'uovo è appeso a un filo (asse
verticale), alla sommità della volta (varco attraverso il quale l'anima uscirà
dal guscio). Paradossalmente l'uovo, che è proprio ciò da cui nasce ogni
singolo individuo, è da sempre simbolo potente dell'universale, e porta in sé
sia l'origine da cui tutto proviene sia la ciclicità dell'eterno ritorno. L'uovo
ha sempre affascinato i filosofi perché non si saprebbe concepire forma più
adeguata per rappresentare la perfezione dell'Universo ed il miracolo della
vita. Non dimentichiamo un altro fondamentale significato dell'uovo: il
principio di "germe".
La copertina del libro |
Nell'uovo, infatti, è custodito un tesoro di
"energia vitale", ovvero la vita che da esso scaturirà; pertanto,
l'uovo è anche il simbolo delle nostre migliori potenzialità e di ciò che di
universale e divino esiste nell'essere umano. I protagonisti della storia sono
quattro ragazzi, appassionati d’arte e uniti da una salda e sincera amicizia, e
dei quali due non vedenti. Un viaggio li porterà in Grecia, la culla dell’arte
e della civiltà occidentale, dove le forze del Male, creature del Tartaro,
stanno cercando di distruggere l’Uovo Cosmico. Le avventure dei quattro ragazzi
sono un pretesto per esplorare il mondo dell’arte occidentale, e per riflettere
sul tema della diversità, relativa alla disabilità, con particolare attenzione
a quella visiva. L'esplorazione diventa, quindi, anche un tramite di conoscenza
e di consapevolezza. La diversità, sinonimo di insospettabili risorse,
rappresenta per questo motivo una straordinaria fonte di ricchezza spirituale.
“Uguali perché diversi, non uniformi”, per cui il termine “uguali” riporta ai
concetti di uguaglianza libertà e giustizia, espressioni della più alta
umanità. Ecco che prende senso questa fiaba fantastica, in cui i ragazzi
arrivano non solo a scoprire, attraverso alcune prove, ma anche a raggiungere
l'uovo cosmico, affinché non venga distrutto, per scongiurare la fine del
genere umano in ogni sua espressione. Differenza, diversità lo rendono unico
irripetibile, originale. Appunto originale, perché lì ha origine la specie
umana, con una forte valenza divina, da qualsiasi prospettiva la si guardi. Narrazione
molto suggestiva con una chiave di intento pedagogico, per far comprendere
attraverso il percorso dei quattro giovani l'esistenza di ogni essere umano,
motivandone il mistero e il significato profondo del miracolo, che è la vita
stessa.
La maieutica è il procedimento
metodologico (significativo il Laboratorio al buio presso il Museo) attraverso
cui ognuno può far sorgere lo spirito creativo con gli strumenti che ha -dobbiamo
farci sorgente e non contenitore- con l'assoluta certezza che la forza
dell'amore è “ l'amor che move il sole e le altre stelle”.
Laura Margherita Volante
***
Alcuni cenni sul
Museo Tattile Statale Omero e su Andrea Socrati,
responsabile dei progetti speciali.
La recensione dedicata al libro,
“L'uovo cosmico Alle origini dell'arte occidentale” di Andrea Socrati, è
per me occasione di far conoscere, a chi non lo sapesse, il Museo Tattile
Statale Omero, che viene alla luce nel 1993 ad Ancona. Uso provocatoriamente
l'espressione “viene alla luce”, perché finalmente tutti, vedenti e non
vedenti, possono toccare le opere d'arte, utilizzando un'abilità di conoscenza
molto sensuale quale è il tatto, senso che nel mondo di oggi viene mortificato
nella non relazione, nella non comunicazione, private di ogni gestualità
affettiva. Infatti, i limiti non sono solo rappresentati da barriere
architettoniche, ma anche e soprattutto da quelle culturali e mentali, per
mancanza di educazione e di civiltà.
Il Museo Omero ha sede presso la
settecentesca Mole vanvitelliana di Ancona, le cui sale ospitano una Sezione
di Scultura in calchi di gesso o resina dei capolavori di ogni epoca, dalle
opere d'arte dell'antichità a quelle contemporanee, queste ultime tutte
originali; una Sezione di Architettura, composta da modelli
architettonici, riproduzioni fedeli di opere grandiose originali ed infine una Sezione
Archeologia, esposizione di oggetti originali e significativi.
Nel 1999 il Museo, su ispirazione
dell'Unione Italiana dei Ciechi e realizzato con il contributo del Comune di
Ancona e della Regione Marche, ottiene il riconoscimento statale con la
legge n. 452 per l'alto valore artistico
ed educativo. Ecco che allora il “viene alla luce” assume un senso di elevata
qualità umana, perché tutti nasciamo, ma
veniamo alla luce nel momento stesso in cui veniamo legittimati nello spazio di
relazione, nella pari dignità di persone.
Andrea Socrati, responsabile dei
progetti speciali per il Museo Tattile Omero, ha trovato la Sua sorgente in
quella fonte, da cui non ci si disseta mai abbastanza, che è l'amore. Tutti
cerchiamo amore fino all'ultimo respiro attraverso il riconoscimento come
persona nello spazio relazionale. Ecco che il Suo libro prende corpo in tutta
la sua vitalità di fantasia fra Arte e Bellezza, veicoli di educazione e di
arricchimento umano.
L. M.Volante
LA BIAGINA
Un Racconto
di Lisa Albertini
di Lisa Albertini
Torino sotto ai monti ha un fiume
lungo e largo. Ci si può camminare vicino per un buon tratto a ridosso della
strada, discesa la scala.
Ninetto, seduto su una panca del
lungofiume, parlava con Gioacchino.
“Hai visto, ieri, la Biagina?”
“Quale?”
“Quella del mercato della domenica.”
“Ah, sì!”
“Aveva il tomiolo più fresco che
c'è.”
“E anche lo yogurt. Sembra li faccia
alle cinque per portarli qua alle nove.”
“E lei...”
“Eh, lo so.”
“Sempre più bionda e sempre più
giovane. Me la ricordo da vent'anni ad ora.”
“Cosa vuoi, non farci caso.”
“L'ho sempre sbirciata, ma non mi
vede.”
“Ci avrà il marito, che dici!”
“E va bè, ma ormai ne sarà anche
stufa.”
Gioacchino guardava la strada, alta
sul lungofiume, che va verso la città, una scacchiera di case e piazze,
intercalate da vie ad angolo retto: ragionamento vivente. Ogni tanto la rotaia
di un tram, un doppio volto sopra le rotaie, e poi la grande Mole.
Vide fermarsi una camioncino di
frutta secca al semaforo. Forse andava al mercato.
“E la crema di nocciole che porta...”
“Tutto ti piace, di lei, Ninetto.”
“Tutto.”
“Sei forse innamorato, alla tua età?”
“Non ci penso nemmeno. Cosa vuol
dire, poi. Mi dissero che lo ero quarant'anni fa, di una ragazza del porto.
Allora stavo a Spezia, ero marinaio. Ma non era vero, mi piaceva solo.”
“La sposasti?”
“Ma no, stemmo insieme e basta. Per
pochi anni. Poi mi lasciò per il riccone di uno yatch. Credeva di star
meglio ma stette peggio, lui la picchiava. Me lo venne a dire un anno dopo, in
lacrime.”
“E tu?”
“Ormai era tardi. La consolai e
basta. Non mi sentivo di fare al rattoppo. O mi voleva come primo uomo, o
niente.”
“Peccato, ora l'avresti fedele.”
Il camioncino di frutta secca passò
il semaforo e si fermò accosto al marciapiede largo, vicino alla via. Si
alzarono e Gioacchino, salendo la scala, salutò l'uomo.
“Che fai qui?”
“Al mercato vado più tardi. Nelle
prime ore, la scorsa settimana il posto l'aveva occupato un altro, un
avventizio. La Biagina aveva provato a mandarlo via, senza riuscirci. Se n'era
andato dopo, alle undici.”
“La Biagina?”
“Sì, quella del banco dei latticini,
era vicino a lei.”
“Vai sempre lì?”
“Se posso, sì. La Biagina prende frutta
secca da me e io latticini da lei. Ne prende poca, perché è sola; da parte mia
prendo pochi latticini: così va bene.”
“Di dove sei?”, chiese Ninetto.
“Di Moncalieri.”
“La conosci da tanto?”
“No, da quando vengo al mercato qui.
Prima andavo a Vercelli. Ma adesso rimango. Mi piace qui.”
“Anch'io ci vado, ma a fare la
spesa”, disse Ninetto.
Acquistarono un paio d'etti di
nocciole, scesero la scala e tornarono alla panchina.
“Vedi, anche se volessi innamorarmi,
c'è già l'uomo del camioncino. Va sempre lì, vicino al suo banco.”
“Ma lui è diverso, Ninetto.”
“Sì, e anche più giovane.”
“Non vuol dire.”
“Mi vuoi prendere in giro? So, cosa
vuol dire.”
“Non arrabbiarti: Dicevo per dire.”
Si vedeva prima un nugolo di gente,
vicino al al camioncino. Ora, nessuno. L'uomo si staccò e scese verso di loro.
“Scusate, vado a bere un caffè. Mi dareste un occhio, cinque
minuti?”
“Ma di sicuro, stai tranquillo”,
disse Gioacchino. “Al più, ti prenderemo un sacchetto di roba!”
Si alzarono, guardando in su verso la
strada.
“E poi la Biagina... ma che è? Torino
è grande, e io sono abbastanza vecchio, ormai.”
“La Biagina ha il latte, Ninetto, e i
latticini. Ed è cosa che va bene avanti con gli anni.”
“Ma non ho niente da darle in cambio,
di speciale. Non ho più nemmeno il mio lavoro di edicolante. Con quello, almeno
avrebbe avuto giornali e riviste da scegliere.”
“Pensaci, Ninetto, non è tutto lì.
Anche lei non è più tanto giovane.”
“...eh, ma è bella...” disse Ninetto
a mezza voce.
Il fiume giù di sotto scorreva
pacifico. Un barcone trasporto merci
andava verso l'altro ponte. Nuvole di verde, sotto l'acqua, davano
ombreggiature petrolio.
Gioacchino e Ninetto, tornato l'uomo
si erano seduti. Ora zitti, seguivano di fronte, oltre il fiume, un pullman che
segnava i tornanti del colle, sino al Monte dei Cappuccini. Tra le piante
compariva e scompariva, con riflessi brillanti di blu al sole.
Ninetto guardò Gioacchino, con aria
titubante. Infine, deciso: “E poi ha una figlio”, riprese.
“La Biagina? E tu lo sai?”
“Sì, lo so, lo so. E' che sinora l'ha
tenuto con il marito. Lui manco lo sa, che non è suo. Somiglia a lei.”
“Scherzi, Ninetto?!”
“Eh, no. Dovrei tornare, parlarle,
fare qualcosa. Ero giovane e sventato. Solo adesso capisco...” Udirono lo scoppiettio di un motore
che si stava riavviando. L'altro ripartiva. Ninetto si alzò d'impulso e con
Gioacchino salì la scala, fermandolo.
“Che c'è?”, chiese l'uomo, spegnendo
il motore.
“Vai al mercato?”
“Certo.”
“Non andare, oggi, abbiamo saputo che
il posto è occupato. Anche la prossima settimana. Solo fra un mese, forse, sarà
libero. L'ha detto il vigile, quello della sorveglianza di zona”, disse
Ninetto.
“Ma quando, siete sicuri?”
“E' passato finché eri al bar”,
incalzò Gioacchino.“Ci ha fatto una storia, con il
mercato...si è lamentato per
l'eccessivo afflusso di banconisti. Dice che non c'è posto abbastanza per la
gente e che la confusione è troppa, lui così deve dare multe agli abusivi, a quelli che arrivano senza permesso
precedente, anche se lo fanno dopo.”
L'altro li guardò sorpreso, in un
silenzio sempre più coinvolto, in viso
una sorta di panico.
Il traffico della strada era adesso
intenso, rimbombante per l'ora avanzata. Si faticava a capirsi.
“Beh, vi saluto, vado a casa mia, a
Moncalieri”, disse forte.
“Arrivederci!”, risposero i due in
coro. E l'uomo girandosi, tra lo scoppiettio del motore:
“Se andate al mercato, salutatemi la
Biagina; ditele che tornerò tra un mese, forse...”
L'AMORE
L'uomo (maschio e
femmina) è un essere che cerca nella vita il proprio completamento.
Essere incompleto, cerchio vitale includente in se il
principio maschile e femminile, desidera trovare l'altra metà di se stesso, lo
ricerca nel sesso opposto anche nei rapporti omosessuali.
L'uomo e la donna unendosi formano un essere solo.
La scintilla che scatena l'innamoramento è la curiosità
dell'individuo nei confronti dell'individuo dell'altro sesso, indagando il mistero
che rappresenta il suo oggetto d'amore.
L'addentrarsi in una foresta sconosciuta cercando di
scoprire con meraviglia, entusiasmo e attesa ogni recondito anfratto, celato o
no.
Questa curiosità dovrebbe durare tutta la vita nella coppia,
scoprendo ogni giorno, ogni momento, ogni attimo qualcosa di nuovo, di diverso,
di mai constatato, nel continuo mutamento dell'essere umano in fieri e
nella relazione di coppia anch'essa in continua metamorfosi.
Un uomo deve sentire la propria donna e la donna deve
sentire l'uomo, il proprio uomo, esclusivo come l'uomo la sua donna; l'uomo
deve percepire che la sua donna lo stima, lo considera, lo rispetta per quello
che è, ha affetto e amore per lui. Così anche l'uomo deve dimostrare il suo
affetto, il suo amore, le piccole premure e attenzioni verso la propria donna.
L'amore ha bisogno di parole, l'espressione di tutto se
stesso, la sensibilità individuale, la propria interiorità svelata.
Ha bisogno di avvertire la vicinanza del corpo del partner,
di abbracci, di carezze, di baci.
Il contatto fisico senza riserve.
Faticosi e lenti i nostri passi, rovinose le nostre cadute.
Come tutto nella vita il maggior ostacolo è la paura.
RICORDO DI MIO PADRE
Quando ero
piccolo all'avvicinarsi della bella stagione mio padre mi portava in
motocicletta sul lago di Como. Si partiva il mattino presto ed arrivati a Como
si prendeva il battello. Il sole scaldava appena con i suoi raggi, l'aria
fresca e una leggera brezza accarezzava il viso; il cielo terso di una mattina
primaverile. Lo scafo sollevava
lateralmente con la lama della prua l'acqua spumeggiante, azzurra, verde e blu
intensa. Qualche spruzzo mi raggiungeva; che freschezza!
Ricordo con estrema vividezza il profumo particolare che
emanava l'acqua dolce del lago, pulita, viva e che in certi punti lasciava
trasparire le alghe verdi del fondo.
Intorno le montagne e i paesini arroccati sui pendii. Il
personale di bordo ne pronunciava il nome quando il battello attraccava. Sono
rimasti impressi nella memoria come i rumori particolari dell'attracco. Cosi
cominciava la mia vita e la felicità di un bambino che trascorreva un giorno
all'aria aperta in mezzo alla natura, allora non certo inquinata, e che
scopriva il mondo.
Questo è uno dei più bei ricordi dell'infanzia e di te papà.
Tiziano Rovelli
di Laura Margherita Volante
Ancona. Non è
semplice tracciare un profilo esauriente del conte Alessandro Marcucci Pinoli,
per la personalità complessa e poliedrica del soggetto stesso sia in campo
intellettuale sia in quello artistico e socioculturale.
Ho avuto il privilegio di conoscere il conte, per gli amici
Nani, grazie al comune amico e artista Leonardo Nobili, e da questo incontro ho
avuto occasione di approfondire un’amicizia che si è cementata sulla base di
una stima reciproca e su interessi culturali di valori condivisi.
Persona che non finisce mai di stupirmi scoprendone, di
volta in volta, qualità umane di rara bellezza.
Nani è un signore nato, dai modi semplici eleganti
determinati, che espande attraverso più linguaggi espressivi di elevato livello
artistico e non solo; infatti, oserei dire che egli stesso è espressione
vivente di un’anima impregnata di Arte: artigiano
delle sensazioni, come ama definirsi.
Nani è una persona dotata di energica personalità, con una
intensa cultura e una variegata esperienza in ogni settore della vita pubblica
sia nazionale sia internazionale, come si evince dalla Sua biografia, senza mai
farne sfoggio.
Tanto è vero che ho dovuto informarmi personalmente sulle
Sue molteplici attività, per le quali non si è mai risparmiato per dedizione e
passione.
Non desidero ripetere ciò che altri hanno già ampiamente descritto,
per cui tenterò di delinearne un profilo più impalpabile e sottile attraverso la Sua visione del mondo e della
vita, in una fede inossidabile.
La poetica delle immagini, delle forme, delle parole e dei
colori si concretizza e si svolge in una dinamica di pensieri e di azioni in
continua evoluzione, a favore di chi non ha avuto la fortuna di partecipare al
mondo di quelli che contano, in una
ferrea logica di mercato, spesso irriverente e cieca.
Nani sa bene che la vera Arte va ben oltre certe logiche, in
una ricerca incessante di nuove espressioni
vitali, come rappresentazioni di un mondo in continua evoluzione e/o mutazione
genetica nella odierna prospettiva epocale e planetaria.
Per il Nostro l’Arte
appartiene alla sfera dello Spirito, che Lo avvolge e lo inquieta: è lo spirito
dell’uomo con la sua ansia di assoluto, ma nello stesso tempo frenato dai
limiti imposti dalla sua stessa natura.
E’ lo Spirito che può far grandi nel Bene o nel Male, con le
sue voci oscure e illusorie; e quelle più intime e sepolte nella coscienza, che
diventa consapevole attraverso una cultura di saperi sempre più attenti e aperti, dove il dialogo diventa conversazione fra individui diversi, ma
uniti dal medesimo destino, in un
instancabile interrogarsi su cosa sia questo
nascere crescere morire…
Se il Cardinale Carlo Borromeo nasce santo, Nani possiede
un’anima di profonda sensibilità umana, che ben si coglie dalle Sue opere, dai
materiali usati e dalle poesie.
Nani sa leggere le pagine della vita nei suoi meandri meno
luminosi ed esaltanti; conosce le debolezze percependone le vie del riscatto e
di una possibile redenzione attraverso la sublimazione di dolori miserie cadute
e rinascite su un piano di benevola accettazione.
Ognuno ha la possibilità di rialzarsi attraverso il
costrutto riflessivo di valori, di emozioni, di sensazioni e di conoscenze, in
un’interazione dove l’uomo scompare per morire in una rinascita spirituale.
Ecco che I Manichini, in una miriade di performance
artistica, proiettano la visione concettuale in una grandiosa opera culturale
umana sulla condizione dell’essere umano.
In un’antitesi di Bene e di Male, “Il manichino dagli occhi
bianchi” è l’edificio delle ipocrisie e delle barriere mentali, abbandonato
come spoglia morta dallo slancio vitale che lievita dal corpo inanime, la cui
fine è già scritta.
La consapevolezza è l’apertura di nuovi orizzonti umani, i
cui confini sfumano per rendere giustizia a ciò che vivrà in eterno e l’Arte è
il gioco di staffetta fra una generazione e l’altra in una sfida perenne di
Amore e di Dolore, cardini della poetica umana di salvezza e di perdizione, di
vita e di morte per nuovi albori.
Tutto questo si staglia in atmosfere di indulgente ironia
con una leggerezza, dove il messaggio non è mai opprimente e chiuso o privo di
speranza e di sogni.
Nani riesce attraverso i suoi autoritratti, giochi,
creazioni, invenzioni, sculture e parole ad aprire varchi di verità, in cui ognuno
possa scorgervi una parte di sé, come specchio dell’altro sé.
Per ogni mortale la coscienza è un dio dice Menandro, il
quale usa a tale riguardo una parola composta “so con un altro”, per arrivare a dire “ho coscienza”, cioè “posso
rendere testimonianza a me stesso”. Dunque ho coscienza del modo di
comportarmi al confronto del modo di comportarsi usato nella mia società, della
onestà o disonestà del mio comportamento, del “buono” in sé, di ciò che è assolutamente degno dell’essere umano e
non negoziabile.
Ecco che tutta la
Sua multiforme opera trova un filo conduttore in questa ironia indulgente come transazione di
valori universali, nei quali ognuno può farsi testimone, perché l’immortalità
non appartiene agli esseri umani, ma solo l’orma mortale può essere eterna.
E “Vorrei volare”, la poesia inserita nel libro “Fioretti
Giubilari” donato al Papa Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo 2000, è
desiderio che si fa realtà. Realtà presente per lasciare il segno indelebile di
una testimonianza di vita al servizio dell’Arte e della Bellezza, quella “Bellezza
che salverà il mondo” in un volo di albatro seppure rischiando come Icaro di
precipitare…
E’ il sogno dell’essenza poetica che dall’agonia terrena
agogna il totale abbandono.
Nani vola alto sempre, soprattutto con la sua innata
ironia nel produrre autoritratti
ironici, aforismi, giochi, inventore di forme e di colori nel senso ludico
della vita, per il quale l’anima sorride,
ma si commuove davanti alle vicende dei meno fortunati e ringrazia il cielo per
aver avuto più di quanto si aspettasse.
Come per Leopardi è
dolce naufragar in questo mare così per Nani è di conforto abbandonarsi
all’infinitoin u na fede irrazionale e salvifica dal deserto, dove l’unica fonte,
da cui non ci si disseta mai abbastanza è l’Amore, spesso miraggio nella cecità
di questi tempi. La luce è là, fra le braccia di Dio, seppure inventato, ma
sempre affermato.
Per Adriano Manesco
Ho conosciuto Adriano esattamente
cinquant’anni fa, nella primavera del ’64. Eravamo colleghi al Liceo Classico
Beccaria di Milano; entrambi supplenti annuali (io solo per Filosofia, lui
anche per Storia), io al primo anno di insegnamento, credo anche lui. Ci siamo
incontrati alla conclusione dell’anno, prima non avevamo avuto modo di
parlarci. Nacque subito una forte simpatia reciproca, protrattasi poi negli
anni, anche quando insegnavamo in licei e in città diverse. Due anni dopo insegnai
a Lodi, e l’anno successivo anche lui, nelle stesse classi. Con molti suoi
allievi fu in rapporto anche anni dopo che li aveva avuti come alunni; era
capace di grande vicinanza umana, era molto socievole, e disponibile sempre.
Non pochi suoi allievi conservano gratitudine e affetto per lui ancora
oggi.
Dei
suoi primi anni non ho saputo molto. Mi sono fatto l’idea di un’infanzia con
qualche asperità, ma non del tutto infelice; aveva parenti lontani, di fatto
assenti sempre dalla sua vita. Mi parlava di una certa loro tendenza ad amare
la vita, malgrado la precarietà delle condizioni esistenziali. La stessa
propensione la sentiva in sé, una risorsa spontanea malgrado tutto, che in
certi momenti lo salvò. Ricordo la sua vitalità, il suo coraggio. Una volta
andammo insieme a Pavia, la città dei miei studi. Lo vidi attraversare il
Ticino a nuoto, andata e ritorno, con una certa apprensione da parte mia. Dei
tempi della guerra, aveva tre anni più di me, non parlava spesso. Ma alla fine
qualcosa è sopravvissuto nella mia memoria. I primissimi anni li visse a
Verona, dove è nato; suo padre era di Rovigo, la madre triestina. Qualcosa
emerse la volta (insegnavamo a Verona) che andammo a pranzo da una sua vecchia
amica, in una bella villa in Valpolicella. Lo sfollamento durante la guerra fu
a Illasi, a quanto ricordo. Non so che cosa spinse lui e sua madre a stabilirsi
a Milano, in via Sabaudia, non lontano dalla Stazione Centrale. So dei suoi
studi a Milano, segnati da un’impronta cattolica: il liceo dai Salesiani in via
Copernico, l’Università alla Cattolica. Lo studio, dapprima accelerato (prese
la maturità un anno prima, saltando la terza liceo e preparandosi da solo alla
maturità), venne interrotto dalla necessità del lavoro; si laureò più tardi, con
una tesi teoretica con Bontadini, credo.
Il
suo carattere si era formato sotto l’urto di difficili durezze. Reagiva
talvolta con incomprensibile asprezza alle mie aperture, ma anche con dolcezza.
Aveva anche tratti affettuosi, delicati, inaspettati a volte, fino ad assumere
finezze orientali (non a caso amava la cultura giapponese). Erano parte della
sua natura modi dimessi, schivi, qualcosa di francescano, ma insieme un
carattere a volte difficile. Subì ossessioni materne e un padre autoritario; la
morte di questi, mi disse, non fu troppo sofferta da lui, la visse come una
sorta di liberazione. Ma fu anche un punto di rottura che compromise la situazione economica della famiglia e
lo costrinse a lavorare.
L’ho
sentito raccontare della sua malattia di poi, che l’aveva condotto in sanatorio
a Venezia con la madre, della necessità di lavorare, di guadagnare presto, a
scapito di ogni concentrazione incondizionata sugli studi. Soprattutto si
soffermava sulla sua educazione, che considerava per larghi tratti una forma di
diseducazione; e sul suo primo lavoro precario. Lavorò dapprima come
correttore di bozze al Giorno,
e poi alla Rizzoli come redattore editoriale nel settore libri, lì fu attivo anche sul piano della
rivendicazione dei diritti, suoi e dei suoi colleghi. Con questi lavori integrò a un
certo punto l'insegnamento, cui poi si dedicò interamente, avendo vinto un
posto di ruolo nei Licei. Ricordo che abitò quasi sempre dalle parti di Loreto
(in via Donatello, in via Guinizelli), salvo il periodo in cui acquistò
un'abitazione in via Mar Nero. Tornò però presto in zona Loreto, acquistando da
Renato Rozzi l’appartamento di via Settembrini, luogo vicino alla stazione che
amava avere sempre a portata di mano per partire e tornare dai suoi altrove; e dove
visse fino all’ultimo.
Una volta preparammo insieme un concorso, ricordo
la sua memoria prodigiosa e la sua acutezza; mi feci l’idea di una persona
colta e versatile, si sentiva stretto in un solo ambito disciplinare. Non a
caso, e non solo per incidenti nei rapporti personali, alla Statale passò dal
ruolo di ricercatore in Estetica a quello in Geografia, dato che amava molto,
oltre alla filosofia, lo studio delle culture orientali; e qui una cultura
geografica, antropologica, linguistica e storica inevitabilmente si intreccia a
quella filosofica. Della
sua famiglia ho conosciuto solo la madre, una figura che esasperava in sé
tratti tipici delle madri dell’epoca, e forse di ogni tempo. Con lei i rapporti
erano profondi, rinsaldati da tante prove comuni, ma anche per questo
conflittuali.
Innumerevoli
ricordi mi restano degli anni comuni, negli studi e nella professione, e poi
delle iniziali affinità ideali, della collaborazione a Verona verso la metà
degli anni ‘70, degli studenti e dei colleghi di tempi davvero passati. Mi
restano nella memoria anche alcune ragazze con cui ebbe rapporti affettivi; e,
in seguito, anche alcuni amici cinesi e thailandesi, assai gentili, che
venivano a trovarlo quand’era a Milano, e con cui fu in rapporto fino
all’ultimo. In quegli anni si rivelò
estremamente valido sul piano didattico, oltre che professionale. Pubblicò la
voce dedicata a psicanalisi e letteratura nel volume “Letteratura” della
Feltrinelli-Fischer; una recensione su Nac, un volumetto dedicato a Dufrenne in
edizioni universitarie; altre cose certo, che però non ho presenti.
Ci
siamo frequentati per anni: incontri, lettere, soggiorni comuni (fu nostro
ospite benvenuto a Padova, Asiago, Bonassola). Ha lasciato i suoi libri, le
carte nei suoi cassetti; qualcuno le prenderà. Quanto a me, di lui conservo
molte lettere; non so se lui abbia conservato le mie. Me l’aspettavo da anni la
sua fine; per un certo tempo, presto passato, non so più su quali basi, temevo
un suicidio. Una fine così tuttavia ha qualcosa di inimmaginabile, di eccedente
qualsiasi previsione possibile; e accentua lo stupore allibito che ogni
scomparsa lascia. Aveva chiusure, ma anche inattese aperture. Soprattutto i
primi anni della nostra conoscenza ho raccolto qualche sua rara confidenza.
Scriveva lettere volentieri, amava il dialogo, e il racconto, quanto meno se
incontrava persone che sollecitavano la sua fiducia e la sua spontaneità. Come
capita con amicizie che hanno avuto un posto nella nostra vita, ci restano
molte eco di lui, ci ha posto interrogativi, e ci è rimasto il desiderio di
salvaguardarne la memoria. Scriverne è il mio modo di onorare il debito che
sento verso di lui; c’è qualche blando sollievo in questo. Ogni morte è anche
rammarico e nostalgie, e sensi di colpa per chi resta. E una morte, comunque
avvenga, ma tanto più se si tratta di una morte così efferata, è sempre una
sorta di atto di accusa; prende alla gola e ingiunge di ripensarsi.
I
primi anni ‘80 ci fu la sua partenza. La sua vita professionale fu esteriormente
di successo, ma anche dovette lasciarlo profondamente insoddisfatto. Tanto che
di punto in bianco, quando la sua carriera aveva ormai raggiunto un ottimo
livello (il ruolo come ricercatore all’Università, dopo il ruolo al liceo),
lasciò tutto e se ne andò con mio dispiacere in Estremo Oriente - e anche in
questo ci volle una certa dose di coraggio. In Oriente studiò le lingue, insegnò l’italiano e altre
discipline di cui non ho un ricordo preciso. Questo mondo lo ha attratto
fino alla fine, non a caso ha passato gli ultimi trent’anni tra Milano, Taipei,
Bangkok, con frequenti deviazioni a Shanghai, HongKong, Singapore e in Giappone.
Inspiegabilmente, con mio
grande rammarico, agì come chi volesse tagliarsi tutti i ponti alle spalle, far
terra bruciata intorno, creando motivi di rottura con tutti noi, su tutti i
fronti, da quelli del gusto a quelli ideologici a quelli dei modi di vivere.
Nulla
faceva presumere che avesse incontrato lontano una vita felice; ma le sue partenze
reiterate testimoniavano la grande attrattiva che quei luoghi esercitavano
sempre su di lui. Lontano di qui diceva di aver trovato la sua casa; una volta
mi parlò persino della sua allegria laggiù. Il ritorno qui lo faceva ripiombare
in una sorta di abulia; nella città in cui da ultimo più frequentemente tornava,
Bangkok, gli pareva “di stare tra due guanciali di piumino d’oca”, proprio così
si esprimeva. Nessun argine duraturo tuttavia ai suoi disagi sembrò costruirsi
neppure là.
Ogni
tanto, passavano anni, tornava. Una passata vicinanza si era fatalmente
incrinata. Ma non era sempre così, c’erano ritorni improvvisi a toni lontani,
una stretta di mano inaspettatamente calorosa rinnovava un’antica fiducia. Dei
suoi soggiorni mi faceva racconti affascinanti, ricchi di dettagli da cui era
tuttavia impossibile risalire all’insieme.
Era
ritornato da pochi anni, definitivamente lo si può dire solo ora. Negli ultimi
tempi tornò la sua voglia di filosofia, mi fece leggere una recensione che gli
aveva commissionato un amico, e mi parve ben fatta. Continuarono le sue letture
amate, tornarono Montaigne e Mann accanto ai suoi interessi per la cultura
orientale; frequentava assiduamente Brera, la Comunale. Mai perse il suo amore
per la vita. Ogni tanto ci si rivedeva, abbiamo passato insieme l’ultima
Pasqua. Senza alcun sospetto che fosse davvero l’ultima.
Gabriele Scaramuzza
Gaccione e Caroli in Piazza Scala
alla manifestazione del 5 giugno 2014
contro le vie d'acqua.
|
CANTICO DEL NUOVO
MILLENNIO
Primo Atto
-PRIMATTORE, (baldanzoso):
CO-OME PRIMA, PIU’ DI PRIMA, RUBERO’
LE FINANZE DELLO STATO ESAURIRO’
NON E’ SOGNO IL CERCARE DI INCASSARLE
E NEI NOTI PARADISI TRASPORTARLE.
CON L’AIUTO DI TREMO (R)TI E’ GIOCHINO,
IN QUEST’ARTE SEMPRE E’ STATO SOPRAFFINO.
SE MI BECCANO IL SUO NOME NON DIRO’
E, CON GRANDE FACCIA TOSTA, NEGHERO’!
-UOMO, (si stacca dal gruppo dei figuranti):
TRANQUILLO STAI! CHE TUTTA LA NEQUIZIA
STA SOLO IN QUELLI CHE FANNO GIUSTIZIA.
DEVONO LOR PAGARE PER GLI ERRORI!
DANNO A VOI SANATORIA GLI ELETTORI.
-STRACCIONI,( inginocchiati implorano):
NON CI LASCIAR, DEH, NON CI LASCIAR
SENZA DI TE COME POTREMMO FAR?
-SECOND’ATTORE, (con l’aspetto di un rincoglionito):
CARRIERA PREPARERO’ PER I NIPOTI
PUR SE MERITI NON SARANNO NOTI.
CHIARA A TUTTI E’ NOSTRA MALAFE’,
MOLTIPLICHIAMO RIMBORSI ALMEN PER TRE.
-TERZ’ATTORE, (rivolto a uno che si accinge a
intervenire):
STOLTO SARAI AD INVOCAR GIUSTIZIA
SE SEMPRE AUMENTERA’ LA TUA PIGRIZIA.
E SE VOTANDO INSISTI COME UN MULO
NON TI STUPIR SE LO PRENDI NEL…
-INTERLOCUTORE, (interviene con durezza):
BRUTTO CAFONE, COME TI PERMETTI?
PENSI CHE TUTTI SIAM BRANCO D’INETTI?
-CORO, (dolente inton)a:
D’UN POPOLO VESSATO E DERISO
SALGAN LE VOCI, INUMIDITO IL VISO!!
SE PIU’ NON CI SARA’ TRIPPA PER GATTI
I CARRI LE VIE PERCORRERAN CON I MONATTI.
Voce narrante:
“Addetti al trasporto dei malati nelle epidemie”.
SVANIRAN FRA UBER E TAXI LE CONTESE
CIASCUNO AMMANSIRA’ LE SUE PRETESE.
-CORO, rivolto con ira agli straccioni:
FIDUCIA ANCOR DARETE A QUESTI IDIOTI?
STUPOR NON FIA SE TORNANO GLI ILOTI!
Voce narrante:
“A Sparta, erano gli schiavi di origine straniera”
CORROTTE SON GIA’ TUTTE ISTITUZIONI,
POPOLO ORMAI SIETE DI BARDONI.
Voce narrante:
Dal nome del generale della G.F. Bardi.
-UOMO CON SAIO, staccatosi dalla massa fa cenno al coro
di tacere:
“CORROTTI NON PORTERAN CON SE’
NE’ SOLDI, NE’ ORGOGLIO, NE’ POTERE”
Voce narrante:
“Sono le parole pronunciate da Papa Francesco l’11
giugno”
-PRIMATTRICE:
MA QUEL CHE LASCERAN, PER TRE
DIVENTERA’! NON SARA’ BEL VEDERE.
Voce narrante:
si riferisce agli intrallazzi finanziari
-UOMO CON SAIO, replica pacato:
MA RENDERANNO CONTO A DIO
-PRIMATTRICE:
SAREM QUI NOI A PAGARNE IL FIO.
-GIOVANE ATTRICE, irrompe trafelata sulla scena:
AUMENTAR NON VORREI VOSTRA MESTIZIA
DA POCO GIUNSE LA FERAL NOTIZIA.
-ALCUNI STRACCIONI, si sollevano tremanti per l’emozione:
DICCI, DICCI, E’SILVIO CHE E’ TORNATO?
PER SEMPRE IL CIELO SIA RINGRAZIATO!
-LA GIOVANE ATTRICE, affranta:
DOPO L’INCASSO DELLA CORRUZIONE
D’EURO SEIMILA AUMENTA SUA PENSIONE.
Voce narrante:
netti e al mese, Bardi farà anche vecchiaia da nababbo.
-ATTORI, ATTRICI, STRACCIONI E CORO:
POPOL DI MERDA SIAMO
E IN PIU’ CE NE VANTIAMO.
Fine del primo atto
Luigi Caroli
Da: Rime Tempestose,
16 giugno 2014
* * *
FOOD IN LOVE
SECONDO INTERMEZZO… LIEVE
Fra i due atti di CANTICO DEL NUOVO MILLENNIO
-ERO GRASSOCCIA MA CON CULTURELLA
A LUNGO MI IMPEGNAI PER VENIR BELLA.
COSI’ FACENDO MI SON RIDOTTA ALL’OSSO
DA VERA MILANESE. MI SALTI ADDOSSO?
-Graziosa sei. Ancor ch’amor mi prema
tremante son. Due etti ho di paté…ma.
A far sesso con te sono già pronto
ma, pria di cominciar, puoi dirmi il conto?
-COS’HAI CAPITO? CALMA TUE PRETESE
O PESTO TI FARO’ ALLA GENOVESE.
-Quasi ci siam. Per i tuoi occhi bei
concludere vorrei l’affar con pochi sghei.
Luigi Caroli da: Intermezzi Lievi-23 giugno 2014
***
CORRADO OLMI: UNA
VITA PER IL TEATRO
Disegno di Corrado Olmi |
Corrado Olmi: attore, scrittore, pittore, scenografo, disegnatore,
cantante nasce a Jesi e fin da ragazzo frequenta le filodrammatiche locali.
Personalità creativa ed eclettica non si fa mancare nulla, nemmeno una laurea
in Giurisprudenza, presa a Roma, poi divenuta sua città d'adozione.
Molto attivo in Tivù, cinema e
teatro ha ottenuto il Nastro d'Argento come migliore attore non protagonista (film
La cena di Scola) e nel 1993 in
Campidoglio riceve il Premio: Una vita per il Teatro. Ora alla bellezza di 87
anni con ironico cipiglio presenta il suo libro : “Rimembranze reminiscenze di un
sopravvissuto”, la cui copertina ben rappresenta il suo sguardo sul
mondo tra il serio e il faceto. Un libro dove il Nostro attraversa i ricordi,
che diventano così una traccia ben delineata, dove si intrecciano esperienze
vissute, testimonianze e personaggi significativi.
Con Nadia Furlan ha fondato la
compagnia teatrale: “La Nuova Operetta”.
(Laura Margherita Volante)
AFORISMI
di Laura
Margherita Volante
Peppe e Lucia. Disegno di Corrado Olmi |
- Gli irrelati
generano mostri...
- Scandalizzare è
la via che conduce alla verità...
- A chi è pieno di
sé...non entra niente!
- La Cultura non
conosce né vincoli né svincoli, ma solo la strada maestra
- Ieri esistenza
era essenza, oggi è resilienza...
- Chi esiste
resiste, chi appare...sparisce
Un capodanno d'altri
tempi
Non
so dire quando, nella mia gioventù, vi fu
un ultimo dell’anno che si prospettava per me senza mèta e senza
compagnia. Telefonai quel pomeriggio ad una mia amica, a dire il vero un po’
svanitella: “Io vado ai piani di Bobbio (non
è certa neanche la località, poteva essere anche altrove) se vuoi raggiungimi”. Aggiunse che c’era posto per dormire la
notte.
Per
la verità la sua compagnia non mi esaltava, ma non avendo altra scelta, decisi
di raggiungerla. Partii con l’auto e viaggiando raggiunsi i monti innevati.
Era
nevicato ed anche la strada era pericolosa per la neve. Dovetti fermarmi per
mettere le catene, per il resto era una bella giornata di sole, quando
d’inverno il cielo è terso, limpido, l’aria fredda, ma pulita e fragrante. Verso
sera, quando oramai era sceso il buio, ed il cielo sopra le montagne era
cosparso di stelle, raggiunsi il paese e l’indirizzo dell’albergo dove lei
alloggiava. All’arrivo trovai Marzia, tale era il suo nome, in compagnia della
madre e di un altro giovanotto di età maggiore della mia. La madre si dimostrò
imbarazzata e contrariata, perché non si aspettava il mio arrivo. (L’ho pur
detto che Marzia era un po’ svanitella). Il motivo per cui la madre era
contrariata lo vedremo dopo, d’altro canto era anche imbarazzata per trovarmi
un posto per dormire dopo il cenone di mezzanotte. Venne in soccorso Piero,
l’uomo che le accompagnava, che si dimostrò molto di buon senso.
Disse:
“Lui dorme nella mia stanza all’hotel
dove alloggio al paese sotto; farò aggiungere un letto se mai anche solo un
materasso” E così fu.
Scendemmo
al paese sotto io e lui. Raggiungemmo il suo albergo dove lui si preparò e
diede disposizione di aggiungere nella sua camera, per altro piccola, il famoso
materasso dove io dovevo dormire una parte della notte. Lasciai l’auto e partii
con lui per raggiungere il paese superiore, non prima che Piero, elegantemente
vestito, si facesse cucire un bottone della camicia che mancava. Durate il viaggio
e più ancora nel viaggio di ritorno, Piero si confidò con me del motivo per cui
si trovava in quella situazione.
La
mamma di Marzia aveva insistito affinché passassero il capodanno insieme. Non vi
era nulla tra lui e Marzia né a lui piaceva questa ragazza, anzi la giudicava
come me superficiale e svanita.
Era
probabile che la madre di lei volesse fare una combine, dato che Piero era un industriale nel campo della
manifattura cravatte in quel di Como, perciò
era un buon partito per la figlia. Il cenone si svolse in un albergo senza
pretese o magari che di pretese ne aveva ma si rivelò scadente. Il menù fu
decisamente sottotono e più volte Piero puntualizzò al cameriere le portate
inserite nella carta che non venivano servite. Giunta la mezzanotte si ballò e
Piero fece danzare anche la mamma di Marzia: fece buon viso a cattivo gioco. Io
comunque mi trovavo lì per caso. Poche ore dormii quella notte, poi la mattina
presto, nonostante che Piero mi avesse invitato a fermarmi a pranzo nell’hotel
dove alloggiava, ripresi la via di casa.
Tiziano Rovelli
I RICORDI
Capita a chi
ha lasciato alle spalle alcuni anni della sua vita che almeno contino 60. I
ricordi. Come il mio amico Angelo. Per lui gli anni dell' università, della
contestazione, della Calabria, della madre. Qualche cosa lo ha anche messa per
iscritto. Senza nulla togliere al suo grande talento. Del resto io non conosco
sufficientemente. Per quanto mi riguarda i ricordi spesso bussano alla mia
porta. Alla porta della mia mente sognante. Si tratta perlopiù di bei ricordi
(questo lo può confermare la psicologia). Con una metafora non del tutto
consona e magari consunta: Il tempo perduto della felicità. E premono questi
ricordi e par che dicano: "è molto piacevole e bello, nostalgico, stare in
nostra compagnia. Vieni via con noi, torna Tiziano nei più begli anni".
Paradossalmente è molto meglio che dagli anfratti della memoria affiorino
brutti ricordi. In tal caso la tua vita di adesso pare molto consolatoria. Io
non so vivere senza la memoria, come un popolo non può progredire se non
apprende dalla sua storia.
Rovelli Tiziano
AFORISMI
"Da quando ho letto che bere fa male,
ho smesso di leggere"
Giovanni Bonomo
*
"Si può essere dolci e spalmabili come la nutella,
ma con il retrogusto amaro"
*
"Ieri si aveva credito, oggi anche la credibilità
è sempre in debito"
*
Viaggi
"Oggi tutti di corsa per andare a cagare lontano"
*
Tela di ragno e Rete:
"L'una divora insetti, l'altra individui"
*
"Le nature deboli sono distruttive per l'orgoglio.
Le natura forti sono tali per dignità"
*
"Gli irrelati si specchiano, ma non si riconoscono"
*
"Meglio dieci uomini delusi che una donna infelice"
*
"Non c'è persona più inattaccabile di chi ha subìto danno,
perché ha imparato come rimanere viva"
Laura Margherita Volante
DENTRO IL REALE CON
IL SENSO DEL POSSIBILE
di Renato Seregni
Il nostro giardino -foto R. Seregni- |
Non esiste concetto più fuori dal tempo
che il tempo stesso. Frammento fuggitivo, lampo nella quotidianità. Il tempo è
la quarta dimensione, è misura della mobilità, strumento per descrivere l’evoluzione,
è senso della durata. Chi viene dal nulla, si nutre di nulla, va nel nulla. Tappa
di un percorso, un passaggio, un’indicazione meteorologica, un’età. Nei
frammenti, voci urlanti e battiti d’ali. Tutto il mondo aspira alla libertà, e tuttavia ciascuna
creatura è innamorata delle proprie catene. Libertà e catene, un crocevia molto
trafficato, in corrispondenza del quale confluiscono e si intersecano molti
itinerari. Spiegazioni scientifiche e sogni dell’arte. Nella durezza della
realtà, vi è meno e vi è di più. Fare il punto tra un principio e un fine:
ricominciare. Si deve, se si coglie il limite, scrutare l’oltre. C'è un'Italia che s'indigna e s'ingegna. Se cresce la
cultura cresce un paese. Con l’impegno ci si
abitua a guardare il mondo con cento occhi, a sentire nella propria testa cento
pensieri diversi. Si diventa consapevoli di se stessi e degli altri. Sa
indignarsi solo chi è carico di speranza. Teniamo vigili le nostre menti.
Essere uomini è un mestiere difficile, e solo pochi ce la fanno. Non è più
tempo di perseguire la promessa messianica di un cambiamento totale, ma di
lavorare intensamente nella costruzione del nuovo possibile in prospettiva di
altro. Noi, tra scienza e sogno, non chiediamo
la strada a chi già la conosce, ma a chi con noi la sta cercando. Dentro il reale con il senso del
possibile. La sola maniera per ribaltare la realtà è conoscerla,
iniziando il cambiamento dentro ognuno di noi. Ineluttabile - provvidenziale.
E’ quella dentro se stessi la rivoluzione più complicata da fare. Quello che
accade accadendo insegna. Mediterraneo, disperazione e morte, eppure c’è
qualcosa in loro che dice: “io ci riuscirò”. Oggi si muore, domani è domenica
di risurrezione. Onoriamo il nostro tempo, esserci di
volta in volta, decidiamo di prenderne le distanze quando diventa un meccanismo
infernale che tutto travolge. Fermiamoci, diamoci tempo, ciascuno nel suo
ambito. Fuggiamo il tempo opaco, il fluire di perversioni senza ribellione,
spazio dove cresce il rumoroso disgusto. L’eccesso di pensiero ombelicale produce
presunzione e impotenza, annullando l’intervallo. La grande abbuffata. I cuochi
hanno sostituito gli stilisti come maestri di filosofia quotidiana. Oggi, noi
possiamo essere tutti artisti, creatori delle nostre vite: nel modo in cui
viviamo interpretiamo e costruiamo il mondo. Artisti di vita interpretando la
complessità, traducendola, spiegandola. I grandi semplificatori sbancano quando
la cultura tace, la politica perde credito e la società naufraga. Nella stessa
idea di vita è implicito il concetto di tempo. Società dei flussi, satura di
stress e popolata di miti raccogliticci. Si dice che il tempo passa, ma il
tempo risponde che sono gli uomini che passano. Tempo per sognare, tempo per
morire. Tappe di un percorso in salita. Per chi
ha molto da fare ce n’è poco e per chi insegue il nulla ce n’è troppo. Viviamo in una società del tempo espropriato,
riempito di fantasmi di desiderio alienato.
Coordinate fondamentali si trovano soprattutto nel fluire dei giorni e quando
l’avvenire comincia a chiamarsi passato, occorre darsi tempo. Regalarselo a
vicenda, per accogliersi e riconoscersi scambievolmente, quale nocciolo
dell’unica felicità possibile. Tempo per sognare, tempo per morire. Viviamolo il nostro tempo, dentro il reale con il senso del
possibile.
Tiziano Rovelli
NEVE D'AGOSTO
L'estate, i campi biondeggiano di
grano, un vento leggero crea onde di mare lambendo il culmine turgido delle
spighe dorate inchinate al roteare fiammeggiante del disco del sole nel
meriggio. Tutto attorno il silenzio.
L'inverno, tutto attorno il
silenzio.
I boschi attraversati da una
strada solinga solitaria e muta, giacciono sonnolenti e grevi sotto una coltre
di neve, come manna stende il suo manto a coprire, come il lenzuolo degli dei,
ormai anch'essi muti, ammanta e sopisce ogni rumore inesistente.
Noi, figli di uomini antichi, non
avvezzi agli invernali baccanali, ci pasciamo del silenzio silvestre della
dimenticanza del mondo.
Gennaio, neve d'agosto.
11. L'ALBA
Cielo di sera (Foto: Livia Corona) |
Uno
strappo delle nuvole, una breccia, uno squarcio, una sdrucitura nel tessuto
disomogeneo e mutevole, una sbrindellatura del cielo annuvolato, sporadicamente
non plumbeo.
Nella
prima mattina insolitamente fresca, anomala di mezza estate.
Contemplavo
il cielo ingombro di nubi, pallide, sbiadite, lasciava intravedere lembi di
azzurro, mentre la città sonnolente, sonnacchiosa, silenzio, vana di voci,
rumori e suoni. I semafori nelle strade lampeggianti ancora della notte.
In
un piccolo parco urbano, l'ippocastano elefantesco, il glicine colore allegro
sgargiante.
Guardavo
lo strappo nelle nuvole, da dove fasci proiettati di luce solare biancastri,
traslucidi trapassavano l'intreccio bianco grigiastro della volta celeste,
celeste solo a sprazzi; non con la gagliardia e l'intensità consueta dei raggi
solari, ma in versione molto attenuata, freddi.
Ciononostante
il loro splendore inconsueto, singolare, raro, connotava dentro e fuori di me
uno spettacolo normale e maestoso.
Sontuosità
delle cattedrali del cielo.
Mio
figlio da piccolo davanti a simili spettacoli naturali diceva: “E' Dio che
parla”.
Il filobus 91 – giorno
Alla
richiesta del documento di viaggio, un cinese, seduto, dall'aria almeno esteriore
pacifica, quasi inesistente, se non fosse evidenziato da una corporatura
mastodontica e da un viso inespressivo quanto decisamente strano e alieno, continuava
inespressivo la sua inesistenza, scambiata forse per indifferenza.
Più
volte la richiesta, poi sempre più insistente. Nulla di nuovo nel suo
comportamento e mutismo. Indifferenza, di più, intolleranza. Ma l'intolleranza
cresceva esponenzialmente nei controllori, trasformatisi quasi in aguzzini.
Veniva
trascinato a forza giù dal bus.
Il
gigante dall'aria alienata scagliava il suo telefonino a terra. Fine violenza
sul bus, riposo in panchina.
Il filobus 91 – notte
La
rincorsa con l'auto aziendale appresso al mezzo, nella notte quieta e fredda.
Sul
bus la scena era di quelle indimenticabili, ma forse non è così. Le persone
presenti all'interno del filobus quasi tutte, se non proprio tutte straniere,
erano per la maggior parte ubriache. Qualcuno, inamovibile, presentava i
sintomi di un presunto coma etilico. A terra cartacce ovunque, giornali o pezzi
di giornali mai letti.
Qualcuno
aveva anche dato di stomaco in qualche parte sul pavimento gommoso.
E
uscirono a riveder le stelle …
E
soprattutto a respirare la fredda aria della notte, quasi fosse fresco
venticello.
L'AMORE DI UN POETA
L'adolescenza
Disegno di Giacinto Ferraro |
Scese dalla scala esterna. Stendeva i panni lavati su uno
spago fissato ai pilastrini bianchi di quella casa mediterranea. Il sole
splendeva a picco nel cielo blu intenso. Il caldo a tratti temperato da una
leggera brezza. Si poteva intuire la splendida, immota superficie azzurra del
mare di Grecia che in quel punto non si vedeva.
Lui la guardò e dal profondo dell'anima una improvvisa tenerezza salì alla coscienza; non era ancora amore ma molto prossimo a diventarlo. I due si guardarono e lui comprese che gli occhi di lei riflettevano il nascente sentimento presente in lui. Si comprendevano intuitivamente e avrebbe potuto nascere l'amore. Pienamente.
Lui la guardò e dal profondo dell'anima una improvvisa tenerezza salì alla coscienza; non era ancora amore ma molto prossimo a diventarlo. I due si guardarono e lui comprese che gli occhi di lei riflettevano il nascente sentimento presente in lui. Si comprendevano intuitivamente e avrebbe potuto nascere l'amore. Pienamente.
Quel ragazzo poco più che
adolescente non seppe cogliere l'attimo, non seppe abbandonarsi al sentimento
che nasceva in lui e che a quell'età è foriero di splendidi frutti.
Da quel preciso istante la sua
vita cambiò. Uno di quei momenti che segnano un'esistenza. La vita che seguì fu
per quell'uomo come un giorno senza sole. Perché il tempo passò ma negli anni a
venire egli visse in un tunnel buio senza via d'uscita. Un cul de sac.
Ritornando all'attimo precedente
narriamo in una visione fantastica come sarebbe proseguita la storia, l'inizio
di una vita vera per quel giovane, vita vera che non fu mai.
E' banale quel che poteva
succedere ma vale la pena raccontare la naturalità perchè così è la vita. Non è
banale invece il contesto naturalistico in cui la vicenda si svolse.
Si guardarono negli occhi
intensamente, avvicinarono le loro labbra e si baciarono profondamente in un
amplesso carico di promesse ma solo fisicamente accennate. Lui la chiamava ma
petite fille, mia bambina, perché lei era francese.
Decisero assieme di mettersi i
sacchi a pelo sulle spalle e lasciare Heraklion per andare in autostop nel sud
dell'isola dove si trovavano spiagge stupende, immacolate e poco frequentate e
una mare da favola. Riuscirono a farsi dare un passaggio da un tedesco su un
tipico pulmino Volkswagen di quei tempi. Il viaggio fu mitico per i due
innamorati. Su strade lontane dal loro mondo urbano attraversarono boschi e la
macchia mediterranea. Finalmente si udì lontano il rumore del mare e i profumi
erano inebrianti in quel clima che appariva esotico e connotato da un
onnipresente disco solare fiammeggiante. Dalla radio del mezzo risuonavano le
note della canzone in voga Guaira Guantanamera. Loro a volte si tenevano
per mano, si abbracciavano e si baciavano incuranti del guidatore tedesco che a
piedi nudi cambiava le marce con l'alluce. Era un informale che per qualche
strano caso lavorava a Creta. Non era un turista. Magie del mare Mediterraneo.
Arrivati a destinazione il
paesaggio era ancora più selvaggio e meraviglioso di quanto a loro era stato
descritto. Grandi spiagge bianche incontaminate che coniugavano la loro
bellezza con l'immensità del mare. E volgendo lo sguardo un profondo cielo
azzurro proponeva prepotente il dio sole. Quanto erano lontane le città del
nord piovose grige e tediose.
L'esuberanza della natura in quel
luogo era in perfetta sintonia con l'ardore del loro amore. Vi era un
promontorio alla fine della grande spiaggia verso ponente, valicato il quale si
giungeva in un'altra spiaggia più appartata e intima dove i pochi turisti
nordici presenti prendevano il bagno nudi.
I due ragazzi ci arrivarono e
fecero il bagno nudi. Poi sdraiati sulla sabbia, in quel luogo libero da ogni
pregiudizio sessuale, fecero l'amore per la prima volta e poi ancora e si
addormentarono l'uno abbracciato all'altra. La mattina il sole dell'alba all'orizzonte
immerso ancora nel mare li vide nudi l'uno nell'altra in un dolce amplesso sul
soffice manto della rena lambita dalla schiuma delle onde sul bagnasciuga.
“Ti porterò in Francia a
conoscere i miei” diceva lei. “No, non pensiamo al futuro, in questo posto
siamo felici e non ci manca nulla” rispondeva lui “ma petite fille, ti amo da
morire”.
La fanciullezza
Il periodo di vita veramente
libero e felice.
Si divertiva con un
camion-giocattolo di legno grande tanto da contenere nel cassone un bambino
seduto. Lui e i suoi amici mettevano sul camion mosche morte e poi trascinavano
il grosso giocattolo recitando ritornelli per fare le esequie funebri alle
mosche.
Tra i suoi amici vi era anche
un'amichetta preferita con la quale si nascondeva nei boschetti per giocare al
dottore. Si trovava in campagna.
Aveva chi l'amava e
nell'incoscienza dell'età era felice.
La terza età
Ed ora che ha raggiunto l'età che
porta la saggezza ha molti rimpianti. La malattia lo accompagna e lo ha
accompagnato per tutta la vita. La struggente malattia di chi non ha conosciuto
l'amore.
Tiziano Rovelli
LA BARACCA ROSA E ALTRE POESIE
Di
particolare bellezza grafica e magnificamente curato, questa
raccolta poetica segna l’esordio editoriale del poeta campano
Francesco Sirico, a Milano dal 1988.
Un
poeta per molti aspetti originale e dotato di ottime capacità espressive,
i suoi versi, ne siamo sicuri, affascineranno i cultori e
gli amanti della parola poetica.
Il libro può essere richiesto presso le Edizioni Nuove Scritture
02-9462323;
presso l’Ufficio Stampa di “Odissea”
al
seguente numero di telefono:348-8760129
Per
le librerie di riferimento: La Tramite, Claudiana,
Libreria
Popolare.
La
baracca rosa
Francesco
Sirico
Edizioni
Nuove Scritture
Pagg.
64 € 10.00
*** ***
Francesco Sirico
*** ***
Francesco Sirico
Premiazione
“I miei versi migliori li ho scritti
Quando mangiavo cioccolata”.*
Così esternò il Poeta
Nel ricevere l’ambito premio,
Sobillando – sorvolando
L’intero uditorio e il suo banale,
Postumo, scandalizzato borbottio.
*La rivista New England Journal(NEJM) a ottobre 2012ha pubblicato un
gustoso articolo
(Messerli,
Franz H. “Chocolate consumption,
cognitive function, and Nobel laureates”
New England Journal of Medicine 367.16 (2012): 1562-1564)
sulla correlazione tra il consumo di
cioccolata di una nazione e il numero di premi
Nobel vinti da cittadini di quella
nazione.
(Le Scienze- blog- 15/02/2013,
edizione italiana di Scientific American)
Il segno dei giorni: abolire e in fretta.
Di Paolo Maria Di
Stefano
Quelli che abolire le province pensano possa essere la soluzione
non solo di problemi economici, ma anche di efficienza e di razionalità nell’organizzazione.
Così, da anni si pensa che le Province debbano essere cancellate, sostituite
(probabilmente, ma non è certo) dalle megalopoli oppure (o anche) da
associazioni di sindaci. E si corre a cercar di provvedere in tal senso, visto
anche che uno dei sistemi potrebbe essere costituito dal mancato svolgimento
delle elezioni. Con inevitabili dubbi e distinguo e rischi per la tenuta del
Governo. Il quale ha già fatto ricorso alla fiducia, rimedio sovrano come quel
balsamo di tigre di antica memoria oppure l’elisir del dottor Dulcamara.
Stessa cosa per l’euro e per
l’Europa.
Ovviamente, nulla vieta che si
pensi di poter fare a meno delle Province. Ma almeno un dubbio mi sembra
lecito: non sarebbe meglio pensare a riorganizzarle, attribuendo loro quella
funzione di armonizzazione delle (oggi e per ora inesistenti) pianificazioni
comunali di gestione del territorio e della cosa pubblica che è sola garanzia
di riduzione dei rischi dell’insorgenza di conflitti di interesse insiti in
ogni e qualsiasi attività di gestione, e in particolare in quelle relative alla
cosa pubblica? A me sembra una soluzione razionale: i comuni pianificano la
gestione del territorio di competenza; le province risolvono i conflitti di
interesse tra comuni e propongono pianificazioni “armoniche” alle Regioni le
quali, a loro volta, dirimono i conflitti tra le Province, proponendo allo
Stato pianificazioni di gestione praticabili senza conflitti. Infine, lo Stato
armonizza i piani di gestione proposti dalle Regioni e realizza quel piano di
gestione del territorio statale al quale in cascata Regioni, Province e Comuni
si dovranno attenere scrupolosamente, realizzando quanto in essi contenuto.
Piano operativo di gestione il quale, a sua volta, quando fosse finalmente
esistente un’Europa degna dell’attributo di “unita” verrebbe confrontato con i
piani di gestione dei singoli Paesi facenti parte dell’Unione, armonizzati i
quali sarebbe elaborato un piano di gestione degli Stati Europei ai quali ogni
singolo Stato dovrebbe attenersi.
E il disegno di un’Europa che
armonizzi i piani di gestione dei singoli Stati in una pianificazione generale
obbligatoria e coerente potrebbe essere la vera soluzione ai problemi che oggi
agitano il continente, concreta e praticabile alternativa alla solita proposta
di abolizione.
Quelli che abolire l’Euro l’hanno preso come inno di battaglia,
urlando con violenza maggiore del solito e inneggiando ad una uscita, se
necessario anche violenta. L’Euro deve morire. Almeno per noi italiani.
A me sembra che un eventuale
ritorno alle monete nazionali (per noi, alla lira) non solo sarebbe
antistorico, ma comporterebbe problemi – questi sì – irrisolvibili. Seppur sia
vero che la moneta unica è nata male, perché utilizzata come “causa”
dell’unità, e non come effetto, che ci sia è oramai un dato di fatto, esattamente
come un dato di fatto è la (lentissima e faticosissima) marcia verso l’unità
delle genti, e quindi degli Stati e delle nazioni. Allora il problema non si
risolve tornando alla lira oppure (perché no?) al fiorino o al baiocco, ma
educando la gente alla unità, in fondo convincendo gli individui che la
migliore tutela degli interessi di ciascuno si ottiene proprio lavorando
insieme, anche cercando di migliorare quello che si è raggiunto.
Soprattutto, educando ciascuno di
noi a ragionare in termini di “futuro della specie”, il che, tra le altre cose,
imporrebbe di ragionare in termini di cambiamento del sistema economico.
A proposito del quale nessuno osa
parlare di “abolizione”, così come tutti sembrano limitarsi ad auspicare una
“ripresa” che sa tanto di restaurazione di quei fattori che hanno determinato
tutte le crisi economiche degli ultimi due secoli, non solo, ma che operano
provocando accelerazioni in progressione geometrica delle crisi stesse, le
quali si verificano a intervalli sempre più ravvicinati e con virulenza
crescente.
Quelli che il pubblico (da abolire!) pensano sia il male tutt’altro
che oscuro della società e dello Stato Italiani. Che forse è vero, almeno nel
senso che da noi l’impiego pubblico è praticamente da sempre considerato una
sorta di diritto allo stipendio vita natural durante, senza obbligo alcuno di
contropartita.
Con qualche corollario al quale
non sarebbe male dedicare qualche considerazione in più.
Nella scuola pubblica, per
esempio, è tuttora diffusa l’idea che l’insegnamento sia non tanto e non solo
prerogativa femminile, quanto soprattutto una professione che impegna
l’insegnante soltanto per una ventina di ore settimanali e che gode di tre mesi
di ferie pagate, e dunque consente di dedicarsi ad altre cose.
E che comunque non può esser
retribuito di più di quanto non lo sia il salario di un operaio che lavora otto
ore al giorno.
Il che a parere dei più
giustifica gli stipendi insultanti.
E certamente non è vero che il
problema dell’istruzione pubblica si risolva occupandosi – per quello che si
può!- dell’edilizia scolastica, elemento assolutamente importante, ma non il
solo e, forse, neppure quello più urgente.
Occorre a mio parere che lo Stato
si renda conto che l’istruzione della quale è responsabile si deve realizzare a
livello di assoluta eccellenza, e questo comporta che sulla scuola pubblica
convergano tutte le risorse. Non solo quelle disponibili, che normalmente e in
Italia sono residuali, ma quelle necessarie, che comportano una pianificazione
di gestione accurata e dunque la creazione di un sistema scolastico
assolutamente efficiente e in grado di formare “prodotti diplomati e laureati”
in grado di vincere la concorrenza nel mondo.
La concorrenza utilizzi risorse
proprie, con ciò anche dimostrando che quel “libero mercato” a cui dice di
ispirarsi è una realtà.
E in un mercato libero non trova
alcuna giustificazione che un’impresa finanzi i concorrenti, salvo forse
qualche raro caso di tattica diretta a farne scomparire uno. Che sarebbe tutto
da vedere nel perché e nel come, e che è probabile violi leggi in vigore.
Il “pubblico” cui si fa
riferimento riguarda, ovviamente, anche settori diversi da quello scolastico, e
sembra che tutti siano uniti da fattori i quali tutti sembrano convergere verso
la presunzione assoluta di cui alcuni alti dirigenti (quelli cosiddetti
“apicali”) hanno dato anche pubblicamente prova. O non è forse vero che
responsabili di settori assolutamente inefficienti e comunque non eccellenti e
talvolta anche in perdita secca osano conclamare che nel caso di una revisione
(al ribasso) delle prebende sono pronti ad abbandonare?
Che vadano! Vedremo quale impresa
privata li assumerà alle stesse condizioni.
E quelli che la burocrazia (da abolire anch’essa!) naturalmente
bollano come causa prima dei mali italiani. Che appare verità sacrosanta, ma a
proposito della quale è forse necessario ricordare che i burocrati, di livello
alto o basso che siano, si muovono nell’ambito di leggi e di regolamenti almeno
in apparenza tutti elaborati per impedire che si possa risalire al
“responsabile”.
Figura mitica, peraltro, anche in
molte imprese private. Personalmente ne ricordo una il cui “mansionario”
stabiliva per ogni posizione che “risponde alla posizione superiore”.
L’attività più impegnativa per tutti, dipendenti, collaboratori e clienti era
il cercare chi fosse in grado di risolvere almeno uno degli innumerevoli
problemi cui una gestione di impresa – soprattutto se grande e di livello
internazionale – doveva e deve far fronte.
Così come per molti anni è accaduto
nelle banche italiane – e ignoro se la cosa sia cambiata, ma nutro fieri dubbi
in proposito – era impossibile risalire al responsabile, la burocrazia statale
sembra beneficiare di un sistema diretto a mettere al sicuro l’impiegato, il
funzionario, il capo ufficio, il capo servizio, il capo sezione, il capo
divisione, il dirigente, l’amministratore delegato e il presidente attraverso
una serie di norme di forza crescente, anche unite ad una collezione di simboli
di stato assolutamente invidiabile, alcuni dei quali destinati a durare fino
alla morte fisica del centenario titolare di pensione mille volte superiore a
quella di un impiegato normale.
E della burocrazia fa parte, a
mio parere, anche quella pletora di uscieri, autisti, inservienti, pagati mensilmente
più di quanto un operaio non riesca a guadagnare in un anno. E’ ovvio che lo
stipendio è meritato: sono i soli in grado di consentire ad un cittadino di
raggiungere il “megadirigente galattico” in grado di risolvere il problema,
fosse anche soltanto quello di sveltire la pratica.
Ma la burocrazia è un sistema in
sé, ha personalità e capacità di agire, e, esattamente come accade ad un essere
vivente, ha organi, sangue, nervi, muscoli. Toccarne anche uno solo significa
turbare un ordine costituito e perfettamente funzionale a se stesso, e dunque
mettere in forse l’esistenza dell’insieme.
Di qui, la difesa a oltranza,
realizzata attraverso la pronta assunzione di qualità proprie dei muri di gomma
e dei materassi.
Di qui, anche, la reazione ad
ogni cambiamento: il muro di gomma assorbe, mentre prepara il rimbalzo, secondo
una modifica propria della burocrazia della legge fisica secondo la quale ad
ogni azione segue una reazione eguale e contraria. La modifica consiste nella
circostanza che la reazione è in genere violenta e mortale per gli incauti che
hanno provato a cambiare le cose. E la legge suona dunque più o meno: la
burocrazia reagisce all’azione col silenzio e l’inazione finché non sia pronta
l’arma letale.
E se l’arma letale fosse
custodita negli arsenali dei sindacati?
Quelli che la disparità di genere (da abolire!) pensano possa
risolversi per legge sembra facciano l’impossibile per far credere di avere a
cuore la materia. In realtà, al di là della presa d’atto della capacità di
suggestione del tema, stabilire sulla base delle differenze di sesso e della
numerosità delle appartenenze il numero delle candidature e quant’altro non è
che la dimostrazione, da un lato, di una non-cultura che tende a trascurare il
merito e la professionalità; dall’altro, di un sessismo becero, capace solo di
tentare di far credere in una apertura mentale da parte del “sesso forte”(!)
pronto a cedere potere – e Dio solo sa quanto costa!- e dunque ad accreditarsi
come “aperto e lungimirante”.
La realtà è che se non si
interviene nella formazione a tutti i livelli, la forza fisica tenderà a
rimanere l’ultimo grado di giudizio in una questione nella quale la stessa
forza, oltre probabilmente a non esistere quasi più nella forma originaria, non
ha nessuna rilevanza nelle attività del pensiero.
Io credo di poter garantire che
le donne sono assolutamente migliori degli uomini. Le mie studentesse
all’Università non hanno mai fatto ricorso alla morte reiterata del nonno di
turno, e neppure ad altri mezzi ai quali più di un collega sarebbe stato
sensibile. E neanche mai hanno vantato appoggi e raccomandazioni di sorta,
com’è invece accaduto per qualche loro collega di sesso maschile, da promuovere
perché figlio del preside o amico dell’imprenditore.
Che sono, poi, alcuni dei criteri
che determinano nelle università l’attribuzione delle cattedre.
L’OPINIONE
Europee: bisognerà
accontentarsi e metter da parte ogni futura pretesa.
Altro al momento
appare pura illusione.
di Paolo Maria Di
Stefano
Come, credo, più di qualcuno di
noi, io ho molti rimpianti. Tra questi, non esser dotato della capacità di
tradurre in testi teatrali almeno una parte del ridicolo – come pure del
tragico - della politica italiana.
Quantomeno, di quella che appare
dalla attività dei nostri cosiddetti uomini politici, dei quali il denominatore
comune sembra essere ormai soltanto costituito dalla improvvisazione più bieca
di battute senza significato alcuno.
Tranne quello della mancanza di ironia
e di senso del ridicolo.
Perché anche per far ridere
occorre una dose – non indifferente, oltretutto – di intelligenza
nell’individuare le possibili fonti della risata o, quanto meno, del sorriso;
nel “costruire” la comunicazione in modo che i mezzi utilizzati concorrano
tutti al risultato finale, la risata o il sorriso, appunto; nell’utilizzare i
mezzi individuati e quelli eventualmente rimasti nell’inconscio e il momento in
modo coerente al risultato voluto.
Che forse è dote innata e forse
non solo, perché come tutto in noi qualcosa dipende dall’ambiente e dalla
formazione.
Qualcuno sostiene che la Politica
sia cosa troppo seria per riuscire a far sorridere. Non ne sono sicuro.
Intanto, perché sono proprio le cose “troppo serie in sé” quelle che meglio si
prestano ad esser fonte di risata – come un generale impettito e bardato di
tutto punto il quale, battendo i tacchi in un perfetto ossequio all’autorità,
scivola e cade sul pavimento tirato a specchio.
Poi, perché della politica
italiana tutto si può dire, meno che sia “troppo seria”. Anzi: che sia seria.
Sempre che non si consideri cosa
“seria” l’improvvisare pezze a colori.
Da venti anni a questa parte – ma
forse è vero che le avvisaglie sono più antiche – la politica italiana è
infarcita di battute e di atteggiamenti di una banalità, di un cattivo gusto e
di una mancanza di educazione difficilmente eguagliabili.
In crescita esponenziale mano a mano
che la chiamata alle urne si avvicina.
E siamo alla vigilia di un evento
importante: l’elezione del Parlamento Europeo al quale rischiamo di mandare a
rappresentare il Paese personaggi di nessuno spessore, privi di cultura e – a
mio parare soprattutto – di quel minimo di educazione indispensabile in
qualsiasi tipo di relazione.
Continuo a pensare che l’Italia
non meriti tutto questo.
I politici e gli anti politici,
che sono comunque politici checché se ne dica, perduto ogni ritegno chiedono il
voto degli italiani per portare in Europa propri personali interessi mascherati
da “bene della nazione”, al termine di una “campagna elettorale” condotta al di
là del bene e del male, condita da insulti e minacce e richiami alla
eliminazione anche fisica dei contendenti.
Le sole cose di cui non si è
parlato sono state le forche caudine e l’impalamento, probabilmente perché se
ne è persa la memoria, ammesso che ci sia ancora qualcuno, in Italia, che
sappia di cosa si sia trattato. Cosa della quale dubito, perché appare
probabile che se fosse stato altrimenti sarebbero state evocate in una con
quella vivisezione della quale si è ampiamente parlato. Ma chi dei politici
italiani sa oggi di Tito Livio, delle sue Storie e della seconda guerra
sannitica?
Resta comunque una gara al
ribasso.
Così come resta che per le
europee non possiamo che scegliere i meno peggio, ammesso che un meno peggio
esista e che agli elettori resti la
capacità di individuarlo.
E anche scegliere i meno peggio
significa esser perdenti, soprattutto se e qualora gli altri Paesi avranno
avuto ed avranno la possibilità di scegliere i migliori. Cosa, peraltro, non
certa.
E allora, forse, gli elettori
sceglieranno per ciò che appare, evitandoci almeno le urla scomposte, i
capelloni di disastrosa e disastrata memoria, i cappellini da basket su finta
creativa professionalità e l’essere notoriamente pregiudicati. Mandare a
Bruxelles persone normali sarebbe già tanto.
E un Paese di antica cultura e di
altrettanto antica civiltà dovrà comunque accontentarsi.L’UNIVERSITÀ E IL SUO MINISTRO: RARA FONTE DI OTTIMISMO
IN TEMPO DI
NEROFUMO POLITICO
di Paolo Maria Di
Stefano
Raggiunto il fondo, la qualità della Politica non potrà che
migliorare.
Ma dov’è questo fondo?
Domanda legittimata anche e in
questi momenti soprattutto dalla qualità della campagna elettorale, in caduta
libera ed a velocità crescente in modo esponenziale. Campagna condotta a
bordate di insulti gridati e conditi da espressioni colorite e da richiami ad
una storia forse non recentissima ma certamente indimenticabile ed ai suoi
personaggi. Che è una scappatoia: immaginare un Hitler vestito da Grillo -oppure
(o anche) un Grillo vestito da Hitler- un sorriso, per quanto amaro, lo può
strappare. E forse potrebbe mutarsi in aperta risata nell’immaginare un
trenta/quaranta per cento di un popolo di antica civiltà mandare a
rappresentarlo in Europa i clientes di quell’Hitler urlante in inflessione
genovese.
Come potrebbe far ridere l’idea
di una monarchia ereditaria berlusconiana, caldeggiata da un altro trenta per
cento di popolo civile e repubblicano che voti per i rappresentanti proposti da
Forza Italia. E che inneggi a Sua Maestà Silvio Uno e all’erede legittima,
principessa ereditaria Marina.
Ma il pericolo c’è, ed è forse
più concreto di quanto possa non apparire.
Sta qui il fondo da
raggiungere?
E chiedersi dove il fondo sia
appare giustificato anche dalla proposta da parte di due Vicepresidenti di sporgere
querela contro il Presidente del Consiglio per quanto da questi affermato circa
la professionalità del Senato e dei consulenti di cui si giova (si fa per
dire!). Pare che la cosa non sia andata avanti solo per l’intervento del
Presidente Grasso, il quale sembra aver affermato che non sarebbe stato
dignitoso un conflitto tra le istituzioni a livello giudiziario.
Non ho parole. Certo è che il
Parlamento italiano, nel suo complesso, ha più di una difficoltà a fare buone
leggi. Leggi, cioè, che risolvano i problemi per i quali sono state formulate e
che non diano adito ad interpretazioni, anche le più fantasiose. E non siano in
totale o parziale contrasto con altre
leggi precedenti, non abrogate o non modificate “in costanza di coerenza”. E
dunque, anche che il Parlamento non disponga di buoni consulenti, seppure sia
da ricordare che in Italia “buon consulente” è considerato colui che supporta
le decisioni del padrone, chiunque esso sia.
L’uscita dei due vicepresidenti e
la difesa del Presidente a mio parere non lasciano spazio a dubbi di sorta: la
Politica appare sempre di più simile ad una consorteria che persegue interessi
propri, lontani da quel “bene comune” che qualcuno si ostina a immaginare
“causa ultima” della Politica stessa. Alla quale sempre di più sembrano
dedicarsi praticoni e improvvisatori.
E sulla quale da sempre si fonda
l’attività di faccendieri -magari anche provenienti dalla politica e dalla
economia- che appaiono come indistruttibili e irrecuperabili. Alcuni provengono
dai tempi di tangentopoli -tempi che sembrano aver superato indenni-; altri
sono di nuova generazione e si appoggiano all’esperienza dei primi per fare le
stesse cose, nello stesso modo, neppure curandosi di migliorare le tecniche. E
non v’è dubbio che l’occasione facendo l’uomo ladro, l’Expo non poteva fare
eccezione. E d’altronde, non è forse un principio sacrosanto del nostro sistema
economico quello di trarre profitto da ogni occasione, anche e se del caso
creata ad hoc?
Che è un’ulteriore ragione per
pensare che nulla può esser cambiato e che nei con fronti della Politica e dei
politici la via del pessimismo e la sola praticabile.
Una via che non porta a niente,
se si eccettua il progressivo accumularsi della ricchezza nelle mani di pochi,
ma forse proprio per questo la più seguita.
Come dire: il fascino del nulla e
dell’azzardo. Forse è vero che non c’è via di uscita.
Eppure bisogna essere ottimisti e pensare positivo. Una delle tante
conferme ce la offre l’Espresso del
15 maggio 2014 in un’intervista, alle pagine 42 e 43, all’attuale Ministro
della istruzione e della università. L’ottimismo e la speranza permeano di sé
la conclusione di un’inchiesta sulla Università che definire scoraggiante è dir
poco.
Emiliano Fittipaldi, l’autore, credo
non a caso abbia occupato un terzo di pagina con la fotografia di una Stefania
Giannini affascinante, molto più giovane di quanto non appaia nelle occasioni
(peraltro abbastanza contenute) ufficiali e in quelle televisive: non una ruga,
l’atteggiamento classicamente impostato coerente con la consapevolezza dello
sguardo.
Sullo sfondo, pochi fiori
inconsueti, tesi a sottolineare la forza dell’abito rosso e la musicalità
dell’accostamento della sobria collana e dell’altrettanto sobrio bracciale.
Un Ministro affascinante che dice
cose affascinanti e induce a sogni affascinanti.
Ovviamente rinviando alla lettura
completa della intervista, qui sottolineo alcuni tra i semi dell’ottimismo,
lasciati cadere quasi in una figura di danza.
“Ogni Università deve poter assumere i docenti che vuole”. È quanto il Ministro ha perseguito
negli anni di rettorato: i docenti chiamati dalla sua università sono
certamente tra i luminari delle materie.
E sapere che chi ha così
coerentemente operato nella pratica quotidiana ha oggi il potere di indirizzare
l’intero settore dell’istruzione e dell’Università è motivo indiscutibile di
ottimismo e di speranza.
“Sono convinta che le singole università debbano poter chiamare in
totale autonomia chi vogliono. (omissis) Bisogna che capacità, numero e
importanza delle pubblicazioni siano premianti.”
Che è un altro portato della
pratica nella gestione della Università: i docenti assunti erano tutti
indistintamente autori di opere di assoluto rilievo nella disciplina di
riferimento, e di loro è noto il costante sforzo di approfondimento e, quando
possibile, di innovazione. Soprattutto in quelle discipline che sono da sempre
ritenute le più vicine alle imprese. La pubblicità, ad esempio, e il marketing
internazionale, e la gestione d’impresa. E non solo.
“Se qualcuno decide di assumere al posto di uno scienziato capace un
candidato meno bravo ma raccomandato, l’ateneo sarà duramente penalizzato sotto
il profilo economico.”
Che è un'altra conseguenza della
oculata gestione attuata dalla Giannini nella Università di cui è stata
Rettore. Il Ministro si è sempre guardata bene dal porgere orecchio alle raccomandazioni,
ed ha sempre valutato con particolare severità e oggettività i requisiti anche dei
propri amici. Come è noto, del resto, che l’Università per Stranieri non ha mai
visto -almeno sotto la gestione Giannini- l’assunzione di parenti, amici e benefattori.
È forse -a mia conoscenza, ma posso sbagliare- la sola università italiana tra
i cui impiegati, funzionari, dirigenti e docenti non uno ne esista che abbia un
qualsiasi legame parentale o clientelare con un altro. Vedere per credere. È
ovvio che qualche cosa possa essere sfuggita, ma una cosa è certa: Stefania
Giannini non ha mai favorito alcun raccomandato, neppure se imparentato con
qualcuno dei finanziatori dell’Università.
In tema, una sola cosa lascia
perplessi: perché se un docente o un Rettore assumono un raccomandato o un
incapace, non si fa il minimo accenno ad una responsabilità personale? E’
giusto che l’Ateneo risponda in quanto tale al comportamento disonesto di uno
dei suoi organi?
Probabilmente, si tratta di una
disattenzione del giornalista, dal
momento che dice il Ministro : “Dal
rettore fino al ricercatore , tutti devono essere responsabilizzati. Le norme
che voglio introdurre faranno sì che sarà molto più difficile che qualche
barone assuma il figlio, la fidanzata o l’allievo asino. Sarà costretto dalle
leggi di mercato a chiamare chi saprà dare lustro al gruppo di ricerca, chi
permetterà di accedere ai finanziamenti.”
E, a conclusione dell’intervista,
un’affermazione che getta un raggio di luce nel futuro delle università: “…staneremo professori che non pubblicano da
10 anni, quelli che confirmano gli articoli ma non hanno più idee innovative.”
E qui anche una nota molto linguistica, molto modesta perché mia: il verbo
“confirmare” non significa “firmare insieme”, ma è una forma arcaica per
“confermare”. Almeno, così recita il Devoto Oli, il quale subito dopo ricorda
che “confirmatorio” è un aggettivo che significa “che serve a confermare”. Il
Nuovo Zingarelli, invece, ignora del tutto il lemma “confirmare”, ricordando che
“chi firma q.c. insieme con altri” è un “cofirmatario”. Il che lascia
sospettare che “confirmare” sia vivo
e vitale nella cultura più esclusiva e indichi, appunto, il firmare insieme. Non è un affascinante problema di linguistica?
Tra l’altro, chissà quanti ricercatori impegnano tempo e fatica ad approfondire
il problema e la funzione di quella “n” che distingue cofirmatario da
confirmatorio, più ancora interessante del gioco delle vocali “a” e “o”.
E se fosse un refuso?
Impossibile, io credo, dal momento che si tratta di una intervista ad un
luminare della glottologia, ma hai visto mai…?
Ma torniamo a chi non pubblica da dieci anni: saranno stanati. Che
è bello ed istruttivo, soprattutto perché dimostra che il Ministro non teme
smentite. Ella sa bene che se la sua ultima opera – almeno secondo le informazioni fornite da
Internet- (La fonologia dell’interlingua.
Principi e metodi di analisi – Franco Angeli, Milano) risale al 2003 è per
l’immane sforzo di organizzazione e di amministrazione della Università che,
quale Rettore, ha dovuto sostenere a partire dal 2004, e che l’ha vista
impegnata anche -come era suo dovere, del resto- in pesanti e stressanti e
costose attività di Pubbliche Relazioni e di rilancio internazionale, quale ad
esempio quella che l’ha costretta a noleggiare un aereo (Falcon 20) per seguire
Benigni a Bruxelles, ambasciatori entrambi del genio di Dante.
E certamente non possono esser
condivise le critiche di coloro che, almeno a detta di L’Espresso citato in Internet, da più parti accusano il Ministro di
aver perseguito a spese dell’Università la promozione nazionale ed internazionale di sé. E’ ovvio, per chiunque
in qualche modo si occupi di comunicazione, come il successo delle attività
messe in opera per aumentare l’immagine della struttura riservi una parte dell’efficacia
a favore di chi le attua.
Così, era ed è nell’interesse
della Università moltiplicare le lauree
honoris causa oppure (o anche) partecipare ad eventi internazionali alla
pari con altri Atenei di prestigio, come pure organizzare convegni e giornate
di studio – peraltro, in linea con la sostanziale inutilità di quelli
organizzati da altri atenei - anche se
questo dovesse costare qualche disattenzione di troppo nella biecamente banale
amministrazione dei fondi, oppure qualche sacrificio nelle attrezzature
didattiche oppure ancora qualche appalto forse non trasparentissimo ma in
qualche modo almeno in apparenza meno costoso. E perché condannare chi, al fine
di essere più efficiente ed efficace nello svolgimento dei compiti che gli sono
propri, si preoccupa di garantire a sé ed alla corte che l’accompagna il
massimo dei comfort?
È anche una questione di
immagine.
E allora: l’intervista di Fittipaldi alla Giannini illumina
un terreno esplorando a fondo il quale si potrà avere la conferma, concreta,
della correttezza e della capacità del Ministro. E dunque della oculatezza
della scelta di un Rettore a ricoprire l’incarico prestigioso di Ministro della
Istruzione e della Università. E l’intera compagine governativa ne verrà
illuminata.
E dunque, un motivo di speranza e di ottimismo in questa
bieca e buia notte della Politica.
PS. È la prima volta che mi capita di sentire (e leggere)
che un tangentista “vende” il proprio lavoro utilizzando il prezzo come
argomentazione vincente. Bravo!
L’ARTE DEL POTERE
IL POTERE DELL’ARTE
di Renato Seregni
L’arte
figurativa con le sue immagini, la musica con l’ebbrezza che diffonde, il
teatro capace di parlare di noi come altri di noi, la scienza, la politica, la
società. Io voglio, tu vuoi, noi possiamo. Il potere dell’arte, l’arte del
potere. Creare una vita alternativa non escogitata da chi sa chi, ma creata da
noi, come vorremmo che fosse, per essere degna d’essere vissuta. Il nostro
domani: creature in fasce affidate a balie inette. La crisi porta la povertà,
la povertà l’impotenza, l’impotenza la paura, la paura la rabbia, la rabbia la
violenza, e la violenza ad altro potere. Nessuno crede più a nessuno. I
cimiteri parlamentari sono pieni di ministri che si ritenevano indispensabili e
inamovibili.
La speranza bruciata come ciocco nella caldaia arroventata
del malumore pubblico. Le notizie, attese con tragicomico entusiasmo sempre
identiche a quelle del giorno prima, si accavallano si rincorrono non
aggiungendo nulla, ripetendo sempre lo stesso giorno. Borsa, traffico, clima e
oroscopo, nutrono credulità e superstizione quali sottoprodotti degenerati
delle religioni.
La bellezza sta nel vedere oltre il presente, nella
capacità di sperimentare, scartare dall’ovvio, interpretare i movimenti
tellurici di nuove allegrie, non nell’adagiarsi sul sé, fiancheggiamento dei
moderni cinismi o compiacimento caritatevole. Mi piace praticare l’arte dello
sconfinamento.
Come un “bosone” passo dallo spirito alla massa e
viceversa. Perché succede? Perché è molto facile assecondare la piazza, mentre
è molto difficile costruire una alternativa. Un bisogno di potere,
un’ossessione del potere. L’arte è l’unica forma di pensiero critico, di
riflessione politica. L’amministratore corrotto dà da mangiare ai suoi figli
pane sporco. Ogni uomo deve decidere se camminare nella luce dell’altruismo
creativo o nel buio dell’egoismo distruttivo. Vogliono distruggere la scuola
per condannarci alla povertà eterna. Gli artisti, si sa, sono artisti, e quindi
non colgono la realtà, ma la interpretano. Il demagogo pone se stesso come
insostituibile. Afferma ed esige adesione plebiscitaria. Recessione,
depressione, panico, e lui, demagogo pacificatore, tra colpi di scena e
coreografie fantasmagoriche, sorridente. Non ci sono né cattive erbe né cattivi
uomini, ci sono solo cattivi coltivatori. L’artista, come il sognatore o
l’innamorato, guarda la realtà, la riempie, la svuota, la piega al suo desiderio,
alle volte fino a storcerla del tutto, e alle volte anche cogliendo nuovi
orizzonti di senso. L’arte è un lusso indispensabile, un respiro biologico, una
visione del mondo.
Due poesie di Livia Corona
Chat line
Ciattare
ciattare senza voce
ciattare con le dita
ciattare senza note.
Ciattare
ciattare in camicia
ciattare in ciabatte
ciattare tutta notte.
Ciattare
digitare parole
cicaleccio di tasti
contatti funamboli
sospesi nel vuoto
senza toccarsi.
Anime sole
in solitarie dimore
di un grande alveare.
Anime perse
nella rete dei sogni
ragnatele di illusioni
e l’evasione
diventa prigione.
**
Dita
non
servono più
per
stringere una mano
donare
una carezza
ma
per battere lettere
su
fredde tastiere.
“Ti
amo, sono un giovane
solo
e abbandonato.
Vuoi,
amore mio
riempire
questo vuoto?”
Urla
senza suono
il
maturo interlocutore
accanto
alla compagna
che,
ignara, riposa
dopo
la fatica quotidiana.**
Livia Corona
Fuori dalla mela
il verme s’affaccia
per prender aria
Un raggio di sole
il buio divora
sul verde prato
s’accende la viola
Dolce malinconia d’autunno
addio e promessa di ritorno.
Tre parole appena sussurrate
scalderanno il cuore delle fredde giornate.
Quadro d’autore tu,
umile foglia
in un autunno di sole.
S’inchina alla pioggia
la nuova foglia
trema un vecchio
nel suo freddo letto.
Magnetico il tuo sguardo
che fora il mio pensiero
nudo, innanzi al mistero
del tuo mondo lontano.
Gira e rigira il ferreo gallo
secondo il vento
di quel momento.
Il fumo delle candele
sale tra le volte delle chiese
chiede il santo
occhiali da sole.
IL LAGO
Il lago muto, triste, allegro
nella sua veste nella sua livrea falsamente autunnale.
L'acqua ferma, immobile,
inappuntabile, gioiosa nel suo colore imperscrutabile, riverso e trasparente
come l'anima di un dio virtuoso, di una vera dea vergine, dolcemente
accogliente nel suo seno scrigno di
vita. Il battello che attracca al pontile, silenzioso, solo un velato
sottinteso impercettibile inevitabile, ma completamente consono e
magnificamente apportatore di calma, inserito nel contesto ambientale, il
motore delle eliche batte, il cuore appena percettibile del lago nell'aria
immobile sospesa, il cielo la sostiene, greve, no, solamente delicatamente
perlaceo, negativo, ma non per me, uggioso; sono semplicemente felice, la lunga
pioggia come lacrime di gioia e non di noia che il cinereo giorno regala a chi
è puro di cuore o semplicemente un infingardo. Così mi sento parte del
paesaggio, mi sento a mio agio dentro il quadro.
Il personale di bordo che
assicura la passerella al piccolo lacuale molo. Uomini, marinai di lago, no,
aviatori, divisa impeccabile blu, cappello marziale, comandanti di un aereo che
decolla per l'eternità, per l'infinito in una giornata che esiste solo nella
mia mente o per chi ha uno stravolto sogno nel cuore da vendere ai passanti; mendicante
di turpiloqui inerti e falsamente chiassosi anzi del tutto muti.
Il lago, la bruma, un leggero
strato o meglio una leggera velatura di nebbia, solo umidità condensata sulla
distesa verde dell'acqua dolce del lago.
E dolce è questa visione che mi
calma l'anima in una giornata di giugno, di inizio estate.
Tiziano Rovelli
FASCINO LATINO
Siamo agli inizi degli anni ottanta. Antonio Cagliero è un bel
ragazzo di venticinque anni, alto quanto basta, asciutto, morettone, siciliano.
Il suo background tipicamente isolano lo porta ad esprimersi con un accento
della sua regione anche se lo si può definire di cultura media e di ceto
piccolo borghese. Sembra di ritrovare in lui il sole forte, il mare azzurro e
la terra polverosa ed arida della sua Sicilia; il profumo degli aranci e le
culture che nei secoli si sono sedimentate in quel luogo; non ultima la
dominazione normanna. Il trasparire di una certa nonchalance dei modi
ignota al laborioso lombardo. Armando
Rossi è insegnante nella scuola dove lo zio di Antonio esercita la stessa
professione da ben più tempo. Lo zio dice al nipote: vieni a Milano che ti
trovo una supplenza nella scuola dove insegno.
Armando naturalmente supponeva
che le cose fossero andate in questo modo dato il grado di parentela dei due
personaggi e dato che Antonio era giunto da poco dalla Sicilia giusto in tempo
per le assegnazioni delle supplenze annuali da parte del preside di
quell'istituto. A quei tempi gli insegnanti di educazione tecnica (tale era la
materia che Antonio e Armando insegnavano) erano due per classe e così si
ritrovarono ad essere colleghi nelle stesse sezioni. Insegnavano insieme. Era
il tempo della Milano da bere. Lo zio dinoccolato, tracagnotto, con due
occhioni bovini, professore di matematica, parlava con spiccato accento
siciliano e si muoveva e parlava molto lentamente. Pronunciava il nome Craxi
accentato sulla i finale e questa era una sua peculiarità. Sicuramente
era di supporto al principiante nipote. L'istituto, a causa di un numero di
allievi elevato, aveva una sua depandance costituita da un capannone. In quella scuola
di periferia il personale insegnante era costituito per lo più da meridionali e
il sabato nella depandance si svolgeva un particolare rito.
In un locale attiguo all'ingresso
i professori presenti imbandivano un banchetto in cui spiccavano specialità
culinarie calabresi: salame piccante,'nduia, formaggi tipici e naturalmente
vini bianchi e neri del sud e di buon corpo. Gli insegnanti venivano chiamati a
turno alla degustazione e spesso rientravano in classe non solo rincuorati ma
finanche allegrotti. Così, pur nel rispetto del servizio di insegnamento, si
svolgeva la vita tranquilla e amichevole in quella congregazione, così
potremmo chiamarla, di compaesani. Era facile e piacevole adeguarvisi. Antonio
e Armando insegnando a stretto contatto erano diventati amici. Naturalmente in
questa narrazione scolastica oltre i piaceri della buona tavola non
poteva mancare il sesso. La ragazza di Armando volle far conoscere Antonio a
una sua collega di lavoro, certa Giosy. Oppure era il contrario; la Giosy,
sentita la descrizione fattale, voleva conoscere questo ragazzo. Combinarono un
incontro. Un pomeriggio concordato terminate le lezioni Armando e Antonio si
recarono in auto all'appuntamento, all'uscita degli uffici dove le due ragazze
erano impiegate. Vai in fretta, siamo in ritardo, sorpassa la coda dalla
parte sterrata diceva animatamente Antonio. Mi farai rompere qualche
cerchio delle ruote contro lo zoccolo del marciapiede rispondeva
preoccupato Armando non ti preoccupare arriveremo in tempo.
Finalmente arrivarono al luogo
dell'appuntamento. Uscì dall'edificio nel frattempo una bellissima ragazza,
alta snella e raffinata, quella che volgarmente viene definita una gnocca da
paura. Antonio si interessò subito a lei ed anche la ragazza lo notò. Falso
allarme; non era lei che aspettavano. Finalmente uscirono la ragazza di Armando
e Giosy e iniziarono le presentazioni. Era inverno e si era fatto buio. Era
calata la sera. Salirono in auto tutti e quattro e andarono in una casa che
Armando usava come pied a terre. Giuntivi si avverò quello che Giosy e
Antonio si aspettavano. In una stanza dell'appartamento si appartarono e senza
neppure un letto, a terra, sicuramente si presero nell'oblio di una passione
temporanea. Si fece oltre la mezzanotte e i quattro tornarono alle rispettive
abitazioni. In auto, mollemente adagiato, sprofondato nel sedile posteriore
Antonio si trovava in uno stato fin troppo rilassato che sfiorava una
situazione precomatosa, si fa per dire. Probabilmente da tempo
immemorabile non provava simili delizie d'amore.
Tiziano Rovelli
PRIMA-VERA
Primavera di bolle vaga in gocce di pioggia
sui nostri diafani volti.
Incline è il venticello di aprile
ad asciugare fazzoletti di foglie smeraldine.
Viaggia il tempo sui pensieri
nello scorrere primavere di attese.
Boccioli di rose stanche
non si aprono alle rugginose rugiade.
Steli spinosi si piegano
e non è un inchino alla vita che non è
in questa primavera di morti.
Laura Margherita
Volante
LE PULCI
di Laura
Margherita Volante
La ragione manipola le emozioni nel cercare i motivi
della propria ragione.
*
Finalmente un po’ di sole!
Meglio sole col sole o sola pigliandosene una sola?
*
Gallina vecchia fa buon brodo, col vantaggio che non lascia
peli fra i denti…
*
Facile ridere quando tutto va bene…
ridere e far ridere è la più riuscita inculata alla vita
grama.
*
Usi e costumi
Le mamme non fanno più gli gnocchi,
ma fanno le gnocche.
*
Mentre l’uomo
pensa sempre alla fica,
le dolci fanciulle sospirano per pene… d’amore
*
I soldi fanno andare l’acqua in su,
ma spesso si trasforma in tempesta.
*
Coltelli e bacchette: i primi si macchiano di sangue,
le seconde dirigono l’orchestra o il cibo alla bocca..
Gli uni stanno alla violenza con le altre all’armonia
dell’anima
O del palato.
*
Diafani: non più di spirito, ma per disperazione.
*
Chi non ha pensieri è sempre dietro a rincorrere
pregiudizi.
*
Effetti speciali: tutti suonati come campane,
ma almeno suonassero a festa invece che a morte.
*
Usi e costumi
Non suona più il campanello
per la visita di un amico,
ma l’allarme per i ladri.
*
Segno dei tempi
È più facile per un ladro entrare indisturbato
che per un amico entrare senza disturbo.
*
Italia: il paese che di futuro ha solo il verbo.
*
La bellezza è tenuta in ostaggio per un riscatto
che non verrà mai pagato, e così muore accasciata
fra macerie e piccioni.
*
Pessimismo cosmico: fortunato chi non nasce.
*
Poesia
Nostalgia della terra,
dove si guardava il sorgere del sole
con le mani ai fianchi.
Gli occhi al cielo di lacrime lucente
per ogni goccia di rugiada
sulle labbra pronte ad un bacio,
il più amato.
Il tramonto lontano
svolgeva il giorno più lungo
e il più breve della giovinezza.
Ora il sole è chiodato sui sogni perduti
nell’illusione mai vissuta
ed è agonia nella polvere bianca
di chi malato non sogna più
e spira la vita tra nuvole di fumo.
Laura Margherita
Volante
IL RACCONTO
MARIANNA PEREZ
di Indira Maria Blanco Castillo
di Indira Maria Blanco Castillo
Lorenzo non
dimenticherà mai l’estate del 1958. Come ogni anno da quando frequentava l’Università, anche quell’estate, era tornato
al suo paese, San Juan, per trascorrervi le vacanze. Ma
quell’estate fu diverso. Il padre lo accolse con un sorriso compiacente, allusivo,
e abbracciandolo gli disse: “Domani ti porterò dalla Teresa, è arrivata una
figliola nuova che è un vero bocciolo”, e fece schioccare la lingua.
Il bordello di Teresa
Garcia stava quasi nel centro della città, in un palazzo vecchio dove al primo
piano c’era una boite e al piano di sopra
le camere da letto dove le prostitute portavano gli uomini. Alla boite le ragazze
servivano i liquori, mostravano le loro grazie, intrattenevano i clienti, e da
lì, salivano alle camere da letto. Teresa Garcia, la tenutaria, era una donna
ancora piacente nonostante i suoi
cinquant’anni; dal carattere energico e pretendeva che i clienti pagassero prima.
Appena Lorenzo entrò in quei locali riconobbe subito l’odore di alcol e patchuli che tante volte aveva
respirato. C’era un vociare di gente, il suono di un bolero di Marcos Solìs, e
delle coppie che ballavano in un angolo.
“È quella accanto a Teresa” disse il padre, ed indicò la
ragazza. Lorenzo la guardò, si era immaginato una sensuale mulatta dal grande
sedere, ma quello che vedeva era qualcosa di
completamente diverso: era una ragazza molto giovane di una bellezza sottile,
delicata, quasi eterea. Aveva la pelle olivastra, gli occhi grandi e neri, il naso
piccolo e le labbra grosse su una faccia ovale incorniciata da lunghi capelli
neri. Era magra, con grandi fianchi e gambe lunghe. Aveva un’espressione dolce e una certa
grazia che la facevano diversa dalle altre ragazze.
“È bellissima" disse Lorenzo. “E
tua” disse il padre.
Teresa si avvicinò e le
presentò la ragazza.
“Il mio nome è Marianna”
disse allungando la mano. Nel sorridergli aveva lasciato intravedere i suoi
denti perfetti che a Lorenzo sembrarono bellissimi.
La ragazza lo portò in
camera da letto e cominciò a svestirsi.
“Tuo Padre mi ha detto che
studi all’Università... diventerai un dottore”.
“ Avvocato”
“Poter studiare è una
fortuna”
In una società più giusta tutti
dovranno studiare” disse Lorenzo che era un convinto comunista.
Marianna lo guardò con
sufficienza.
“Sì, sì, certo... Non ti
togli il vestito?”.
“Certo” rispose Lorenzo, un po’ imbarazzato
davanti al corpo nudo della giovane.
Lei sorrise vedendolo nudo,
si sdraiò sul letto e lo invitò: “Vieni”.
Lorenzo esitò per un
attimo, era turbato, ma guardandola non riuscì a contenersi e si gettò sopra di
lei carico di desiderio. Le baciò quei seni rotondi ed eretti e penetrò dentro
di lei ansimando.
I giorni successivi non
riusciva a togliersela dalla mente; era la prima volta che gli accadeva una
cosa del genere: aveva perso la testa per una prostituta. Pensava a lei con
insistenza, si accorse di essersi innamorato di lei. Da quel giorno tutte le
volte che poteva andava al bordello, e se aveva soldi abbastanza li spendeva
con lei.
Spesso parlavano seduti ad
un tavolo, bevendo della birra
ghiacciata. In una di quelle sere lei gli raccontò la sua vita.
Era cresciuta in campagna
da genitori contadini, molto poveri, che sognavano per lei, la più bella tra le
figlie femmine, un buon matrimonio con un militare o qualche commerciante... ma
lei si era innamorata di un cugino. Così i suoi genitori decisero di cercarle
un marito, e lo trovarono in un vedovo proprietario terriero che aveva quasi
cinquant’anni più di lei.
“Potrei giurare che quell’uomo
ha dato dei soldi alla mia famiglia perché senza darmi alcuna spiegazione, un giorno è arrivato a prendermi
a cavallo, come se fossi stato un sacco di
patate comprate al mercato. Mia mamma mi
disse che con lui sarei vissuta molto
bene, mise le mie cose in un sacchetto di plastica e mi consegnò a lui. Io ero
molto ingenua e ubbidii; piansi disperata, avevo la morte nel cuore.
“Ho vissuto con quel vecchio in una casa grande
con gente al mio servizio che mi aiutava e mi trattava come una principessa.
Sono rimasta in quel luogo con Ernesto per sei anni, e lui è stato sempre molto
affettuoso e pieno di premure verso di me. I suoi figli però mi odiavano, ma io
sono stata sempre molto buona con loro. Ernesto era troppo vecchio per me, ed
io non potevo fare a meno di pensare a Reynaldo, al mio giovane e bellissimo
cugino, quando ero costretta ad andare a letto con lui. Alla morte di Ernesto i
suoi figli si impossessarono di tutta l’eredità e a me non toccò nulla, me ne
andai con qualche vestito che Ernesto mi aveva regalato nel corso degli anni. Sono
ritornata a casa più povera di prima, con mia mamma ammalata e mio padre che
riusciva appena a sfamare i miei tre fratelli più piccoli rimasti”.
Lorenzo era commosso,
l’attirò a sé e se la strinse forte; ne sentiva tutto il calore, le prese la
mano fra le sue e cominciò ad accarezzargliela. Sentiva che l’amava
profondamente, di un amore puro e avrebbe fatto di tutto per portarla via da
quel luogo. Di notte, da solo, nel suo letto pensava a come farle lasciare
quella vita... Se avesse potuto sposarla e vivere con lei!... Se solo l’avesse
conosciuta prima!... Ma ora era una puttana, una meretrice, era andata al letto
con tutti gli uomini del paese. Come accettare quel pesante passato? I suoi
genitori non avrebbero mai acconsentito a quell’unione.
Un giorno Lorenzo le disse: “Se vuoi venire
con me nella capitale possiamo vivere insieme nella mia camera”.
Lei lo guardò con un sorriso materno e chinò
il capo.
“Vivere con una puttana, Lorenzo? Io lascerò questa
vita solo se mi sposeranno, o se diventerò la querida di un uomo molto ricco”.
L’amarezza con cui aveva
pronunciato quelle parole, avevano fatto capire a Lorenzo che dentro di lei
c’era una grande sofferenza. Ogni volta che Lorenzo andava a letto con Marianna
usciva dal bordello giurando che l’avrebbe sposata, ma al mattino ritornava il
buon senso e i dubi lo tormentavano.
Sapeva che il generale
Martinez, l’uomo più potente del paese, visitava spesso Marianna, e questo lo
ingelosiva e lo preoccupava. Quella gente era pericolosa, se lui avesse sposato
quella donna le loro vite sarebbero state in pericolo.
Ah, quanto odiava quella
gente, quella oppressiva dittatura! Capiva più che mai gli amici che lavoravano
nella clandestinità per abbattere quel regime dispotico, per finire con quella
situazione fatta di abusi.
Doveva fare qualcosa al
più presto, tra poco sarebbe ritornato all’università e doveva andare nella
capitale per riscriversi. Sarebbe stato là per una settimana, suo padre gli
aveva dato delle commissioni e una buona quantità di soldi per pagare dei
debiti. Propose a Marianna di sposarlo in segreto. La ragazza accettò subito,
quella vita le era diventata intollerabile. Lui la baciò emozionato.
Giunto nella capitale,
Lorenzo ritornò a dubitare, a pensare ai suoi genitori, al suo futuro di
avvocato. Continuò a dubitare anche quando ritornò al paesino: con la famiglia
pronta a riceverlo come sempre con il tavolo riccamente imbandito per il
pranzo. Ma appena la rivide e Marianna l’abbracciò con la passione di sempre,
ogni dubbio scomparve. Lorenzo sempre più preso da quel sentimento, affrettò i
preparativi del matrimonio clandestino. Ma non ne ebbe il tempo. Una sera,
mentre era a tavola per la cena, la mamma lo fulminò con una notizia terribile.
“In paese è successa una
disgrazia, hanno ucciso una giovane prostituta del bordello di Teresa Garcìa”
Lorenzo impallidì.
“Dicono che a farla uccidere sia stato il generale
Martinez. Sembra che fosse uno dei suoi amanti; era pazzamente geloso. Dicono
che voleva lasciarlo, lasciare quella vita, per stare con il cugino con cui
aveva mantenuto un legame. Era molto giovane, pare che avesse appena ventidue
anni. Una
brutta storia”.
“Si chiamava Marianna”
aggiunse il padre, “Marianna Perez...”
A sentire quel nome
Lorenzo rimase come paralizzato, incapace di articolare parola; poi con una
furia spaventosa diede un colpo sul tavolo e gridò: “Bastardo!” si alzò di
scatto e corse verso la sua camera da
letto. Nello specchio del suo armadio vide la sua faccia contratta dal dolore,
i suoi occhi pieni di lacrime. Povera ragazza... che vita disgraziata. Lorenzo ebbe
pietà di lei.
Tre anni dopo il generale Martìnez
morì in un attentato; gli autori non furono mai scoperti.
Indira Maria Blanco Castillo, nata nella Repubblica Dominicana, è Avvocato, ha
lavorato per la emittente Radio
Educativa come direttrice del programma “Sabato Giuridico” (2004-2007) e come
articolista nel giornale “Listin Diario” della Repubblica Dominicana
(1997-2000).
Attualmente lavora nel
Consolato della Repubblica Dominicana a Milano, Italia, e scrive sul giornale
digitale “Al momento.net”.
PRIMAVERA. FANTASIA CROMATICA
Testo e foto di Paolo
Maria Di Stefano
I. Preludio
Ogni anno, alla fine di marzo e
fino a Pasqua, Milano arreda di fiori lo studio e il cantiere di Alessandra:
una festa e insieme un ricordo delle città fiorite di Francia.
Foto 1. magnolia in Cairoli Milano
La magnolia in largo Cairoli,
semplicissima e complessa, coloratissima, opera geniale di un progettista
assoluto, insuperato e insuperabile, è come un memento per l’architetto,
modello della perfezione alla quale ispirarsi.
E l’aereo pensiero che l’attende
ai giardini Perego, dove Alessandra ritrova se stessa minuscola e fragile come
il batuffolo bianco pronto a lasciarsi trasportare dalla brezza a creare nuovi mondi: un augurio, un presagio, un richiamo di
libertà. E dove io mi rifugio, quando la nostalgia mi assale, per rivederla
bambina.
“Papà, papà” – mi corre incontro Alessandra,
ansiosa nel cappottino color perla, l’allegro buffo baschetto preferito, rosso, appena appoggiato di
sghembo – “papà, c’è una mano che piange! Vieni a vedere…corri” – urge, mettendo la sua minuscola mano nella mia – “ andiamo,
presto!”
Poco più in là, in via Borgogna:
“vedi?”
Ha gli occhi dello stesso colore
del cielo, e tra gli occhi e il cielo mi indica la mano.
“Perché piange?” chiede, certa
d’una risposta che subito prova a darsi da sola: “ le manca la primavera”.
E dopo un attimo di silenzio “
quando sarò grande” – promette – “ le voglio regalare la primavera”. Annuisce e
guardandomi dice “vero che possiamo costruire la primavera?”
Non ha ancora cinque anni,
Alessandra, e nutre il sogno di regalare la primavera all’albero triste.
Con la stessa certezza di quando,
raccolto un raggio di luce, si porta la mano alla bocca per “mangiare il sole”.
Anche animata dalla speranza di
crescere come lo splendido fiore, forse rosa canina, capace di richiamare l’attenzione
seppur silente e nascosto.
Foto 4. rosa canina Milano
E le rose di piazza Scala, che
Milano dispone perché l’architetto possa ammirarle ogni volta ch’alza lo
sguardo dal suo tavolo di lavoro, pensosa e come armata della matita colorata
che dà corpo ai pensieri. Un omaggio e un sorriso all’architetto decisa e
sicura, sbocciata come farfalla dalla piccola fragilissima crisalide partita
per farsi accettare da Spielmann, l’architetto dei ponti.
Foto 5. rose in piazza Scala Milano
Ogni anno, alla fine di marzo e
nei giorni di Pasqua, Alessandra progetta e costruisce la primavera a Milano,
la città che è sua, della quale è parte e che ama senza condizioni. E più di se
stessa. Più ancora di sua madre e me.
Ogni anno, alla fine di marzo e
fino a Pasqua, Alessandra lascia Parigi, la città di luce dove ha imparato a
progettare i ponti sognati da sempre ed a realizzare i sogni che l’hanno fatta
architetto.
Ogni anno, alla fine di marzo e
nei giorni di Pasqua, Alessandra ritrova quella parte di sé che ha lasciato
sotto i portici della Scala e al chioschetto del Politecnico e da Toldo, il
massimo del gelato a Milano.
Ogni anno, alla fine di marzo e
fino a Pasqua, Alessandra torna a Milano, e la felicità ha la forma del
biglietto d’aereo e il colore del volto costantemente incollato al vetro
dell’oblò alla scoperta sempre nuova delle guglie del Duomo e della Madonnina,
raggio rappreso d’un sole speciale.
E Linate, e sua madre, e il suo
amore.
Di là dal vetro.
Alessandra costruisce la
primavera a Milano e sa che il lunedì di Pasqua niente potrà fermarla, nessuno
potrà impedire la nuova partenza. Il cantiere del suo ponte
l’attende.
II. Fantasia
Per Alessandra, Parigi è la città
della primavera infinita, al di là del tempo e delle stagioni. Perché primavera
significa progetti e rinnovamenti e cambiamenti e realizzazioni. Parigi è tutto
questo. E a Parigi Alessandra ha imparato a progettare. Quando è a Milano, é
come se i pensieri che mi manda ogni giorno si concretassero, e diventa realtà
il parlare con lei di quella Parigi che, vista con i suoi occhi, acquista un
sapore sospeso tra l’architettura e la poesia, la speranza e la nostalgia.
Alessandra mi spiega Parigi.
Il Sacro Cuore, là in fondo, come
cesellato tra le strutture del Centro Pompidou, sottolinea la capacità di
Parigi di creare armonia del moderno con una tradizione che è anche segno
distintivo della città, “perché Parigi – spiega Alessandra – è in grado di
accogliere ogni espressione dello spirito e dell’arte, senza preclusioni, senza
preconcetti. Da sempre. Forse più di Milano. Chissà, forse un giorno…”
Alessandra tace, pensosa: tutti e
due sappiamo che quel silenzio è la speranza di concorrere a costruire Milano,
un giorno.
“Lo ha progettato Renzo Piano”,
sussurra Alessandra come parlando a se stessa. Per lei, l’architetto genovese è
un sogno almeno per ora non realizzato. Ogni volta che ricorda il suo andare a
Genova con la speranza di incontrarlo, nella sua voce vibra la delusione per non
esser riuscita. Mai. Solo per gli impegni del maestro, ma…
D’improvviso, ride. “Sono stata
al Moulin Rouge.
Credo di essere riuscita a
fotografare lo spirito del vecchio mulino. Non è vero che sembra di vedere
uscire da un momento all’altro Toulouse Lautrec? E secondo me, se guardi bene
riuscirai a sentire Offenbach e il suo cancan, ed a vedere le ballerine,
addobbate come una volta.”
“Come se guardi bene? Tu ascolti
con gli occhi?”
“Certo che sì, anche con gli
occhi. Gli occhi sono gli strumenti di
ascolto delle voci interiori, che quasi mai si manifestano con onde sonore. Ma
se guardi bene… ecco: non senti? Ho pensato che il sentire con gli occhi sia un
buon modo per parlare di architettura. E un buon architetto è in grado di farti
ascoltare quello che vedi.”
La passione di Alessandra per
l’architettura sprizza da ogni poro, ed è forse più viva ancora di quando la
spingeva a superare ogni ostacolo fino alla conquista della laurea con lode. La
ricordo illustrare ai suoi professori lo spirito del ponte, quasi guidandoli
verso una bellezza che sembrava solo lei sapesse vedere. Non so perché, pareva
somigliare ad una farfalla danzante tra i fiori della creatività, dell’arte e
delle scienze, posandosi su ciascuno e subito abbandonandolo per toccare altri
mondi.
E quella lode, che per me è stata
come una luce improvvisa e vivissima guadagnatami, io, contravvenendo
all’ordine tassativo di Alessandra: non venite in aula. Ora capisco: il timore
di deluderci, forse, e anche il rischio di distrarsi per la presenza che
pensava ansiosa mia e di sua madre, sicurissimi invece del successo.
Quella mattina è rimasta
indelebile nei nostri ricordi, come la voce ancora bambina della piccolissima
che chiedeva con severità “via, obbediscimi!”.
E come ogni attimo, sempre più
vivo mano a mano che le assenze si moltiplicano e si allungano.
“Dunque, dicevi che un architetto
ti fa ascoltare quello che ti fa vedere…”.
“L’opera dell’architetto non è
che il contenitore di un anima che non è solo quella del progettista, perché è
anche propria della costruzione. L’architetto, in fondo, non fa che leggere il
pensiero del ponte e proporre un corpo adeguato. E’ così per tutto quanto si
costruisce, e quando è fatto bene si sente l’anima dell’insieme. Guarda
Parigi…”
Foto 8. Tour Eiffel e nuvole
Parigi
“Ricordi quando ero piccola?
Cantavamo “dai cieli bigi vedo fumar dai
mille comignoli Parigi”.
“Vedo panni stesi e parabole e
antenne. Ma non mi par di vedere comignoli che fumano…”
“Non è importante: quando lo
fanno, tutta la città sembra avvolgersi in un velo. Quello che conta, è che i
cieli di Parigi sono complicati, e l’inverno non scherza. E io ricordo che mi
hai insegnato a cantare: e penso a quel
puzzone di un vecchio caminetto ingannatore che si sta in ozio come un gran
signor. Insegnavi le parolacce ad una bambina…Vergognati”.
Il viso ha assunto l’espressione
di scherzoso rimprovero identica a quella che riusciva ad avere ad appena tre o
quattro anni.
“Ti piaceva, però, e ridevamo
tanto…E non era neppure una vera parolaccia!”
“E’ vero, mi piaceva e credevo di
dire chissà che cosa. Rido ogni volta che mi viene in mente. Quel puzzone d’un vecchio caminetto…
Credo sia una delle tante forme di nostalgia. Sai una cosa? A Place du Jour c’è
una scultura che per qualche verso mi rappresenta quando Milano e tu e la mamma
mi mancate di più…Allora vado a guardarla di nuovo, e mi sembra di vedere te e
la mamma quando siete stati a Parigi…A furia di tornarci, mi sembra di esserci
stata con voi. Ho l’impressione che quella mano sia messa lì perché i pensieri
non si disperdano, e quella testa potrà ritrovarli quando non sarà più a terra.
E poi, non ti pare che voglia raccogliere anche i pensieri della piazza o della
città?… Forse, è un modo per diventare parigina a tutti gli effetti. Te la
regalo perché così sei con me, quando…”
“Ricordati che non devi essere
triste e che la mamma ed io ti siamo vicini sempre. E sappiamo che tu sei con
noi. E comunque, sai di poter tornare quando vuoi!”
“Non ci penso proprio! Una cosa è che voi e
Milano mi manchiate, e anche tanto, altra è tornare. Io adoro Parigi e il mio
lavoro. Tornerò solo quando sarò in grado di lavorare per Milano.”
“A proposito, sei stata in piazza
Gae Aulenti? “
“Non ancora. Ma se vale la pena,
ci facciamo un salto?”
Andare in piazza Gae Aulenti con
un architetto è come fare un viaggio in un’altra città. Io la piazza la conosco
a memoria, e ne ho seguito la costruzione passo dopo passo, da osservatore
profano, ovviamente, ma anche da appassionato ricercatore di punti di vista non
consueti. Chissà se Alessandra ha preso da me un poco della sua passione per la
fotografia e della sua curiosità?
“Bella – ha commentato Alessandra
– e neppure estranea più che tanto. Sai cosa? Sembra che la piazza sia stata
ricavata dagli spazi residui dei lavori per le nuove costruzioni e le modifiche
di quelle esistenti. Con un approccio un po’ casuale, forse, ma l’architetto
Pelli è stato bravo. Chissà perché non è stato scelto un architetto italiano?
Ce ne sono di bravissimi e geniali, anche. Lo sai, vero, che non esiste al
mondo città che sia stata progettata in ogni particolare. Quello che tutti
chiamano “progetto della città” è in realtà un’idea di qualità della vita in
quella che è insieme prodotto e produttore di tutto ciò che accade. Da noi non è così.”
Quel “da noi” mi ha
tranquillizzato. Alessandra ha sposato il luogo in cui vive, è divenuta parte
di Parigi, è parte integrante del “cantiere che progetta e costruisce la vita”,
e che forse è ancora più grande e importante di Parigi e di qualsiasi altro
cantiere al mondo.
E dopo un po’ “Forse bisognerebbe
progettare un sistema di illuminazione adeguato. Per la piazza Aulenti, dico.
La luce è tutto. E riesce a fare tutto. Anche a cambiare una città, perché la
luce è anche un vestito ed una forma. Ecco: forse alla piazza manca un’attenta
progettazione della luce. Perché non mi mandi qualche fotografia? Chissà che
non venga un’idea…”
E subito, dopo una breve pausa:
“guarda cosa può fare una luce diversa a Parigi. Questa è la chiesa
degli Invalides: non sembra
un’altra cosa?.
Foto 16 notturno del Louvre
Parigi
E questa è un notturno del Louvre
e quest’altra è la Tour Eiffel.
A me piace pensare che sia il
ponte ad illuminarla. E penso qualche volta che la torre riesca a brillare di
luce propria e che sia la stessa luce che ha fatto di Parigi la Ville Lumière…
Certo, io sono sicura che più di un architetto abbia “fatto” le luci. A Milano,
forse, non esiste uno studio di progetti di luci per la città. Comunque, non è
uno spettacolo? “
Non mi era venuto in mente.
Alessandra ha ragione: la piazza Aulenti in qualche modo non brilla di luce
propria, e l’illuminazione tradizionale forse non è adeguata. E forse è anche
vero che a Milano, e quindi in Italia, non è facile trovare architetti che
progettino luce.
Comunque, Ale è stata contenta di
aver visto la piazza, per lei nuova. E mi pare le sia piaciuta.
Ma io un dubbio ce l’ho: se le
fosse piaciuta veramente, non avrebbe concluso dicendo “ora andiamo da Toldo”,
richiesta che mi aspettavo, perché il gelato al cioccolato fondente di Toldo è
a detta di Alessandra, cordon bleu in materia, assolutamente il migliore del
mondo.
Con il cono, il tovagliolino e il
piccolo cucchiaio Alessandra sembra tornare la bambina felice di qualche anno
fa, dignitosissima col suo mento ornato di cioccolata e il cappellino da basket
rosso. La guardo con la speranza che accada ancora, e che il tempo in
quell’istante cessi di esistere.
“Ieri, appena prima di partire” -
mi dice fermandosi di colpo davanti ad un passerotto in attesa sul tavolino di
un bar – “ sono riuscita a fotografare qualcosa alle Halles, sai…il
mercato…C’era un uccellino bellissimo che sembrava studiare la situazione.
Forse era un passero, ma…A proposito, lo sai che i passeri ogni giorno mangiano
venticinque volte il loro peso?”
“Quasi come te con il
cioccolato…”
“Guarda che è vero! A proposito
delle Halles: quando era pieno di gente e di cose e di rumori e di odori credo
fossero come la sintesi della città.
Peccato non poterle vedere com’erano un tempo. Ma un’idea la danno questi lavori, d’una
simpatia unica e di un naif spettacolare.”
“Sono bellissimi, vero? Pensa che
ora, qui sotto c’è la più grande stazione sotterranea del mondo.”
“Sono splendidi, hai ragione.”
“Hai visto cosa sono diventate,
le Halles? C’è di tutto, e tutto è contemporaneamente antico e futuro. Guarda.”
“Non sembra una gigantesca
cascata urbana? Soprattutto se le guardi riflesse, oppure da lontano…Una
cascata concettuale, perfettamente inserita tra costruzioni cariche di storia…
E poi, queste sculture…! Concretano la libertà della
creatività e dicono come sia possibile vedere diversamente.
“Non vedo una gelateria, però” –
provo a scherzare – “forse vale la pena di proporre di farne una alle Halles.
Specialità, un cioccolato diverso…Per esempio, cioccolato al sedano e
carciofo…”
“A Parigi esistono gelaterie note in tutto il
mondo.
Foto 24 gelateria Parigi
E i gelati sono buonissimi, e pure innovativi e qualche volta strani. Un po’ come tutta la cucina francese. A proposito, mi fai mangiare gli spaghetti come li sai fare tu? Lo sai che siamo stati noi italiani a portare il gelato nel mondo? Non le conosco ancora tutte, ma ogni sabato vado in una gelateria diversa, di quelle che contano. Ho notato che curano moltissimo l’aspetto, l’arredamento, la vetrina: sono dei veri e propri quadri urbani. Guarda questa, per esempio: ci sono andata sabato scorso.”
E i gelati sono buonissimi, e pure innovativi e qualche volta strani. Un po’ come tutta la cucina francese. A proposito, mi fai mangiare gli spaghetti come li sai fare tu? Lo sai che siamo stati noi italiani a portare il gelato nel mondo? Non le conosco ancora tutte, ma ogni sabato vado in una gelateria diversa, di quelle che contano. Ho notato che curano moltissimo l’aspetto, l’arredamento, la vetrina: sono dei veri e propri quadri urbani. Guarda questa, per esempio: ci sono andata sabato scorso.”
L’occhio si fa pensoso, lo
sguardo sembra raggiungere orizzonti lontani, quasi un pellegrinaggio nel mondo
dei gelati francesi.
E la conclusione “Ma nessuno ha
un gelato al cioccolato come quello di Toldo”.
E questo mi ricorda che a casa
Alessandra troverà il suo uovo di cioccolato fondente, il più amaro possibile.
Una sorpresa che si rinnova ogni anno, che Ale conosce e si aspetta, ogni volta
fingendo uno stupore di bimba.
E sarà felicissima, anche del
fiore colto a Brera e che conserverà tra gli abbozzi dei suoi progetti.
E lunedì, a Pasquetta, se ne
andrà.
III. Fuga
Alessandra ha lasciato accanto al mio PC questa fotografia.
Noi Gerusalemme
di Renato Seregni
Quante morali, quante verità su ciò
che siamo o crediamo di essere, meglio ancora sulla relatività
dell’essere. Noi Gerusalemme: città dalle multiforme identità e
dai molteplici significati. Noi Gerusalemme: città della pace, città
senza Dio, città delle appartenenze, città crudele, città
metafisica, covo di fanatici. L’oscurantismo di questo periodo ci
sta facendo ripiombare tra le peggiori pagine del passato.
Allegramente subiamo una cultura gaglioffa e squalificati vincitori
assurgono a modello esaltando il dogma della sfrenatezza del potere.
“o esseri umani, meglio sarebbe stato per voi non nascere. Se siete
nati, meglio sarebbe morire presto”. Attrazione libidica, pettegola
e vanesia da salone per capelli. Politica quaresimale: la forza
dell’innovazione del bello a venire. Ora l’inganno ha il profumo
di spogliati desideri. Ed è bello, a colori. Serali laiche preghiere
esaltano profeti di facezie, mentre la ragione si esalta al bar per
un goal di rapina e paludati presuli barattano divine indulgenze con
mammona. Tutto è ammesso, menzogne e spergiuri. La vergogna un
vanto. Il male deborda. Oggi si trasforma l’etica in dietetica e la
salvezza dell’anima in salute del corpo. Siamo su una petroliera
che continua a scaricare inquinanti in mare e non sappiamo quanti
anni ci vorranno per ripulire il tutto. Noi Gerusalemme, dobbiamo
trovare nuovi paradigmi di vita in cui tutte le culture, le
religioni, le appartenenze possano riconoscersi in un nuovo universo
di diritti capace di correggere le ingiustizie del mondo. Mescoliamo
storie di ieri e di oggi per avere un po’ di consapevolezza della
realtà. Se il buon Dio alberga nel dettaglio, noi Gerusalemme
fuggiamo da tutto ciò che ci circonda, ci condiziona più di quanto
crediamo, e cerchiamo una chiave per uscire dal passato ed entrare
nel futuro. La verità, come la libertà, quando arriverà, avrà un
vestito semplice.
ADALBERTO BORIOLI IN MOSTRA A CREMONA
Venerdì 28 marzo 2014 la
Galleria Delle Arti, via Bonomelli 8, Cremona si è inaugurata la
personale “…e lentamente prende forma” di Adalberto Borioli, a
cura di Gabriella Brembati.
Adalberto Borioli
|
Con questa mostra del maestro Adalberto
Borioli prosegue la collaborazione tra la galleria Delle Arti di
Cremona e la galleria Scoglio di Quarto di Milano, a cui la galleria
Delle Arti ha affidato la gestione delle mostre che verranno
allestite nei propri spazi. ADALBERTO BORIOLI è nato a
Milano nel 1936, ha studiato affresco presso la scuola d’Arte del
Castello Sforzesco. Dal 1962 il suo lavoro è stato presentato in
numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero, tra
cui si ricordano le più recenti: Istituto Italiano di Cultura
(Bruxelles 2006); Commissione Europea (Bruxelles 2006), Biblioteca
Salita dei Frati (Lugano 2008), Lapis Ludica (Palazzo delle Stelline,
Milano, 2009), Biennale dell’Incisione (Cremona 2009), Jean Cocteau
a Vigoleno 2011. la sua attività di incisore inizia a Urbino nel
1980 e, a contatto con gli incisori che vi operano, realizza diverse
lastre. Ha ricevuto numerosi premi, sia per la pittura che per
l’incisione (tra cui il 1° premio nella II e nella VIII Rassegna
Nazionale dell’Incisione di Nova Milanese) e segnalazioni in
diversi concorsi d’arte. Nel 2003 realizza una incisione per il
testo teatrale di Mario Luzi “Il Fiore del Dolore”, edito da
“Archivi del’ 900” Milano. Numerose plaquette sono edite da
“Pulcinoelefante” e il “Robot Adorabile” con aforismi e
poesie di vari autori che accompagnano i suoi lavori. Sue opere si
trovano in collezioni pubbliche e private in Italia e all’estero.
Nell'arte di Adalberto Borioli le
immagini più lontane sono quelle che sembrano più vicine all'emozione di uno spazio
senza misure, dissolto nel flusso del colore, costruito su presenze impalpabili che
sono sempre sul punto di svanire. In questo viaggio in terre sconfinate
la pittura esprime il suo segreto legame con la musica ,non subisce i suoi mutamenti
d'orizzonte, anzi lascia che ogni traccia luminosa sia fatta di rapide
vibrazioni. Essendo Borioli anche musicista non si può comunque dire che ciò che vale per la
musica vale per ogni altra forma d'arte, infatti la pittura esprime valori
talmente specifici da non poter essere trascrivibili, se non per analogia comparativa, con
l'universo musicale coltivato con passione e competenza. Il colore può essere
definito solo all'interno dei propri meccanismi interni, non a caso la doppia identità
del colore-suono corre il pericolo di deformare la valenza dell'uno e dell'altro. In
tal senso Borioli concepisce il colore come elemento che s'irradia nello spazio in una
complessità di direzioni tale che non è possibile progettare ma solo intuire
nell'esercizio del linguaggio su se stesso, sulla forza magnetica del suo potere
allusivo. Ben lontana da tentazioni di carattere analitico la pittura è una visione
circolare che agisce sui propri fondamenti, stratifica colore su colore per interrogare il
senso del suo profondo distacco dalla prassi imitativa del mondo. Anche la memoria
del paesaggio è una risonanza che l'artista coltiva senza alcuna intenzione di tipo
naturalistico ma come filtro percettivo che asseconda il desiderio di cogliere la
luce velata delle forme, il suo carattere indeterminato fino al limite dell'astrazione.
Claudio Cerritelli
Catalogo in mostra: con testo critico
di Claudio Cerritelli
|
Inaugurazione: venerdì 28 marzo 2014 dalle ore 18,30 Visitabile sino al 31 maggio 2014.
La Galleria Scoglio di Quarto (ONLUS) è
nata ad iniziativa di Gabriella Brembati nel 1998 in via Scoglio di
Quarto, sul Naviglio Pavese, in uno dei quartieri più
caratteristici, antichi e affascinanti di Milano.
Una casuale,
storica concomitanza con la "Partenza dei Mille", che
coincide con l'esigenza che l'arte contemporanea ha di conquistare
spazio e consenso della gente, per aprire un mercato ancora
inadeguato al tanto che avviene in questi anni. Da alcuni anni si è
trasferita presso la riva sinistra del Naviglio Pavese, in via
Ascanio Sforza, 3, Milano
Dal 1998 ha allestito nei propri spazi
123 mostre tra personali e collettive. Ha inoltre curato 27 eventi
espositivi e rassegne in spazi pubblici e privati in Italia e
all’estero tra cui citiamo le mostre:
Tavola Rotonda (Museo di Albissola
d’arte moderna, Palazzo Boglietti di Biella –
Società Umanitaria, Milano) –
Triccabballacche (Serata futurista alla Società Umanitaria, Milano)
– Pensieri d’Arte (Consolato Italiano in Casablanca, Marocco) –
Convergenze Parallele (Palazzo Boglietti, Biella) – Carosello
Italiano (Antica Pretura di Castell’Arquato - Museo dell’Energia
a2a, Milano – Palazzo Boglietti, Biella) – Contemporaneo
Italiano (Istituto Italiano di Cultura, Bruxelles e, in
permanenza, presso il Palazzo del Governo UE, Palazzo Berlaymont,
Bruxelles).
Di ogni mostra effettuata esiste nel
nostro archivio il catalogo e un’adeguata documentazione
(fotografie, riscontri sulla stampa, filmati ecc).
Per informazioni:
Scoglio di Quarto, via Ascanio Sforza
3, Milano - tel. 3485630381 -0258317556
E-mail:
info@galleriascogliodiquarto.com -
Sito:www.galleriascogliodiquarto.com
FILASTROCCA DEI NO (contro i violenti)
Guerra alle lotte sanguinolente
diciamo no ai litigiosi, ai più rabbiosi
a chi strilla da prepotente e a perdifiato
a chi sgomita e strattona senza
riguardo per i piccini
a chi strappa gli steli e getta i fiorellini del prato,
tira la coda al cane a al gatto,
a chi calcia come un somaro
e molla pugni ai bimbi vicini,
a chi fa bizze e capricci ovunque, anche
al supermercato.
Vadano subito in punizione,
quanti corrono all'attacco
con graffi e morsi come animali,
e insistono senza rimorsi né pentimenti.
Diciamo no a chi fa cadere con uno sgambetto,
a chi vuol vincere a tutti i costi,
e non combatte ad armi pari,
diciamo no a tutti i violenti.
***
FILASTROCCA DI CHI NON ARRIVA
PRIMO AL TRAGUARDO,
non c'è nessuno
se gira lo sguardo,
a chi ha un poco o tanta paura del buio,
dell'orco, del lupo, di non so ché,
della sua ombra che è troppo scura,
a chi conta sulle dita: uno, due...non più di tre,
al più piccino che cade spesso
dal solito gradino,
a chi vuole smalto e rossetto,
a chi vorrebbe il gioco nuovo del suo amichetto,
a chi succhia ancora il ditino
a chi sbava col pennarello,
a chi fa ancora pipì nel lettino,
a chi non acchiappa mai la palla,
a chi ha un dente che traballa
a chi mette le dita nel naso
a chi canta sto-na-to nel coro,
a chi chiede un altro cartone animato,
anziché correre nel verde del prato
a chi cerca sempre la mamma,
che lo rassicuri, lo prenda in braccio.
E a chi sta solo, soletto:
diamogli tutti un bel bacetto.
Graziella Poluzzi
MILANO LA STRADA CHE PARLA
Corso di Porta
Ticinese
Testo e foto di
Paolo Maria Di Stefano
“Quale è la strada più colta di Milano?”
Il sorriso aperto, già divertito e in qualche modo ironico
della giovane architetto dagli occhi
verdeazzurri fatti di luce accompagna la domanda, subito ripetuta : allora? Lo
sai?
Non credo di avere una risposta, anche perché non credo di
aver compreso bene. Certamente, però, Alessandra gioca con me, e dunque…
“Forse… via Manzoni -provo, senza convinzione- o via Procaccini?...via
Dante…piazza della Scala…?” Credo di appartenere a quel genere di persone
che a malapena ricorda il nome della via
in cui abita da cinquant’anni, e dunque mi arrangio come posso, pescando tra i
nomi dei grandi ai quali Milano ha certamente dedicato una strada.
“ Perché ridi?”, chiedo.
“Ti do un aiuto: oltre ad essere la via più colta, è anche
la più ironica…”
Che sia un aiuto lo dice lei. In realtà per me, che ho già
qualche difficoltà sul reale significato di “strada colta”, la cosa si
complica, e non di poco, se devo aggiungere l’aggettivo “ironica”. E penso
subito a George Bernard Shaw, al quale però non credo Milano abbia titolato
neppure un cortile e, subito dopo, a Jerome Klapka Jerome, che a mio parere ha
avuto identica sorte. Provo anche ad associare “ironia” a qualche grande
musicista che Milano ricorda con vie e piazze e magari monumenti: nulla da
fare. E non perché manchino i nomi: soprattutto, perché da quando ho raggiunto
l’età della ragione mi sono accorto che l’umorismo e l’ironia dei musicisti è
qualcosa di inesistente o anche -forse, più spesso- di opinabile. Ricordo i
tentativi di battuta di un tenore molto spesso ospitato in quella che era,
allora, la radio di Stato: da piangere!
Mi decido: un altro aiutino…
“E’ anche una strada che potrebbe insegnare all’università.
Se non indovini, vuol dire che non conosci Milano”.
“Via Galileo Galilei? Via Petrarca? Via Verdi? Via Einstein?... Avanti, non ci
arriverò mai”.
“Facciamo un patto: tu mi accompagni, così la vedi. E se
vieni con me, ti faccio anche conoscere la più bella ragazza di Milano”.
Non ho mai troppo da fare, quando si tratta di Ale. Di più,
a me piace infinitamente passeggiare per Milano con lei, che della città è
innamorata persa.
Come da rito, la prima cosa è passare sotto il portico del
teatro. Alessandra entra nel mondo delle eco della Carmen, la sua preferita,
del Ballo in Maschera (ai cui temi, soprattutto ad uno del paggio Oscar, le
piace accennare quando siamo in macchina), del requiem di Mozart, a suo dire il
massimo della musica. E poi, un poco più in fretta verso piazza Mercanti e
l’Ambrosiana e via Torino.
E come di rito, sosta al gelataio. Cioccolato fondente.
“Ottimo. Ma quello di Toldo è migliore” (Alessandra è una
esperta in gelati al cioccolato).
Colonne di San Lorenzo.
E l’invito: “Guarda”
Corso di Porta Ticinese.
Una strada che si annuncia con un volto di donna dipinto sul
portone datato di una vecchia casa bisognosa di restauro, di fronte alle
colonne - severe, ma non più che tanto, ormai - non può che essere del tutto
particolare, una eccezione all’anonimato della maggior parte delle vie di una
grande città, forse con l’esclusione di quelle del centro.
Un volto di donna come questo stupisce e crea aspettative
proprie dell’improvviso, della sorpresa.
Il ritratto è certamente la concretizzazione di un sogno, e
sembra fiorire dagli appassiti graffiti.
Sento traballare quella che per me é una certezza: il
rigetto per i grafitari in genere e per
le opinioni di chi pensa che le loro secrezioni possano essere considerate una
forma d’arte, magari anche ritenuta colta proprio perché primitiva ed
elementare. E addirittura c’è chi pensa al grafitaro come ad una specie di
filosofo. Naturalmente, sul fronte opposto tutti coloro che sanamente e
realisticamente al rigetto estetico associano quello economico, costituito da
somme talmente ingenti per ripulire le facciate ed i muri che i Comuni non solo
pensano di abbandonare una lotta rivelatasi impari, ma anche di obbligare i
proprietari delle abitazione (e degli uffici e dei negozi) a ripulire a spese
proprie. Che per il principio delle traslazione delle imposte significa che
tutti noi pagheremo per la restituito in pristinum delle costruzioni.
Solo un dubbio. Esistono manifestazioni indiscutibilmente
dedicate all’arte di strada, quella dei “madonnari”, per esempio, per la quale
tutta la fatica dei benpensati appare sprecata, nonostante riescano ad occupare
spazi molto più rilevanti di una parete, per “pulire” i quali si sostengono
costi non del tutto trascurabili. E che dire delle sculture di ghiaccio? Il
massimo, secondo me, appartiene però a quelle “sculture di cioccolato” che
veramente insozzano -queste senza dubbio alcuno- il centro delle “città del
cioccolato”.
Alessandra il suo gelato al cioccolato lo ha finito. E da un
pezzo, credo, almeno a giudicare dal tono con cui mi chiede a cosa sto
pensando.
E subito “Prendiamo il tram e andiamo a Porta Cicca”.
“ Credevo volessi camminare…”
“Sì, ma se andiamo a piedi leggi le targhe della strada dopo
aver visto quello che devi. E se le leggi prima, capisci meglio”.
L’architetto è diretta nelle sue affermazioni. Non te la
manda a dire. E certamente non ha molta fiducia nelle mie capacità.
Ci provo: “E se ti seguo ad occhi chiusi?”
“Prendiamo il tram…”
Pochi minuti, una fermata soltanto.
“Guarda. Hai mai visto una targa come questa?”
E subito dopo, indicandomi gli archi poco più a vanti, a
destra,
Vedi quella? Si chiama Porta Cicca. perché in spagnolo Chica
significa piccola, e la Porta del
Cagnola evidentemente è considerata piccola, appunto.
Ma mi faccia il
piacere!... E’ il residuo delle sigarette che si chiama Cicca, e… Qui a Milano
non te ne passano una. Senza cattiveria, ma non risparmiano niente e nessuno.
E infatti qualcuno ha sottolineato l’ironia, sottile e
chiarissima a un tempo che sembra animare il rettilineo che unisce senza
fantasie particolari d’architettura San Lorenzo alla Porta, tanto da proporlo
quale completamento della targa stradale.
“E’ una targa bellissima!”
stabilisce Ale
“Sì, vabbé. Ma tu mi hai detto che è la via più colta di
Milano e che, per di più, insegna”.
“Creatività: contemplare l’ordine senza sottrarci al
disordine” E’ quello che hai sempre sostenuto tu, papà: non hai sempre detto
che la creatività consiste nell’usare ciò che si ha in maniera diversa?Pensa
che l’ho detto al professore…
Bel rischio! E che ti ha detto?
Nessuna risposta. Ma so che quello è stata una delle tante
lodi del libretto, e dunque non mi preoccupo. Almeno, non è stata danneggiata.
Guarda: non ti pare bellissimo?
Leggo: “ironia, l’amante più fedele della verità”. E ancora:
“immaginazione: il prato quando incontra il cielo”.
“E’ come il poema del mondo” – quasi sussurra Alessandra. –
“e guarda questo…”
“Nasciamo quando lo scegliamo, vivi si diventa.”
Alessandra si è fatta pensosa: il suo sguardo è
lontanissimo. Poi, d’improvviso “ndemm a l’ura
alegra", suggerisce di nuovo felice.
Non ho capito, ma decido di stare al gioco e, nel mio scarso
e probabilmente sbagliato milanese “’ndua te voeles andàa?” chiedo,
aspettandomi la risata che arriva immediata, puntuale, cristallina.
“L’ura alegra è la traduzione milanese di happy hour. Hai
bisogno di lezioni di milanese. Guarda”, e mi indica un’altra serie di scritte
su fondo nero.
Dal profondo dei miei ricordi, ecco delinearsi una
caratteristica propria della città: usare il dialetto per tradurlo subito dopo
ad uso dei “milanesi” altri, quelli che nati altrove, hanno concorso a fare di
Milano la città che conosciamo e che, pur criticandola e spesso a ragione,
tutti amiamo al punto di non poterne fare a meno. Anche segno, questa traduzione
in tempo reale, di una cultura dell’accoglienza che sembra aver fatto di Milano
un unicum tra le città italiane.
E la città in qualche modo si descrive al passante,
elargendo pillole di saggezza nella lingua che le era propria, subito
traducendola per il milanese di oggi.
Che per me ha un ricordo particolare di quando, al
parcheggio del grattacielo Pirelli, di fronte all’allora esistente e fortunato
Gonzales, assistetti all’epilogo un dialogo esasperato tra il chiocciante
barese posteggiatore e l’automobilista autoctono. Un alternarsi di suoni
vagamente familiari, ma non del tutto intelligibili -almeno per me- con i quali
il barese piccolo e mobilissimo cercava di giustificare la richiesta di danaro,
alternando squittii appena intelligibili con una ripetizione quasi infinita di
“scornacchiaeto” a livello sempre più alto,
mentre l’autoctono -non più che tanto meglio strutturato, ma molto più
statico- ululava più o meno “l’è lu…la g’ò trouvàa inscì… mi paghi no,
terrun…ma ndua l’è ‘l ghisa?... mi paghi no, t’è capì, grattacul de la
matocina"? Conclusione in crescendo di un duetto tra acuti e bassi, quasi
uno scontro di esasperata sintesi storica tra due civiltà e culture
diversissime, per caso a contatto sotto uno dei simboli allora massimi della
nuova e diversa “terra di lavoro”.
“Vedi come la strada insegna a tutti?Questa è essenza del
milanese vero. Chiunque può venire qui ed imparare i rudimenti della lingua.
Persino tu.”
Leggiamo insieme cristalli di saggezza antica, dimenticata
dai più, sottovalutata dai pochi che appagano una curiosità che richiede attimi
di lettura.
E magari, qualche pensiero più tardi.
E Alessandra, assunta l’aria consapevole della milanese doc
nata e cresciuta a Milano, traduce e mi spiega.
“Chi lassa la via veggia per la neuva, ingannaa se troeuva,
ma se te moeuves minga te fa la moffa”, che non è la solita minestrina italiana
del “chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non quel che
trova”. A prescindere dal fatto che non è detto che chi cambia strada veramente
conosca quella fin lì percorsa, l’adagio milanese è tutt’altro che l’invito
alla prudenza spinta fino all’immobilismo. E’ lo spirito d’una città che odia
l’inerzia che ti avverte che, se ti muovi, hai almeno il vantaggio di non fare
la muffa. A mio parere, almeno una delle ragioni che hanno fatto di Milano
l’imprenditrice di successo che è stata e, non ostante tutto, rimane.
In piena consapevolezza, se devo credere a chi ha messo a
disposizione dei passanti quel “a far divers di alter se ciappa su del matt”.
Mera constatazione, e non invito ad un adeguamento che, se
praticato, certamente si rivelerebbe fatale proprio per quella creatività che
quasi all’unanimità si invoca e che tutti pensiamo essere una caratteristica
fondamentale della gente italica.
E tutto in nome di una concretezza atavica: “né danè né pan
né pagn no fann mai dagn”, subito chiarito, ad uso dei milanesi non antichi i
quali, comunque, almeno a giudicare dal comportamento dell’estensore, non hanno
alcun bisogno della traduzione di “el sta meij il ratt in bocca al gatt d’on
povr’omm in man a l’avocatt”.
“Mi piace credere che l’Autore di molte delle cose scritte
sia questo signore qui”, richiama la mia attenzione Alessandra.
Chissà se l’autore del ritratto di questo vecchio signore
intendeva veramente dare un volto agli autori dei proverbi citati. Certo il sorriso vagamente ironico e lo
sguardo intelligente trasmettono bonomia condita da un pizzico di quella ironia
che pervade il corso.
Si tratta certamente di un saggio pensatore, forse
addirittura l’incarnazione dello spirito del corso ed autore anche delle
pillole di cultura che poco più avanti ci aspettano.
Ho trovato assolutamente coinvolgente la citazione di Paul
Valery “non sempre io sono della mia opinione”, che è un modo gentile per ricordare
che solo gli imbecilli non cambiano mai idea. Ma anche un modo per indurre a
prendere atto che tra pensiero e azione può esservi una differenza ed anche
importante, e che “la mia opinione” non solo può cambiare, ma può essere
discordante dalla mia stessa pratica. Che può anche essere una diversa lettura
di quel “ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano
occupati” di un Bertold Brecht il quale forse voleva proprio sottolineare il
fatto che, non ostante fosse convinto di aver ragione, aveva deciso di
comportarsi come se riconoscesse pubblicamente di aver torto.
E che dire di quella definizione della certezza come “il
chiodo fisso a cui appendiamo le nostre illusioni”?
Ancora. Confesso la mia ignoranza: non so chi sia il Sandrini
che scrive “Spirito: come difenderci se ci manca? Circondiamoci di persone cui
manca. Come difenderci se non ci manca? Circondiamoci di persone cui non
manca”. Non conosco l’autore di questo che per me è rascelianamente un giovane
presto, ma voglio credere che abbia voluto denunciare a un tempo la difesa del
proprio Io dagli attacchi dei “diversi” e il comportamento di politici,
imprenditori e manager, i quali hanno una caratteristica in comune: se proprio
non possono circondarsi di gente simile a sé, cercano compagni di viaggio meno
dotati di spirito, a scanso di rischi. Che mi sembra esattamente la ragione
dell’inferiorità dei risultati politici, imprenditoriali, manageriali e
culturali di cui l’Italia pare non accorgersi.
E se attribuisco alla gran parte dei nostri politici quel
“poverino, non riusciva a emergere dalla superficie delle cose”, ebbene: il
quadro dell’Italia e degli italiani di oggi mi appare affidabile.
E per qualche verso ha un che di definitivo questa
considerazione sulla crisi:
Che mi pare dimostri anche come Corso di Porta Ticinese
tenda ad aggiornarsi, seguendo in tempo reale l’evoluzione di una vita che
sempre più complessa e fonte di problemi la cui soluzione è quasi sempre ed
unanimemente cercata facendo riferimento al passato. Dimenticando, io credo,
che un problema che si presenta oggi può essere -e quasi certamente è- simile
ad un problema già vissuto. Ma simile, appunto: non eguale. E la similitudine,
la somiglianza, è più vicina alla novità. E’ una novità in sé.
E allora, “se hai l’intelligenza di vedere che il problema è
nuovo e che quindi anche la risposta deve essere nuova -le vecchie risposte non servono-, se hai
l’intelligenza per rendertene conto, allora il problema è una grande
opportunità”.
Chi sa se l’Osho che firma questa nota è lo stesso che
scrive :
Non lo saprò mai, credo.
Ma credo che il Corso, ospitando le opinioni dei cinesi,
intenda anche dare un segnale preciso circa la disponibilità ad ospitare tutti,
di qualsiasi razza e colore e provenienza e religione e cultura sia.
E non è un caso la comparsa di decorazioni dal sapore
indiano.
Così come non è un caso questa sintesi estrema contro un
sistema economico che sembra trovare giustificazioni in ogni angolo dello
scibile e del pensiero. .
Eppure qualcosa mi spinge ancora a reagire “vecchia
maniera”.
Dico ad Alessandra che non mi sembra giusto che le pareti
dei palazzi, le saracinesche, i marciapiedi, ogni spazio debba essere deturpato
da scritte e disegni.
Anche perché ripulirli costa, e non poco.
A prescindere, ovviamente, dal fatto che tutto si può dire,
meno che siano belli.
Alessandra inalbera l’aria della pazienza comprensiva di un
gap generazionale incolmabile, e non per colpa dei giovani.
“Perché, forse questi ti sembrano brutti?”
Passiamo da un marciapiedi all’altro, perché io possa meglio
vedere ciò che Alessandra mi indica. E non posso che esser d’accordo. Può darsi
che il giudizio di bello e di brutto sia una valutazione del tutto personale e
senza dubbio opinabile, ma in quante Gallerie d’Arte, anche a Milano e non
solo, si espongono tele ed opere diverse molto ma molto meno belle di queste?
Con in più un vantaggio, a favore di questa arte “da strada”, che Alessandra
non manca di sottolineare:
“si tratta di lavori che non vogliono fare e neppure essere
la storia. Vogliono solo decorare una strada, toglierla dall’anonimato e
renderla più piacevole ai passanti”, dice con quell’aria saggia che assumeva
quando, bambina, sentenziava “non si tatteggiano le bambine, perché hanno il torsolino
piccolo”.
Confesso di aver avuto una sorta di illuminazione: che le
bambine non debbano essere picchiate perché sono fragili è forse la stessa cosa
che sostenere che questi artisti o quasi sono in fondo troppo indifesi e deboli
per essere condannati. Per loro non si aprono gallerie d’arte o sale
d’esposizione, e neppure salotti più o meno ben frequentati, e dunque non
possono che arrangiarsi per trovare spazi ed esprimersi.
E l’anonimato è spesso il solo scudo che li possa in qualche
modo difendere dalla condanna dei benpensanti.
Ricordo che un mio allievo all’università, figlio di un
ricco chirurgo e dunque con tutte le carte in regola per raccogliere ed
utilizzare le risorse necessarie per realizzare dipinti ed esporli, anche
facendo sì che i giornali se ne occupassero, preferiva decorare i sottopassi,
tanto temeva il giudizio della “casta colta alto borghese”, certamente non
incline alla destabilizzazione provocata dall’opera di un figlio ribelle.
E ci sarebbe molto da dire, al proposito.
Una cosa per tutte: il tono di disprezzo con il quale si
parlava (e forse ancora si parla) dell’arte decorativa come arte di secondo
livello, o addirittura di non arte.
Come se avessimo la certezza di che cosa l’arte sia.
E allora, qualcuno potrebbe spiegarmi perché questa
decorazione della Vineria non possa essere
considerata un’opera d’arte?
E perché non si possa parlare di “arte” a proposito della
saracinesca della farmacia?
Al massimo, penso, io mi innervosirei un poco se fossi il
farmacista: la gente potrebbe immaginare che acquistare medicine e consigli da
me porti direttamente ad una cerimonia funebre, magari in quella bella chiesa.
E la scoperta continua, ed Ale è una guida stupendamente
attenta.
“Guarda questa decorazione. E’ in un angolo… forse nessuno
la nota. Ma hai visto che ci sono anche le coccinelle in rilievo? E sembra
più bella e più viva della pianta che si
vede a destra…”
Ed è sempre Ale che richiama la mia attenzione sulla scritta
quasi nascosta che recita un pensiero forse veramente di Pablo Picasso.
Per me, si tratta di una verità assoluta che, forse, spiega
anche il perché si parla tanto dei giovani e per i giovani si fa sempre troppo
poco. Forse, noi che siamo quelli che dovrebbero fare, in realtà a furia di
ringiovanire per il trascorrere del tempo dimentichiamo quello che andrebbe
fatto, perché non ancora sperimentato, ed quindi non vendibile neppure come
dato d’esperienza.
E i giovani l’esperienza vogliono farsela da soli.
Allora, può anche significare che il passar del tempo ci fa
giovani perché suggerisce sempre nuove esperienze. Basterebbe porsele come
obbiettivo, e giustificheremmo la nostra gioventù ritrovata.
Corso di Porta Ticinese: non esiste un solo angolo che
appaia disinteressato a quello che accade, e che non conservi memoria viva di
quanto è accaduto, anche riproponendosi all’occasione, quasi portavoce di chi
del costume è critico.
E di chi propone comportamenti etici obbligati per gli
altri, soprattutto se persone importanti e di successo, molto meno per sé.
Sempre, però, con un inconscio riguardo particolare al modo
più che alla sostanza. Così, nessuno o quasi ricorda la storia di Kennedy e
della Monroe e nessuno o quasi guarda con severità ad Hollande, i quali con
fortune diverse hanno “saputo fare” o almeno ci hanno provato, mentre rimane
viva la memoria di Clinton e della stagista alla Casa Bianca così come quella
delle serate di Arcore.
Che è, tra le altre cose, una dimostrazione dell’importanza
dell’antico adagio est modus in rebus che non è solo un richiamo alla
moderazione, ma anche proprio al “modo di fare”.
Battute a volte feroci, come questa, sintesi estrema di una
storia che si credeva limitata a qualche politico italiano e comunque finita,
ormai, nel dimenticatoio.
Forse è così: qualcuno, ed è anche probabilmente giusto, ha
dimenticato. Ma non le pietre, che sono base di una memoria dalla vita
lunghissima, più che spesso rinnovata da episodi nuovi e diversi, ma molto
simili almeno nell’immaginario della gente. E neppure gli intonaci e le pareti
e le saracinesche dimenticano così presto come accade per l’umana memoria.
La quale non va poi per il sottile più che tanto e nel tempo
è portata a guardare con stupore chi ricorda e magari anche condanna in nome di
un’immagine i cui contorni sembrano vaghi e sconosciuti ai più. Ed anche
giustifica, in nome di quel “così fan tutti” che ha avuto, è vero, nella sua
versione femminile l’onore di un genio musicale come Mozart, ma che al maschile
suona in maniera assolutamente diversa, anche se la materia – la seduzione e il
sesso- rimane la stessa.
E si può anche sostenere che se la moderazione è un
principio (forse) immortale, il “modo di fare” ha il senso della caducità delle
cose ed anche è un segno importante del trascorrere del tempo.
Che non è soltanto proprio della vita degli uomini. Il volto
di donna che annunzia oggi il punto d’inizio del corso, a ridosso del
colonnato, di là dei binari del tram, è divenuto questo:
forse meno sognante, più consapevole, in qualche modo meglio
coerente con una realtà per la quale la dolcezza è divenuta poco più di un
ricordo, e troppo spesso solo segno di debolezza.
E con un’ombra di descrizione di una sorta di escort,
mutazione di quelle cortigiane un tempo indicate almeno come un esempio da non
seguire, oggi divenute donne in carriera, professioniste alla ricerca di un
successo in qualche modo meno aleatorio, per le donne, di quello possibile in
azienda.
L’inquietudine dei tempi
di Renato Seregni
La cultura senza
la politica non ha gambe. La politica senza la cultura non ha testa. Ora
abbondano sorrisi e dichiarazioni a effetto, è il giudizio estetico-estatico
che governa la scena, non quello politico. Chiediamo troppo se la nostra ansia
di giustizia attende che l’ansia di giustizia dei molti risponda? Chiediamo
troppo all’oggi di non lasciarsi agire da umori farseschi e inganni
illusionistici giocati con l’astuzia dei mercanti, l’alterigia dei politici, e
l’ordinata crudeltà del formalismo ingannevole dei servi? La stagione
dell’impegno, inteso come militanza politica senza se e senza ma, non è finita
solamente per gli intellettuali, ma per tutti. Oggi il potere ha una condotta
assai più subdola. Delle sue leve classiche, rimane vincente soprattutto la
seduzione del denaro. Così, siamo persi. Viviamo nell’epoca del
disorientamento, non sappiamo più dire cosa sia vero o falso, destra o
sinistra, uomo o donna, vita o morte. Galleggiamo agganciati all’egoistico Io,
Senza un progetto condiviso, una trama. Solo il tifo calcistico, ultima
rappresentazione sacra rimasta, supera l’abisso tra Dio e l’uomo. Noi tutti
dobbiamo ricucire un orizzonte di senso. Il nostro ago è l’innovazione, il filo
è la nostra storia, la nostra cultura. Chiediamo troppo di tenere viva la
memoria di questo paese per riconoscerci nell’eredità del passato e vivere il
presente con consapevolezza e il futuro con speranza? Speranza: promessa o
inganno. Divinità doppia, incostante letizia di chi si affida e teme. Speranza
è vivere trovando le ragioni per continuare il cammino. Prendere posizione è
inevitabile. Ora le carte si sono rimescolate. Dobbiamo continuamente vigilare
sulla compatibilità dei mezzi rispetto ai fini, sulla coerenza rispetto ai
principi professati. Il potere non distrugge chi opera contro, prova a
comperarlo. Come aprirsi un sentiero praticabile tra diversi enunciati, come
vedere la realtà e la sua epica meglio di qualsiasi tentativo realista? Il
razzismo, come le guerre, migliora i
buoni, punisce i deboli e animalizza i malvagi. Attorniato dal silenzio. Così
voglio vivere questi giorni! Tra brividi metafisici e situazioni comiche meglio
apparire insensati e vivere le
contraddizioni del mondo come atto di fede. Noi, quali rabdomanti tra le
essenze dell’esistenza, restiamo in perpetua ricerca con i diversi, senza
pretendere di essere uguali e disponibili alla stima reciproca come al dialogo
vicendevole. Noi, proiezione mentale di un’opera futura, sì ancora chiediamo.
di Antonio Lubrano
Al centro della foto Antonio Lubrano |
Lo incontro al bar tutte le
mattine. È un pensionato da 500 euro al mese (per sua dichiarazione spontanea),
i capelli color cenere, un recondito accento meridionale. Sorbendo il caffè il
signor Saverio mi fa notare che i sacchetti dei rifiuti qui a Milano sono
sempre più miseri. Dice proprio così: “Miseri”. Nel senso che prima vi si
trovava ancora qualcosa di buono da mangiare, adesso zero. Immagino che lo
abbia constatato di persona. “Ed ecco che forse un barlume di sobrietà sta per
illuminare la nostra quotidianità”. Sembrano dei versi.
Ebbene, fateci caso: questa parola
–sobrietà– torna sempre più di frequente nei discorsi di tutti i giorni. È come
una ipotesi, tesa a neutralizzare gli effetti della recessione. È come
un’aspirazione dopo anni vissuti sopra le righe. È come una rivalutazione del
nostro ieri, perché forse c’è stato un tempo in cui i nostri padri, le nostre
madri, i nostri nonni vivevano in maniera diversa, con più misura.
Per
quelli di una certa età come me, figli di metodi educativi ora considerati obsoleti,
la possibile scoperta o riscoperta della sobrietà ha un valore consolatorio.
Vivaddio! Dunque, non siamo vecchi bacucchi che credono ancora al decoro, al
risparmio, alle regole? Francamente fui sorpreso qualche anno fa dalla notizia
che il non ancora pregiudicato Berlusconi girava proprio con le sue mani
l’interruttore quando lasciava a notte inoltrata l’ufficio di primo ministro a
Palazzo Chigi. Proprio lui che di notte faceva e forse fa ben altro…
Come sarà felice lassù la signora
Clotilde, mia madre, che lungo tutta la mia fanciullezza mi ha tormentato con
un ordine perentorio: “Spegni la luce ogni volta che esci da una stanza!”(lo
faccio tuttora, è un riflesso condizionato). E mi puniva con sonorissimi
schiaffi quando disobbedivo. “Ricordati -aggiungeva-
che tuo padre lavora sull’acqua salata e guadagna il denaro col sudore della
fronte!” Verissimo. Un giorno il
capitano di mare Giuseppe mi regalò una moneta d’argento da cinque lire e io
sentii al tatto che era bagnata...
Va detto, per la storia, che la
tendenza a ripensare i sistemi di vita si è manifestata molto prima della
crisi. Già nel 2004 da un monitoraggio de ‘Il
Sole 24’ ore veniva fuori il graduale mutamento delle “modalità di
consumo” ispirate , scriveva il più importante giornale economico italiano, “a
una maggiore sobrietà e oculatezza”. Nel quinquennio successivo sono nati i
Gas, ossia i Gruppi di acquisto solidale, e in molte famiglie è cominciata la
lotta agli sprechi. Sarà il caso di ricordare qui qualche dato significativo:
nel 2009
la società che gestisce i rifiuti a Milano realizzò una indagine per conto dei
panificatori della città e scoprì che nei sacchi della spazzatura ogni giorno
finivano dai 130 ai 150 quintali di pane. In quello stesso periodo le famiglie
italiane buttavano via il 12% degli alimenti, addirittura il 30% di quel che
mettevano in frigo. Adesso le cose vanno meglio, siamo al trionfo degli avanzi,
come testimonia a suo modo il pensionato Saverio.
E anche questo, a guardar bene, è un
ritorno al passato. Ieri gli spaghetti che restavano a pranzo diventavano
frittata a cena, giusto per fare un esempio. Oggi che la moneta a disposizione
si fa sempre più scarsa, cala anche la tendenza a fare la grossa spesa al
supermercato una volta alla settimana, mentre cresce la spesa giornaliera che
consente di controllare meglio le immediate necessità e di evitare il
superfluo.
All’epoca della prima crisi
petrolifera (1977) fu Enrico Berlinguer, leader del Pci, a indicare al Paese la
strada dell’austerity. Oggi invece è la famosa rivista Time che in copertina parla di “nuova frugalità”(The new frugality
) e vale per tutto il mondo. Negli anni Settanta, oltre alle domeniche a piedi (“liberiamoci
della schiavitù della macchina, la passeggiata fa bene alla salute”, scrivevano
i giornali dell’epoca per incoraggiarci), prendemmo ad apprezzare i surrogati,
l’orzo ad esempio in luogo del caffè. E oggi non ricordano forse i surrogati
quegli alimenti “a marca privata” prodotti dalle grandi catene di supermercati?
Costano meno e peraltro sono ottimi. C’è di più: negli hard discount i prodotti
esposti negli scaffali sono senza nome o hanno marchi a noi sconosciuti. Ieri
suscitavano diffidenza, adesso si assiste alla rivincita dei “negozi a sconto
duro”.
Mutati i
comportamenti anche al ristorante. La Federconsumatori ha condotto una indagine
dalla quale risulta che le cene sono calate del 50%. Diversi ristoratori, sia a
Roma che a Milano e a Napoli, mi hanno raccontato che i clienti raramente ormai
ordinano “il completo”, ossia antipasto, primo, secondo e frutta. Adesso le
ordinazioni si limitano a un piatto base, che sia primo o secondo, e frutta.
Acqua e vino, certo, ma un bicchiere.
La sobrietà. Dove altro può farsi
strada? Nel mondo politico, pensiamo tutti. Giusto. Siamo stufi degli eccessi.
Di fronte al progressivo impoverimento di interi gruppi sociali una maggiore
serietà della classe dirigente si imporrebbe, dunque. Almeno, dico, per aiutarci a sperare che l’Italia saprà sottrarsi al baratro.
ll decoro, infine. La dignità nel
comportamento, nei modi o nell’aspetto non è l’altra faccia della sobrietà?
C’è
sicuramente da registrare qualche segnale. La Regione Abruzzo, per esempio,
proibisce agli autisti delle auto blu di portare “orecchini, piercing visibili,
spille, braccialetti, collane, catene in
genere, anelli”, esclusa ovviamente la fede nuziale. Niente sandali, zoccoli, stivaletti
col tacco, scarpe aperte; banditi i calzini corti, la barba lunga, i capelli
incolti e, pensate un po’, gli abiti di lino che si sgualciscono facilmente.
Be’, se
l’ordinanza della Regione Abruzzo trovasse degli imitatori, potremmo davvero
parlare di ritorno al decoro. Ma solo per gli autisti? Mi colpisce in ogni caso
la chicca dei calzini corti. Come se bastasse a liberarci dalle mezze calzette…
Foto di Livia Corona |
Mi sento gatta innamorata
della luna sul tetto
più alto della città
sotto le mie fusa,
che pregano le stelle
per un amore perduto,
ma attaccato al cuore
come scia al sole,
che domani tornerà.
Ma cos'è il domani,
è già adesso
dietro la pallida luna,
che se ne va
per lasciar posto
all'amore gridato al cielo
in un miagolio eterno.
Laura Margherita Volante
Sì, no, niente
di Renato Seregni
L’Occidente
ininfluente, nutrito di malsano muscolarismo e rugoso realismo, s’affida alla seduzione artistica del non finito. La
corda della stupidità serve solo ad impiccare i poeti. Terra, paesaggio,
occupazione, futuro. Forse ci sarà qualcuno in qualche retrobottega, su qualche
cocuzzolo o tra i molti di un autogrill, che elaborerà i germi del futuro.
Capire il mondo: è più difficile seguirlo che precederlo. Anche le posizioni
più nobili hanno dei missionari imbecilli. I semplici e gli eroi vivono di
disobbedienza. Giovanna d’Arco e Antigone sulla calcinculo del potere. Non
esistono più le mezze ragioni. Niente di meno politico, o di più antipolitico,
è concepibile in questo autismo della politica. Il business primario resta
l’illusione. Lodevole rivoluzionario: cercare il pelo nell’uovo a microfono
acceso. Nei libri di storia si privilegia la fede in una idea, non quello che è
successo veramente. La separazione dei poteri non serve a chi non ne ha mai
avuti. Il futuro è un vicolo cieco, un miraggio che sorge dal nulla, una
inutile attesa in mezzo al nulla. Il dubbio trasformato in metodo. Lotte di
successione: lealisti e traditori, boiardi e accattoni duellano in sala mensa
contro la recessione. Azzerato il sapere, tutto crolla quando gli specializzati
prendono il posto dei colti. Cellulari in concerto all’Elevazione, e Dio
ascolta. Distinguiamo le mode effimere dal nuovo che ha valore e supera il
tempo. La paura porta alla stupidità e alla malvagità. Phone centers a Bahia,
jazz a Bagdad, bancomat in Tanzania. Globalstupidità. Se non ti intercettano
sei un nessuno. L’umiltà mi veste a pennello, modestamente. Tutta l’Europa va
alla deriva. Il razzismo è come la politica: migliora i buoni, punisce i deboli
e animalizza i malvagi. Il concetto di “prossimo” e il rispetto per gli altri
non sono prodotti dalla scienza. Si comincia dalle parole e poi, e poi, si
naufraga nel Mediterraneo. Riflettiamo sull’arte e sui sentimenti che agitano
l’esistenza umana per avere la prova dell’esistenza di Dio. Nei sogni la realtà
sommersa viene a galla.
Tale e quale
di Renato Seregni
Sul presepepaese splendono le cinque stelle Michelin
e gli operatori locali accorrono per ingraziarsi lo sponsor. Umori e amori,
passioni e devozioni per chi vuol saziarsi come Dio comanda. Internauti
globalizzati quale impegno dello
spirito per un aldiquà di raccolta punti in attesa di un aldilà paradisiaco.
Populismo: innamoramento di ricette semplici, per quanto banali e smentite
dalla storia. Nel Medioevo e per molto tempo ancora, se non raggiungevi il
punteggio, potevi fare un mutuo. Innocenzo IV, nell’anno 1254, inventò il
Purgatorio per salvare, giusto il tempo per la riscossione, i peccatori
dall’inferno. Plebaglia, regnanti, prelati e usurai. Redenzione: pensiero che
incendia il puro formalismo. Ricomporre strumentalità e senso. Non a caso
funzionò come una banca moderna. Nessuno ha colpe. Cercatori d’ombra, sfuggenti
allo sguardo del Giusto. Udienza papale: ottantamila. Fede e/o folclore. Dal
vitello d’oro alle Regioni d’oro. La lusinga del potere sempre si impone con
idee stupide in un mondo sempre più complesso e tutti rubano.. Sull’argomento,
il frate domenicano Girolamo Savonarola severamente denunciò, a Firenze, vizi e
pericoli insiti nella decadenza delle istituzioni. Il Magnifico, unitamente a
Papa Alessandro VI, mandò arrosto l’eretico. Fondo di tenebra nell’orto
della mente. Credulità e superstizione, sono i sottoprodotti degeneri delle
religioni. Prudentemente il Purgatorio non venne mai trasformato in dogma, e
ora, sgonfiandosi come una bolla bancaria, è fallito. Ancora oggi, viviamo
immersi nella fede supina nel mercato, in attesa che sia lui a restituirci ciò
che ci ha tolto. Vendiamo il vitello in pancia alla vacca. Resurrezione:
l’ottimismo dell’ottavo giorno. Dio, Dio mio, il nostro aldilà è cosa troppo
seria per essere gestita dai devoti banchieri del Vaticano.
LA VIGNETTA DI VITTORIO SEDINI
Segnali di Fumo
Voci dentro urlano per dire. Dal cantico dei cantici al ruggire mieloso dei politici. Saturo di silenzio - musica del viandante - ancora chiedo: verso dove? Attraversiamo il disordine, quotidianità selvaggia, smascherando vocazioni speculative e servilismo impiegatizio di cittadini “votati all’assenza”, sciocchi cognitivi alla deriva dell’impegno, adagiati sulla sabbiosa approssimazione degli accadimenti. Amo l’umanità, ma non capisco l’uomo. La politica senza cultura diventa mortale. Tra conoscenza e grido: il futuro aprire al senso delle parole. La storia: esperienza delle grandi ingiustizie e nostalgia del totalmente altro. Qui e ora. Dal Magnificat a Marx: sete di fame e giustizia. I “professionisti del sapere” si dividono in due. Chi afferma con dito perentorio: ascoltami quanto sono bravo, e chi si pone analizzando ed esaltando l’importanza a la bellezza della conoscenza.
Noi, somma di tanti. Noi, diversi e uguali tra la complementarietà delle conoscenze e complessità dei percorsi. Noi, a fronte dell’assurdo mistero della fede: invocandola, sfiorandola e alle volte, abbracciandola. Attraversare il disordine, consultando vecchie mappe, aggiornandole con nuovi percorsi. Complessità della modernità. La chiarezza nella disposizione degli argomenti, nulla può quando essi sono false rappresentazioni. Chiesa mammona, gerarchia senza tenerezza. La fede non sa, la fede chiede. Esperienza dell’assenza, le paure che ci abitano. Cose del “terzo mondo”: riserva di mano d’opera a disposizione di un capitalismo senza regole. Profitti altissimi, condizioni disumane. Eufemismo da salotto: “un aiutino ad un paese in via di sviluppo”. E si muore per la pancia dei ricchi. Umana Divinità: sulla croce, anche Gesù non vuol morire. La nostra salvezza non è nella sofferenza, ma nella sovrabbondante ricchezza delle differenze che fanno mondo. Nevrotici e perbenisti. Siamo circondati da paure ora irragionevoli ora, sottovalutate. Epidemie e catastrofi, quali il traffico stradale e le condizioni climatiche. Speculazioni da ciarlatani. Istrioniche chiacchiere dominano una planetaria conventicola di inconsapevoli idioti. Mestizia di poeta. La vita buona è tutto ciò che si realizza nella comunità degli uomini, nella profonda partecipazione alla vita del tutto. Cataclisma ambientale e metodologico. Cittadini contro, come atei praticanti seduti in chiesa per dissentire dalla predica. Anime belle, accanto al benessere individuale c’è un prezzo da pagare. Veemente nelle analisi e sbrigativo nei giudizi, buttò all’aria il vecchio e decrepito ieri e teorizzò un nuovo ciclo produttivo nel tempo determinato per un futuro da ruderi a tempo indeterminato. Paradossalmente e provocatoriamente eppure magistralmente, Nietzsche afferma: la storia è utile per la vita solo quando è soggettiva e guarda al presente. L’umiltà intellettuale sarebbe veramente una rivoluzione clamorosa. Cittadini in transito. Teorema: spostare il centro del dibattito dall’eterno “chi” all’attuale “che cosa”. Coraggioso l’uomo che per primo assaggiò un’ostrica. In mezzo a tanti geni, voglio incontrare uno specchio per non sentirmi solo. Confessione tardiva: ho fatto molto meno di quello che sono riuscito a comunicare. Comunque, la fuga è sconsigliabile.
Nella foto: Renato Seregni
LUCIDA FOLLIA
Renato Seregni
Quando la cultura crolla a pezzi, quando la morte delle ideologie distrugge tutti i punti di riferimento, quando la visione del mondo si annebbia, cosa resta di questo scompiglio? Resta la paura. Strumento subdolo per annusare e analizzare l’attualità, il costume, gli umori della contemporaneità. Sentimento di cui tenere conto, ma da cui bisogna non farsi dominare. Tuttavia, lavica, la paura ci invade, non lascia spazio alla riflessione. Cerchiamo rifugio nelle vecchie abitudini, placebo esistenziale contro il logorio di una esistenza sempre più imprevedibile, dove si continua a dire l’indicibile e a non fare il fattibile. Se fossi né carne né pesce, la mia angoscia non decresce. Urla la radio ai carrellanti da supermercato, attaccati come cozze alla golosa spesa. Il nero, tutto copre e tutto annulla. Viviamo di paure riflesse. Ciò che accade da una qualsiasi parte di mondo entra, a colori, nelle nostre case super blindate facendoci gustare l’umana impotenza, mentre noi, ipocritamente addolorati, ci sentiamo appagati nella nostra confortevole estraneità. Vedere l’invisibile nella società “bignamista”. L’infermeria televisiva propina zuccherose pastiglie, quale esercizio di cattiva coscienza di una classe cinica e bara. Stagnazione delle idee, tepore della banalità, appagati ci abbandoniamo saputi all’autopsia della notte. Al semaforo sconosciuti si guardano con livore, al verde, come in curva da stadio, volgarità e ignoranza pigiano sull’acceleratore. Beceri, misogini e razzisti, corrono il rosario implacabile degli indici di borsa, condizioni meteorologiche, situazioni del traffico e l’agrodolce oroscopo, arruffando scelte e umori. Paura dell’altro, del domani, dello specchio, del foruncolo. Paura del buio, della malattia, dei sentimenti. Paura di una amicizia. Sprofondati nella paludosa quotidianità, sbraitanti corvi di sventura ci illudono con radiose promesse. La felicità ad ogni costo è una rovina. Di ciò dovremmo avere paura. “Ogni calzatura di soldato che marcia rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno dati in pasto al fuoco”. A maggior ragione, superiamo il muro spesso delle paure ed avere paura delle nostre paure. Artificio del nostro destino.
Gente di box
Di Francesco Sirico
Quella che si nega alla facciata dello
stabile dove io vivo-in un distretto di periferia- è una porzione della città
che non disdegno affatto di osservare, cioè quella parte interna e un po’
indocile, che si può scorgere da uno dei terrazzini posti al di sotto, e
parecchio, del pianerottolo. Questa parte sembra possedere qualcosa di defilato
e appartato e anche di non convenzionale (forse esagero), che mi affascina non
poco. È un qualcosa che assomiglia,
alla lontana, e lo trasmette, ad una vivida sensazione da retrobottega. Mi
regala il privilegio di ammirare le vicissitudini cromatiche del sole in certi
angoli del giorno ferito-o dovrei dire forse del tempo (ne produco qui un
esempio spocchioso: una striscia di rosso fortuita si distende sulla fronte
dell’edificio per poi precipitare irreale sull’asfalto e indenne lottare,
sempre cromaticamente, col marciapiede, per giungere infine alla mia pupilla: graziosi
dettagli-dettami di un tramonto, comunque inenarrabile, di periferia), e poi l’evidenza
di tetti, abbaini, l’abbaiare del mio cane, qualche volta panni stesi ad
asciugare nel vento, che a tratti dispensa
come un sentore benigno, da pasticceria: aspetti che a me appaiono più veri, e
trascurati. Per qualcuno forse un po’inconsistenti. Ogni piano ha il suo di
terrazzino e io ne scelgo uno abbastanza alto, diciamo il terzo, che
otticamente mi permette, ottimo esercizio per l’anima mia, di evadere senza ostacoli,
affrancandomi dal grigiore. E cercando di evitare l’occhieggiare pungente dei
condomini:un rischio obbligato e in fondo felice per una poesia come questa, un tantino impopolare, e sottile. Da lì vedo
anche spesso una vecchia che lava la tapparella, perfino quella, con conclamata
patologia, con irritante costanza, e direi, anche, con un “physique du role”.
Di certo un affronto per me che detesto pulire la casa, pur ammettendone l’importanza, e in ogni caso sacrificandomi. Il mio stabile ha nel cortile un albero la cui base offre accoglienza a sacchi e oggetti vari, talvolta inseriti clandestinamente. Si tratta di un materiale ben nascosto tra i rami e che non crea,quindi, alcun disturbo estetico. Si fa notare questa pianta perché sembra, a conti fatti, una specie di grotta o capanna, essendo come accartocciata in un angolo. Su un’aiuola attigua si osservano-un po’vanitosi- tre alberi di Giuda:uno di essi, curiosamente, con un suo prosperoso ramo preme contro il muro, come se cercasse di stiracchiarsi o fuggire. Ma la sfortuna ha voluto che quel muro fosse proprio quello che funge da confine con l’altro condominio e che è stato danneggiato, e fortemente, da tanta insofferenza. Quasi inutile aggiungere che i proprietari del muro- che è piuttosto alto, e grigio, come una sorta di muraglia- sono furiosi e hanno chiesto i danni e l’abbattimento dell’albero “ribelle”. Questa nuova vicenda è un’ulteriore conferma dell’inquietante stranezza del mio stabile. Il secondo albero non presenta alcun carattere speciale, e vivacchia, e infine il terzo, stroncato in tempi non recenti dal giardiniere, e del quale non resta ora che un tronco desolato. Come anche per gli umani, zattere senza approdo, anche la fine di un albero è sempre nefasta e qualcuno, io per esempio, ha anche pianto in quella circostanza, facendo probabilmente ridere alcuni soggetti locali, tutt’altro che romantici. Poi c’è Aldo, il nostro gatto condominiale, che spesso, quando l’aria non è ostile, si adagia sul davanzale e scruta l’ambiente, e noi. Il bello dei gatti è che si piazzano, disinvolti, nei posti più impensati, come in bilico. Hanno sempre tempo a disposizione(per loro fortuna), e sanno rilassarsi. Ma di tutto ciò che il mio sguardo raccoglie, sono i box per le auto che accalappiano i miei pensieri, o meglio chi li frequenta, smarrendone la primitiva funzione, abusandone.
E c’è gente che vi trascorre buona parte della sua vita ad armeggiare, a fare lavori manuali, ad aggiustare, tra olio di macchina, cacciaviti, martelli, morsetti, silicone…Molti cucinano anche, grigliano per lo più, e rivestono il pavimento con mattonelle di qualità, rendendo l’ambiente finemente, caldamente domestico, e sfuggendo talvolta a mogli moleste, che magari odiano gli odori del cibo in casa. Si allargano insomma. Con la scusa di parcheggiare… Per me che rappresento l’opposto, sono degli esseri umani di un’altra sensibilità (ma per l’uso “culinario” dei box li comprendo benissimo), forse perché io, in passato, ho sempre associato, sbagliando, la manualità alla rozzezza, alla grossolanità. Come Rimbaud: “Che secolo manuale! Io non avrò mai le mie mani…”. Nella mia disturbata immaginazione risaltavano quelle officine da meccanico o elettrauto di quando ero ragazzo che io percepivo come luoghi di assoluta freddezza, dove l’unica nota “umana” era rappresentata da un pastore tedesco che di solito il capofficina allevava, probabilmente per sfruttarlo la notte come guardiano. Io consideravo il cane una vittima; come snaturato, infarcito di una triste meccanicità, invece di correre gioioso e scatenarsi nel grembo della cara, confortante Natura. Avrei voluto accarezzarlo, per consolarlo, ma non lo facevo perché sapevo che quella razza non è di tutto riposo. Di solito, era mio padre a portarmi con lui nelle officine, per qualche riparazione. Mio padre era un esempio molto efficace di assoluta, o quasi, negazione per la manualità, che io ho in parte ereditato. È sicuramente vero che i bambini imparano ciò che vedono fare ai genitori; è un sapere che si trasmette, in un certo senso, misteriosamente. In modo simile, quelli che vivono in una casa piena di libri è più probabile che diventino in età adulta dei lettori. Comunque, non possedere un minimo di abilità manuale è una forma di incompletezza (o peggio), come il non conoscere per niente la matematica o ignorare del tutto l’informatica. Anche i distributori di benzina, e di conseguenza anche i benzinai come esseri umani, io li vivevo dentro come conduttori di freddezza e gelo, e anch’essi avevano spesso un cane nella loro area, forse con le stesse mansioni. Insomma, tornando agli abitanti dei box, io vedo un po’ anche oggi questa gente che passa intere giornate là dentro come relegata in una vita disfatta e materiale, un po’ ai margini,come disertata dalla luce e dalla felicità. Naturalmente, io sto sbagliando su tutto perché emotivamente parto influenzato da impressioni infantili ma soprattutto non appartengo al genere di persona che si dedica alla manualità; mi capita di fare qualcosa, certo, ma di sicuro non rientra tra le mie attività ricorrenti e forse non ho talento.Ma devo dire, anzi, che ammiro, anzi invidio, chi possiede una buona abilità manuale, che considero un aspetto importante del “grounding”.Un radicamento nella realtà. Probabilmente, anzi sicuramente, quelle saranno per loro ore piacevoli. Detto ciò, lo confesso volentieri: vorrei essere anch’io un uomo di box, con la matita sempre sull’orecchio, come i vecchi falegnami.
MILANO SURREALE
di Tiziano Rovelli
1.
La casa dove sono nato non c'è più.
La casa dove ho vissuto i primi otto anni della mia vita, la mia
infanzia, l'hanno demolita perché vecchia e fatiscente ed ora non
esiste più. Al suo posto un'altra costruzione nuova. Non esiste più
quello spazio. Quello spazio specifico, particolare, unico,
unicissimo, dove io ho vissuto i miei primi attimi di vita.
Microcosmo indelebile impresso nella mia mente, nei miei neuroni.
Fin dai primi respiri dei miei polmoni
ho visto, ho visto migliaia di volte, ho rivisto e quindi rivisto, ha impregnato la retina oculare.
Ricordo di aver guardato quel cortile
dalla porta della mia abitazione al terzo piano di quella casa, dalla
porta appoggiato alla ringhiera. Mille volte l'ho guardato, in tutte
le stagioni dell'anno, in condizioni di luce e di illuminazione le
più diverse e le più disomogenee oppure le più omogenee. Con il
sole forte, o con le nuvole o con la neve, o nel buio di una giornata
invernale quando il cielo è completamente coperto, plumbeo, chiuso e
tu ti senti , alla vista di quel cortile, come chiuso in una scatola.
Ho visto lo spazio di quel cortile, anche con gli occhi della
memoria, anche nei sogni, distorto nella sua realtà oggettiva, dalle
visioni oniriche sempre in continuo mutamento. In fondo poi credo sia
diventato un paesaggio dell'animo, solo un posto dove esistono i miei
sentimenti, i miei ricordi, un posto dove esiste solo la mia
sensibilità eccitata, spiccata, in una visione di nebbia del tempo e
dello spazio dove i confini murari del cortile si confondono e si
deformano.
Una grande arena chiusa da mura
come quando esistevano ai tempi dei romani le lotte dei gladiatori
nel circo. E tutto si stempera in qualche cosa di magico o di
profondamente ansiogeno.
Ora quel cortile non c'è più. Ciò
che ha contribuito alla formazione di un essere umano è scomparso, è
rimasto l'uomo con la sua visuale influenzata oggettivamente
impregnata, distorta o realistica, da quello spazio fisico che ora le
ruspe hanno cancellato per sempre.
2.
Un vecchio cortile, un pianoforte,
qualche accordo soffuso, morbido, velato; proviene da una finestra;
un gatto che sonnecchia sdraiato avanti un uscio chiuso; l'aria
immobile.
La calma ricorda quella dell'etere
cosmico, ma diversa perché racchiusa tra le case che cingono e
attorniano lo spazio interno, il vecchio cortile dove si affacciano
sospese le ringhiere vuote di persone.
Solo io.
Ma anch'io non esisto, neanche la mia
ombra esiste, perché il sole non entra in quel domestico vacuo
teatro.
Nulla esiste in quel pomeriggio
d'estate, è solo una immagine trasparente, diafana.
3.
Mi trovo sulla cima di un grattacielo
altissimo, guardo di sotto il brulichio di formiche e piccolissime
miniature di automezzi ottocento metri più in basso, mi prendono le
vertigini, tutto rotea freneticamente attorno al mio capo.
Mi trovo sulla cima dei miei 58 anni.
Precipito vorticosamente giù e mi
ritrovo in una favola, nella favola sbagliata, stessa sensazione di
roteante capogiro, le vertigini.
Lo stesso luogo, lo stesso posto, dove
sono nato: l'isola Garibaldi a Milano.
Giro fra le vie di oggi, di quel
quartiere, pallida riproduzione di ciò che fu. Pallida immagine
riflessa nello specchio del tempo. Mi accorgo che tutto è cambiato;
improvvisamente mi ritrovo faccia a faccia con grattacieli di vetro,
sorti da poco, mi ritrovo faccia a faccia con il bosco verticale.
Specchi in cui si riflette la mia povera anima esterrefatta. Piccoli
angoli, cortili che hanno cambiato la pelle , oggi pelle di giaguaro,
ieri la città della gente dimenticata, felice e che vive.
Aumenta la mia nausea e devo fuggire da
quel posto dove la casa in cui sono nato è stata demolita per far
posto ad un edificio più moderno.
UN RACCONTO DEL MARE
1. ACQUA
Acqua del mare calmo, tavola blu, solo il leggero sciabordio
delle onde che si spengono sul bagnasciuga, mare ricoprente il castello di
ghiaccio in cui io sono prigioniero, là nelle profondità del mare. Acqua, io
penso di stare per annegare a pochi metri dalla riva, dove i miei piedi toccano
senz’altro il fondo sconnesso e melmoso.
È un sogno o realtà?
Tutti quei sassi, la riva erta, irregolare, frastagliata
e alta, pietrosa, grosse pietre, io dove le alghe allucinanti, gli steli
gommosi e lattiginosi di fiori, grossi e lunghi fiori acquatici, ninfee, mi
toccano il corpo come tentacoli di una piovra gigante.
Io ho sentito la paura salire come edera si avvinghia su
un muro rupestre, io mi sono perso dalla paura in quel mondo ostile.
Acqua, madre che mi tradisci.
È un sogno o realtà?
Affogo dell’utero materno, nell’acqua, nel liquido
amniotico, quando la placenta ormai a brandelli mi fa segnale che è ora. Madre
che mi tradisci.
Ed io ho chiesto aiuto, ho gridato aiuto.
Chi mi salvasse dalla vita?
E di un aiuto io ne feci il bastone perenne della mia
esistenza.
E lui mio padre sembra guidarmi in una notte buia, guida
i miei passi nell’oscurità totale.
Padre che mi tradisci.
E io scendo lentamente nell’acqua, riflettente il nero
della notte, l’acqua mi ricopre il capo ma ecco - meraviglia! -, io con la
punta dei piedi mi do un piccolo slancio toccando il fondo e torno in
superficie a respirare.
Sogno è questo e non v’è dubbio.
Sicura preveggenza!
Acqua hai dilavato la coscienza ed io ho scoperto la
verità.
2. UN RACCONTO DEL
MARE
Sono nato il 30 luglio mentre mia madre moriva.
Mi hanno messo il nome Marco.
Vi voglio raccontare ciò che io ho pensato e vissuto in
quei quindici giorni trascorsi dalla mia nascita alla morte di mia madre.
E’ meglio morire che vivere accanto alla morte quando sei tu che l’hai causata.
Quando mi portavano da mia madre morente per essere
allattato, lei soffriva di più ed io assalito dal senso di colpa mi sarei
nascosto nella più buia cantina o sarei scomparso.
Le formiche mi salivano dalle gambe, sempre più su, mi
invadevano il corpo; salivano fino a divorarmi il cervello.
MARE
Il vento del mare mi ruba il cuore.
L’anima malata sente il dolore e la nostalgia di un amore
finito, mai vissuto.
Sento il mio intimo amore sfracellarsi fra le onde blu
del mare increspato,
non ho più voglie, la noia non è noia,
... è immensità turbata dalle doglie della morte.
non ho più voglie, la noia non è noia,
... è immensità turbata dalle doglie della morte.
Tutto roteava intorno a me in quella schifosa clinica, le
pareti bianche, i camici bianchi e i volti commossi e compassionevoli delle
infermiere, l’odore di cloroformio mi penetrava fino a farmi scoppiare le
narici; in quella schifosa clinica e in tutta la mia vita mi spaventavano a
morte e odiai ogni ambiente di tal genere in mezzo a gente indaffarata,
indifferente, ostile.
Meglio sarebbe stato morire che vivere accanto alla morte
di persona che ti ha dato la vita.
E che fine avrei fatto, abbandonato, spaurito, senza chi
mi accudiva, senza l’amore della persona che normalmente per ogni uomo è la
persona più cara al mondo.
Avevo paura, tremavo e vomitavo, neanche il cibo mi dava
ristorazione.
Pensai, sognai di fuggire da tutto ciò, ma come un malato
mentale legato al suo letto di contenzione, mi trovavo a sudare, madido, nel
mio lettuccio di infante, nella mia culla irta di spine.
La mia mente e la mia voglia di te salivano come schifose
piume e penne di cristallo.
Cristallo che si infrange in minuscoli mille pezzi
all’urto del sasso traditore. Il destino perverso.
Né vi erano pensieri lieti perché tutto il male si
concentrava in un unico punto.
E la mia mente non usciva, intrappolata in quella gabbia,
in quella prigione deviante.
La morte di mia madre, non crederete, mi procurò un
sollievo, ma la paura di essere abbandonato era anche più forte.
La sofferenza è stata la più fedele compagna nella mia
vita.
3. J’ACCUSE
LA MORTE DI MIA MADRE
Mia madre sofferente di mastite, non potendo smaltire il
latte materno per una sofferenza acuta ad allattare e per le sue condizioni di
salute debilitate, per la conseguente montata lattea dopo il parto, fu operata
(tagliata, incisa) e a seguito di ciò sviluppò un’infezione. Non fu curata a
dovere in quanto in quella clinica privata mancavano gli antibiotici che
avrebbero potuto far regredire l’infezione. Gli antibiotici (penicillina)
c’erano in quel tempo (1953), ma era proprio la clinica ad esserne sprovvista.
A seguito dell’infezione non curata è sopravvenuta la morte.
Errato operare una donna che aveva appena partorito e già
era fisicamente provata (o nei quaranta giorni, nel periodo di quarantena dopo
il parto).
Clinica, maledetta clinica! Signori medici forse un giorno
pagherete per il vostro delitto.
4. LA RIVENDICAZIONE
Questa donna è mia, non tua. Tu ti sei unito carnalmente
a lei, l’hai posseduta; io ho vissuto nel suo ventre, sangue del suo sangue,
carne della sua carne; lei è morta per me.
Queste parole varcheranno i cieli, attraverseranno
l’atmosfera del pianeta, viaggeranno nelle profondità astrali, gli spazi siderali
percorreranno, e con rapidità maggiore della luce, in fattezze di un potente
raggio laser, particelle di antimateria scagliate a velocità inimmaginabile,
raggiungeranno i confini inconosciuti dell’universo intero.
Con mille sfavillii di luci, migreranno nella zona da
nessuno mai neppur vagheggiata.
Arriveranno a loro colpiranno il loro cuore.
Quale reazione avverrà nei loro animi? Da me non è
esperita.
Sconosciuta come la zona grigia.
Dominus dixit, l’uomo lascerà la famiglia di origine e si
unirà con una donna, morfogenesi di un nuovo unico essere.
Questa relazione, nella sua globalità, mi è
incomprensibile, nascosta, la mente si spaura dinnanzi a tanto.
Prova a versare tutta l’acqua del mare in un foro sul
bagnasciuga, ciò, coltivazione mentale dell’Hellas, concepisce la nostra
limitatezza a “capire”.
Non so, penso, ho in mente…
Thanatos athanatos...
Ma tu hai passato la vita nel ricordo di lei, alibi per
la tua depressione;
ti piaceva ...eh!
Io l'ho cercata, ultimo fine alla mia completa
realizzazione di uomo (DNA interetnico).
Questa donna è mia, non è tua.
Tu sei, tu sarai, tu sei stata per me l'inconoscibile.
Quando io sento la gioia invadere l'anima mia, tu mi sei
vicina.
Quando un treno, un meriggio azzurro e assolato parte per
l'ignoto, verso l'infinito, verso di te, un brivido d'amore mi assale.
Quando penso che ti rivedrò nell'aldilà, una serenità,
una pace scende nell'anima tormentata e potrei starmene lì a pensarti vicino a
me, che tu mi parli, che io ti parli, potrei stare una vita intera nella pace
eterna dell'intimo io totalmente appagato.
Ti amo, ti amo infinitamente, sei la mia stessa anima, la
mia stessa vita, ineffabile proiettata verso il destino più celeste.
La tua fotografia mi sorride; mi sorride da tanto tempo e
il mio volto in un attimo si confonde nel tuo, in un abbraccio angelico fuori
dal tempo, dallo spazio e dalla realtà contingente.
É inenarrabile il sentimento che mi pervade tutto, quando
improvvisamente ti sento vicino a me sull'onda di una vecchia canzone, dalla
radio.
Amore, amore, amore, felicità.
Golmè, Golmè
Adesso vieni e mi porti via con te, per sempre.
Ti ho sempre cercato mamma, ma non lo sapevo.
Ti ho cercato nell'adolescenza, nel volto delle giovani
donne, e non lo sapevo.
Ti ho sognato come donna irraggiungibile, ho sognato un
viso splendido, ero felice, eri tu, ma non lo sapevo.
Adesso ti ricordo sempre mamma, con infinita nostalgia,
dal centro del mio essere, ma non ti cerco fra le donne che incontro.
Forse un giorno ti conoscerò.
IL RAGNO
Prima
di tutto devo spiegare e possibilmente ricreare un'atmosfera: il calore della
mia casa. Premetto che si trova al limite dell'aggregato urbano della città,
dove vi è la natura stemperata in verdi
prati e frondosi boschi che in certi punti vanno a costituire formalmente i più
grandi parchi urbani. Non potremmo decisamente sottoscrivere l'affermazione di
trovarci in campagna. Quasi e poi ad est ancora urbs mentre l'ovest è
sempre eternamente il mito da conquistare; anche se l'organizzazione tecnologica
territoriale lo ha ampiamente, come gigantesco tessuto ricamato a merletto,
confezionato con reti autostradali, viadotti, ferrovie Tav e pachidermici
centri commerciali. Poi comunque ci sono tutte le realtà ramificate dei comuni
dell'hinterland. E'
indipendente dal fatto che io sia architetto il modo come si è venuta
costituendo e riempiendo delle mie realtà la casa. Il calore: non solo la luce
attenuata e soffusa perché troppo debole e carente di watt, tutti i libri su
scaffali rossi acquistati all'Ikea, i libri che abbiamo letto io e mia moglie,
che mi accompagnano, che sanno di cultura ma anche di amore; amore per la
lettura, per la cultura; le mie pubblicazioni letterarie esposte in una specie
di piccola bacheca di plexiglass appesa al muro; i miei dipinti con tanto di
cornici appropriate, qualcuno recente, qualcuno eseguito al tempo
dell'università. Poi altre cose della mia vita di ieri e di oggi: un ritratto
fatto a matita di quando ero soldato a Roma; una foto che mi ritrae con mia
moglie seduti su una panchina in un parco; incorniciato il diploma di laurea;
il rumore della cappa della cucina che denota la signora che prepara la cena;
una enorme fotografia di New York che tiene mezza parete. Sotto la foto il
divano. Dal divano dobbiamo partire. Dove
nel solito posto io siedo sempre e costituisce il mio punto di vista su
ciò che accade nella casa e azzarderei sulla vita. Nei numerosi giorni seduto
al mio posto ho osservato. Sul soffitto, sopra la finestra un ragno ha tessuto
la sua tela. La linea ad angolo retto formata dall'incontro della parete con il
soffitto è servita in modo egregio a posizionare la tela del ragno con attacchi
alla parete e al soffitto simili ai contrafforti di una cattedrale gotica e con
una parte aperta in modo da realizzare quasi una galleria, aperta da un lato e
chiusa dall'altro. Ingegnoso. Il fumo, la polvere l'hanno resa sporca, grigia, marrone con i
riflessi giallognoli della luce della lampada ma ugualmente fantastica. Nella
parte finale ha anche un foro tondo espandendosi sul soffitto preciso più di
una smagliatura e questo mi risulta inconsueto. E' probabile una ulteriore
trappola per mosche e insetti vari; ci cascano e poi … rimangono intrappolati;
che comunque io non vedo mai. Qualche volta una brezza in quota, da me non
rilevata, ondeggia lievemente la tela, è come una vibrazione dei fili, un'onda,
un'ombra fluttuante. Formidabile. Lui,
il ragno, lo osservo, immobile a lato della tela e pur piccola la sua ombra si
staglia come un altro ragno sul bianco del soffitto. Quanti giorni lo ho
osservato, immobile, al solito posto o perfino in posti diversi accanto a ciò
che ha costruito. Una
volta mi è parso di vederlo muovere.
Strano
il non vederlo, sembra che manchi qualcosa alla sua opera d'arte. Si nota
l'assenza. Mi sono accorto che questa assenza in qualche modo produce in me un
dispiacere. Forse che mi sono affezionato a questa bestiola che per tanti
pomeriggi invernali mi ha tenuto compagnia? E' mai possibile?
Dal
mio punto di vista se ti rivedrò domani sera la famiglia sarà al completo.
Anch'io
sarò felice, piccolo artropode che aspetti il tempo come io aspetto il tempo che verrà; senza fretta, immobile.
P.S.
Per la cronaca è tornato al suo solito posto il giorno dopo.
Tiziano Rovelli
INSETTO
Il passato
condiziona il mio presente, in maniera del tutto automatica.
Non posso modificare ciò che sono, è impossibile.
Non posso modificare il mio pensiero troppo ristretto tra
le regole del mio essere completamente subordinato all’istintualità primordiale
mai modificata dalla cosiddetta civilizzazione. La storicizzazione dell’uomo è
solo un pretesto ed un fatto che non trascende affatto i limiti imposti dalla
natura primigenia dell’essere. Sono svilito.
Senza via di uscita. Non mi posso sottrarre a quelli che
definirei limiti evolutivi ed involutivi della specie, limiti insuperabili e
coercitivi anche per un primate superiore.
Mi ritrovo come svuotato e svilito nella mia incapacità
di modificare e differenziare la realtà. Sensazione alquanto deludente,
avvilente, senza ritorno e senza alcuna partenza.
Come se in effetti i condizionamenti totali e globali
rappresentassero la realtà delle ombre all’esterno della grotta (Platone). Una
realtà virtuale, pallida rappresentazione infingarda di ciò che dovrebbe
esistere e forse non esiste affatto.
Solo nella mia mente vagano i fantasmi della scienza
inesistente, pura invenzione della evoluzione. Evoluzione ancora al di là del
divenire e dall’essere. Tutto sommato posso chiamare fratello il vibrione del
colera o tutt’al più il più avanzato computer.
Anch’esso meditato dalle profondità insondabili
dell’istinto. E’ una sensazione sgradevole quella di essere depauperato della
capacità decisionale, anzi e direi soprattutto non credere affatto nella sua
positiva esistenza. E’ come, ed è il punto fondamentale, io non ho potuto, non
posso e non potrò mai guidare autonomamente con le briglie il carro della mia
esistenza, condizionata e condizionante tutta la mia vita di uomo, solo
falsamente libero.
Ridicolo, anzi da piangere. Mi sento come un automa a cui
abbiano tolto la corrente. Ma nemmeno esisto come automa e la corrente
elettrica è una farsa pirandelliana.
Non trovo l’uscita da questo labirinto insormontabile, e
così come nella Metamorfosi di Kafka mi
ritrovo ad essere non più che un insetto. L’evoluzione non ci azzecca,
l’insetto rimane come emblema della mia esistenza perennemente incompleta e
latitante nel pensiero e nell’azione.
Volto pagina tanto la prossima sarà ancora bianca.
Tiziano Rovelli
IL VIAGGIO DELLA SIGNORA TRUSSI
Lei sig. Molteni andrà domani a
prelevare la signora Trussi a Miazzina.
Dovrà partire di buon mattino
perché deve trovarsi all’ospedale di Crema, dove accompagnerà la signora, entro
mezzogiorno per permetterle di prendere il pranzo.
Così mi disse la responsabile
dell’associazione che assisteva gli anziani. In quel periodo prestavo
occasionalmente, quando c’era bisogno, il servizio in qualità di autista
accompagnando gli anziani; solitamente mi erano capitate anziane signore, nei
diversi luoghi di ricovero che la associazione mi indicava. La signora che io
avrei dovuto accompagnare l’indomani, a detta della stessa responsabile (che
insieme agli altri operatori si premurava e si dilettava ad appioppare dei
soprannomi, a secondo della peculiarità del carattere delle persone in
questione), aveva a proposito un carattere un po’ particolare ed era
soprannominata “la principessa”, donde si può dedurre la “grana” del caso
assegnatomi, visto l’insolito temperamento della medesima.
L’indomani mattina partii molto
presto alle sei, era gennaio e Milano era ancora avvolta dal buio notturno,
percorsi la città e imboccai l’autostrada dei laghi, indi l’autostrada in
direzione Gravellona Toce per portarmi poi oltre Verbania costeggiando la statale
del lago Maggiore per poi inoltrarmi sulle montagne digradanti sul lago, ove si
trovava in luogo impervio ed isolato il ricovero in questione, precaria
residenza della “principessa”, che tra l’altro, mi ero dimenticato di dirlo,
era una vecchia conoscenza avendola io stesso accompagnata tempo prima in quel
luogo.
Mi aveva detto la responsabile:
“Lei dovrà accompagnare il soggetto in questione da Miazzina fino a Crema, come
dicevo, all’ospedale”, era un viaggio non breve.
Ad aumentare le incognite e le contrarietà
di siffatta operazione, mi era stato detto, sempre dalla responsabile, di non
informare la paziente della sua reale destinazione, in quanto lei credeva che
io l’avrei accompagnata a casa a Milano (di questo me ne accorsi ben io nel
viaggio di trasferimento).
Anche perché in detto
trasferimento dal lago Maggiore a Crema dovevamo pur passare per Milano.
Cosa avrei raccontato alla
“principessa”, quando fossimo stati a Milano? Questo lo scopriremo dopo.
Il viaggio di andata fino a
Miazzina, da solo, trascorse tranquillo, ma proprio il ricordo del viaggio
fatto accompagnando la signora poco tempo prima, mi dava inquietudine,
conoscendo il soggetto.
Arrivai sul posto che erano le
08:00, in orario. Per la verità ero in anticipo, perché la casa di riposo
apriva alle 08:30. Aspettai. Faceva freddo quella mattina di gennaio e in
particolar modo in montagna.
All’apertura mi presentai alla
reception, spiegando il motivo della mia visita. In realtà vi erano pratiche
burocratiche da espletare inerenti alla dimissione della signora Trussi e al
suo trasferimento in altro nosocomio.
Finalmente mi accompagnarono
dalla signora ed io in ansia controllavo il tempo perché a mezzogiorno dovevo
raggiungere Crema. Non era proprio vicino e il tempo si metteva al brutto, pareva
volesse nevicare.
Mi fecero strada, al secondo
piano; in una camera assai ampia, occupata da vari ospiti, trovai la vecchietta
arzilla, accanto al suo letto, già bella e pronta per andare a casa, valigia
alla mano, sicuramente felice di raggiungere alfine le sua residenza.
Assecondai ciò che da un certo
punto di vista si potrebbe dire una “tragica situazione”.
Pensavo di aver tempo lungo la
strada per prepararla gradualmente alla sgradita sorpresa: non a casa a Milano,
invece proseguire per altra destinazione a lei non gradita anche se già
conosciuta.
Ma già alla vista della signora
Trussi così contenta e inconsapevole mi era venuto un tuffo al cuore. Colpa
della mia troppo accentuata sensibilità.
Lei salutò tutti, baci e
abbracci, forse anche qualche lacrima e ci trovammo soli in auto per strade di
montagna scendendo verso il lago, guida sicura e tranquilla, così doveva
essere. La nebbia che mi aveva accompagnato nel viaggio di andata persisteva
ancora. Nel viaggio di ritorno verso Milano le accenno che dovevo portarla
all’ospedale di Crema, lei non ne voleva sapere. Era fermamente convinta di
andare a casa a Milano. Io allora, nel prosieguo del viaggio, le dissi
chiaramente e fermamente che non dovevo portarla a casa. Lei continuava
imperterrita, bensì e ben come, a sostenere di voler andare a casa.
Va bene andiamo a casa, no, non
andiamo, e così per il resto del viaggio che ci separava da Milano.
Arrivato alla metropoli
lombarda, imboccai la tangenziale indi la tangenziale est.
Lei, accortasi di essere a
Milano, dava in escandescenze: “Mi porti a casa! Mi porti a casa!”.
Io guidando con quell’essere
opprimente, che magari un po’ di ragione l’aveva, andai in confusione. Sbagliai
l’uscita dalla tangenziale e mi ritrovai in un quartiere periferico a me sconosciuto.
Fermata l’auto, la signora
Trussi cercava di fuggire per andare a casa. Nello stesso tempo mi accorsi che
la macchina non andava più, era in panne pure lei. Gran trambusto, io che
cercavo di fermarla e nello stesso tempo gridavo a un meccanico, sempre
cercando di trattenere la signora, di soccorrermi per l’auto guasta.
La “principessa” sosteneva che
la signora Vespa, la direttrice del centro, colei che per l’appunto mi aveva
affidato il delicato incarico, mi aveva detto di accompagnarla a casa.
No, si sbaglia, mi ha detto di
accompagnarla a Crema, se non ci crede prenda il mio telefonino e la contatti.
Tira e molla, gran parapiglia,
la signora in fuga, le mie “placcate” quasi da rugby, finalmente il meccanico,
che si era avvicinato all’auto, vistala, sentenziò che bisognava cambiare la
batteria.
La cambi, io sono anche un po’
in difficoltà, si fa per dire, ero totalmente in stato di panico ansioso.
Feci il numero del telefonino
della signora Vespa e cercai di farla parlare con la “principessa” affinché lei
si convincesse di quale fosse la reale meta che detta direttrice mi aveva
indicato per lei.
Per farla breve, il meccanico
sostituì la batteria, la signora Trussi - ancorché non convinta - si lasciò
accomodare sul sedile dell’auto.
Ripartimmo, guadagnai l’uscita
dalla tangenziale sulla statale paullese in direzione di Crema.
Cominciava a nevicare. Iniziò
un altro tratto di tragitto, il più difficile.
Il viaggio verso Crema, sotto
una battente nevicata, fu all’insegna dell’ansia e del panico che prese non
soltanto il sottoscritto, ma anche e soprattutto la signora anziana che a
tratti minacciava potenti crisi di nervi e voleva che io mi fermassi in una
farmacia per acquistare dei tranquillanti.
In effetti ne aveva proprio
bisogno e anch’io, e la signora si lasciava andare e giurava di stare per
morire, sul seggiolino dell’auto.
Che fare? Tergiversare e
cercare con le parole di calmare la stravolta vecchietta.
Arrivati a Crema, quando ormai
la signora Trussi era allo stremo, nella confusione io non trovai l’entrata
principale dell’ospedale, bensì ero finito in un'entrata secondaria, dove c’era
anche un cantiere aperto.
Facendomi largo tra le assi
riuscii a far entrare la signora nell’ospedale, in un’ala del suddetto
semichiusa dove non c’era nessuno.
Gridando, finalmente arrivò
un’infermiera.
La portarono in reparto, lei
riconobbe volti noti, la rincuorarono, le offersero del tè caldo prima del
pranzo, la fecero calmare dicendole che si trovava come in famiglia.
Io, quatto quatto, me ne andai.
Missione compiuta.
Respirai l’aria limpida
all’aperto e fresca la neve mi turbinò sul capo.
Tiziano
Rovelli
MILANO SURREALE
di Tiziano
Rovelli
5.
La mia città, la città dove sono
nato, estraneo a casa propria, non la riconosco più. Giro fra le vie, ma in
qualche modo mi è estranea. Quasi tutto è cambiato, non ritrovo più il mio
passato di bambino e adolescente.
Come se mi fossi svegliato
improvvisamente mi ritrovo in un mondo diverso. Non riconosco i luoghi, non
riconosco i tempi e soprattutto non riconosco me stesso in questa scatola nuova
e balorda.
Mille palazzi nuovi, sfavillio di
luci, funghi che crescono su uno strato di letame e mostrano la loro altezza e
la loro arroganza.
Milano dove sei, togliti la
maschera che ti sta a pelle e fra i brandelli scoperti rivela il tuo vero
volto. Puttana o Madonnina che dalla guglia del Duomo proteggi tutti coloro che
lavorano. E' passato il tempo della memoria e una mitica astronave si congiunge
carnalmente con lo stadio di San Siro. Mille sfolgorii di luci, ma luci a San
Siro non ne vedremo più.
Fuggo dalla città ansiosa e mi
ritrovo in una casa di periferia, dove la città ingoia come la Geenna le
resistenti dosi di purezza attempata.
Una stanza, il silenzio, la calma
di chi non conosce paura, accarezzo il mio cagnolino ormai vecchio, che mi
lecca il naso e ritrovo la gioia di un amore puro.
Milano, quando mi ridarai le
nebbie dei tempi che furono e il maestoso silenzio delle notti invernali,
quando lo sferragliare del tram annunciava un'alba nuova piena di odore di
sudore, madida di insonnia ma, felice della sua fedeltà di esistere e
incombente l'alito pesante di una prossima futura morte, o resurrezione, nella
stretta di mano dei barboni sotto i ponti del naviglio, sotto il ponte della
Ghisolfa, in una marea di viuzze che alla mattina odorano di pane appena
sfornato.
Milano io ti amo, ma come un
vecchio amante sono diventato impotente da quando mi presenti le nuove
cortigiane che ballano all'interno di un enorme palazzo, che non esiste e non
esisterà mai.
Milano ti odio, ti odio nella
maniera più totale, ti odio con tutto il mio essere, i lunghi giorni passati
nella merda più nera, ti odio per tutto quello che mi hai fatto, che mi sono
fatto, il male, il bene che mi hai dato o non dato, i lunghi giorni passati in
un pozzo nero senza fondo, ma il mio odio non è ancora abbastanza; ti disprezzo,
la nausea mi prende camminando fra il grigio-sporco delle tue case, dei tuoi
palazzi, ti auguro ogni malasorte mefitica o mefistofelica, Milano muori o
muoio io, tuttavia è l'unica città dove io ora sono possibile oppure non sono
nessuno, non esisto, vivo come in un sogno, in un incubo che non finisce mai,
mai interrotto, senza mai svegliarmi in un mattino radioso, Milano, ti amo .-
Milano, ti amo.
7.
Il mio cuore gioisce.
Sono al cimitero d'estate, il 15
agosto, Ferragosto, il sole allo zenit, caldo ma pace in cui ti perdi l'intima
essenza del tuo io carnevalesco, i morti non parlano, parlano per la tua bocca,
e mite un sentimento di svacco, e piangitudine e riditudine, invade la tua
anima innocente e perversa.
Gli alberi come funghi e il canto
degli uccelli, compreso il mio; mi sento padrone dell'area demaniale del
cimitero, ma forse di tutta Milano, tappezzata di slogan e pubblicità che
nessuno legge, perché tutti, con i prestiti bancari, sono andati sulle spiagge
di Rimini a mostrar le chiappe chiare.
8.
Sulla sponda del Naviglio grande
via Lodovico il Moro, appoggiato alla balaustrata, guardo intensamente lo
scorrere calmo dell'acqua liscia, translucida, verdognola, verde scura, pulita,
trasparente, nell'ampio spazio aperto intorno.
Defluire lento dell'acqua,
inesorabile, sempre eguale, è uno scivolare incessantemente, flemmatico,
costante, senza alcuna interruzione.
Scorre come la vita di un uomo,
trascorre con il medesimo fruire del tempo, senza tempo, senza memoria, senza
storia, senza fine.
Pura gioia nel sole o livida
tristezza in un cielo cinereo di un giorno qualsiasi; l'una o l'altra sono
intercambiabili.
La vita di un uomo riserva giorni
di infinito dolore, o felicità.
Giorni in cui dentro di te una
parte muore.
Giorni in cui piangi la morte.
Il mattino seguente, al tuo
risveglio, incredulità, non posso pensare che, disperazione, desolata angoscia
di crepacuore, ti chiedi come possa il tuo dolore non dissolversi nel
trascinarsi indifferente o immobile come sempre di tutto intorno a te,
identico, superficiale, impassibile, mentre tu …
Guardi l'acqua del Naviglio,
immutata scorrere lentamente, senza alcun cambiamento, insensibile, come il
sole ogni giorno sorge immutato, pure al di sopra delle nuvole di tempo avverso
meteorologico o personale.
Guardo dentro il Naviglio,
l'acqua pulita, tersa, lascia intravedere il fondo, il letto del canale.
Le alghe verdi, fiotti di alghe,
lunghe, allungate, estese, come mille dita ammiccanti, in un sinuoso muoversi,
nel lento svolgersi incorporeo accarezzate dal fluido, fluttuanti nell'acqua
corrente.
Mi ricordano i capelli lisci
lunghi e fluenti di una donna quando un vento leggero, una brezza marina, o una
breva lacustre li accarezzano, li lambiscono, li sfiorano lasciandoli
liberi nell'aria, dolcemente.
Questi sono i pensieri di un uomo
che ha immerso i suoi occhi nel fiume della vita.
9.
Incontrarsi a Milano
In un viale alberato della sua
città, madido di pioggia, con le macchine parcheggiate a lato del marciapiede,
le tende e i dehors dei bistrot trasudanti umidità temporalesca e i levantini
ristoranti allargantisi sulla strada, il sole dietro di lei nel pomeriggio
avanzato, quasi sera, in un raggiante evolversi contro naturale suo levarsi,
così la vide contro i raggi contrari del sole ritardante, in controluce venente
dal fondo del viale bella come una dea greca. E ne ebbe un sussulto dell'anima.
Porta Ticinese (foto di Livia Corona) |
Passeggiano sotto le querce
ombrose del verde giardino centrale di via Lorenzo di Credi e si siedono su una
panchina discorrendo e discernendo ciò che il tempo aveva a ciascuno regalato,
lui e lei, i piccoli sassi del vialetto suonano armoniosi ai loro passi,
intorno le case lussuose della città a confinare il viale, quasi appartenessero
ad un mondo esterno alla urbana piantumazione rigogliosa.
10.
IL SIGNOR VINCENZI
LA CASA DI VIA
ZOIA
Io in quella casa non ci dovevo
essere. Non ci dovevo proprio stare. Vivevo perennemente sotto sfratto. Per
quattro anni. La mattina la passavo al bar a bere. Non lavoravo. -Un Campari
con aggiunta di spumante- ordinavo al barista; poi un altro, poi un altro
ancora. Può darsi anche che venivo da una debacle
della mia esistenza. In quei pochi metri quadrati che componevano
l'appartamento vivevo con mia moglie.
A cena guardavo l'Isola dei
Famosi in televisione.
Una sera d'estate, c'era ancora
luce, stavo cenando quando un'ombra passò in caduta libera nel quadrato della
finestrella che dava sul giardino sottostante. Poi un tonfo sordo. Mi affacciai
al balconcino e vidi a terra nel prato del giardino il corpo di una ragazzina
riverso; morta. Si era gettata dall'appartamento sopra il mio al nono piano (io
stavo al quinto).
Mi capitava spesso di vedere il
fratello della suicida, anche lui un ragazzo. Lo incontravo giù in giardino che
portava un cane, un setter irlandese dal pelo fulvo, un bell'animale. A volte
piangeva, dicevano che era depresso; io pensavo: -non imiterai tua sorella?-. E
un giorno anche lui si buttò.
Una notte guardando la
televisione ascoltai la Patty Pravo cantare – Te la cambio io la vita che… -
Decisi allora di cambiare
vita.
11.
LA NOTTE
Una
notte di novembre guidavo sulla tangenziale intasata dal traffico, anche
pesante, sotto una pioggia battente, i fari delle macchine, le luci riflesse
dalla pioggia sull'asfalto bagnato, il buio della sera inoltrata; non vedevo
niente, non capivo niente e quasi non sapevo e non riconoscevo i luoghi dove mi
trovavo.
Un
momento di confusione mentale e di fretta audace, visione e situazione quasi
irreale, tipica da commesso viaggiatore.
L'autostrada
finì e mi trovai in una strada, in un
posto, che già conoscevo, ma che ora non conoscevo più, quasi da perdersi;
girai attorno ad un enorme edificio, tutto pieno di luminarie, come l'albero di
natale, un supermercato o meglio un ipermercato icona del progresso odierno,
che a me ricordava molto le giostre piene di luci che mettevano una volta
all'anno nel paese dove andavo in vacanza d'estate in occasione della festa del
Santo Patrono. Il calcinculo dove vi era un uomo, quasi zingaro, in
canottiera che ivitava noi bambini sulla giostra, al ritmo del boogie-woogie,
ballo che in quel periodo era di moda e che era per noi l'America,
l'altra faccia sconosciuta e nascosta della luna.
Poi
veloce nella notte buia rischiarata solo dalla luce dei lampioni, strade vuote,
città notturna deserta, odore di tigli e io ho perso la cognizione del tempo,
di me stesso, sono ricaduto nel passato carico di paura e di testosterone.
Veloce
nella notte tra puttane e travestiti ai bordi delle strade, la bocca impastata
e arsa dal fumo delle sigarette. Sembravano sbocciare mille fiori colorati ai
bordi delle strade, nel grigio dell'asfalto e del cemento solo intuìto, così
era l'aria fresca, estiva, urbana, appena sfiorata dall'alito della verde
campagna che nella notte buia cancellando i colori faceva intravedere.
Mille
fiori colorati ai bordi dei marciapiedi, mille gambe nude, mille seni nudi,
mille schiave nel panorama urbano della trasgressione. E via veloce nella
notte.
Seduta psicanalitica
Paziente:
“Ribadisco la mia completa fiducia in lei, mi inchino all’uomo di scienza, al
perspicace indagatore delle intime pulsioni della mente umana, al fine chirurgo
che col bisturi affilato del suo più acceso acume mentale, sviscera i più
reconditi segreti dell’inconscio. Lei, uomo di scienza, lucifero squarciante le
tenebre dell’oscurantismo medievale. Dall’illuminismo a Kant, dalla metodologia
scientifica contemporanea alla ragion critica della scuola del Reneo un solo
grido s’innalza: Il sonno della ragione
genera mostri.
La mia sensazione di un suo ipotetico essere contrariato
(forse da un certo mio dire) non trova riscontro nel mio pensiero, quando noto
che la teoria e la pratica psicanalitica comprende il paziente che si ritrae spaurito
di fronte allo stregone che vuole
scacciare da lui gli spiriti maligni, i quali sono invece ritenuti compagni
fedeli e inseparabili dalla sua mente turbata e irrazionale.
Sottopongo alla sua indagine psicanalitica un mio sogno.
Ritengo che questo sia particolarmente ricco di materiale su cui può rivolgersi
molto proficuamente la scienza della psiche. Il suo contenuto è significativo
in quanto legato a processi mentali generati dalle relazioni parentali. La
descrizione di un sogno è come miniera d’oro per un sommozzatore immerso nel discernimento di quei fenomeni e simboli
onirici ben descritti nell’opera di Frued L’interpretazione
dei sogni. A lei l’ardua sentenza!”.
Risposta dello psicanalista dopo un meditato quanto
pregnante silenzio: “Ma vaffanculo!”.
Tiziano Rovelli
Il signor
Vincenzi era sempre il primo a timbrare il cartellino del suo ufficio. Vestiva
gli stessi capi: giacca e pantaloni scuri, camicia bianca cravatta blu, scarpe
nere lucide. Anche le calze erano sempre dello stesso colore : nere. Portava
gli occhialini rotondi ed era un po’ cicciottello. Era single. La mattina
quando si alzava, dopo essersi lavato, sistemava subito il letto, faceva la
colazione e lavava la tazzina. In bagno stava attento a non sporcare asciugando
con una spugnetta. In casa girava in pantofole, che allineava davanti alla
scarpiera vicino alla porta d’ingresso, solo allora infilava le scarpe ed
usciva. Controllava attentamente di aver chiuso la porta spingendo la maniglia.
Andava al lavoro con il tram e teneva il biglietto in mano già prima di salire.
Sul tram cercava di non toccare nulla, se proprio si doveva appoggiare lo
faceva tenendosi ai sostegni più alti dove altre mani non potevano arrivare.
Voltava la schiena agli altri viaggiatori, e se qualcuno vicino a lui tossiva,
girava la testa dalla parte opposta, cavava il fazzoletto dal taschino e si
copriva il naso e bocca. La sola idea di ispirare batteri, lo terrorizzava. Appena
metteva piedi in ufficio correva in bagno e si sfregava le mani con il
disinfettante dell’erogatore. Si lavava anche i denti , e prima di sedersi alla
scrivania, riponeva la giacca sullo schienale della sedia, si toglieva la
camicia, la ripiegava sistemandola nell’armadio da cui prendeva un golf nero
per indossarlo. Prima di sistemarsi sulla poltroncina girevole, infilava dei
guanti di cotone bianco, e presa la
prima pratica dal cassetto , la metteva
al centro della scrivania. Poi prendeva il timbro e inizia a timbrare tutti i
fogli della pratica. Ogni volta lo stesso movimento: intingeva il timbro nella
spugnetta blu con la mano sinistra, lo passava nella mano destra, e levando il
braccio all’altezza della testa, lo spingeva in basso verso il foglio. Il
timbro era apposto sul lato destro con geometrica precisione; il signor
Vincenzi si era premurato in anticipo di prendere la misura del foglio con un
righello. Una volta timbrato, soffiava sul foglio per farlo asciugare più in
fretta, e aspettava. Osservava sul quadrante dell’orologio lo scorrere dei
minuti, mentre la trama del disegno lentamente prendeva forma.
Orlando Della Morte
LA SEDIA
Orlando in scena |
La riunione era
iniziata, il Re parlava seduto sul suo grande trono a tutti i suoi ministri. Ad
ogni frase tutti i ministri rispondevano affermativamente, in prono assenso, a
quello che diceva il Re:
“Certo,
Vostra Maestà”
“Come
dite Voi, Altezza”.
“Secondo
i Vostri desideri, Sire”
Ma
ogni tanto, tra una frase e l’altra, si sentiva un rumorino simile ad un
pernacchio.
All’inizio
il Re non ci fece caso, ma poi il rumorino aumentò ad ogni frase:
“Signori ministri…”
-Prrrrrr!-
“…
come sapete io sono il Re…”
-Prrrrrr!-
“…
e qui comando io…”
-Prrrrrr!-
“…
e tutti devono eseguire i miei ordini…”
“Prrrrrr!”
“…
altrimenti mando chi voglio nelle galere”
“Prrrrrr!”
“Chi
ha osato?” urlò il Re visibilmente adirato.
La
sala diventò un arcobaleno: il Re diventò rosso dalla rabbia; i ministri
impallidirono e diventarono bianchi; i servi diventarono gialli; le guardie
verdi.
“Chi
è stato, gli farò tagliare la testa!” gridò ancora il Re alzandosi di scatto e
puntando l’indice verso la sala. Calò un gelo tombale: infuriato il Sovrano
piombò con la sua enorme mole sul trono che non resse al peso e si sfasciò,
finendo a gambe all’aria.
“È
caduto il Re! È caduto il Re!”, urlavano i ministri e corsero a soccorrerlo.
Subito
la voce fu ripresa da un mercante a cavallo che, passando a ridosso delle mura,
aveva
udito quelle grida provenienti dall’interno del castello. In un baleno l’aveva
diffusa per tutta la Contea. Gli abitanti uscirono dalle loro case gridando :
“Il Re è caduto! Non c’è più il Re! È finito il suo dominio! ” e per tutta la
Contea si iniziò a festeggiare.
Nel
castello, intanto, il Re veniva soccorso e portato nella sua camera da letto
con una portantina .
“Il
Re è tornato al suo posto! Il Re è tornato al suo posto!” strillavano i suoi
ministri, e la voce si diffuse fra i sudditi festanti in un battibaleno.
La
delusione si sparse per la Contea e i festeggiamenti furono interrotti.
Il
Consigliere di fiducia stava spiegando al Sovrano, che non si era trattato di
un suono scurrile, ma di un semplice cigolio proveniente da uno dei piedi del
trono tarlato, come si era potuto appurare. Era stato portato, infatti, dal più
abile restauratore della Contea, per essere aggiustato.
Il
laboratorio era pieno di oggetti di ogni tipo fra cui una comune sedia
impagliata, anch’essa in attesa di restauro. Quando il trono se la vide vicino
inorridì:
“Allontanati
da me, vile plebea, non sei degna di starmi vicino, io sono il famoso trono del
Re!”
La
povera sedia intimorita e spaventata, rimase sconcertata: non sapeva cosa
ribattere, poi piano piano si fece coraggio e seppur balbettando cercò di
rispondergli.
“Perché
te la prendi tanto?” esordì Gelsomina, così si chiamava la sedia, “io sono
un’umile sedia e non mi voglio certo paragonare a te, ma nel mio piccolo
anch’io sono stata utile. Su di me si sono sedute tantissime persone di ogni
ceto e di ogni età: ho fatto divertire i bambini che mi hanno trasformata in
una barca, in un cavallo, in una slitta, per i loro giochi; ho dato riposo agli
anziani, ai viandanti stanchi, ho accolto gli amici attorno ad un tavolo, i
contadini sull’aia, gli sposi intorno al fuoco.
E
quante storie ho sentito, quante confidenze, segreti… Perfino il battesimo di un
bimbo, e l’acqua benedetta cadde anche su di me…”.
A
queste parole il trono rise fragorosamente: una risata di scherno che umiliò
Gelsomina, e ribatté che lui era unico, che su di lui potevano sedere solo i Re
e i suoi discendenti, tutti uomini potenti che avrebbero sempre regnato sulla
Contea.
Gelsomina
riconobbe che era un bel trono, sontuoso e ben strutturato, ma lei preferiva
essere una sedia umile al servizio di tutti piuttosto che di uno solo.
“La
verità è che sei solo una povera sedia, una popolana senza ambizioni e ormai in
disuso. Nella vita bisogna essere ambiziosi, bisogna volere. Io ho sempre
desiderato essere il trono del Re, l’ho desiderato con tutte le mie forze fin
dal giorno che mi hanno costruito: e adesso ho il potere, il potere di
sostenere il peso del Re”.
Gelsomina
non ribatté, ne aveva conosciute molte di sedie così presuntuose e così piene
di sé. Le avevano raccontato di regni dove anche i Re erano caduti, e i troni
addirittura bruciati. Ma non disse nulla per non contraddirlo.
Venne
la notte e nel laboratorio scese un dolce silenzio, la quiete avvolse ogni
cosa. Verso mezzanotte un raggio di luna, facendosi largo tra le nuvole, colpì
col suo bagliore lo schienale dorato del trono il cui riflesso illuminò la
piccola finestra del laboratorio. Questa luce così intensa attirò l’attenzione
di tre furfanti che si aggiravano circospetti nei paraggi. Incuriositi si
issarono l’uno sulle spalle dell’altro e in questo modo, riuscirono a spiare dentro
il laboratorio. A quella visione rimasero stupiti: il trono splendeva carico di
tutta la sua preziosità. Immediatamente forzarono la porta ed entrarono. Capirono
che si trattava di un bel bottino e che avrebbero potuto venderlo ricavandone
un grosso compenso. Si accorsero però, che era troppo grosso e troppo pesante
per trasportarlo intero, senza destare sospetti: a loro interessavano le
preziose lamine d’oro di cui era rivestito, ma non c’era tempo, le avrebbero
tolte con calma in un secondo momento. Ora era necessario portarlo via: lo
fecero a pezzi nascondendoli dentro dei grossi sacchi di iuta, e se li misero
in spalla dileguandosi nella notte.
La
mattina dopo Gelsomina vide davanti a sé alcune briciole dorate, brandelli di
legno e qualche misera scheggia. Era tutto quello che restava, di una sedia
troppo supponente.
Orlando Della
Morte
TEATRO
IL RACCONTO DI ADAMO CALABRESE
SALMO 117
Storia della signora maestra che andava a scuola in
bicicletta
cantando lodi al Signore. (Sette scene)
Scena 1
Quando sono nata
Gloria a te, Signore, per la neve che hai fatto cadere, quando
sono nata.
Bianca la terra, bianchi gli alberi, bianche le case,
tremanti le mani di mia madre che mi hanno innalzato verso la tua gloria per
chiederti : Sia giusta e non altro. Per amor del Cielo, sia giusta!”
Gloria a te, Signore, per il calamaio di mio padre che hai
riempito d’inchiostro e per la sua mano che hai guidato a scrivere poesie forti
e lucenti come il filo del ragno, quando sono nata.
Gloria a te, Signore, per il fiato che hai dato alla mie
vecchie zie per farle cantare sulla mia
culla, quando sono nata.
Gloria a te, Signore, che hai permesso che il gatto facesse
le fusa accanto al topo, che la lucerna ballasse col buio, che il tarlo
imparasse a memoria
le poesie di mio padre, quando sono nata.
Gloria a te, Signore, per il pupazzo di neve che un
viandante ha costruito davanti alla mia casa con il cartello al collo: “Sii
dolcissima.” quella notte, quando sono nata.
Scena 2
A SCUOLA
Gloria a te, Signore, per la matita con la punta rotta con
la quale ho graffiato sul quaderno le prime parole.
La signora maestra aveva la treccia arrotolata sulla testa e
dentro la treccia covava un nido di
cornacchie.
Quando sbagliavo, la signora maestra mi faceva beccare dagli
uccelli, ma quando ero brava mi baciava con la sua bocca rossa di rossetto
viola.
Gloria a te, Signore. La prima lettera che ho scritta è
stata la lettera A.
A come Acqua che scorre tra i sassi del torrente
A come Aria che soffia sui panni distesi
A come Azzurro del cielo dopo il tuono estivo,
Poi gli anni sono scivolati via: le divisioni con la
virgola, il teorema di Pitagora, la velocità della luce…
Gli anni sono scivolati via finché ho scritto parole d’amore intingendo il dito
nel pianto.
Scrivevo: “Da dove chiami? Ti prego, dimmi da dove chiami.”
Il mio dito tremava sul finestrino del treno in corsa.
“Ti prego dimmi da dove chiami!”
Gloria a te, Signore, ora torno a scuola ogni giorno, sono
la signora maestra, nella mano destra stringo le parole, nelle mano sinistra i
numeri, nel cuore porto le poesie di mio padre, forti e lucenti come il filo
del ragno.
“Raccontaci una poesia, signora maestra!”
“A come acqua, A come Aria. A come azzurro…”
Gloria a te, Signore, che con un soffio fai la prova del
nove e conosci a menadito la velocità della luce.
(1389)
Scena 3
DAVANTI ALLO SPECCHIO
Gloria a te, Signore, che fai cantare il mondo che mi
circonda.
Apro gli occhi e già canta la sveglia-uccello sul comodino.
“Perché canti così presto?”
“Non è presto, ha già
cantato il ciliegio nel cortile.”
“Stai zitto ciliegio!”
“Non posso tacere, la luna è tramontata.”
Non faccio in tempo a stiracchiarmi che fischia la
caffettiera.
“Zitta caffettiera.”
“Non posso tacere, bolle il caffè.”
Scricchiola lo zucchero, sbriciola il pane abbrustolito,
sussurra la marmellata , solfeggia il pianoforte che non ha chiuso occhio per
tutta la notte:
“Parigi, oh cara…” (1)
“Un bel dì vedremo levarsi un fil di fumo…”(1)
Tutto a soqquadro, ogni nota a cavallo di un’altra da far
impazzire lo spartito piegato in quattro per ripararsi dalla pioggia che batte ai
vetri.
Come piove!
“Da dove vieni mademoiselle la pluie?”
“Non so, non so mai nulla è il vento che mi porta, sa tutto
lui. Io sono in sua balia, io sono la sua amata, mi basta essere con lui, che
mi porti non importa dove.”
“Come non t’importa? Sei spettinata, senza cipria, senza
rossetto.”
“Non m’importa nulla, non mi pettino, non metto gli
orecchini, devo essere pronta, prontissima quando lui mi chiama.”
“Vamos, senorita!”
“Si, sì, andiamo. Dove? dove andiamo? Non lo so, non lo so,
non voglio saperlo, io con lui sono felice e
mi basta.
Sia gloria a te, Signore, che spargi la gioia come cipria
davanti allo specchio.”
…levarsi un fil di fumo…
(1) Anna scegli le romanze, o la romanza più adatta.
(1517)
Sena 4
CALZA ROSSA E CALZA GIALLA
Gloria a te, Signore, che non mi sgridi se corro a scuola
con una calza rossa e l’altra gialla. Sono la signora Maestra sempre in
ritardo. Le mie ragazze mi aspettano sulla porta dell’aula con le mani dietro
la schiena. Povere piccole, sono ragazze speciali: chi zoppica, chi non parla,
chi si rifiuta di leggere, chi non ne vuol sapere di contare, chi non sa dov’è
la Russia e chi non sa quanto è lungo il Missi-pippi-pippì.
Ma tutte sanno cantare:
Ambarababbaciccococcò
Tre civette sul comò
Che facevano
L’amore
gloria a te, Signore, che mi hai dato l’amore e gloria a te
che me l’hai soffiato via.
Perché, perché me l’hai soffiato via?
Perché correvo come una matta con una calza rossa e l’altra gialla?
Correvo in bicicletta, senza mani sul manubrio, le mani per
aria a salutare l’aria?
Gloria a te, Signore, io ti ho ubbidito, ho chinato la
testa, mi sono ritirata: lumaca nel guscio.
Metto in fila le mie scolare e vado con loro per i campi in
cerca di erbe sapienti.
La salvia guarisce la malinconia: tre foglie in un bicchiere
d’acqua fresca!
Il rosmarino protegge dai ricordi: un rametto bollito per
tutta la notte!
La ruta fa sognare: tritata nella minestra.
Il basilico, la maggiorana, il sedano turco, il sole, la
luna, la pioggia, il vento, il fuoco, la brace, la cenere… l’ho amato, mio
Signore, l’ho amato tanto, tantissimo, l’ho amato come l’estate e l’inverno
messi insieme, e sia gloria a te che hai benedetto il mio amore.
Ambarababbaciccococcò…
(1522)
Scena 5
FUOCO CHE PARLA
Gloria a te, Signore, quando viene l’inverno ed io e le mie
scolare facciamo lezione in classe intorno alla stufa ascoltando i racconti del
fuoco.
Dice il fuoco: “Ragazze, badate a voi stesse. Quando sarete
grandi guardatevi a destra e guardatevi sinistra, le strade della città sono
piene di false luci. Non fate come la signora maestra che si è fatta incantare
dai fuochi artificiali.”
“Chi sono i fuochi artificiali?” Chiedono le ragazze.
Tocca a me spiegare chi sono i fuochi artificiali.
Mi passo una mano sugli occhi e dico: “I fuochi artificiali
sono chi scrive poesie su fogli di quaderno e i fogli lascia cadere dalla
finestra e chi li prende li prende.”
Le mie scolare alzano le spalle, loro non sanno l’amaro che
c’è nelle poesie. Loro alzano le spalle e guardano la finestra.
Meraviglia!
Cade la neve!
Il mondo che prima era nero adesso è bianco smaltato.
Le cicogne sui tetti che prima erano grigie ora sono candidi
crisantemi.
Tutto tace!
Il fuoco della stufa non brontola più.
La neve imbianca il silenzio.
Con un filo di voce ringrazio il Signore: Gloria a te, dico,
fai che chi scrive poesie precipiti dalla finestra assieme ai suoi fogli, ma
cadendo non si faccia neppure un graffio.
Amen, mio Signore!
(1271)
Scena 6
IL GRIDO
Quando viene l’estate la scuola è chiusa ma io faccio lezione
comunque, appena fuori dal paese, in mezzo al campo, sotto l’albero di quercia.
La bambina che zoppica me la porto in spalla, quella che ha
paura di tutto la tengo per mano. Ci sediamo sotto l’albero e parliamo. Io
fingo di avere meno anni di tutti e chiedo alle scolare come fare per vivere.
Una mi dice: Lavati con l’acqua dei fiori
Io scrivo sul mio quaderno: Acqua dei fiori
Un’altra: “Fai sette capriole al giorno.
Io scrivo: “Sette capriole.”
Un’altra: “Quando cammini attenta a non schiacciare le formiche.”
Scrivo: “Formiche.”
Quella che zoppica: “Parla con l’Angelo custode.”
Non scrivo niente.
Sollevo gli occhi dal quaderno e guardo l’infinito del campo
davanti a noi. Tutti guardiamo l’infinito del campo davanti a noi.
Nell’infinito del
campo davanti a noi non c’è nessuno.
La ragazza che non parla si
alza in piedi, fa due passi verso l’infinito del campo, si ferma,
si leva sulle punte dei piedi, drizza la testa, mette le mani intorno alla
bocca e caccia un grido.
Sia gloria a te, Signore!
(1115)
Scena 7
L’ALBUM DEI FIORI
È tardi nella notte, cammino in punta di piedi per non
svegliare chi già dorme da un pezzo, il cagnolo accucciato ai piedi del mio
letto, la farfalla posata sulla libreria, il tarlo sprofondato nella gamba del
tavolo.
Dorme anche il ciliegio del cortile abbracciato alla notte.
Apro l’album dei fiori.
Ogni fiore una stagione: quando ero bambina calzelunghe,
quando ero giovinetta pattini d’argento, ora che sono donna ombra sul muro.
Gloria a te, Signore, che tutto nel mio cuore è rimasto intatto, la bambina che
saltava la corda, la giovinetta che nuotava nel fiume, la donna che scriveva a
chi era lontano. Ora il tempo si è fermato, delicatamente i giorni si sono
scoloriti come i fiori dell’ album. I fiori hanno conservato le loro sottili
nervature, i loro labili perimetri, qualche leggerissima sfumatura di colore
per cui posso ancora riconoscerli.
Tu sei il gladiolo, tu sei il ciclamino, tu sei il garofano,
la clematide, la margherita, la primula, tu sei la pace, tu sei la pazienza, tu
sei la letizia, tu sei la tenerezza, tu sei la gioia, tu sei… quasi non ti
riconosco, ma sì, faccia furba, tu sei l’amore, gloria a te, Signore, che hai
conservato il cuore in tumulto…
(1238)
Estate a Milano (Palazzo Reale) |
VIOLENZA
La giungla
urbana
Per strada mi è
capitato di assistere a questa scena. Un'auto sorpassava velocemente. La manovra azzardata aveva
un che di tracotanza. Quindi urtava lievemente la vettura superata. Di per sé
un fatto banale. Fermatosi, il conducente bilioso, sceso di scatto, si
presentava al malcapitato della macchina scavalcata apostrofandolo minaccioso:
“Scendi pezzo di merda” e lo colpiva con un pugno sul viso.
Questo è un
esempio di violenza quotidiana. Vogliamo parlare della violenza che sotto le
più svariate forme si consuma ogni giorno sul nostro pianeta. Di tutto ciò che
la storia racconta a proposito di questo argomento fin dai tempi in cui l'uomo
è apparso sulla terra. Sarebbe materia enciclopedica ed orrore per il lettore
per quanto sia assuefatto alle notizie brutali e feroci che ci propina la
televisione. Sembrerebbe che l'essere violento sia intrinseco alla natura
umana. Di ciò dà conferma la
Bibbia. Supponendo che tale libro provenga dai testi di antichi uomini saggi,
di patriarchi, di profeti, le cui scritture si siano sedimentate nei secoli
della protostoria come i ricchi giacimenti petroliferi provengono dalla
fossilizzazione nei millenni di accumuli organici, in esso vi è pur narrata e
posta all'inizio dei tempi la vicenda di Caino ed Abele ben nota a tutti. I
versetti del Vangelo di Matteo 11,12 recitano altresì: “... il regno dei cieli
soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono”. Ohibò parrebbe antitetico.
In noi dobbiamo
trovare la forza di reprimere e sublimare gli istinti bestiali; elevare il
nostro spirito ed il corpo verso una mèta dove i rapporti umani siano
improntati alla tolleranza, alla pacifica convivenza, alla civiltà nel senso
autentico del termine. Più in alto in questa scala di valori esistono vocaboli
come la comprensione e l'amore.
Tiziano Rovelli
UNA GITA SCOLASTICA IN JUGOSLAVIA
Guardavo
due volumi tra molti presenti nella mia piccola biblioteca domestica. Mi
suscitarono un ricordo. Il ricordo di chi mi aveva consigliato l'acquisto.
La
breve storia che ora mi accingo a raccontare rappresenta un momento di scandalo
e soprattutto un momento di liberazione nella mia vita di ragazzo, di studente
di un noto istituto confessionale di Milano. Era l'anno 1968 e frequentavo la
quarta ginnasio dai preti. In questa scuola l'ambiente sociale era tipicamente
clerical- fascista e impenetrabile ai venti innovativi che soffiavano impetuosi
in città e nel mondo. Gli eventi della contestazione giovanile. Del resto
l'utenza presente nell'istituzione era reclutata nella piccola, media e alta
borghesia milanese.
Debbo,
a questo punto, tracciare il profilo dei due personaggi della vicenda, anche se
il vero protagonista è uno solo. Il personaggio più insignificante è un prete,
il mio professore di lettere, Don Gallina, non più giovane, alquanto
all'antica, nevrotico quanto basta, autoritario, culturalmente pedissequo e
povero, isterico; una persona antipatica e odiosa nella sua veste nera spesso
anche sporca. Citerò un esempio della sua didattica che varrà una lunga
descrizione; spiegava letteratura italiana leggendo sottobanco il bigino e
durante la lezione voleva assoluto silenzio altrimenti perdeva il filo del
discorso e con una matita si grattava nervosamente dietro l'orecchio, per la
tensione della sua misera enunciazione di concetti, dove era probabile
esistesse da tempo un eczema purulento.
L'altro,
il protagonista, era un giovane, non era ancora prete ma viveva all'interno
dell'istituto per diventarlo, un chierico; insegnava storia a noi ragazzi,
grassottello, non alto, aveva un viso e gli occhi vispi che denotavano un
intelletto perspicace e uno sguardo furbetto e talvolta ironico. La sua cultura
era vasta e approfondita e spiegava storia sempre partendo dall'analisi dei
testi degli autori (ad esempio ricordo una lettura analitica del De Bello
Gallico di Giulio Cesare laddove descriveva i popoli germanici). Noi lo
chiamavamo Don Iorio.
Ora
veniamo, senza indugio, al racconto della vicenda che si svolge durante una
gita scolastica in Jugoslavia e vede nelle due persone or ora descritte i
nostri accompagnatori.
Laura Zeni "Corpi e Geometrie" 2013 |
Don
Iorio evidentemente contestatore del sistema, uomo di sinistra, in
quell'occasione esplicò la sua azione rivoluzionaria e ci spinse alla
trasgressione. Ecco quali furono le sue azioni esplosive che suscitarono in noi
prima sgomento poi felicità per la libertà ritrovata. Una volta giunti a Pola
con il pullman ci sistemammo in un albergo dove all'interno notammo che era
presente anche un night club con spogliarelli annessi ( i preti nella loro
organizzazione turistica non potevano prevedere tutto).
È
singolare come ricordo un profumo indefinito, di non so che, probabilmente il
profumo di quella terra rossa, che ci accompagnò per tutto il tempo trascorso
in quel viaggio e che in seguito identificai come il profumo della mia perduta
innocenza di fanciullo. Don Iorio ci invitò ad andare a vedere lo streptease e questo ci sorprese e turbò
non poco. Alcuni andarono, altri uscirono con lui fuori dall'albergo nella
tiepida serata di fine primavera. Eravamo senz'altro incuriositi dal volto
nascosto che ci stava presentando questo personaggio.
“Passeggiando
dovete sbottonarvi la bottega dei pantaloni ed infilarci visibile un
biglietto da diecimilalire”.
Si
era comprato dei sigari e fumava sotto il naso di Don Gallina avvolgendogli il
viso in una nuvola di fumo; e chi fumava di noi si sentiva libero di farlo.
Don
Gallina imperterrito, internamente avvampava e meditava la vendetta al ritorno.
Un
gruppo di locali ci insultava in slavo, lui parlando loro fermo, deciso e duro
in tedesco li zittiva e se ne andarono.
Ciò
ci stupiva e aumentava la nostra ammirazione per lui.
Tornati
a casa continuò il suo atteggiamento nei nostri confronti, aveva saltato il
fosso, era diventato come uno di noi. Ci trovavamo fuori dall'orario
scolastico, discutevamo, ci divertivamo
e soprattutto iniziò un'analisi spietata contro l'istituzione fascista che era
la scuola.
A
questo punto la nebbia avvolge i miei ricordi ma penso proprio che Don Iorio fu
allontanato dall'istituto non prima di aver subito un processo interno di
quelli che i preti intentavano anche nei confronti dei loro colleghi pedofili.
Questo per noi era solo un sentito dire.
Guardo
di nuovo i due volumi e ne leggo il titolo: Trattato di sociologia del
lavoro di Georges Friedmann e Pierre Naville.
Tiziano Rovelli