ARABIA SAUDITAdi Lidia Sella
A cavallo tra Medioevo e modernità.
Avete presente Le Mille e una notte, quella magia,
l’atmosfera fiabesca? Ebbene, scordatevi che l’Arabia Saudita, almeno nelle
aree più densamente popolose, riproduca oggi un simile quadro immaginifico.
Sarete anzi catapultati in una realtà alienante, poiché priva di un’autentica identità. Sconfinate distese di capannoni, centri commerciali che
rigurgitano inutile paccottiglia o montagne di merce griffata svuotata di
qualsiasi eleganza. Stazioni ferroviarie semideserte, tirate a lucido. Ma
anonime, spettrali, inquietanti.
Asettici agglomerati residenziali, a testimoniare la
cultura del non luogo. Schiere di giganteschi grattacieli, simboli di
contemporanea ubrys, a negare ogni anelito verso la bellezza. Città spogliate
insomma di qualsiasi logica urbanistica. Oltre che di un’anima. Megalopoli tentacolari, dal traffico infernale, dove
passeggiare è quasi impossibile, anche per la concentrazione elevata di
biossido di carbonio nell’aria. Attraversamenti pedonali pressoché inesistenti,
deviazioni e rotonde rarissime. Autisti tanto distratti da imboccare contromano
una carreggiata a quattro corsie, senza nemmeno avvedersi dell’errore
(esperienza da brivido, vissuta in prima persona). Perlopiù ignorati i
semafori, nonostante telecamere installate ovunque e contravvenzioni
salatissime. In compenso il ricorso al clacson è meno frequente e compulsivo
che a Il Cairo o a Palermo. Sulle strade extra-urbane, limiti di velocità assai
ridotti. Il prezzo della benzina non supera il mezzo euro al litro. La maggior
parte dei lavoratori provengono dai Paesi confinanti, India, Pakistan, Turchia,
Giordania, Egitto, etc. In pochi accettano volentieri le mance. A riceverle con
gratitudine sono soprattutto le donne, in genere addette alle mansioni più umili,
come la pulizia delle toilette. Quasi nessuno parla inglese. Taxisti compresi. Nei
ristoranti a buon mercato, ti rifilano piatti, bicchieri e posate di carta. Il
coltello non lo usano quasi mai. Coprono i tavoli con orrende tovaglie di
plastica trasparente. Le famiglie autoctone vengono fatte accomodare in
postazioni celate da separé in vetro opaco o da spessi tendoni. Grappoli di
donne, a tre, quattro per volta, si recano fuori a cena da sole, senza
cavalieri.Di norma il servizio di tavola è sconclusionato,
approssimativo, di una lentezza inspiegabile, esasperante. Quando il commensale
ha terminato le sue pietanze, nessuno si preoccupa di sparecchiare. La cucina
araba, salvo forse per i contorni, è piuttosto povera, senza guizzi, pollo
arrosto o in umido e riso bollito allo zafferano, qualche volta l’agnello,
assai di rado il pesce, salvo lungo la costa. Dove mi sono deliziata con una
scorpacciata di gustosissimi granchietti. Il vino non viene venduto nemmeno negli
hotel internazionali. Però sembra che i ricchi sauditi dispongano di pregiate
cantine ad alto tasso alcolico. Irreperibile anche la birra analcolica.
Talvolta si riesce a acquistare l’acqua frizzante, Perrier o San Pellegrino, a
costi proibitivi. Spiacevoli ricordi anche sul versante alberghiero:
claustrofobiche finestre sigillate; vetri lerci; acqua piovana che dal tetto
colava nella hall, dove veniva raccolta in secchi di plastica disseminati qua e
là; moquette consunte, piene di macchie; una stanza da letto invasa da mosche,
che ho parecchio faticato ad ammazzare, tranne quando infine si posavano su uno
specchio e lì, per mia fortuna, i loro cento occhi forse si confondevano un po’;
impianti ad aria calda antidiluviani, rumorosi, poco efficaci; sale da pranzo
gelate; demenziale cenone di capodanno allestito all’aperto, con una
temperatura al di sotto dei dieci gradi; nessuna reception equipaggiata per
cambiare euro in ryhad.Lo shopping offre più che altro stoffe, tea, caffè,
spezie, profumi, cristalli, incensieri, gioielli dal gusto un po’ pacchiano. Le turiste sono tenute a evitare gonne corte, spacchi,
scollature, abiti smanicati. Il velo è richiesto tuttavia soltanto per accedere
alla moschea. Molte arabe girano a viso scoperto, le più giovani e
benestanti sfoggiano un trucco pesante, labbra “a canotto”, nasi in ciclostile,
volti deturpati da massicci quanto maldestri interventi di chirurgia plastica.
La propensione all’eccesso si concentra dunque nell’unica parte del corpo che è
dato loro esibire. Alcune sono così orripilanti che ci si domanda come mai non
abbiano optato per il burqua integrale. I bimbi, in genere piuttosto bruttini,
a tratti ti fulminano con sguardi demoniaci. Femminucce afflitte da un’inestetica
peluria scura, sfoderano precoci baffi e basette. I marmocchi arabi spesso
frignano o gridano senza ritegno. Nel disperato tentativo di richiamare l’attenzione
delle madri, incuranti dei propri pargoli poiché perdute nello schermo del
telefonino.Il viaggio ci ha comunque riservato numerose mete
imperdibili. Mi limito a citare le principali.Al nord. Madain Saleh, l’antica
Hegra, complesso di tombe nabatee inserite in un contesto naturale di
straordinaria bellezza, con i misteriosi portali dei sepolcri che sembrano
condurre direttamente nell’Aldilà.
I graffiti paleolitici di Jubbah, un invito a
spiare nella mente dei nostri antenati, attraverso le primissime espressioni
artistiche di un’umanità animata dal desiderio, proprio come noi, di eternarsi
nel tempo, ed esorcizzare la morte, mediante un segno affidato alla roccia.
Il Maraya Concert Hall, progettato da un gruppo di
architetti, fra cui l’italiano Massimo Fogliati. Si tratta di un colossale
teatro con pareti a specchio, che riflettono il paesaggio circostante,
catturano e moltiplicano la realtà, e la luce, proiettano l’osservatore in un
percorso percettivo dal sapore sapienziale.
Al centro. La moschea di Medina,
con il pullulare di pellegrini che giungono da ogni parte del mondo islamico,
calamitati dal richiamo del sacro, in un contagioso vortice di frenesia,
trepidazione e misticismo. Nei dintorni di Riyadh, il sito Unesco Dir‘iyya:
architetture dall’aspetto primitivo, benché risalgano al XIV secolo, ma dalle quali
sprigiona un intrigante fascino esotico.
Al sud. A Geddah meritano una
visita la Moschea sull’acqua, il mercato ittico e, naturalmente, la città
vecchia, suggestiva selva di case di legno a graticcio, oggetto di un imponente
intervento di recupero.
Riyal Alma, dalle tipiche costruzioni
di sassi in stile yemenita, una accanto all’altra, alte e strette come le insule
che nell’antica Roma ospitavano la plebe, persiane gialle, verdi o blu, gli
interni a motivi geometrici, dipinti da mani femminili, in mille gioiosi
colori: Van Gogh avrebbe apprezzato. Una breve divagazione: lungo il tragitto
per raggiungere questa località, ci siamo imbattuti in numerosi clan di scimmie
che si sporgevano a scrutarci dal ciglio della strada, con un’aria tra il
beffardo, l’imbronciato e il sospettoso, e ci osservavano con la medesima
curiosità con cui le osservavamo noi. Però erano talmente mostruose che mi
venne spontaneo domandarmi: ma come potrebbe la nostra specie essere davvero
germogliata da un seme di così ripugnante bruttezza? E quasi come se fosse
Charles Darwin in persona a fornirmi una stravagante risposta, in quel preciso
momento mi tornò in mente una frase che lo scienziato aveva appuntato nei suoi Taccuini
filosofici: “Il diavolo sotto forma di babbuino è il nostro antenato.”
Oltre alla compagnia di alcuni amici cari, ad allietare
questa mia vacanza hanno contribuito quattro piacevoli letture. Lawrence
d’Arabia, biografia scritta dallo storico Franco Cardini, che
indaga i retroscena della genesi del Medio Oriente. Arabia
deserta, emozionante reportage d’epoca, stilato da Charles
Doughty, medico, archeologo e poeta inglese che per due anni, dal 1876 al 1878,
si avventurò nel deserto arabico, al seguito di una carovana di beduini. Un’impresa
estenuante: soffrì la fame, la sete, il freddo, camminò per miglia e miglia a
piedi nudi sulla sabbia bollente, fu bersaglio di agguati, furti e reiterate
minacce di morte. Eppure, nonostante tutte queste peripezie e la sua salute
cagionevole, conservò sempre lucidità, tenacia e coraggio. Con estrema
oggettività e attraverso una prosa non priva di slanci lirici e sense of
humor, ha riportato curiose notizie circa gli usi e i costumi locali. In
diversi passi ha indugiato sull’atavica attitudine del popolo arabo alla
menzogna e al tradimento, e fornito preziose indicazioni riguardo alla
geografia e alla morfologia del territorio. A svagarmi nelle mie notti insonni, anche
il libro Alle origini degli Arabi, saggio a firma di Romolo
Loreto, archeologo e docente di archeologia e Storia dell’Arte del Vicino
Oriente antico, presso l’Universita degli Studi di Napoli. In queste pagine, ho
reperito una messe di interessanti informazioni. Mi limiterò a citarne alcune,
spilluzzicando qua e là. “La più antica menzione scritta del termine Arabi si
trova in un’iscrizione del re assiro Salmanassar III (854-824 a.C.)”.“Il sovrano assiro Sennacherib (704-681), riferisce di
aver mosso guerra contro Telkhu, regina degli Arabi”. “Scilace di Carianda, per ordine di Dario I (522-486),
circumnaviga l’Arabia dall’Indo all’Egitto”. “Il periplo del Mar Eritreo, portolano scritto da un
greco intorno al 50 dopo Cristo, riferisce rotte, approdi sicuri e descrizioni
di luoghi e situazioni politiche dalle coste egiziane sul Mar Rosso lungo tutta
la Penisola arabica e fino all’India”. “I Romani crearono una base nelle isole Farasān e poterono
spingersi verso l’isola di Socotra, al largo delle coste Yemenite meridionali e
da qui (…) proseguire verso l’India”. “Il dromedario può arrivare a perdere liquidi fino al 30%
del suo peso corporeo prima di risentirne, a differenza dell’uomo che intorno
al 12% rischia la morte”. Un dromedario partorisce per la prima volta attorno
al quinto o sesto anno di vita e genera un solo piccolo ogni due anni”. Ho infine consultato una breve dispensa universitaria,
dal titolo Le parole di origine araba nella lingua italiana, opera di
Lorenzo Lanteri, pubblicata nel 1991. Per scoprire ad esempio che “macabro” deriva
dalla lingua del Corano, dove maqbarat significa cimitero e maqbariyyum
sepolcrale. Oppure che il mehari
è il dromedario da corsa. O che spinaci, melanzane e carciofi sono stati
introdotti in Europa dagli Arabi. Cosi come alcuni alberi da frutta, cioè aranci,
limoni, albicocchi, ribes, etc. L’autore ricorda anche che il termine assassino
rimanda a hashshashūn (fumatori di hascisc), affiliati di una setta
mediorientale attiva all’epoca delle Crociate, che venivano drogati dai propri
capi, per essere impiegati in delitti su commissione. Lanteri ci rammenta anche
che anticamente l’Iraq, centro del Califfato, intratteneva continui scambi con
l’India. Da lì arrivarono le cifre, dette poi numeri arabi, e in particolare lo
zero, che in arabo si dice sifrun, a ricalcare la voce sanscrita sūnya,
che sta a indicare il vuoto. A proposito di numeri, nell’osservare una targa
automobilistica, ho notato che i segni grafici arabi utilizzano sono un po’ diversi
rispetto a quelli di cui ci serviamo oggi noi occidentali.
Ribelle alla regola del “dulcis in fundo”, concludo il
mio reportage con una nota inquietante. Nei pressi della capitale Riyadh, sorge
il Diriyah Biennale Foundation, una sorta di tempio della modernità,
immenso centro di informazioni e promozione immobiliare dove,
grazie a una serie di plastici, video e simulazioni, il visitatore può
entrare in confidenza con The Line, o Neocom, progetto
edilizio avveniristico, già in fase di costruzione, da ultimarsi entro il 2030.
Si tratta di due edifici che sorgeranno l’uno di fronte all’altro, alti 500
metri e larghi 200. Correranno in parallelo, per 170 chilometri, attraverso tre
diverse regioni nel sud dell’Arabia Saudita, e potranno contenere 9 milioni di
persone. Una prospettiva agghiacciante, insomma, una sorta di gigantesco
alveare umano, una galera collettiva che consente una perfetta omologazione e
un’agevole sorveglianza, e si ispira alla prospettiva distopica della “città dei
5 minuti”: una mobilità ridottissima, per contenere al massimo le emissioni
inquinanti, in un’ottica di green ed efficientamento energetico.
A Oxford, la sperimentazione sulla “città dei 15 minuti”,
che prevede un numero limitato di permessi per superare i varchi che delimitano
il distretto di residenza, è già stata avviata, fra le vibranti proteste degli
abitanti. E sembra che tra poco il medesimo sciagurato modello liberticida di
viabilità approderà anche in Italia, con ogni probabilità a Milano. L’idea di
trasformare i quartieri urbani in altrettante gabbie è del World Economic
Forum. Evidentemente anche il Principe saudita Mohammed Bin Salman si è piegato
ai diktat dell’agenda mondialista ONU 2030. Poveri popoli, Arabi compresi,
vittime perlopiù inconsapevoli dei piani criminali perseguiti, a loro danno,
dai poteri forti
*
LA FAVOLA BELLA CHE IERI MI ILLUSE, CHE OGGI TI ILLUDE
***
KARAGANDA
(OVVERO GAZEL DI SAMARCANDA)*
di Christian Eccher
Samarcanda
La luce intensa del tramonto,
filtrata dai minuscoli granelli di polvere sospesi a mezz’aria lungo la linea
dell’orizzonte, colora di rosso il Reghistan, la piazza più famosa di
Samarcanda, composta da tre madrase disposte ad angolo retto, quasi fossero le quinte
di un immenso palcoscenico; il quarto lato della piazza è invece aperto e
guarda verso il trafficato boulevard che collega il centro alla periferia della
città; Il boulevard è sollevato di una decina di metri rispetto al piano su cui
si trova il Reghistan; l’amministrazione comunale ha pensato bene di occupare
il dislivello che corre fra la piazza e la strada con una gradinata su cui è
possibile sedersi e ammirare le tre madrase in tutto il loro splendore. Proprio
dietro al Reghistan ha inizio la via pedonale Karimov, che porta il nome del
primo presidente dell’Uzbekistan, Islam Karimov, morto nel 2016. L’elegante
strada prende simbolicamente avvio dalla statua gigantesca che ritrae Karimov
stesso e collega il boulevard alla moschea, al mercato e ai mausolei che
sorgono lungo il percorso che separa il centro cittadino dal cimitero musulmano,
il quale si trova a sua volta su una collina, al di là della valle che come una
ferita divide in due il centro della città. Nella valle, dove un tempo scorreva
un torrente, è stata costruita un’importante via di comunicazione - una
superstrada - che costeggia il cimitero e prosegue verso Tashkent. In
corrispondenza della stretta dolina, la via Karimov si trasforma in un ponte
moderno, pedonale, che scavalca la superstrada per Tashkent e unisce la collina
brulla al centro storico. La Luna sorge e si specchia nella rocciosità riarsa
del cimitero, scuro di polvere e bianco di marmo, esattamente come la
superficie lunare, sasso splendente ai crateri dei poli e palude sabbiosa al
Mare della Tranquillità.
Il
Rinascimento timuride
I monumenti di Samarcanda risalgono al Rinascimento
timuride del XVI secolo; in realtà, la città ha una storia antichissima, che
data al 500 a.C. I secoli antecedenti all’islamizzazione, avvenuta nell’VIII
secolo a seguito dell’invasione araba, si perdono nelle nebbie della Storia;
diverse spedizioni archeologiche, soprattutto russe e francesi, hanno cercato
di fare luce sul passato della città. A puntare un faro su un muro di nebbia,
si sa, ciò che si ottiene è solo una forte luce riflessa che non permette di
vedere cosa ci sia al di là della massa di umidità. I risultati delle ricerche
sono stati deludenti e ciascuna spedizione ha messo in luce quella porzione di
passato a cui teneva di più: gli occidentali hanno sottolineato lo stretto
rapporto fra Samarcanda e la Grecia antica, dato che Alessandro Magno si spinse
fin qui nel 329 a.C. I sovietici hanno evidenziato i legami fra l’Asia Centrale
e i popoli della steppa, alcuni dei quali furono sottomessi dai russi. In Asia
Centrale, così come nei Balcani e nel Caucaso, regioni di confine, il Passato
si complica e assume mille volti, a tal punto da non riuscire a diventare narrazione
razionale ed empirica, vale a dire Storia. Ciò che sappiamo è che Samarcanda
era un ricco centro urbano che sorgeva nella valle del fiume Zeravashan; la
terra alluvionale fertile forniva frutta e verdura a volontà. La catena
montuosa alle spalle della città, il Karatyube, era fonte di legno, pascoli per
gli armenti e alberi utili all’edilizia. Già prima di Alessandro Magno, quando
Samarcanda, che all’epoca si chiamava Maracanda, era la capitale della Satrapia
achemide di Sodgiana, era presente un sistema molto sviluppato di irrigazione
che permetteva di estendere le aree coltivabili oltre le rive del fiume
Zeravashan. Del periodo remoto e degli imperi achemide e arabo non rimangono
tracce, a eccezione dei segni scavati nel terreno che ricordano la presenza di
canali abbandonati e di piccole montagne di terra, denominate “Tepa”: Difficile
dire a cosa servissero queste collinette, ormai quasi completamente distrutte
dai bulldozer sovietici che le hanno spianate per costruire nuovi edifici;
forse erano “kurgan”, i monumenti funerari tipici di l’Asia Centrale e del
Caucaso. Della Samarcanda antica rimane poco perché il florido centro urbano fu
raso al suolo da Genghis Khan e dai mongoli durante la loro avanzata verso
occidente. Quando nel 1227 il grande condottiero, terrore dell’Eurasia, morì,
il suo impero fu diviso in “Ulus”, vale a dire in regioni governate dai figli
dell’imperatore. La divisione è sempre un segnale di disgregazione. Il
secondogenito di Genghis, Chagatai, ricevette il territorio della Transoxiana,
dove si trovava quel che restava di Samarcanda. I figli non dovrebbero mai
seguire le orme dei padri: Chagatai si rivelò un sovrano debole e incapace.
Della sua debolezza approfittò un giovane sconosciuto, Timur, che era rimasto
ferito a una gamba e per questo era zoppo: come spesso avviene in questi casi,
una caratteristica fisica che balza agli occhi diviene il segno di
riconoscimento, l’essenza ultima della persona: il Nome. Non senza un pizzico
di malignità, il giovane Timur fu soprannominato “Timuri-Leng”, vale a dire
Timur lo zoppo; i popoli, contro cui il condottiero combatté, non capivano il
significato di quel soprannome, che storpiavano e adattavano alle regole
fonetiche delle proprie lingue: in Europa il nome del giovane Timur si
trasformò in Tamerlano. Nel 1369, Samarcanda divenne la capitale del Regno di
Timur, che, fra una guerra e l’altra, non disdegnava l’arte: fu lui a far
costruire i primi monumenti di Samarcanda, seguito poi dal figlio Shah Rukh e
dal nipote Ulan Beg, uno dei più grandi astronomi di tutti i tempi. Sotto la
dinastia dei Timuri di, Samarcanda ed Herat, che oggi si trova in Afghanistan e
che dal 1409 divenne la capitale del regno, conobbero una fioritura senza
precedenti. A Samarcanda arrivarono scultori, mosaicisti da Shiraz ed esperti
stuccatori dall’Azerbaigian e dall’India; da Damasco accorsero in gran numero
vetrai e ceramisti. Samarcanda divenne un gioiello di colori, di mausolei dal
timbro blu (il blu è il colore predominante della città), di eleganti e
dinamici minareti dai mosaici multicolori e a losanghe, dalle cupole d’oro (sui
cui oggi crescono discreti ciuffi d’erba verde, segno del tempo che passa e non
dell’incuria delle istituzioni), delle madrase – le scuole musulmane – dalle
mille stanze a ospitare gli studenti e dai mille balconi aperti al vento della
steppa. Il Rinascimento finì nel 1500, quando Samarcanda fu conquistata da una
tribù di nomadi di origine turca che aveva già da tempo il desiderio di
diventare stanziale: gli uzbeki, che crearono una serie di regni poi inglobati
nell’Emirato di Bukhara, a sua volta conquistato dai russi negli anni Venti
dell’’800.
La
Samarcanda odierna
Samarcanda è oggi la seconda città dell’Uzbekistan per
importanza e la terza per numero di abitanti. La capitale, Tashkent, è distante
350 km. Dell’atmosfera e della ricchezza spirituale del periodo rinascimentale
è rimasto poco o niente e la Samarcanda contemporanea è una città dagli edifici
sovietici e dalle periferie sovraffollate e caotiche. Il mito di Samarcanda è
semplicemente una versione di quel fenomeno che Edward Said definisce
“Orientalismo”: sono gli occhi degli occidentali a conferire all’Oriente quel
“quid” di esotismo misto ad avventura che viene di solito attribuito alle terre
situate a est della Grecia. Samarcanda accontenta i propri ospiti: il mercato
del centro storico è una sinfonia di spezie e di abiti di seta, ma è
artificiale come tutta la città vecchia: non ha nulla di reale, così come le
moschee e i mausolei, che sono la testimonianza solo materiale di un tempo
ormai passato ma che non vengono più utilizzati dagli uzbeki nella vita
quotidiana. Si ha l’impressione che Samarcanda sia un parco turistico e che
mostri sé stessa senza pudore come una puttana, che si trucca e si veste
semplicemente come i clienti desiderano, al fine di dar corpo alle loro
fantasie. Samarcanda è un teatro, con le quinte e il palcoscenico: i turisti si
muovono mirabilmente lungo sentieri già marcati, proprio come i nomadi della steppa
si spostavano seguendo strade e tratturi segreti, invisibili agli occhi di un
profano. Ai margini della via Karimov c’è un muro, lungo il quale si apre un
solo varco. A nessuno viene in mente di oltrepassare l’unica porta di quel muro
di mattoni chiari. A sinistra, per chi va verso il cimitero, ci sono i
monumenti, a destra la parete divisoria. Quel muro è una frontiera e
costituisce il valico fra Mondo Nord e Mondo Sud, fra turisti francesi,
inglese, cinesi, americani, russi e gli uzbeki che a Samarcanda vivono. A sera,
al tramonto (tu che m’hai preso il cor,
sarai per me il solo amor), i venditori del mercato raccolgono le merci
invendute - pane, dolci, erbe odorose - e si avviano verso il muro, verso il
varco. Lo oltrepassano e sono a casa. Al di qua del muro è sfarzo, è Storia
raggelata in museo, è Orientalismo. Al di là è Uzbekistan. Il muro ha il
compito di dividere i due mondi, è abbastanza alto da nascondere le abitazioni,
da mascherare la realtà, da eliminare la vista della povertà che potrebbe
risultare fastidiosa ai turisti. Un muro (anche architettonicamente) simile a
quello di Samarcanda si trova a Baku, la capitale dell’Azerbaigian, lungo la
strada che conduce dall’aeroporto al centro della città: gli stranieri non
devono vedere i bambini seminudi che giocano a pallone, le strade non asfaltate
e le porte spalancate delle case spesso senza acqua corrente ed elettricità. A
Samarcanda non c’è miseria, la città vive di turismo e di servizi: nonostante
ciò, lo iato fra il tenore di vita degli ospiti stranieri e quello degli uzbeki
autoctoni è palpabile e il muro ha la doppia funzione di preservare il sogno da
mille e una notte degli occidentali e di evitare alla popolazione locale di
sentirsi inferiore nei confronti di chi viene da lontano con le tasche piene di
valuta pregiata. In centro a Samarcanda, al di là della frontiera, non ci sono
mausolei blu ma solo le tipiche case uzbeke, dai portoni in ferro a nascondere
la corte sui lati della quale si affacciano gli usci delle varie stanze. La vita
si svolge all’aperto, nel cortile si cucina, si mangia, si parla, si discute.
Alcune di queste abitazioni sono lussuose, la maggior parte sono dignitose ma
povere. Le strade sono in cemento, al centro c’è un canale di scolo lungo il
quale defluisce l’acqua utilizzata per annaffiare o per lavare il selciato dei
cortili interni. Gli automobilisti, con grande maestria, guidano evitando che
le ruote cadano in uno di questi canali. Alcune strade non sono asfaltate,
soprattutto lì dove le case si fanno più semplici. Dai cortili provengono
belati di capre e i versi di altri animali domestici. L’immondizia fuoriesce
dai cassonetti, che da giorni non sono stati svuotati. Due turisti inglesi
passeggiano per le stradine al di là del muro: hanno passato incautamente il varco
e non sanno dove si trovano. Un bambino si offre di accompagnarli nella
Samarcanda che appartiene loro in cambio di 10.000 som, che corrispondono a un
dollaro americano.
Dopo
l’URSS
L’Uzbekistan ha ottenuto l’indipendenza nel 1991 e il
primo presidente, Islam Karimov, ha adottato misure politiche ed economiche
originali: non ha seguito, come tutti gli altri paesi dell’area ex-sovietica, i
consigli del FMI e della Banca Mondiale e ha aperto l’economia ai privati ma
sempre sotto la supervisione dello Stato. Se questa politica sia stata efficace
o meno è materia di discussione fra gli economisti: da un lato l’Uzbekistan non
ha dovuto confrontarsi con i grossi traumi sottesi alla logica neoliberista,
come per esempio le privatizzazioni selvagge e il ritiro dello Stato da settori
chiavi quali energia, sanità e istruzione. Dall’altro però, i quasi 2 milioni
di uzbeki emigrati in Russia negli ultimi vent’anni sono un chiaro segnale che
la disoccupazione ha raggiunto livelli insostenibili e che le condizioni di
vita nel paese non sono fra le migliori. Karimov è morto nel 2016 e il suo
successore, l’ex premier Shakvat Mirziyoyev, ha subito dato inizio a una
politica di riforme in campo politico, economico e giuridico che potrebbero
portare l’Uzbekistan ad assumere nel giro di pochi anni un ruolo guida in Asia
Centrale. Nel febbraio del 2017, il presidente ha stilato una sorta di
manifesto intitolato “La Strategia”, un documento in cui si mettono in luce i
cambiamenti che il governo vorrebbe realizzare dal 2017 al 2021 (in epoca
sovietica, simili pamphlet venivano chiamati “Piani quinquennali”). Per prima
cosa, Mirzyoyev ha aperto le frontiere del paese, che per anni è rimasto
chiuso, quasi ermetico nei confronti degli stranieri, visti come una possibile
fonte di destabilizzazione delle istituzioni: non solo perché la
globalizzazione neoliberista, con le sue riforme finanziarie e sociali
draconiane e ingiuste impauriva Karimov, ma anche perché dai paesi vicini, in
particolar modo dal Tagikistan e dall’Afghanistan, arrivavano i terroristi
islamici; come se questo non bastasse, dal Kirghizistan spiravano forti venti
democratici (nel 2010, dopo una sanguinosa rivoluzione, il Kirghizistan ha
trasformato il proprio sistema politico in una repubblica parlamentare, la
prima in Asia Centrale). Il nuovo presidente ha subito incontrato i colleghi
dei paesi confinanti e ha iniziato con loro una proficua collaborazione,
soprattutto con il Kazakhistan con cui sono ancora aperte questioni relativa ai
confini di Stato: non bisogna dimenticare che i paesi dell’Asia Centrale sono
artificiali, creati a tavolino dalle autorità sovietiche negli anni Venti per
dividere popoli che fino ad allora avevano convissuto nella stessa entità
statuale, il Turkestan. In Uzbekistan ci sono 5 partiti, tutti filogovernativi
e filo-presidenziali: Mirzyoyev, che appartiene al Partito Liberal-Democratico,
sta spronando i leader e i parlamentari a differenziarsi il più possibile fra
loro e a sviluppare programmi differenti. Non è escluso che nuove
organizzazioni politiche si formino in futuro, anche se difficilmente ciò
accadrà in occasione delle prossime elezioni parlamentari, che si terranno a
dicembre del 2019. Una di queste neonate associazioni potrebbe anche decidere di
assumere un ruolo di opposizione. Sarebbe la prima volta in Uzbekistan. Certo
la società non è affatto abituata a decidere in maniera autonoma: i ragazzi
dell’Università, per esempio, vengono trattati come fossero ancora bambini dai
loro professori, che hanno addirittura l’obbligo di far visita una volta al
mese ai propri studenti fuori sede, sia a quelli che vivono nella casa dello
studente sia a quelli che affittano un appartamento. Si tratta di veri e propri
blitz: a sera, una o più volte all’anno, i capo-cattedra suonano il campanello,
entrano in casa e controllano che gli studenti vivano in condizioni decorose e
non facciano uso di droga e alcol. Nelle aule dell’ateneo di Samarcanda vigono
ordine e disciplina: le studentesse sono vestite con calze di nylon, una gonna
scura e una camicia bianca. Alcune portano il chador, altre no. Le ragazze
appena sposate indossano vestiti multicolori a indicare la (presunta) gioia di
essersi accasate. Gli studenti indossano la giacca ed è obbligatoria la
cravatta. Il ritratto dell’Università che ne viene fuori è piacevole, ma nello
stesso tempo nasconde l’assoluta mancanza di autonomia da parte degli studenti,
che non possono neanche scegliere come vestirsi. Comportamenti ribelli, a
cominciare da quelli legati all’abbigliamento e più in generale al proprio
corpo, non sono ammessi e forse neanche contemplati.
Per quel che riguarda l’economia, Mirziyoyev ha
stabilizzato il tasso di cambio: fino a pochi anni fa, il valore del som, la
moneta nazionale, non era lasciato libero di fluttuare ma era determinato a
tavolino dal Ministero delle Finanze: c’erano per cui due cambi, uno
artificiale e perciò poco conveniente, quello ufficiale, e uno reale, ma
illegale: come nella Jugoslavia di fine anni ’90, la valuta straniera si
comprava al mercato. Mirziyoyev ha poi invitato il Parlamento ad assumere un
ruolo centrale nella vita pubblica: per la prima volta i deputati hanno
viaggiato per il paese, su invito dello stesso presidente, e hanno incontrato i
cittadini, confrontandosi con loro.
Mirziyoyev ha anche spinto i contadini a differenziare la
produzione agricola. Ancora sotto Karimov, l’Uzbekistan, uno dei principali
produttori mondiali di cotone, aveva continuato a seguire piani produttivi di
matrice sovietica: L’URSS, infatti, pretendeva che ciascuna repubblica
producesse ciò che Mosca riteneva necessario per la propria economia.
All’Uzbekistan era stato affidato il ruolo di produttore di cotone che andava a
fornire le industrie tessili dell’impero. Le conseguenze ecologiche di questa
scelta sono state tragiche: il cotone è una coltura che richiede ingenti
quantità d’acqua, che veniva presa dai pochi fiumi che attraversano il paese.
Il lago di Aral, in Uzbekistan, è quasi completamente scomparso e molte zone
dell’Asia Centrale sono diventate desertiche. Il cotone è ancora uno dei
principali prodotti di esportazione ma comprende solo il 9% dei prodotti
agricoli esportati: Mirziyoyev, infatti, ha spinto gli agricoltori a
diversificare la produzione; alle porte di Samarcanda e un po’ ovunque nella
Valle di Fergana, le piante di cotone sono state estirpate per far posto a
frutteti e a orti. Dal 2017, l’Uzbekistan esporta la propria frutta e verdura
in 43 paesi. Il presidente ha anche facilitato la vita dei produttori di
cotone: mentre fino a pochi anni fa i contadini vendevano i frutti della
preziosa pianta alla ditta “Uzpakhtasanoat”, che aveva il monopolio sul
commercio della fibra, adesso ciascun produttore può vendere il proprio
raccolto a chi vuole. Il prezzo è quello stabilito dal mercato. In settembre, i
campi di cotone si riempiono di braccianti che raccolgono i bianchi batuffoli
che spuntano miracolosamente dai gambi duri e verde-scuro delle piante. Fino
all’arrivo di Mirziyoyev, fra i braccianti c’erano molti bambini che lavoravano
a titolo gratuito: adesso, una legge vieta severamente il lavoro minorile.
Grazie al presidente, è il caso di dirlo, i fanciulli riempiono le aule
scolastiche e non più i campi di cotone.
La
difficoltà di cambiare
Il presidente, nel suo anelito riformista, sembra
sincero. Cambiare però le abitudini decennali di un popolo non è facile. Per
ora, sembra quasi impossibile debellare la corruzione, che in realtà non è
altro che una fonte di guadagno necessaria e non ufficiale, per anni non solo
permessa, ma anche incoraggiata dallo Stato, con il tacito avvallo di tutti i
cittadini. Un poliziotto o un medico ricevono una paga media di 100 dollari al
mese, insufficienti per vivere normalmente; negli anni successivi all’indipendenza
succedeva spesso che per periodi più o meno lunghi le istituzioni sospendessero
l’erogazione degli stipendi. In circostanze simili, i pubblici ufficiali
avevano e hanno ancora oggi il permesso di chiedere tangenti agli utenti dei
servizi offerti dallo Stato: chi non poteva partecipare a questo sistema
economico alternativo, perché impiegato nel settore privato o perché
disoccupato, sceglieva la via dell’emigrazione. Mirziyoyev ha affermato più
volte di voler riportare il paese nella legalità. Ci riuscirà?
Farhod
e il poliziotto
Il poliziotto che controlla i turisti all’ingresso del
Reghistan propone a ognuno di coloro che chiedono informazioni su come entrare
(la biglietteria non è ben visibile), di evitare l’acquisto del biglietto, che
costa 40.000 som, circa 4 dollari. Per 30.000 som, sarà lui a permettere di
accedere al monumento più famoso di Samarcanda. Basta stringere i 3 biglietti
da mille nella propria mano, far finta di passeggiare, il poliziotto si
avvicinerà fingendo di essere un vecchio amico del turista e lo saluterà con
una calorosa stretta di mano. Le banconote cambieranno così rapidamente
proprietario e il poliziotto farà entrare la persona attraverso un varco
secondario, senza neanche passare attraverso il metal detector. “È una doppia
illegalità!”, dice, con un sorriso bonario e amareggiato, Farhod, l’autista che
aspetta i turisti davanti al Reghistan per portarli con il proprio taxi in giro
per Samarcanda. Farhod è basso, scuro di carnagione, ha un incisivo d’oro e
appartiene alla minoranza tagica che da sempre vive in Uzbekistan. “Non ci sono
mai stati problemi con gli uzbeki”, sostiene. Subito dopo l’indipendenza, però,
Karimov guardava con diffidenza alle componenti minoritarie perché avrebbero
potuto essere la quinta colonna delle potenze straniere interessate a limitare
l’autonomia dell’Uzbekistan. Con il tempo, i rapporti delle istituzioni con le
etnie non uzbeke che abitano nel paese si sono normalizzati. “Solo gli
iraniani, che vivono in alcuni sobborghi dell’estrema periferia, costituiscono
un problema: sono sporchi e non han voglia di lavorare”, sostiene Farhod mentre
con l’occhio severo segue il poliziotto che parla con due giapponesi e che nel
frattempo ha intascato altri 60.000 som. Gli iraniani, che dai tempi del regno
di Bukhara vivono a Samarcanda, appartengono allo strato più povero della
società: sono musulmani sciiti, a differenza degli uzbeki che sono sunniti, e
questo li rende invisi a tutti. Dopo aver brevemente parlato al telefonino,
Farhod sale sulla propria automobile e si dirige verso la stazione ferroviaria,
dove c’è il mercato russo, così chiamato perché frequentato soprattutto dai
russi che ancora abitano questo quartiere. Il mercato è vivo, sporco, agitato,
non come quello vicino al Reghistan, che è lindo, ordinato e splendente. Ci
sono anche alcuni turisti afghani, che, in viaggio di piacere e dopo aver
indossato magliette e pantaloncini corti, possono finalmente comprare carne di
maiale e vodka, vietati nel loro paese. Da qui a poche ore saranno ubriachi fradici
ma nessuno li frusterà, come accadrebbe se fossero a Kabul: cadranno sul
marciapiede della stazione se non si sono premuniti di pagare un accompagnatore
che li riporti in hotel. Farhod non si ferma a far spesa, si infila con il suo
taxi in una via adiacente alla ferrovia perché deve accompagnare una famiglia
russa all’aeroporto. Dal vecchio edificio, una “krusciovka”, vale a dire un
condominio di 5 piani fatto costruire da Nikita Krusciov per risolvere una
volta per tutte il problema abitativo nell’URSS, escono padre, madre e due
bambini biondi, irrequieti. Ognuno di loro ha in mano una valigia e diverse
buste ricolme di masserizie. Si trasferiscono a Mosca, per sempre. Il quartiere
russo è russo ormai solo di nome. I suoi abitanti sono emigrati nella terra di
Tolstoj perché le paghe sono almeno 5 volte più alte che in Uzbekistan e perché
ormai a Samarcanda non si sentono più a casa, nonostante siano nati qui. Al
loro posto, arrivano famiglie uzbeke che dalle campagne vogliono trasferirsi in
città. Samarcanda è una città post-sovietica, con gli stessi problemi di tutti
gli altri centri urbani dell’Asia Centrale. I monumenti del centro appartengono
a un passato ormai remoto; il Rinascimento timuride viene venduto ai turisti ma
non ha più alcun legame con la vera Samarcanda, che sprofonda nel livore del
cemento, del bitume, del traffico impazzito e delle polveri sottili che
soffocano l’orizzonte e smorzano, filtrandola, l’intensità della luce solare.
I
dintorni di Samarcanda
È domenica, Farhod guida il proprio taxi verso il
santuario di Hazrati Daut, un luogo che uzbeki e tagichi considerano sacro:
secondo la leggenda, il profeta Daut (il re Davide), si sarebbe rifugiato sulle
montagne alla spalle di Samarcanda, non lontane dall’attuale confine di Stato
che separa Uzbekistan e Tagikistan, per fuggire alle milizie dei nemici, i
fedeli dello zoroastrismo, che avrebbero voluto uccidere il messaggero che Dio
aveva mandato in terra al fine di diffondere il monoteismo. Dopo essersi
arrampicato sulla cima di una di queste montagne, avrebbe aperto con le proprie
mani la roccia e nella grotta che ancora oggi esiste - la cui apertura ricorda
un viso barbuto, secondo i credenti quello del profeta stesso - si sarebbe
ritirato in preghiera. Adesso, lì dove avrebbe camminato il profeta, si estende
una scalinata di due chilometri che arriva fino alla grotta. I pellegrini, fra
cui ci sono anche donne anziane, si arrampicano lentamente sotto il sole
cocente: l’aria è calda e secca, ogni duecento metri ci sono delle bancarelle
coperte da un lenzuolo a fare ombra, in cui è possibile comprare acqua, frutta,
erbe per fare il tè ed è possibile anche riposarsi: i commercianti sono
affabili e chiacchierano volentieri con i credenti. A valle sono sorti
alberghi, piccoli e graziosi, e si è venuto a creare spontaneamente un mercato,
in cui si vende di tutto: ombrelli, radio di fabbricazione cinese, collane,
matite. Su una piccola altura si trova anche una sorta di macelleria, in cui i
pellegrini possono portare i propri animali che verranno uccisi in onore del
profeta. La vittima sacrificale verrà poi mangiata dalla famiglia a cui
apparteneva. Farhod va in pellegrinaggio con tutta la famiglia: il figlio
liceale, la madre ormai anziana e in pensione, che per anni ha lavorato in un
negozio, la moglie, una signora di rara bellezza, con una voce incantevole: il
velo multicolore dai graziosi motivi floreali, che le copre la testa, la rende
ancora più affascinante. La donna, che si chiama Karima, insegna musica e canto
in una scuola privata e nel tempo libero suona il pianoforte. Aperta,
comunicativa, con gli occhi leggermente a mandorla e la pelle olivastra, è di
nazionalità tagica e crede profondamente nei valori dell’Islam. “In Uzbekistan,
l’Islam è una religione che non ha nulla a che fare con l’estremismo - dice
mentre osserva le montagne brulle e polverose all’orizzonte - anche i
terroristi uzbeki che si sono macchiati di vili attentati (come quello del 2017
nella metropolitana di San Pietroburgo) vengono dalla Russia, non dalle nostre
parti”. È vero: in Uzbekistan, anche grazie alla politica ventennale di Karimov
che si è impegnato a far sì che la società rimanesse laica, non c’è estremismo.
Sono gli emigrati, soprattutto quelli di seconda generazione, che spesso in Uzbekistan
non sono mai stati, a vedere nel radicalismo religioso un mezzo per affermare
la propria identità: in Russia, gli uzbeki vivono spesso ai margini della
società, lavorano nell’edilizia o nel settore dei trasporti: guidano le
“marshrutke”, i pullmini privati che nelle città fanno concorrenza al servizio
pubblico. Guadagnano poco e sono spesso vittime di pregiudizi razziali da parte
dei russi che li guardano con superiorità e sufficienza. I giovani non riescono
a integrarsi e trovano rifugio nella religione, che non è una forma di
consolazione ma una vera e propria identità per chi non riesce ad accettare di
vivere alla frontiera, di non appartenere ormai a nessuna nazione: per essere
cosmopoliti bisogna avere una solida basa culturale, una Weltanshauung
planetaria. Gli uzbeki emigrati si sentono come una nave in balia delle onde e
la religione li accoglie a braccia aperte: l’estremismo è il prezzo da pagare
per avere l’illusione di appartenere. La famiglia di Farhod ha invece un credo
laico, che riguarda la sfera personale e non quella nazionale-identitaria.
Karima soffre nel vedere come in occidente l’Islam venga considerato una
religione malata, crudele. È contenta che il presidente Mirzyoyev abbia aperto
le frontiere ai turisti e abbia tolto l’obbligo del visto per gli europei:
Karima si augura che l’Uzbekistan diventi una meta turistica e che gli
occidentali si rendano conto che esiste un Islam moderato, che nulla ha a che
fare con il terrorismo.
Appena uscita dalla città, l’auto di Farhod attraversa un
territorio arido, prima stepposo e poi di natura desertica. Fa una sosta a
Sazagan, un paese dalle case disposte lungo l’autostrada che porta a
Samarcanda. Ogni abitazione è costituita da una grande corte attorno alla quale
si snodano, perpendicolarmente, le stanze, ognuna delle quali ha una porta che
si affaccia sul cortile. L’ingresso principale è chiuso da un portone di
metallo o di legno. La differenza rispetto alle case di Samarcanda è immensa:
nelle campagne, spesso non c’è il bagno ma solo una doccia improvvisata
all’aperto e, per i bisogni, un buco nel terreno, in una casupola ai margini
del cortile. L’energia elettrica viene erogata per due ore al giorno e non c’è
acqua potabile: in molte case non arriva neppure l’acquedotto e i bambini
devono andare più volte al giorno con grosse damigiane di plastica alla fonte
alla periferia del paese; da queste parti, l’acqua è più preziosa del petrolio.
Sui tetti delle abitazioni più ricche troneggia una cisterna, la cui funzione è
quella di raccogliere e conservare le acque piovane in inverno, durante le rare
precipitazioni. Sull’Asia Centrale meridionale, infatti, staziona un
anticiclone che impedisce alle perturbazioni di lambire Samarcanda e
l’Uzbekistan in generale. “Il presidente è venuto qui e ha promesso di portare
acqua ed energia elettrica. Le condizioni di vita sono davvero difficili. La
gente alleva qualche capra che fornisce il latte, il terreno è arido per essere
coltivato e non c’è nessuna attività economica. I giovani sono quasi tutti
emigrati in Russia”, sostiene Farhod. Chi rimane, donne anziane e bambini,
sopravvive grazie alle rimesse degli emigranti che mensilmente mandano 200-300
euro a casa. Durante il periodo in cui ha governato Karimov, a causa delle
restrizioni in ambito bancario e finanziario, era difficile ricevere e cambiare
i soldi: possedere valuta straniera era quasi un reato, comprare dollari o euro
era possibile solo al mercato nero.
Visti dall’alto, i paesi che sorgono ai piedi del
Karatyube sono dislocati all’ingresso delle strette valli che solcano questo
massiccio montuoso. In tempi ancestrali, in alcuni casi già nel periodo
preistorico, le comunità stanziali sceglievano come propria dimora le rive di
un ruscello. Fino a qualche centinaia di anni fa, una miriade di piccoli corsi
d’acqua costellava le doline del Karatyube. Adesso, i torrenti sono
completamente secchi. A ogni centro abitato corrisponde una macchia verde costituita
da alberi e cespugli, sotto cui riposano cani, asini e cammelli. Sono gli
uomini a innaffiare e mantenere in vita la vegetazione, che altrimenti a nord
di Samarcanda non esisterebbe. L’essere umano, responsabile del riscaldamento
globale, è l’ultimo avamposto alla desertificazione della pianura che si
estende fra il fiume Zeravashan e i monti brulli del Tagikistan e
dell’Afghanistan.
Volti
Il magnate israeliano di origini russe è nato a
Samarcanda, ma i suoi genitori si sono trasferiti a Tel Aviv quando lui era
ancora un bambino. Per decenni non è tornato nella sua città natale, ma da 5
anni a questa parte trascorre ogni fine estate in Uzbekistan, nonostante non
sappia l’uzbeko e non abbia più parenti da queste parti. Affitta al prezzo di 70
euro a notte una suite di lusso in una “Guest House” del centro, una vecchia
casa uzbeka ristrutturata. Le stanze per gli ospiti sono disposte lungo i quattro
lati della corte, al centro della quale si trova un giardino di rose e
basilico, una pianta molto amata in Uzbekistan; gli usci delle camere sono
collegati l’uno all’altro da uno stretto percorso di mattonelle rosse, riparato
a sua volta da una pergola attorno a cui si attorciglia la vite e da cui
pendono grassi grappoli d’uva. Cosa faccia il magnate israeliano durante il
giorno è un mistero. Esce dopo aver fatto colazione, verso le 11 del mattino, e
torna al tramonto, in tempo per la cena, che con attenzione e cura prepara un
impiegato dell’hotel: Artiom, un signore di mezza età dall’aspetto caucasico
con la barba e i capelli castani dai riflessi rossastri e che assomiglia a
Razman Kadirov, il presidente della Repubblica Cecena. È sempre Artiom a procurargli,
tramite un’amica, la compagnia di ragazze poco più che ventenni; suonano alla
porta verso le 9 di sera, mangiano e scherzano con l’israeliano e con Artiom il
quale, a fine cena e quando la bottiglia di vodka è ormai vuota, si ritira
discretamente in cucina. Le signorine rimangono con il magnate fino al mattino,
vanno via all’alba, quando nessuno le vede con i 100 dollari a testa di
compenso per le loro prestazioni. Stasera il magnate israeliano, che parla un
russo elementare ma riesce a farsi capire, è in compagnia di due donne; la
prima è sui trent’anni, pesantemente truccata, con uno stomaco abnorme e
molliccio che fuoriesce dalla maglietta attillata a far risaltare i seni. La
seconda è di statura minuta, ha gli occhi fortemente a mandorla e l’israeliano
l’ha soprannominata “la giapponese”. Guarda ostinatamente il proprio smartphone
e sembra non voler partecipare alla recita, alla farsa di cui il magnate è il
principale attore. Scherzano, ridono, parlano come se si conoscessero da
sempre. La prima delle donne ha uno sguardo vivo, acceso, invita gli altri
ospiti dell’hotel, che passano in fretta davanti al tavolo apparecchiato al
centro della corte, a bere un bicchiere di vino. Guarda gli uomini come prede,
soggetti da cui sa di poter trarre vantaggi. Si stupisce se qualcuno di loro,
non accompagnato dalla moglie o da una ragazza, si rifiuta di sedersi al
tavolo. Ogni maschio è il probabile cliente di domani. Comunica la propria
falsa lussuria con gli occhi; non ha bisogno di parole (La giapponese, invece,
rimane chiusa in sé stessa. Il magnate israeliano la manderà via non appena
finita la cena, dopo averle regalato 50 dollari; Artiom non capisce il perché
di tanta generosità, in fondo la ragazza ha mangiato e non ha neppure lavorato.
“Per me 50 dollari non sono niente”, dice il cliente stringendo le spalle e con
uno sguardo cinico, che ostenta superiorità).
Il mattino è il momento più doloroso, perché quello più autentico.
Alle sette, quando la puttana dalla pancia flaccida se ne va con i 100 dollari
pattuiti, il magnate rimane solo. Va in cucina da Artiom che prepara la
colazione per gli altri ospiti che presto si sveglieranno. Parla di sé, della
propria infanzia in Israele e della solitudine che da sempre lo accompagna. Del
matrimonio fallito dopo pochi anni di convivenza, della figlia ventenne che da
anni non vuol aver nulla a che fare con il padre. E del lavoro - non è chiaro
di cosa si occupi quest’uomo brizzolato, dagli occhiali con la montatura di plastica
rossa, leggermente pingue e dalla camicia sempre aperta sul petto - l’unico
settore in cui sia riuscito a realizzarsi. Artiom finge di ascoltarlo
attentamente e abbozza consigli, mormora parole di conforto, mentre corre dal
tostapane alle uova che friggono nel tegamino. Il magnate tornerà a dormire per
qualche ora, stanco della notte brava e fiaccato dal primo sole del mattino che
è già rovente. Si sveglierà a metà mattinata e Artiom sa che, prima di uscire,
gli metterà 20 dollari nel taschino della camicia come ringraziamento per
avergli organizzato l’illusione di piacere alle donne e di avere un amico con
cui parlare. In questo hotel di alto livello al centro di Samarcanda, Artiom è la
vera puttana.
Alla periferia meridionale di Samarcanda, c’è un sobborgo
così isolato da sembrare un paese. In una casa ai margini di questo quartiere,
vive il professor Rusif, docente di storia nell’ateneo della città. Ha lasciato
l’appartamento che gli aveva assegnato 40 anni fa il governo sovietico e ha
comprato un terreno lontano dal centro per poter finalmente edificare la
propria casa. Rusif è un membro della Mahalla, che a livello amministrativo
corrisponde a un comune o a una circoscrizione ma che da un punto di vista
sociale e simbolico ha in Uzbekistan un valore più ampio: la Mahalla, infatti,
era un’istituzione informale che, fino all’avvento dei Soviet, costituiva
un’entità di governo autonomo. Costituita da un gruppo di famiglie, la Mahalla
rappresentava gli interessi di questo piccolo gruppo e i suoi rappresentanti
dovevano accordarsi con quelli di altre Mahalla in caso di diverbi, questioni
legate ai terreni o agli armenti ma anche per l’organizzazione di matrimoni, feste
ed eventi religiosi. Insomma, ancora oggi la Mahalla è l’anello di connessione
fra la sfera privata e quella pubblica. Il presidente della Repubblica Mirzyoyev
vorrebbe ampliare i poteri legislativi delle Mahalla a livello locale e
riconoscere formalmente istituzioni semi-ufficiali.
La casa di Rusif è quasi terminata: le stanze da letto
sono pronte, mancano però il bagno e la cucina. Si mangia nella corte, sotto al
pergolato, dove c’è anche la cucina a gas collegata a una bombola. La doccia è
stata ricavata da quella che un tempo era la mangiatoia per gli animali e il
lavandino per lavarsi i denti si trova al centro del cortile, nascosto
dall’erba alta più di un metro. Ai margini della corte c’è una casupola senza
porta e senza lampadina elettrica,
nascosta dai rami di un fico mai potato e cresciuto selvaggiamente.
All’interno
fa bella mostra di sé una turca, costituita da un buco nel terreno e da due
mattoni su cui appoggiare i piedi. I bisogni si fanno così, alla luce del
cellulare quando il sole cala. Rusif si vergogna di non avere un giardino
curato, dice di non avere il tempo di occuparsene. In realtà, ha pensato più a
sistemare la facciata per far bella figura con i vicini che non a rendere
l’interno dell’abitazione confortevole. La moglie lavora a Istanbul, in
Turchia, come babysitter di una famiglia uzbeka benestante. A Samarcanda ha
lasciato il marito, il figlio diciannovenne, che si sposerà a giorni, e la
figlia di 13 anni, Altyngulj. Non molto alta, Altyngulj ha i fianchi stretti e
un corpo da bambina. Parla raramente, in uzbeko con i familiari, in russo con
gli ospiti stranieri, i colleghi che il padre ha conosciuto durante i suoi
soggiorni in Germania e che a volte lo raggiungono in Uzbekistan. Rusif insegna
infatti Storia europea e di tanto in tanto riceve borse per studio per seguire
corsi di aggiornamento in Germania.
Dato che la madre è assente, Altyngulj ha il compito di
tenere in ordine la casa, di cucinare e accudire il padre e il fratello. Serve
in tavola e solo raramente mangia insieme ai familiari. Di solito, dopo aver
lavato i piatti, porta nella propria stanza il cibo avanzato e si rilassa
davanti alla televisione. Prima di dormire, Altyngulj fa i compiti; la
matematica e l’uzbeko non le danno problemi, è l’inglese a essere ostico. Rusif
la aiuta, nello stanzino dai muri e dal pavimento di cemento dove ci sono solo
due sedie e il televisore, quasi sempre sintonizzato su trasmissioni sportive o
su Uzbekistan24, l’emittente voluta dal nuovo presidente che si occupa solo di
informazione e in tutto e per tutto simile al canale gemello russo Rossia24. Finiti
i compiti Altyngulj va a dormire; dopo il tramonto, la casa piomba nel silenzio
più totale. Gli unici rumori sono quelli dei treni merci che si scuotono in
lontananza, lungo la ferrovia Samarcanda-Tashkent, e quelli degli aerei che si
allineano alla pista dell’aeroporto prima di atterrare: la casa di Rusif si
trova infatti lungo il corridoio di avvicinamento e gli aeromobili scivolano
lentamente verso la destinazione finale con i motori al minimo, rauchi passano
sopra la città e a mano a mano che si allontanano il rombo si trasforma in un
sibilo cupo. Di giorno, gli aerei non si notano, persi nel frastuono del
quartiere, delle automobili di passaggio e delle voci dei passanti.
Altyngulj è leggera: cammina senza far rumore, compare e
scompare nella corte senza dar fastidio. La sua presenza non si nota. Non parla
quasi mai ma osserva tutto ciò che avviene intorno a lei. Gli occhi leggermente
a mandorla non svelano ciò che si nasconde nell’anima. Dopo aver preparato la
colazione per i familiari, la ragazzina pulisce le stanze, riordina i letti,
che consistono in semplici materassi adagiati su un tappeto. Si prepara per la
scuola ed esce di casa, elegante e pulita, con le scarpe scure, le calze e la
camicia bianche, la giacca e le scarpe blu. Deve stare attenta a non sporcarsi,
la strada in cui abita non è ancora stata asfaltata e c’è fango ovunque. La
scuola si trova nel centro del quartiere, a 600 metri da casa. 600 metri di
fango, pietre, capre che pascolano negli spazi non ancora edificati, cani
pastori che le corrono incontro, la annusano e lei deve evitare che, festosi,
manifestino la loro gioia con salti arditi e le zampe anteriori sulla camicia
pulita. Incredibilmente, Altyngulj torna a casa linda, come quando era uscita.
Si cambia e continua con le faccende domestiche lì dove le aveva lasciate al
mattino. Impossibile sapere a cosa pensi mentre cucina, stira le camicie del
padre e lava le giacche del fratello. È una donna e sa che non deve far trapelare
le proprie emozioni. Sogna, forse, a sera, quando è sola nel letto, nel silenzio
della propria stanza in cui rimbalza il rombo discreto dei reattori del boeing
737 in arrivo da Istanbul, dove lavora la madre. Sogna il proprio matrimonio,
così importante da queste parti, o forse sogna i grattacieli di quei telefilm
americani che ama tanto e che guarda su Youtube. Un mondo rutilante, luminoso,
senza fango, dove persino il rumore degli aerei in atterraggio si armonizza con
il paesaggio circostante e diventa musica, e la fusoliera colorata dai
finestrini in fila si riflette nei vetri scuri dei palazzi, per un istante,
prima che scompaia all’improvviso, così com’era apparsa.
*Il Gazel è un canto improvvisato tipico turco.
***
KARAGANDA
di
Christian Eccher
Luoghi
Da poco è sorto il sole sulla steppa; la luce rossa
dell’astro restituisce colori e spessori a un paesaggio per molte ore inghiottito
dal buio notturno. Alla fermata dell’autobus nel quartiere “Stepnoi 2”, una
vera e propria isola collegata al resto della città da una comoda superstrada a
quattro corsie, si assiepano ragazze dagli occhi a mandorla con la cartella
sulle spalle, signore attempate e uomini dalla postura eretta e orgogliosa. Gli
autobus, nonostante passino frequentemente, sono pieni; è l’ora di punta e
tutti si dirigono verso la parte centrale di Karaganda, la quarta città più
popolosa del Kazakistan, situata a circa 200 km a sud-est della capitale
Astana.
Alle spalle della pensilina, costituita da una panca di
legno e da una tettoia in lamiera a riparare dalla pioggia e dal vento chi
attende l’autobus, c’è solo un fosso di scolo delle acque piovane lungo il
quale si dilunga anche il condotto del teleriscaldamento, che porta l’acqua calda
dalla centrale termica situata a pochi chilometri dal quartiere “Stepnoi 2”
fino alle case del centro.
D’estate, il sistema di riscaldamento viene
sottoposto a revisione e ristrutturazione e a chi non sia munito di un boiler
elettrico non rimane a disposizione che l’acqua fredda. Al di là delle grosse
tubature si estende la steppa, interrotta da un filare di alberi lungo la linea
ferroviaria che porta da Astana ad Almati; visti dagli alti palazzi di “Stepnoi
2” i treni, che passano a intervalli regolari, procedono lenti e senza rumore e
sembrano essere giocattoli in miniatura. Sono invece convogli estremamente
lunghi, composti alle volte da decine di vagoni. I treni merci trasportano
carbone, petrolio grezzo, a volte minerali preziosi ma anche sabbia e materiale
da costruzione. Il Kazakistan è una terra estremamente ricca di materie prime
e, nonostante il calo del prezzo del petrolio, l’economia del paese si regge
quasi esclusivamente sull’esportazione di minerali, liquidi e solidi. Il
presidente Nazarbayev, che è a capo del paese dal crollo dell’URSS, non ha
utilizzato gli ingenti proventi delle esportazioni per creare altri tipi di
industrie che non fossero legate all’estrazione e alla lavorazione delle
materie prime. Il Kazakistan, come l’Azerbaigian, la Russia e persino la
Norvegia, è stato così colpito dal virus della “malattia olandese”, che ha
quasi completamente distrutto il mercato agricolo per colpa di un meccanismo tanto
semplice quanto spietato: Astana vende le proprie materie prime in dollari, che
si accumulano nelle casse dello Stato. Più dollari ci sono, più la valuta
locale - in questo caso il Tenge - si rinforza sul mercato internazionale.
Quando il contadino vende i proprio prodotti all’estero, questi risultano
estremamente cari, proprio perché il Tenge è una moneta che vale molto.
L’acquirente va allora a cercare gli stessi prodotti altrove, dove sono più
economici. La “malattia olandese” ha rovinato i produttori di mele di Almaty,
città a sud del Kazakistan: il nome stesso della città, che in kazako vuol dire
“Il padre delle mele”, indica che un tempo la produzione di pomi era fiorente.
Le mele di Almaty erano grandi e succose e sembra che la mela in generale sia
nata proprio nella pianura del Centro-Asia che si estende ai piedi della catena
montuosa del Tien-Shan. Almati contribuiva a fornire di frutta l’Unione
Sovietica ma dagli anni Novanta in poi i produttori agricoli sono miseramente
falliti. La Russia ha preferito approvvigionare il proprio mercato con mele di
provenienza serba e polacca, proprio perché le mele di Almaty, colpite dal
“virus olandese”, erano diventate estremamente care. L’unico rimedio a questo
tipo di problemi economici è rappresentato dalle istituzioni statali che, se
forti, democratiche e legittime, permettono di redistribuire nei periodi di
crisi la ricchezza accumulata negli anni. Non è il caso del Kazakistan,
governato da una classe dirigente estremamente corrotta, che non ha fatto quasi
nulla per aiutare i produttori agricoli e le fasce più deboli della società. Va
detto, però, che al contrario di ciò che accade in Azerbaigian, il Kazakistan
dispone di un fondo statale voluto da Nazarbayev con l’intento di mitigare le
conseguenze di eventuali crisi economiche.
Al di là della ferrovia, la steppa prende il sopravvento.
All’orizzonte è visibile una vecchia fabbrica dismessa, simile a molte altre
disseminate su tutto l’immenso territorio kazako: dopo il crollo dell’URSS, a
seguito delle privatizzazioni selvagge, numerose industrie sono state vendute
per pochi spiccioli a uomini d’affari senza scrupoli e vicini agli ambiente
della politica i quali, anziché modernizzare la produzione, hanno preferito
vendere i macchinari e guadagnare più soldi possibile in un arco di tempo molto
limitato. A dominare il paesaggio e a chiudere l’orizzonte verso nord è
un’altura dalla forma allungata e gentile, tipica degli altopiani
centro-asiatici. A sud, alle spalle di Almati, la placca araba preme
incessantemente sullo zoccolo eurasiatico e dà vita alla movimentata catena
montuosa del Tien-Shan, che si trova fra Kirghizistan e Cina occidentale. La
parte settentrionale del Kazakistan risente limitatamente della gigantesca
collisione fra continenti e ospita colline dolci, che i millenni di erosione
atmosferica hanno quasi completamente cancellato. Nel corso di questi eventi
geologici, la terra si è piegata in mille piccoli rilievi, come una coperta o
una tovaglia che viene lentamente spinta a una estremità dalla mano di un
bambino. Il tessuto non si sposta ma si inarca. Un processo analogo si è avuto
nel nord del Kazakistan e in Siberia: la terra è scivolata su altra terra e ha
fagocitato la vegetazione morta e tutto ciò che c’era sulla superficie terrestre,
aiutata in questo dai successici processi sedimentari e alluvionali, legati
allo scorrere dei fiumi e allo scioglimento dei ghiacciai; nelle profondità del
pianeta, la materia biologica si è trasformata in idrocarburi, vale a dire in
materiale fossile: in petrolio e carbone.
Il rilievo che sovrasta Karaganda è un retaggio di epoche
remote. Sulla sua sommità svetta uno snello traliccio, diafano, ancorato al
suolo come un agave sullo scoglio, incredibilmente resistente al vento forte e
all’acqua piovana che a volte lo colpisce con inaudita violenza. È un radiofaro,
che al posto di fasci di luce trasmette onde elettromagnetiche le quali
indirizzano gli aerei ad alta quota verso la rotta Astana-Almati e aiutano i
velivoli in fase di atterraggio ad allinearsi alla pista del non lontano
aeroporto di Karaganda.
Al di là della collina fanno capolino le ciminiere del
complesso siderurgico di Temirtau, una città a trenta chilometri da Karaganda. Quella
di Temirtau è un’acciaieria di tipo primario integrato: ricava l’acciaio dalle
materie prime e non lo ricicla da rottami, come nel caso dei complessi
siderurgici di tipo secondario. Per produrre il calore necessario a ottenere
l’acciaio, che è una lega di ferro e carbonio, si inseriscono nell’altoforno
minerali ferrosi e carbon coke. Grazie a questo processo si ottiene la ghisa
liquida, che viene affinata in convertitori e speciali forni elettrici. Con un
getto di ossigeno, poi, si riduce la percentuale di carbonio al fine di
ottenere un acciaio resistente e di ottima qualità. Questo processo causa anche
l’emissione nell’atmosfera di gas e particelle notevolmente inquinanti, come
nel caso dell’Ilva di Taranto, la cui acciaieria è simile a quella di Temirtau.
I fumi di condensazione, residui del processo che trasforma i minerali grezzi
in ghisa fusa, si stagliano verso il cielo e, nei periodi di bassa pressione,
quando le perturbazioni conquistano il nord del Kazakistan, si fondono con le
nuvole, a formare una cortina bianca e grigia che taglia l’orizzonte come una
ghigliottina. Temirtau è una delle città più inquinate del paese. Nell’aria
sono presenti, fra le tante sostanze, polveri sottili, anidride solforosa,
benzene, diossido di azoto. Nelle giornate grigie, quando non è più possibile
distinguere dove finisca il fumo che esce dalle ciminiere collegate all’altoforno
e comincino le nubi, le particelle solide inquinanti si uniscono alle molecole
di acqua e, non appena raggiunto un peso sufficiente, cadono al suolo sotto
forma di pioggia o di fiocchi di neve.
L’erba che a primavera cresce nella steppa si imbeve
degli umori liquidi di cui è intrisa la terra. Le sostanze inquinanti come
rame, potassio e manganese contenute nel terreno passano così dall’erba e dai
fiori agli esseri animali: alle mucche e ai cavalli e poi agli uomini che
bevono il loro latte e mangiano la loro carne. Nessuno si è mai preoccupato di
studiare le conseguenze dell’inquinamento sui cittadini di Temirtau e di
Karaganda, i quali considerano gli effetti collaterali legati all’acciaieria un
male necessario. La neve è spesso nera, sporca le mani e i volti dei bambini
che costruiscono pupazzi e che si fanno trainare dai genitori su slitte di
legno lungo le vie invernali della città. I rilevamenti ambientali condotti
dagli organi governativi segnalano un livello di inquinamento nella norma, ma è
chiaro che i dati sono falsi e non rispecchiano la realtà, come dimostrato
dalle analisi condotte autonomamente da alcune ONG straniere. L’acciaieria di Temirtau
è stata fondata nel 1950 e ha determinato i destini della città che fino a quel
momento era poco più di un villaggio. Dopo il crollo dell’URSS, il complesso
siderurgico è caduto in una profonda depressione, da cui è uscito soltanto dopo
che il governo ha deciso di venderlo alla Arcelormittal, un multinazionale con
sede in Lussenburgo. Temirtau produce acciaio e laminati che vengono smerciati
in tutto il mondo. Per gli operai, però, le cose sono cambiate e molti di loro
rimpiangono la gestione statale e criticano il piano di privatizzazioni
governativo. La logica del profitto, infatti, ha reso i lavoratori ingranaggi
di un meccanismo a volte spietato, che ha causato più volte il ferimento e la
morte del personale addetto agli altiforni: solo negli ultimi anni, infatti, la
Arcelormittal ha prestato una maggiore attenzione alle misure di sicurezza. In
più, gli operai non si sentono parte di una grande famiglia, come ai tempi
della gestione statale, ma vittime in balia dell’economia di mercato.
I
sindacati che dovrebbero rappresentarli non sono indipendenti, dato che sono
diretti da parlamentari e da uomini vicini al Governo di Astana, i quali hanno
contatti diretti e amichevoli con i dirigenti della Arcelormittal. La paga
media dei lavoratori dell’acciaieria è di circa 144.000 tenge, vale a dire 350
euro: uno stipendio paragonabile a quello di un docente universitario, ma i
compiti di chi passa la giornata vicino a un altoforno sono molto più duri e
usuranti di quelli inerenti alla ricerca o all’insegnamento. Molti operai si
sono licenziati, hanno preferito cambiare mestiere o emigrare in Russia
piuttosto che far parte di un’azienda che non sentono più come propria. Come
ben evidenzia Tommaso Trevisani nel film documentario intitolato “Temirtau”, la
città non ruota più soltanto intorno alla sua fabbrica, dove fino al crollo
dell’URSS era impiegata l’intera popolazione. Temirtau somiglia ormai a tutti
gli altri centri urbani kazaki e ha perso la propria peculiarità, che era
fondata sull’orgoglio dei suoi cittadini di lavorare nell’acciaieria.
Dalle ciminiere di Temirtau si vede solo la steppa, che
si estende a dismisura ed è quasi completamente deserta, inframmezzata solo da
villaggi polverosi costellati di abitazioni dai tetti in lamiera. I paesi della
steppa, dal nord al sud del Kazakistan, cominciano e finiscono all’improvviso;
le case si stringono l’una all’altra, quasi avessero paura di ritrovarsi sole
nel bel mezzo dell’oceano d’erba che si estende dalla Puszta ungherese fino
alla Mongolia e poi a Vladivostok, dove il manto erboso si getta
inaspettatamente in mare, senza neppure diventare sabbia.
In realtà, come ha giustamente osservato l’archeologo
Gian Luca Bonora, fino al II millennio a.C. la steppa non esisteva: l’intero
territorio del nord del Kazakistan era ricoperto da betulle, pioppi e abeti. A
modificare il paesaggio è stato l’uomo, che aveva necessità di creare spazio
per i propri armenti e per fondere il rame. Da quanto hanno finora rivelato gli
studi archeologici, la metallurgia sarebbe nata proprio fra il Centro Asia e
l’attuale Iran, per questioni puramente estetiche: gli esseri umani, infatti,
non avevano bisogno di oggetti metallici, li desideravano al fine di adornare
il proprio corpo ed essere più belli degli altri. Ogni comunità, infatti,
cercava di essere più originale delle altre. La società pastorale-agricola del
Centro Asia ha dato vita alla moda, molto prima che questa prendesse piede in
Europa. Nel Mesolitico e nel Protoneolitico, vale a dire intorno a 6000 anni
prima della nascita di Cristo, venivano usati metalli che potevano essere
trovati in natura e a cui si poteva dare la forma voluta grazie alla loro
malleabilità: malachite e azzurrite, minerali di rame della famiglia dei
carbonati, si trasformavano facilmente in collane e orecchini. La prima
testimonianza di uso del fuoco per fondere il rame risale al 8200-7500 a.C.
presso Cayöm-Tepesi, nella Turchia orientale. Da quel momento in poi, la
pirotecnologia si diffonde in tutto il Caucaso e l’Asia Centrale, anche se si
tratta probabilmente di scoperte casuali, avvenute in tempi diversi in seno a
ogni singola comunità. Ognuna di esse sceglieva ciò che più le garbava: alcune
non utilizzarono mai i metalli che comunque non potevano non conoscere, dati i
contatti con le popolazioni limitrofe; preferivano continuare a utilizzare ossa
di animali e pietre scolpite e lavorate al posto del rame. La stessa cosa avvenne
per la scrittura: non tutte le società primitive adottarono un sistema di segni
per iscritto, anche quando questi si era già ampliamente diffuso. Il mondo non
era ancora globalizzato e le singole collettività sceglievano come organizzarsi.
La proto-città di Altyn-Depe, per esempio, che sorgeva nell’attuale
Turkmenistan, non lontano dal mar Caspio, si estendeva su un’area molto grande,
era adornata di edifici eleganti e di pregiate sculture eppure non conosceva la
scrittura: non aveva una burocrazia e per questo viene definita proto-città. I
suoi abitanti utilizzavano però oggetti di metallo (siamo in piena Età del
Bronzo, III e II millennio a.C.), d’argento e persino d’oro. Gli archeologi
hanno ritrovato fra la terra e nelle tombe monili e figure strane: dato che
Altyn-Depe non ci ha lasciato testimonianze scritte, non sappiamo a cosa
servissero e che cosa rappresentassero. Gli ultimi cittadini ad andarsene e ad
abbandonare per sempre la città, nel 1600 a.C., portarono con loro i segreti e
i misteri di questo centro urbano: i loro discendenti si assimileranno ad altre
civiltà e dimenticarono le antiche tradizioni e forse anche la propria origine.
In Kazakistan, l’età del bronzo ha lasciato segni indelebili.
Ci sono zone
della steppa completamente trivellate; doline e avvallamenti si susseguono per
chilometri, come sulle colline alle spalle di Trieste. Non si tratta però di
fenomeni carsici ma di antiche miniere, che il tempo, la terra e i fenomeni
atmosferici hanno contribuito a riempire. In alcune di esse ci sono ossa di
animali, migliaia. Non è chiaro a cosa servissero: forse all’interno delle cave
in disuso venivano buttate le carcasse degli animali morti che erano serviti
per trainare i carri carichi di rame. Forse si tratta dei resti dei pasti dei
minatori: le popolazioni nomadi compravano il metallo in cambio di animali. O
forse si trattava di vittime sacrificali, esseri viventi donati agli dei per
ingraziarsi i loro favori. Certo è che il grasso degli animali era una fonte di
energia combustibile, necessaria ad accendere il fuoco e ad aumentare la
temperatura nella fornace. Fu la civiltà di Andronov, che si sviluppò a est
degli Urali, ad accrescere drammaticamente la produzione di metallo e la
quantità di armenti che pascolavano le terre del Centro-Asia, con la
conseguenza che i boschi dell’Asia Centrale divennero in pochi decenni steppa.
Nelle epoche successive, la metallurgia si perfezionò e raggiunse livelli
altissimi: nel sito archeologico di Issyk-Kurgan, che risale al VII-VI secolo
a.C. e che si trova nel sud-est del Kazakistan, è stato rinvenuto un “uomo
d’oro”, vale a dire una sorta di armatura che ricopriva il corpo senza vita di
un nobile. L’oro, finemente lavorato, è impreziosito con pietre rare e costose:
si tratta del primo esempio di “stile policromo” che in Europa e in Italia
prenderà piede solo nel I secolo a.C. Astana finanzia con ingenti contributi le
ricerche archeologiche non perché interessata a riscoprire il lontano passato
del Kazakistan, ma nella speranza di trovare i metalli preziosi sparsi nella
steppa, che è rimasta immobile nei secoli, aliena ai grandi mutamenti sismici
che hanno investito e mutato il volto dell’Asia Centrale meridionale. La terra
nel nord del Kazakistan è sempre uguale a sé stessa; a cambiare molto rapidamente è l’aria. Già a fine
agosto, dopo la canicola che toglie il fiato ad animali e uomini, quando la
rabbia del sole giaguaro si placa e allenta la morsa dei raggi sull’erba ormai
morta e ingiallita, si alza un vento freddo, proveniente dalla Siberia, che va
a riempire le basse pressioni che al termine dell’estate si formano nell’immensa
pianura asiatica. L’assenza di rilievi significativi permette al vento di
infiltrarsi ovunque e di soffiare rabido, per giorni e giorni, a volte per
settimane, sulla steppa. L’erba e i rari alberi perdono l’equilibrio e si piegano
al suolo, i pastori si mantengono a stento in piedi e le città scompaiono nella
tempesta di aria, di polvere e in inverno di neve che acceca gli occhi dei rari
passanti. La gente si chiude in casa, e anche le finestre degli alti edifici
del quartiere “Stepnoi 2” si chiudono. Il Buran però continua a battere ai
vetri, insistente, e riesce a penetrare negli appartamenti attraverso gli
infissi non sufficientemente isolati, le condutture dell’aria e talvolta persino
quelle dell’acqua.
Volti
Aizada
Aizada guarda attraverso una finestra del nuovo
appartamento in cui abita da 6 mesi con i genitori, a “Stepnoi 2” (Rimanere negli occhi di quelli che
continuano nella tristezza dei passanti quotidiani e nella maturazione dei
campi di grano sarà il tuo destino).
Il Buran inclina le acacie all’orizzonte e la loro chioma
ancora verde si piega vorticosamente verso terra; un piccolo bosco sulla destra
nasconde la ferrovia e il lungo treno merci che silenzioso viaggia in direzione
di Almati. Le automobili sfrecciano indifferenti al vento lungo la magistrale
che collega “Stepnoi 2” al centro di Karaganda. Domani si torna a scuola.
Aizada frequenta la sesta classe della scuola primaria, che in Kazakistan, così
come in Russia, fonde i cinque anni che corrispondono alla scuola elementare
italiana con il triennio di quella media. Gli occhi neri e a mandorla di Aizada
si riflettono sul vetro rigato da rare gocce di pioggia, che il rabido ventare
del Buran porta chissà da dove e frantuma in minuscole particelle di dimensioni
variabili che si dispongono ordinatamente in fila, come le automobili sotto
casa che attendono il verde ferme al semaforo. Aizada ha rifatto i letti,
pulito la gabbia in cui il gatto trascorre molte ore della giornata, spolverato
e passato con cura l’aspirapolvere in tutte le camere. Il fratello più piccolo,
che ha soltanto un anno, si è addormentato sul divano accanto alla sorella
minore Aigulj, la quale guarda i cartoni animati russi. A casa si parla
soprattutto kazaco, ma Aigulj, che ha solo 5 anni, non si sente sicura e anche
con i genitori preferisce comunicare in russo.
Il Kazakistan è un paese bilingue
e soprattutto nel nord - dove i russi in alcune zone costituiscono anche l’80%
della popolazione - la lingua di Pushkin è ampliamente diffusa. Nel sud del paese,
invece, in particolar modo nei paesi e nei villaggi, il kazako è l’unico idioma
di cui ci si serva. Aizada esce raramente, e quando lo fa è per andare a
scuola, che si trova vicino a casa, a poche centinaia di metri rispetto alla
strada, dalla parte opposta, oltre i cassonetti dell’immondizia e il
parcheggio, che alla prima pioggia si trasforma in un acquitrino. Il freddo
invernale e il caldo estivo polverizzano l’asfalto della città e lasciano il
posto a buche e irregolarità nel terreno; l’acqua piovana si infila nei pori
del catrame e del cemento e quando ghiaccia, già nelle notti di fine settembre,
contribuisce a spezzare il selciato. L’amministrazione comunale e quella
statale non si preoccupano troppo delle difficoltà dei cittadini che ogni
giorno devono attraversare il parcheggio, e tanto meno dei disabili in
carrozzina che sono praticamente condannati alla clausura nei propri
appartamenti. La famiglia in Kazakistan ha un ruolo fondamentale, non solo per
questioni legate alla tradizione, ma anche perché sostituisce sotto molti
aspetti lo Stato. Se muore qualcuno, sono i parenti ad aiutare la o il consorte
del defunto con donazioni e aiuti per pagare il funerale. Spesso i figli
vengono cresciuti dai nonni, dato che i genitori devono lavorare. Aizada
sarebbe dovuta andare appena nata dai nonni e crescere nel villaggio in cui
questi abitano, nel centro del Kazakistan. Il padre e la madre, però, hanno
preferito fare sacrifici e tenere non solo Aizada, ma anche gli altri figli con
loro. Adesso che Aizada è grande, ha lei il compito di guardare i fratelli quando
i genitori sono al lavoro. Deve anche riscaldare la cena quando torna da
scuola, se la madre ha avuto il tempo di cucinare la mattina presto. Altrimenti
deve improvvisare qualcosa, è fondamentale che il padre, una volta tornato dal
lavoro, trovi la tavola imbandita. Aizada sa che deve essere un’ottima donna di
casa, se vuol trovare marito. Il suo più grande desiderio è quello di
iscriversi in un liceo di Astana, la capitale; solo così potrà avere
un’istruzione e trovare un buon lavoro. C’è poco tempo per giocare, e forse non
ne ha neanche più voglia. I suoi occhi scuri celano una maturità precoce. Il
corpo da bambina rivela già le forme di una donna, anche se i seni sono ancora
acerbi, appaiono sotto forma di piccoli rigonfiamenti sotto la maglietta. Lo
sguardo, però, è già maturo. I movimenti delle mani e della braccia sono ancora
infantili. A scatti, brevi e nervosi. Aizada parla con le amiche attraverso
Instagram, la rete sociale più diffusa in Kazakistan; si confidano i segreti
più intimi, gli amori che soprattutto a quell’età, a dodici anni, squassano il
cuore senza investire consapevolmente il corpo. Finita la conversazione, cerca
la cioccolata nel frigo o guarda con la sorella i cartoni animati. Al mattino,
si veste con la divisa della scuola che portano tutti gli allievi kazaki: le
bambine indossano una gonna a quadri, sotto di essa i collant bianchi; la
camicia rosso scuro fa capolino sotto la giacchetta nera. Fra i capelli c’è un
fiocco bianco, che conferisce un tocco di eleganza. I bambini sono vestiti allo
stesso modo, solo che al posto della gonna portano i pantaloni e non hanno il
fiocco sulla testa. Aizada esce di casa dopo aver attentamente chiuso nel
cassetto il diario segreto, a cui confida i suoi amori e le sue pene. Torna nel
pomeriggio, indossa gli abiti di casa e comincia a lavorare. La madre è uscita
poco prima, insegna disegno in una scuola elementare, ha lezione
prevalentemente in tarda mattinata. Il padre lavora all’Università. Aizada deve
fare i compiti e nello stesso tempo badare alla casa e ai fratelli. La sera la
famiglia si riunisce intorno al desco; Aizada versa il tè al babbo, serve in
tavola, aiuta poi a lavare i piatti. La conversazione fra i membri della
famiglia è pacata e corretta, ognuno ha il suo ruolo e i figli danno del Voi ai
genitori, che sono severi al punto giusto. Aygulj aiuta Aizada, che a sua volta
prende ordini dalla madre. L’ultimogenito mangia come può, ma già da solo.
È il maschio, ha più diritti e libertà rispetto alle sorelle ma non c’è spazio per i capricci. Aizada, d’altro canto, ha già la sua stanza, perché è più grande e ha più responsabilità rispetto ai fratelli. La madre è stanca e affida alla figlia maggiore il compito di lavare i piatti. Va a preparare il piccolo per la notte per poi coricarsi a fianco del marito sul materasso appoggiato a terra: non c’è stato ancora tempo di comprare il letto matrimoniale, forse non ci sono neanche i soldi.
È il maschio, ha più diritti e libertà rispetto alle sorelle ma non c’è spazio per i capricci. Aizada, d’altro canto, ha già la sua stanza, perché è più grande e ha più responsabilità rispetto ai fratelli. La madre è stanca e affida alla figlia maggiore il compito di lavare i piatti. Va a preparare il piccolo per la notte per poi coricarsi a fianco del marito sul materasso appoggiato a terra: non c’è stato ancora tempo di comprare il letto matrimoniale, forse non ci sono neanche i soldi.
Roza
Quando sono nate Aizada e Aygulj, Roza viveva con il
marito in una casa dello studente alla periferia nord di Karaganda. Il loro monolocale
era nell’ultimo dei quattro alti edifici in stile socialista che costituiscono
la residenza universitaria; oltre la cancellata che delimita il campus non c’è
più nulla, comincia muta e ostinata la steppa. A pochi metri dalla casa di
Roza, proprio all’inizio della steppa, si staglia una collina artificiale, che
ricorda un antico kurgan, vale a dire un monumento funerario coperto di terra
tipico di tutti i popoli preistorici dell’Asia Centrale e del Caucao. Si tratta
in realtà di una pista di discesa per gli amanti degli sport invernali, dato
che Karaganda è per molti mesi all’anno coperta di neve.
Per Roza e il suo sposo non è stato facile vivere per
anni in una singola stanza. Per la famiglia, però, si fa ogni tipo di
sacrificio. Quando ha conosciuto Erkinbek, Roza era ancora una studentessa. Il
futuro marito, invece, era un dottorando in scienze politiche di origine
kirghisa. Soldi per comprare una casa non ce n’erano: Erkinbek proviene da una
famiglia povera di un villaggio vicino a Bishkek. I genitori di Roza vivevano
invece in un paese del centro del Kazakistan, lavoravano la terra e non
avrebbero potuto in alcun modo aiutare la figlia. Ci sono alcune fotografie che
ritraggono Roza nel giorno del matrimonio: magra, lo sguardo dolce ma sereno,
il corpo longilineo. A causa delle gravidanze è ingrassata leggermente ai
fianchi; anche il viso è più tondo, mentre la vitalità degli occhi è sempre
quella di un tempo. Le labbra sono rimaste uguali; piccole rughe assediano gli
angoli della bocca. Roza sorride raramente; quando però accenna un sorriso, il
viso si apre, come la terra riarsa d’estate accoglie la pioggia ristoratrice,
ed è allora che gli occhi neri brillano vividi, e sembrano suonare come cascate
d’acqua d’alta montagna.
Erkinbek si è iscritto agli studi di dottorato per non
perdere il diritto alla casa dello studente e l’unica possibilità di avere un
tetto sopra la propria testa. Successivamente è diventato assistente e, anche
se la carriera accademica non lo ha mai particolarmente attirato, fa il proprio
lavoro con estrema passione. Dopo anni, Roza ed Erkinbek sono riusciti a
comprare un appartamento nel quartiere “Stepnoi 2”. Nel frattempo è nato anche
l’ultimo figlio, una maschio finalmente. A Erkinbek dà fastidio che il bambino
giochi con le bambole delle sorelle, per questo vorrebbe da Roza un altro
maschietto. Le ragazze si sposeranno e se ne andranno, apparteranno a un’altra
famiglia. I ragazzi invece resteranno legati per sempre alla famiglia di
origine e hanno anche il dovere di assistere i genitori in caso di bisogno.
Roza lavora ogni giorno nella scuola elementare dove
insegna educazione artistica. Al ritorno a casa, la attendono altri compiti.
Oltre a riordinare e a spolverare, aiutata in questo da Aizada, deve anche
cucire grandi losanghe di stoffa che, una volta unite, formeranno una scritta
pubblicitaria, di quelle le cui estremità si appendono ai lampioni a entrambi i
lati della strada. Le auto passano veloci sotto di loro ma i conducenti fanno
in tempo a leggere il messaggio, solitamente un invito a comprare un
determinato prodotto. Erkinbek si occupa della stampa su stoffa e su carta
grazie alla speciale apparecchiatura comprata di seconda mano a Bishkek, la
capitale del Kirghizistan. I soldi che Roza ed Erkinbek otterranno grazie a
questo secondo lavoro, serviranno per comprare uno scaldabagno.
Da giugno a ottobre nelle case di Karaganda manca l’acqua calda per gli inevitabili lavori annuali di ristrutturazione della rete del teleriscaldamento, che rifornisce gran parte dei condomini della città.
Il riscaldamento degli ambienti è invece affidato alle caldaie a carbone installate nelle cantine dei palazzi. L’inquinamento dell’aria nelle giornate fredde ma assolate d’inverno, quando l’anticiclone siberiano garantisce un livello di pressione atmosferica alta, raggiunge livelli elevati e indubbiamente pericolosi per la salute delle persone, soprattutto se si considera che Karaganda si trova a pochi chilometri dalle acciaierie di Temirtau.
Da giugno a ottobre nelle case di Karaganda manca l’acqua calda per gli inevitabili lavori annuali di ristrutturazione della rete del teleriscaldamento, che rifornisce gran parte dei condomini della città.
Il riscaldamento degli ambienti è invece affidato alle caldaie a carbone installate nelle cantine dei palazzi. L’inquinamento dell’aria nelle giornate fredde ma assolate d’inverno, quando l’anticiclone siberiano garantisce un livello di pressione atmosferica alta, raggiunge livelli elevati e indubbiamente pericolosi per la salute delle persone, soprattutto se si considera che Karaganda si trova a pochi chilometri dalle acciaierie di Temirtau.
Dopo aver cenato, cucito per alcune ore, servito il tè
della sera che la famiglia beve riunita intorno al tavolo di cucina, Roza
controlla i compiti di Aygulj, prepara il pranzo per l’indomani, pulisce il
bagno mentre Erkinbek guarda la televisione sul divano. Nauseato dalla politica
e dai canali televisivi di Stato, Erkinbek preferisce le trasmissioni delle stazioni
internazionali, soprattutto quelle del National Geografic. Ciò che a Erkinbek
dà fastidio è la corruzione che domina ogni aspetto della vita pubblica del
paese. È uno dei pochi professori che non accetta contributi monetari agli
esami da parte degli studenti. È deluso anche dal sistema universitario: le
verifiche si fanno al computer, non c’è alcun tipo di contatto fra professore e
studente. Questo metodo, che in Kazakistan viene considerato all’avanguardia, è
stato messo a punto per evitare la corruzione: in realtà è un palliativo, che
non risolve il problema alla radice. Bisognerebbe invece aumentare gli stipendi
dei docenti, in maniera tale da non costringerli a ricorrere a mezzi illegali
per poter arrivare alla fine del mese.
Stasera Roza esce. Erkinbek non è molto d’accordo,
preferirebbe che la moglie rimanesse a casa, ma Tamara, antica compagna di
studi, ha invitato lei e Aizada a bere un tè in centro. Raramente accade, ma
gli occhi di Roza stasera brillano di felicità. Finalmente uno strappo alla
monotonia dei passanti quotidiani, finalmente gente nuova e, per una sera, si
possono dimenticare i doveri familiari. Aizada e Roza escono di casa,
scavalcano come gazzelle le pozzanghere che separano l’ingresso al condominio
dal marciapiede. Attraversano la strada e aspettano con ansia l’autobus, mentre
si riparano dal Buran che proprio stasera ha cominciato a soffiare senza sosta.
L’aria è cinerina, promette neve. Neve in settembre, e a casa non c’è ancora
l’acqua calda. Fa nulla, il tè che berranno con Tamara sarà sicuramente caldo.
Salgono sull’autobus, una corsa sulla strada che congiunge “Stepnoi 2” alla
città, poi il mezzo rallenta, c’è traffico, ci sono i semafori. Sono in
anticipo, scendono un po’ prima della loro fermata per poter passeggiate e
riappacificarsi con il vento che da tanto non soffiava e per accogliere
l’inverno in arrivo. Camminano in fretta, leggere, quasi sulle punte, come
ballerine, sull’asfalto della città. Dietro di loro, brillano le luci che
costellano il tubolare del ripetitore delle telecomunicazioni: di notte sembra
bello per via dell’illuminazione, di giorno è solo un ammasso di ferraglia arrugginita
su cui sono posizionati dei circolari per la trasmissione in alta e bassa
frequenza. Ci sono altri simili tralicci disseminati nella steppa lungo i più
di 1000 km che separano Astana e Karaganda da un alto e Almati dall’altro: le
tre città sono unite grazie alle scariche elettromagnetiche dei segnali televisivi
e radiofonici che i ripetitori si scambiano di continuo, in una staffetta
ininterrotta. Comunicazioni governative, segnalazioni poliziesche, film
sovietici e reality show vengono vomitati sotto forma di onde di luce non
visibili agli occhi umani dall’alto di questa antenna arrugginita. Madre e
figlia camminano indifferenti, a dar loro fastidio sono le gocce d’acqua fredda
che di tanto in tanto colpiscono le loro fronti e i loro occhi a mandorla, le
uniche parti del corpo a non essere coperte. Ai lati dei marciapiedi fioriscono
come margherite in un prato di primavere i centri commerciali, piccoli e
grandi, che ospitano marche e negozi occidentali: Prada, Armani, Carpisa. Non
c’è molto altro a Karaganda. L’ideologia neoliberista si è insinuata persino
nei vecchi edifici socialisti, indifferente ai nomi delle vie che li ospitano e
che richiamano eroi kazaki che si sono opposti all’occupante nazista e le cui
sembianze sono spesso raggelate in statue monumentali disseminate ovunque per
la città.
Nella piazza
centrale, sorge l’edificio di una nota azienda di telefonia mobile. Sul
selciato davanti al teatro nazionale delle lampadine sapientemente disposte
disegnano il profilo di una iurta, la casa-tenda tradizionale kazaka. Il popolo
della steppa, infatti, è stato nomade fino agli Venti del secolo scorso, quando
i vertici dell’URSS decisero di industrializzare l’Asia Centrale.
I kazaki si adattarono facilmente alla vita sedentaria, dato che quella nomade era comunque molto dura e a livello economico rendeva sempre meno (alla periferia di Karaganda, fra i campi erbosi che separano i palazzi nuovi in costruzione, un ragazzo guida verso la steppa una mandria di cavalli, l’animale più pregiato in Asia Centrale. Provengono da un allevamento nelle vicinanze, hanno diritto ad addentrarsi anche in città, e i poliziotti che stazionano praticamente lungo ogni strada, li guardano indifferenti e sornioni).
I kazaki si adattarono facilmente alla vita sedentaria, dato che quella nomade era comunque molto dura e a livello economico rendeva sempre meno (alla periferia di Karaganda, fra i campi erbosi che separano i palazzi nuovi in costruzione, un ragazzo guida verso la steppa una mandria di cavalli, l’animale più pregiato in Asia Centrale. Provengono da un allevamento nelle vicinanze, hanno diritto ad addentrarsi anche in città, e i poliziotti che stazionano praticamente lungo ogni strada, li guardano indifferenti e sornioni).
La felicità è merce rara da queste parti, lo sa bene Roza
e lo sa anche Aizada, nonostante sia molto giovane. Camminano per mano,
nascondendo il sorriso sotto le sciarpe multicolori che il vento maltratta
facendone volare le estremità come fossero banderuole.
Tamara
Tamara getta sguardi brevi e frettolosi attorno a sé;
aspetta le amiche davanti al centro commerciale e il vento la accerchia da ogni
lato: arriva da nord, rimbalza sulle facciate degli edifici e la coglie alle
spalle, in un assedio sfibrante.
Tamara ha 40 anni, è separata dal marito e ha un figlio
di 6 anni. Taciturna, decisa, concreta, non ama parlare di sé e raramente
sorride. Insegna psicologia dello sviluppo all’Università di Karaganda. Viene
da una famiglia umile e ha trascorso l’infanzia nella cittadina di Aktas, che
dista poco più di 5 km da Karaganda. La piazza principale con al centro la
statua di Lenin, che negli anni Novanta è stata spostata in periferia ma non
gettata nel cimitero del marmo, la scuola vicino a casa, sulla destra della
piazza principale, il viale dove d’estate, di domenica, i giovani andavano
avanti e indietro. Tutto qui. Il padre di Tamara era un minatore che si calava
ogni giorno nelle profondità della terra a cavar carbone. Chilogrammi,
quintali, tonnellate di carbone, la cui polvere si depositava sulla giacca e
sulla pelle. Tamara ricorda ancora il corpo del genitore, stroncato da un
infarto a 50 anni; disteso sul letto, sembrava dormisse. Le mani e le unghie
erano tinte di nero, non era bastata la pietà della moglie, che per ore aveva
dolcemente lavato il cadavere, a render loro il colore naturale. Un lavoro
ingrato quello del minatore, ricompensato con la pensione a 40 anni. Vent’anni
trascorsi nelle budella del pianeta sono sufficienti al riscatto di qualsiasi
essere umano; sono una pena infernale che conduce a morte precoce. Ora le cose
sono cambiate, ora, in epoca neoliberista, si muore ugualmente come in passato
ma si lavora fino a 60 anni. Lo esige la produzione, lo esige il mercato, lo
esigono le multinazionali a cui lo Stato ha venduto la maggior parte delle miniere.
Per questo Aktas è un cittadina fantasma: i giovani non vogliono ripercorrere
le orme dei padri e vanno in città, studiano e se possono scappano all’estero.
In miniera, però, mai più.
Tamara torna quasi ogni fine settimana nella sua
cittadina natale, dove vive ancora la madre. Il figlio esce, va in piazza a
giocare a pallone con i pochi bambini che ancora vivono qui. Sono per lo più di
nazionalità kazaka, mentre la famiglia di Tamara è russa, ma da secoli vive da
queste parti. Non ci sono attriti etnici, anche se potrebbero cominciare con la
morte del presidente a vita Nazarbayev, che ha ormai 78 anni. La Russia
potrebbe pretendere i territori del nord del Kazakistan, abitati da russi, come
ha fatto per l’Ossezia del nord e per l’Abkhazia nel Caucaso. Tamara e sua
madre si augurano che Nazarbayev stia pensando alla propria successione: c’è il
rischio che il Kazakistan finisca come la Jugoslavia dopo la morte di Tito,
anche perché i russi e i kazaki appartengono a due confessioni religiose
diverse: i primi sono cristiani ortodossi, i secondi musulmani. Il paese è
assolutamente laico, ma non è escluso che politici scaltri possano ricorrere
alle differenze di credo per coprire interessi economici, esattamente come è
accaduto in Bosnia 25 anni fa. Per ora, però, il figlio di Tamara può giocare
tranquillo con gli altri ragazzini, nessuno - o quasi - guarda alla
nazionalità.
Tamara è diventata madre molto presto, come spesso
avviene in Asia Centrale. Il compagno è scomparso nel nulla dopo la nascita del
figlio. La donna si è ritrovata sola e ha optato per un metodo di educazione
dei bambini che è diventato molto comune in Kazakistan negli ultimi tempi.
Negli anni Novanta, quando il sistema sovietico è esploso, sono scomparse quasi
completamente le garanzie sociali statali nei confronti delle giovani madri:
sovvenzioni, asili nido, periodi di maternità pagata. Le madri sono allora
ricorse all’aiuto di ragazze di paese, desiderose di vivere in città perché
appena iscritte all’Università o perché stanche della vita di provincia. Il
fenomeno ha assunto una connotazione di massa, a tal punto che è stato anche
studiato dai sociologici dell’Università di Karaganda; la studiosa Tatjana
Aleksandrovna Revnushnika l’ha chiamato “sistema della ragazza-aiutante della
donna”. Tamara ha ospitato in casa sua una studentessa proveniente da un
villaggio dove vive una sua zia. Il rapporto con la nuova arrivata si è
rivelato sin da subito burrascoso; la ragazza, appena giunta da un luogo
sperduto della steppa, si è ritrovata catapultata nel mondo di Tamara, la quale
in Kazakistan appartiene sicuramente alla classe media: possiede infatti un
appartamento, un’automobile e lavora all’Università. La professoressa pagava
alla sua aiutante gli studi più le spese per le uscite serali, ma la ragazza se
n’è approfittata, forse per ingenuità, forse per odio nei confronti di chi, a
suoi occhi, sembrava essere ricco. Le notti brave in giro per Karaganda si
ripetevano quasi ogni sera, la ragazza tornava spesso a casa ubriaca e non poteva
badare al bambino durante il giorno. La famiglia al villaggio ha preso le sue
difese, minacciando denunce e ritorsioni contro Tamara, non per eccessivo amore
nei confronti della figlia, quanto piuttosto perché l’idea di ritrovarsela di
nuovo a carico era causa di ansie e preoccupazioni: nei villaggi i nuclei
familiari sono numerosi e non è facile arrivare alla fine del mese. Una
figlia-aiutante in città è la soluzione più indolore per risolvere ogni
difficoltà economica. Alla fine, Tamara è riuscita a sbarazzarsi della giovane
e a trovare altre soluzioni.
Stasera il bambino è con la baby-sitter e le tre donne
possono sedersi al caffè e chiacchierare amabilmente. Sui loro volti c’è
soddisfazione, si sentono nuovamente ragazze, libere dai troppi impegni che le
assillano quotidianamente; anche Aizada torna a essere quello che è, una
bambina, e ci rimane male quando vede che il cameriere si è dimenticato di
spruzzare la panna sulla cioccolata calda che ha ordinato.
RUSSIA: APPUNTI DI UN VIAGGIO
[7-14 maggio
2018. Foto dell'Autore, archivio "Odissea"]
Primo giorno
Partenza
Notte
fonda: le due. Il trillo soffocato della sveglia e una manata a scuotere Marcella,
per assicurarmi che non stia ancora nel mondo dei sogni. Poi una rapida
sciacquata al viso, un ultimo controllo alla valigia e via di corsa verso Torre
De’ Roveri. Con i compagni di avventura, saliamo mezzo assonnati sul pullman per
Malpensa. Destinazione finale: San Pietroburgo, via Zurigo. La Russia. Confesso che non ero molto
convinto di questo viaggio, che invece Marcella sognava da tempo per via
dell’Ermitage, con quei suoi tesori d’arte ramazzati da ogni parte dell’Europa
e dei quali tutti dicono un gran bene.
Non mi sono mai piaciuti i Paesi
freddi, e in questa sterminata nazione grande poco meno di un continente è
risaputo che il gelo la fa da padrone per la maggior parte dell’anno. E poi, il
popolo russo non mi ha mai entusiasmato per via della sua indole bellicosa e
imprevedibile, e per il suo nazionalismo a volte così infantile e così
ostentato. La Grande Madre Russia ha sempre richiamato alla mia memoria storie
di terribili invasioni, feroci oppressioni e infinita miseria. Goti che scendono dal nord, slavi che
invadono da ovest o sciamano da sud. Torme di mongoli e tartari che assaltano dall’oriente
con la loro “Orda d’Oro”. Variaghi, meglio conosciuti come vichinghi, che si
infiltrano dai paesi scandinavi dando una prima forma statuale a quel coacervo
di popolazioni grazie alla dinastia dei Rjurik. Da un selvaggio miscuglio di
popoli ad una nazione in poco tempo, consolidata ed estesa a livello imperiale
dai Romanov nei secoli successivi.
E per non farsi mancare niente, l’oppressione dell’autocrazia zarista e la spietata dittatura comunista, così ben descritte e denunciate dai grandi scrittori russi o tradotte in musica dagli altrettanto grandi compositori di questo Paese. Ma ormai stavo accovacciato sull’aereo e sonnecchiavo tra un capitoletto ed una altro della mia inseparabile guida verde del Turing Club Italiano, risalente addirittura al 1980 e scritta in piena guerra fredda, con la Russia trasformata in Unione Sovietica. Guida vecchia, ma quanto mai ricca di informazioni storiche ed artistiche.
E per non farsi mancare niente, l’oppressione dell’autocrazia zarista e la spietata dittatura comunista, così ben descritte e denunciate dai grandi scrittori russi o tradotte in musica dagli altrettanto grandi compositori di questo Paese. Ma ormai stavo accovacciato sull’aereo e sonnecchiavo tra un capitoletto ed una altro della mia inseparabile guida verde del Turing Club Italiano, risalente addirittura al 1980 e scritta in piena guerra fredda, con la Russia trasformata in Unione Sovietica. Guida vecchia, ma quanto mai ricca di informazioni storiche ed artistiche.
Arriviamo
a San Pietroburgo puntuali alle 13,15 e la nostra accompagnatrice Amata, che
adottiamo subito come una figlia, ci presenta la guida locale: una donna ancora
giovane, di media statura, bionda di capelli, occhi cerulei, gentile nei modi e
una voce leggermente metallica. Si chiama Natalia e ci accompagna per una prima
breve visita della città, spiegandoci l’origine di San Pietroburgo e
illustrandoci i monumenti che l’hanno resa famosa nel mondo. Infiliamo l’ampia
strada chiamata Prospettiva Nevskij, che dalla periferia ci porta al centro della
città. Cinque chilometri dritti come la traiettoria di un proiettile, durante i
quali possiamo ricostruire a ritroso la storia di San Pietroburgo, dalle
costruzioni moderne del circondario a quelle più antiche del centro storico.
La
prima fermata è in piazza Sant’Isacco, davanti alla statua equestre di Nicola I
e alla cattedrale. La grande chiesa a croce greca, con il cupolone d’oro
accompagnato da quattro cupolette dorate più piccole e contornata sulle quattro
facciate da grandiosi timpani sorretti da gigantesche colonne di granito rosso,
è ora ridotta a museo. Nel 1928, ci informa la guida, la chiesa è stata adibita
a centro di propaganda antireligiosa da parte Stalin: un ex seminarista
diventato capo supremo dell’Unione Sovietica, per la sua grande capacità
organizzativa, l’estrema ferocia e l’implacabile determinazione. Stalin, l’uomo
d’acciaio, nato Josif Vissariònovic Dzugasvili in Georgia, aveva fatto la Rivoluzione
d’Ottobre con Lenin e Trockij proprio tra queste piazze e questi palazzi. Dopo la
morte del primo, aveva scalato tutti i gradini del potere bolscevico,
eliminando senza pietà gli avversari
politici fino ad instaurare una dittatura personale fatta passare per l’alba del
nuovo mondo comunista, popolato di uomini nuovi liberi ed uguali, tranne evidentemente
il segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Il potere assoluto
in mano al partito unico è durato quasi settant’anni nel Novecento e ha fatto
decine di milioni di morti durante i piani quinquennali nelle colossali
fabbriche appena avviate, nelle sterminate e incolte pianure del sud del Paese
durante le riforme agrarie staliniane, nei numerosi Gulag disseminati nella gelida
tundra siberiana nel tentativo di sradicare ogni forma di opposizione al regime. Poco
oltre, intravediamo dai finestrini del pullman il palazzo neoclassico dell’Ammiragliato,
con il suo torrione centrale e la guglia dorata, e scorgiamo l’estesa piazza del
Palazzo d’Inverno.
Ci fermiamo alla punta dell’isola
Vassilevskij, dove si innalzano due rosse colonne rostrate come nell’antico
foro romano, a memoria delle vittorie navali dell’Ammiragliato e a ricordarci
con Ivan III che è la Russia la terza Roma, e che le altre nazioni sono solo
illegittime pretendenti. Ammiriamo
davanti a noi la grande Neva con le sue torbide acque, a testimonianza
dell’origine paludosa di questa stupenda città, costruita da Pietro il Grande
in pochi anni con il sudore e il sangue di una moltitudini di schiavi chiamati
servi della gleba, con l’apporto di una
turba di tecnici arruolati nei più importanti Paesi europei e con l’ingegno di
architetti di origine italiana, quali il Rastrelli, il Rossi e il nostro
Giacomo Quarenghi, tanto per citarne qualcuno. Sulla destra di quel largo fiume
vediamo distendersi il maestoso Palazzo d’Inverno con le lunghe propaggini dei
suoi Ermitage. Sulla nostra sinistra, si staglia la fortezza dei santi Pietro e
Paolo con il suo alto e aguzzo pinnacolo.
Arriviamo al Parklane Resort, un hotel
nuovo di zecca, posto tra un parco pubblico e un grandioso luna park. Si cena
con sobrietà. Poi qualcuno si avventura nei viali del parco, perché il buio
tarda a venire e la mattina è il sole alle cinque che ti sveglia.
Secondo giorno
La fortezza dei santi Pietro e Paolo
La
fortezza dei santi Pietro e Paolo ci attende alle prime ore del giorno.
Costruita da Pietro il Grande nel 1703 è stato il primo nucleo della città. Eretta
per contenere l’invasione delle armate svedesi e come sbocco sul Baltico ci si
presenta davanti solenne con i suoi poderosi bastioni a stella, ma soprattutto con
la facciata-campanile della sua cattedrale, la cui sottile cuspide arriva a 122
metri d’altezza. Sulla soglia della cattedrale dei santi Pietro e Paolo ci sembra
di entrare in una chiesa barocca italiana: è infatti stata costruita dal nostro
Trezzini nei primi decenni del XVIII secolo. La cattedrale a pianta basilicale
è piena di stucchi e grandiosi lampadari che incombono dall’alto sopra le
nostre teste. A richiamarci l’arte italiana c’è anche un pulpito, inusuale per le chiese russe, ma il
presbiterio, reso invisibile da una possente iconostasi che separa lo spazio
riservato al celebrante da quello dei fedeli, ci ricorda che siamo in terra
ortodossa. Mi soffermo a pensare al senso di questa separazione tra clero e
laici che l’iconostasi mi rappresenta qui fisicamente. Le tombe dei Romanov, che
la guida cita per nome uno per uno e che giacciono disseminati sul pavimento di
tutta la cattedrale, sembra confermare questa mia prima impressione
riproducendo visivamente qui la tripartizione del mondo medioevale in nobili,
clero, servi della gleba. Tuttavia c’è qualcosa di più profondo in questa
separazione che si ripete in tutte i luoghi di culto dell’ortodossia. Qualcosa
che mi rimanda ad una certa immagine di Dio che noi occidentali abbiamo un po’
perso, e non saprei dire se in bene o in male. O meglio, forse un po’ in bene e
un po’ in male.
Dio
è Padre, come ci ricorda costantemente il vangelo, ma è anche il “Totalmente
Altro” da noi. Vive in una dimensione che è inaccessibile per noi mortali,
“abita” anche in uno spazio “sacro”. Mi vengono istintivamente in mente quelle prime
parole che Dio rivolse a Mosè sul Sinai: “Non avvicinarti! Togliti i sandali
dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!”. E le altre,
ancora più misteriose, quando Mosè chiede a Dio di rivelargli la sua identità,
la sua essenza mediante la richiesta del Suo nome. La risposta di Dio è
sconcertante, perché in realtà è una non risposta: “Egò eimi”. “Io sono”. Cioè,
non chiedermi ciò che non potresti mai capire, perché la creatura non potrebbe
mai comprendere il creatore, come la parte non può contenere il tutto.
Noi
occidentali spesso riduciamo Dio a nostra immagine e somiglianza, facendolo a
nostra misura, rischiando così di renderlo un idolo, trasformarlo in un’idea o ridurlo solamente ad un nome. Ogni
tanto Egli si rivela a noi, come quando viene aperta la porta centrale
dell’iconostasi, quella chiamata santa o “regale”, e il pope si rende presente
ai fedeli per poi riportare le loro preghiere e le loro vite nello spazio
misterioso dietro l’ iconostasi, dove vige il nudo canto della Parola e il
gesto della liturgia ridotta a simbolo, a pura invocazione, perché l’uomo non
potrà mai comprendere la completezza di ciò che sta celebrando. E’ vero: Dio si
è rivelato in pienezza in Gesù di Nazareth, nel Kyrios, il Signore. Ma è tutta
la Rivelazione questa o solamente l’essenziale di essa in funzione della nostra
salvezza? C’è dell’altro e dell’oltre, indicibile e non rappresentabile?
La
voce della guida mi strappa bruscamente da questi miei ragionamenti barocchi,
per uscire dalla calca dei visitatori, gettare uno sguardo allo strano
monumento a Pietro I nel giardino e dirigerci al pullman, che ci aspetta per
portarci alla chiesa di San Nicola dei Marinai. Altra chiesa dalle cupole a cipolla, altra robusta
iconostasi piena di figure dell’antico e del nuovo testamento, con sopra all’architrave
l’immancabile crocifisso. La guida ci dice che, se vogliamo sapere a chi è dedicata
la chiesa dobbiamo guardare la seconda figura a destra della porta dell’iconostasi.
Poi, osservo dipinti su legno sparsi nei diversi vani della chiesa e un’icona
dolcissima con la Madonna e il bambin Gesù che si toccano guancia a guancia. Mi
soffermo a guardarla e mi chiedo come mai in tutte le chiese ortodosse torni
sempre quest’immagine, con il bambino però in diverse posizioni. Ce lo spiega
la guida: la Madonna con in braccio il bambino e che lo indica con la mano è la
Madonna “Odighitria”, ovvero la Madonna che, segnalandoci con la mano il
bambino, ci indica la via da seguire. La Madonna della tenerezza, quella
guancia a guancia, viene chiamata “Eleusia”, ovvero la mamma che ci protegge.
La Madonna che viene rappresentata seduta, con in braccio il bambino in posa
regale, è invece la Madonna “Kyriotissa”
o regina, venerata come madre di Dio. Alcune volte quest’ultima viene
rappresentata anche come l’orante con le braccia alzate o in piedi, con il
bambino dipinto sul petto, o con la mano destra protesa in alto quasi a
segnalarci il cielo, ed è chiamata perciò la Madonna del segno.
Guardando l’icona della Madre della tenerezza, non riesco a fare
a meno di pensare a quanto sia diversa
la nostra devozione mariana, sopraffatti in questi ultimi secoli dalle più
svariate e pittoresche apparizioni della Madonna. Apparizioni alcune forse
vere, le più chiaramente fasulle, piene come sono di profezie minacciose per il
futuro del mondo, di generici e ripetitivi richiami alla preghiera, di insulsi
predicozzi senza solidi riferimenti biblici, quando non contrastanti con le stesse
Scritture. E in onore di esse, quanti riti così simili alle processioni pagane
in onore dell’antica Cibele, la Grande Madre, dea della fecondità. Per non
parlare dell’ossessivo richiamo ad una dannazione infernale che sembra una
burla al cospetto dei raffinatissimi inferni che noi umani abbiamo saputo
creare qui sulla terra.
Contemplando quei due volti così teneri, mi viene la
nostalgia di un culto mariano così essenziale e così aderente alla più antica
tradizione cristiana, quando Maria era vissuta semplicemente come madre del
Salvatore e, per riflesso, madre di tutti noi
destinatari della sua salvezza. Quella Maria molto terrena che, secondo
antiche tradizioni orientali, aveva seguito l’apostolo Giovanni ad Efeso e,
tornata a Gerusalemme, era morta attorno agli anni quaranta del I secolo, forse
in concomitanza con il primo concilio della nascente Chiesa.
Dopo aver osservato
altre icone di santi e patriarchi, usciamo per recarci alla chiesa della
Risurrezione, o del Salvatore sul sangue versato: “la chiesa più fotografata
del mondo”, ci tiene a precisare la guida con la sua enfasi tipicamente russa.
Quando arriviamo davanti a quel luogo di culto mi rendo
conto del perché di questo interesse da parte dei turisti. L’edificio, in stile
russo-bizantino e costruito a fine Ottocento, è un miscuglio di stili e di
colori, di mosaici e di piastrelle di ogni tipo. Ogni cupola è diversa dalle
altre sia per la forma che per i colori usati. L’insieme manca di ogni
simmetria e di proporzione cosi che, girandogli attorno, lo spettatore perde
ogni riferimento architettonico, ogni senso di armonia. L’insieme ti dà
l’impressione di essere a Disneyland ed è di un gusto alquanto kitsch. Dentro
ci sono molti mosaici, ma per fortuna non entriamo, per via della lunga fila
alla biglietteria. Con il cattivo gusto imperante, capisco il perché di tanto
interesse da parte dei turisti, forse un po’ meno da parte della popolazione
locale.
L’ultima
chiesa che visitiamo oggi è la cattedrale della Madonna di Kazan. La chiesa custodisce
l’icona miracolosa della Madonna, databile alla fine del XVI secolo, che,
secondo la tradizione, sarebbe apparsa all’esercito di Ivan IV il Terribile
durante l’assedio della città di Kazan. Il complesso si ispira alla Basilica
del Vaticano, con il tentativo di riprodurre, sia pure su scala ridotta, il
colonnato berniniano e la cupola michelangiolesca. Anche dentro il tentativo di
imitazione è evidente: imponenti colonne, grandi quadri, pesanti lampadari che
pendono dall’alto e un soffitto cesellato a rosoni. Davanti all’immancabile
iconostasi, più bassa del solito per la verità, c’è la riproduzione dell’icona
miracolosa, incorniciata con lamine d’oro. Davanti all’immagine, una lunga
processione di fedeli che si avvicinano al quadro e lo baciano, per poi ripulirlo
con molta compostezza e devozione, mostrando il nostro bisogno di “carnalità”
anche nelle manifestazioni di fede.
L’autista
ci aspetta fuori dalla cattedrale con impazienza per portarci in tempo al battello
che ci porterà a vedere San Pietroburgo dall’acqua.
Il
canale è basso rispetto al piano stradale e non esistono attualmente abbattimenti
delle barriere architettoniche in Russia. Settant’anni di propaganda
egualitaria per la creazione di un’umanità nuova, rispettosa di tutti, pare non
siano stati sufficienti a colmare la prima e più elementare diversità: la
presenza di persone svantaggiate e non deambulabili. Angelo è in carrozzella, e
la discesa al battello sembra perciò impresa impossibile. Non ci sono scivoli
di sorta né passaggi alternativi né montacarichi. Un gruppetto di noi, i più
forti e i più volenterosi, afferrano allora la carrozzina con Angelo seduto come
su un trono e lo portano di peso sulla poppa, davanti al boccaporto della barca affittata per la nostra
gita in barca. Anch’io tento di fare qualcosa per ovviare a
quell’inconveniente, ma la mia anca “bionica” me lo impedisce. Da quel momento
Angelo diventa, senza volerlo, il centro di aggregazione di tutto il gruppo,
confermando così la tradizione che vede la solidarietà sempre quale motore
primo di ogni forma di creativa civiltà e di fraterne relazioni. Quella
carrozzella, sempre presente in qualunque luogo ci fosse il gruppo,
indipendentemente delle difficoltà logistiche incontrate, è diventata il
simbolo stesso di questa gita. Persino Marcella, acciaccata ad una gamba, per
visitare molti dei luoghi, si è aggrappata a quella carrozzella per farsi
trainare e risentire meno il dolore. Solidarietà
chiama solidarietà: è la legge stessa della vita! San Pietroburgo vista dai
canali e dalla Neva è stupenda. Palazzi che si affacciano monumentali, sempre diversi
e riccamente decorati, sulle sponde. Ponti bassi, che ti costringono a tenerti
al centro dell’imbarcazione per non prendere capocciate, ti fanno sentire a
Venezia. Alcuni di questi sono cesellati con ferro battuto dorato, altri
presidiati da
statue di marmo o di bronzo, come il ponte Anitchkov. Costeggiamo il castello Michailovskij,
dove lo zar Paolo I, figlio di Caterina la Grande, rifugiatosi proprio in quel
castello per proteggersi dalle congiure, venne strozzato con una sciarpa proprio
dai congiurati lì convenuti con un inganno. Quando si dice della sorte beffarda!
Poi scorgiamo giardini che verdeggiano oltre le cancellate e
il Campo di Marte che si intravede con le sue patrie memorie.
Entriamo nel canale che attraversa l’Ermitage piccolo, sotto
un ponte simile al veneziano Ponte dei Sospiri, per sfociare poi nella grande
Neva. Sembra di stare in mezzo ad un lago con tutt’attorno il Palazzo
d’Inverno, l’Ermitage, le Colonne rostrate, i bastioni della fortezza dei santi
Pietro e Paolo e gli immancabili ponti che si aprono di notte per il passaggio
delle navi. Il piccolo traghetto si dirige ad est verso l’interno, fino a
arrivare ad un canale dove è attraccato l’incrociatore Aurora, protagonista
della Rivoluzione d’Ottobre. Ci avviciniamo a questo pezzo di storia mondiale,
ora diventato museo galleggiante, e l’emozione mi prende il cuore. Rivisito con
la memoria i filmati dell’epoca e rivedo proprio questa lunga nave d’acciaio
con i tre giganteschi fumaioli, orgoglio tecnologico dell’epoca, fermo sulla
Neva e accostato al Palazzo d’Inverno, con i cannoni puntati sul Palazzo, in
quel momento sede del governo provvisorio di Kerenskij. Un colpo a salve del
cannone sulla prua, che ora vedo sempre meglio con l’avvicinarsi del traghetto
all’incrociatore, dà il segnale di via alla rivoluzione comunista della Russia,
con enormi conseguenze sulla storia del mondo. I marinai di questa nave da
guerra sono stati tra i primi assalitori del simbolo del potere zarista, e
questi cannoni hanno dissuaso i difensori da ogni resistenza contro i rivoltosi
e dato inizio alla divisione dell’umanità in due blocchi contrapposti per quasi
un secolo. Correva l’anno 1917, nel venticinquesimo giorno di ottobre, secondo
il calendario russo, 8 novembre per il calendario moderno. Ecco l’origine della
mia emozione, davanti a questa nave. Con un lento giro a fianco dell’Aurora,
che non mi stanco di guardare, il battello ci riporta alla banchina di
partenza. Si torna all’hotel, stanchi ma alquanto soddisfatti. Una piccola
riunione serale per un confronto fraterno su ciò che abbiamo vissuto durante la
giornata chiude questo secondo giorno.
Terzo giorno
Peterhof
La giornata inizia con la visita al palazzo Peterhof, la residenza estiva di Pietro il Grande, adagiato sulla sponda sud del golfo di Finlandia. La Versailles russa, come la chiamavano. Infatti, per la maestosità dell’architettura, lo sfarzo delle decorazioni, la raffinatezza degli interni, la vastità dei giardini e la spettacolarità delle fontane il Palazzo di Pietro I non ha nulla da invidiare alla reggia di Luigi XIV. Il complesso monumentale è composto dal palazzo centrale e da due padiglioni laterali, contenenti una cappella e la sala delle aquile, connesse al corpo centrale da due decorate gallerie. Entriamo e ci inoltriamo in una serie infinita di saloni, uno più fastoso dell’altro, addobbati nello stile tipico del barocco russo, troppo pesante per i miei gusti.
Pilastri luccicanti per la doratura, soffitti coperti con
vaste tele raffiguranti paesaggi, cieli aperti, cascate o scene mitologiche. Ancora:
scintillio di gioielli riflessi da innumerevoli specchi, grandiose vetrate che
si affacciano sui giardini, porte e battenti dorati che rendono lo spazio
ancora più ampio ti fanno perdere in un mondo fantastico e ti danno
l’impressione di vivere fuori dalla realtà. Probabilmente era proprio questo
l’effetto voluto dall’architetto Rastrelli e aiutanti: distrarre lo zar dal
mondo reale, distoglierlo dalla vista della miseria che imperversava ovunque in
quel suo sconfinato regno, soprattutto nelle minuscole isbe, che raggruppavano
intere famiglie di contadini sopra un’unica stufa e tra i cittadini ristretti nelle
città maleodoranti del sud della Russia.
Il contrasto non potrebbe essere più stridente tra questo
lusso sfacciato ed esibito, approntato per banchetti opulenti, balli senza freno,
sfilate solenni, divertimenti senza fine, e le catapecchie della periferia di San
Pietroburgo, che Caterina II, quasi quarant’anni dopo, nascondeva dietro
improvvisate facciate di palazzi immaginari fatte di legno, per non vederle mentre passava
in carrozza. Una miseria che nei centri minori della Russia costringeva la
popolazione nel fango e nella sporcizia per dieci mesi all’anno, con la fame
che non poche volte spingeva gli abitanti a mangiare i topi.
Qui ogni cosa luccica. Oltre alle statue dorate delle
magnifiche fontane, Pietro il Grande avrebbe indorato persino l’acqua e l’erba
dei giardini se fosse stato possibile. Dopo
la sala dei ritratti, la camera da letto dello zar, gli studi cinesi usciamo
nel parco tra giardini che si affacciano sul Baltico, trapuntati da cascatelle
artificiali, zampillanti fontane, statue mitologiche. Poi arriviamo al viale
delle fontane e al canale marittimo che collega la Cascata Grande con il mare
aperto. Un prodigio idraulico del tempo, che porta l’acqua dalle alture di
Ropsa, situate a qualche chilometro di distanza, a questa artificiale cascata,
tra lo scintillio dorato riflesso nelle splendide declinanti fontane.
Peterhof (interno) |
Dopo
il palazzo del re, il palazzo della regina: Tzarskoje Selo. Costruito anche
questo dal Rastrelli per Elisabetta Petrovna, seconda figlia di Pietro I e
nuova imperatrice della Grande Madre Russia nata proprio in questo luogo, è posto
a sud-ovest di Pietroburgo. Impressiona subito la facciata lunga 310 metri.
Colonne, losanghe, ampie finestre, lesene e trabeazioni di color bianco e blu,
si alternano in un armonico movimento che anima l’intera facciata e sono
impreziositi da stucchi dorati. Difficile immaginare uno sfarzo maggiore, un
barocco più barocco di questo: stile rococò appunto. Dentro, sembra non esserci
limiti al lusso. È persino difficile descriverlo nella sua magnificenza e
raffinatezza. Quel che più impressiona il visitatore è la grande sala dei
ricevimenti con la grandi finestre sui giardini e la pareti interamente
indorate. Poi, in sequenza, il salotto blu ricoperto di legni pregiati, le
grandiose stufe di ceramica azzurra e bianca, la galleria di quadri dell’epoca
e lo studio con le pareti interamente coperte di pannelli a mosaico di varie
specie di ambra. Nel parco: giardini fioriti, una galleria con una scala
monumentale decorata con le statue di Ercole e Flora e un intero lago, al
centro del quale si intravede una piccola isola con sopra un padiglione dove la
zarina si raccoglieva per ascoltare la musica senza essere disturbata. Ci
avviciniamo anche noi al laghetto ed entriamo nell’edificio bianco e blu che lo
costeggia per ascoltare tre cantori che eseguono brani “a cappella”, per illustraci
l’acustica del luogo. Ci incamminiamo verso l’uscita. Guardo
per l’ultima volta quello sfarzo che riflette assai bene l’animo di Elisabetta di
Russia “che non si è mai fatta mancare nulla nel lusso e nei piaceri”, come ci
ricorda la nostra guida, ma che è stata anche una capace donna di potere, a somiglianza
del padre.
La Sala d'Ambra |
Tornati in città passiamo per piazza Pietro I per vedere Il cavaliere di bronzo, la statua di
Pietro il Grande a cavallo, incoronato di alloro e come strombettante su un alto
blocco di granito. Una statua fatta erigere dal Caterina II in onore al
fondatore dell’impero russo e diventata il simbolo stesso di San Pietroburgo.
Poi una visita veloce alla cattedrale della Trasfigurazione, un po’ meno pesante
delle precedenti negli addobbi e il ritorno in albergo.
Qualcuno chiede di uscire per godersi i fuochi d’artificio in
occasione della festa della vittoria sul nazismo, celebrata proprio in questo
giorno con una grandiosa parata militare sia a San Pietroburgo che a Mosca. Una
festività nazionale per la liberazione qui molto sentita e partecipata dalla
popolazione. Altri vorrebbero vedere i ponti aprirsi di notte per lasciar
passare le imbarcazioni e le navi da carico sulla Neva, ma gli orari di
apertura sono giudicati impossibili e domani mattina presto ci aspetta la
visita al Palazzo d’Inverno, all’Ermitage e, subito dopo il pranzo, la stazione
ferroviaria, destinazione Mosca.
Quarto giorno
Ermitage
Sveglia
presto: ci aspetta il Palazzo d’Inverno con il suo Ermitage. La vasta piazza
antistante la reggia ci accoglie con l’alta colonna di Alessandro a mo’ di
obelisco al centro, fatta di un unico monolito in granito rosa. Entriamo in
fila nel Palazzo d’Inverno dopo i consueti e ossessivi controlli al metal
detector. Il Palazzo si rivela degna residenza degli imperatori russi, per la
grandiosità monumentale dell’aristocrazia zarista. Alla sua costruzione, oltre
al Rastrelli, ha collaborato anche il bergamasco Giacomo Quarenghi. L’enorme complesso,
costituito dalla casa reale e dal più grande museo del mondo, è stato costruito
in diversi periodi storici e si compone di diversi stabili contigui, comprendenti la residenza
della corte imperiale, il Piccolo
Ermitage, il Vecchio Ermitage e il Nuovo Ermitage.
Attraversiamo, come inizio della visita, le sale di
rappresentanza della casa reale, con la sala del trono al centro
dell’attenzione, sempre caratterizzate dallo sfarzoso stile barocco che abbiamo
conosciuto nella regge estive degli zar, per poi inoltrarci, attraverso gallerie
affrescate ridondanti di stucchi, nell’Ermitage vero e proprio.
Questo museo l’ha tenacemente voluto Caterina II, una sovrana
“illuminata” che ha contrassegnato indubbiamente la storia della Russia e dell’Europa.
Caterina, che i due padri dell’illuminismo Voltaire e Diderot, da lei mantenuti
fino alla morte, hanno soprannominato “la Grande”, perché, secondo loro, aveva riscattato con un buon governo il suo
primo omicidio, quello del marito. Caterina: una riformatrice rimasta però a
metà strada, peggiorando così la situazione dei contadini rendendoli di fatto
schiavi dei grandi latifondisti dell’epoca e non modificando in alcun modo la
concezione autocratica del potere zarista. Donna energica, molto intelligente e
di non comune cultura era appassionata d’arte. Curiosa come pochi altri nel suo
tempo e alquanto dissoluta nelle faccende di carne e di cuore, aveva desiderato
e fatto costruire quel museo per goderselo come una collezione privata. Aveva
perciò comprato intere collezioni di quadri da tutto il continente sistemandole
prima nel piccolo Ermitage, fatto erigere proprio per questo, per poi ingrandirlo
con il Vecchio Ermitage, quando il numero delle opere d’arte aumentava di
numero e a dismisura. Con l’accumularsi dei ritrovamenti archeologici
provenienti dalla Russia meridionale e l’acquisto di nuove collezioni, la zar
Nicola I dovette costruire il Nuovo Ermitage, aprendolo ai visitatori stranieri.
Con l’avvento dell’Unione Sovietica tutte le collezioni
private in Russia vennero sequestrate dallo Stato, dichiarate bene nazionale e
trasferite tutte all’Ermitage, che diventò così il museo russo per eccellenza.
Dobbiamo riconoscere che questa drastica e discutibile scelta ha fatto in modo
che le opere d’arte in esso esposte venissero custodite con particolare cura e
severità, salvandole per il bene dell’intera umanità.
Interno dell'Ermitage |
Procediamo spediti verso alcune sale già precedentemente individuate
per visitare le opere più importanti presenti nel museo. Attraversiamo scaloni
e sale ricche di quadri, sculture e oggetti di ogni tipo e di ogni epoca, ma
senza soffermarci. Abbiamo appena il tempo di vedere la Sala di Malachite e poi
la Sala dei Concerti. Sostiamo solo per osservare, nella magnifica Sala del
Padiglione, il celebre “Orologio del pavone”, che in realtà è un automa,
perché, una volta caricato il meccanismo, tutte le figurine si mettono in moto:
funghi che si muovono, gabbia che si gira, campanelli che suonano, una civetta che
apre e chiude gli occhi, un pavone che distende le ali, fa la ruota e scuote la
tesa, e un gallo che fa chicchirichì, come ci informa la guida. Dal soffitto della lussureggiante sala sostenuto da colonne
corinzie pendono giganteschi lampadari e, ai lati, stazionano quattro fontane.
Al centro, un mosaico romano autentico. Dalle finestre si può anche ammirare il
giardino pensile costruito sul tetto del Piccolo Ermitage. Poi proseguiamo
attraverso la galleria detta delle “Logge di Raffaello”, costruita dal nostro
Quarenghi sul modello di quelle del Vaticano, sempre su commissione della
goduriosa Caterina.
Arriviamo nel settore della pinacoteca dedicato interamente
alla collezione Rembrandt e ci soffermiamo davanti al grande quadro del Figliol Prodigo. Amata ci fa notare che
il padre è raffigurato cieco, quasi a significare che Dio non vuol neanche
vedere i nostri peccati, e che la sue mani sono di diverso genere: una maschile
e una femminile, per indicarci che Dio è padre e madre insieme. Un’assoluta
novità per quel tempo, quando l’immagine del Dio maschilista, con la lunga
barba bianca e il triangolo sopra la testa, non era minimamente pensabile che
potesse essere messa in discussione. Il figliol prodigo è inginocchiato tra le
braccia del padre, con i piedi e gli zoccolacci sporchi, per sottolineare lo
stato di estrema miseria materiale e morale in cui è precipitato il giovane
ribelle. La composizione mi richiama subito alla mente il Padre Misericordioso di Arcabas della Pèta, che sicuramente proprio
a questo quadro si è ispirato. Le altre figure che sono sullo sfondo, o a lato,
dei protagonisti della scena sembrano solo personaggi di contorno e si perdono
sullo sfondo scuro o si mostrano alquanto perplessi per l’atteggiamento misericordioso
del padre. Uno sguardo “televisivo” anche alle altre opere di Rembrandt, poi di
corsa a vedere i capolavori più preziosi del museo: la Madonna Litta e la Madonna Benois
di Leonardo, la Madonna del Connestabile
e la Sacra Famiglia di Raffaello. Riusciamo
però solo scorgerle di traverso, a causa della calca dei visitatori, e
proseguiamo lesti per ammirare la piccola statua del Giovane accovacciato di Michelangelo e, subito dopo, lo stupendo
dipinto del Suonatore di Liuto del
Caravaggio. Ci spostiamo infine nella lunga sala interamente dedicata all’eteree
sculture del Canova. Le Tre Grazie, Amore e Psiche, e Apollo, chi non li conosce? Sono capolavori universali! Un ultimo
sguardo alla Maddalena del Tiziano, una
sosta davanti alla Venezia del Canaletto, una spiata al ritratto di una giovane
del Veronese, un’occhiata ad alcune tele del Velasquez e di Zubaràn, poi di corsa
verso l’uscita.
Solo un’ora e mezza per tanta cuccagna e neanche il tempo di
assaggiarla. Quasi un attimo di estasi per lustrarci gli occhi. Manca completamente
alla visita la parte archeologica, etnografica e i tesori della ceramica. Ci
vorrebbero almeno tre giorni per gustare questo paradiso dell’arte, della
cultura e dell’archeologia. Mi riprometto perciò di ritornare a San Pietroburgo,
ma solo per rivedere l’Ermitage e per guardare il suo teatro, altro tesoro che
non abbiamo potuto visitare.
La stazione ferroviaria ci accoglie con i suoi defatiganti
controlli al metal detector. Il delirio di controllo dell’ex Unione Sovietica
sembra essere rimasto nel DNA di questo popolo e dei suoi governanti. Il
viaggio su un treno ad alta velocità verso Mosca mi mostra il lato meno conosciuto
ma più autentico della Russia, quello che sta al di fuori delle due grandi
città. Ai lati dei binari, scorre velocemente una sequenza infinita di piante, come
una frenetica processione verde che si ripete sempre uguale a se stessa,
interrotta di tanto in tanto da acquitrini o corsi d’acqua o piccoli laghi. La
vastità del piatto paesaggio non mi dà punti di riferimento e provo un senso di
sperdimento. Abituato ai panorami delle nostre montagne, con i borghi aggrappati
ai declivi o accovacciati nelle convalli, e con le chiesette appollaiate pittorescamente
sulle sommità che mi rassicurano del dove e del “chi sono”, mi sento sopraffatto
da questa spazialità senza confini e mi sento smarrito. Di tanto in tanto,
scorgo isbe di legno o ruderi abbandonati soffocati dalla vegetazione e immersi
in una luminosità squillante che mai non varia e fissa i colori in un unico
cromatismo appiattendo ogni cosa. Sopra di noi, un cielo immenso che ti opprime
e ti schiaccia e ti fa sentire un niente.
Civiltà orizzontale la Russia, dove il cielo può sembrare
troppo distante e chiuso per essere raggiunto e la terra invece così vicina e
concreta da essere tentati di farne il visibile e attuale paradiso dell’uomo,
tanto da illuderci di stare al centro del creato, ma sempre in basso, e di
poter infrangere ogni limite per la realizzazione dei nostri sogni. Ha qualcosa
a che fare questa sensazione di mancanza di confini con l’utopia comunista della
creazione dell’uomo nuovo e di un nuovo mondo, da conseguire cancellando il
passato e disprezzando ogni diversità? Forse.
Di certo l’assenza di “rughe
montuose” che ponga argini a questo spaziare senza misura può indurre la
volontà a varcare ogni limite, mentre l’oppressione del cielo produce
nell’anima il ripiegamento sbigottito verso il profondo, generando
quell’atteggiamento di supina e tarda sopportazione dell’avversa fortuna e
delle umani sorti caratteristica della popolazione di questo Paese. È l’ambivalenza
dell’animo russo, così ben descritta da Tolstoj, Cechov, Dostoevskij: aggredire
ciclopicamente il cielo per
impadronirsene o sprofondare intimisticamente nel “sottosuolo” per subirlo
passivamente. Anche la religiosità russa così introversa non sfugge a questa dicotomia,
che traduce concretamente nella fissità del rito, nell’accentuazione del
nascondimento, nella paura del cambiamento, ma anche nella sua volontà di
universalità e di pretesa di diventare il paradigma per ogni altra confessione cristiana
con il suo richiamo ad un’immutabile tradizione.
Per fortuna Amata, sedendomi accanto dopo aver scalzato
Bruno dal suo legittimo posto, mi distoglie da queste elucubrazioni mentali per
restituirmi sanamente al “qui ed ora”. Mi racconta la nascita del movimento di
Russia Cristiana e del suo evolversi dopo la morte di padre Romano Scalfi, che
avevo avuto modo di conoscere occasionalmente a Seriate negli anni settanta,
senza per altro approfondire la sua conoscenza e la sua ricerca.
Quest’ “Associazione pubblica di fedeli”, come recita il
diritto canonico che così l’ha istituzionalizzata, è stata fondata nel lontano
1957 per far conoscere in Occidente le ricchezze
della tradizione spirituale, culturale e liturgica dell'ortodossia russa e per
favorire il dialogo ecumenico, ma anche per ricordare a noi occidentali i martiri
dell’ateismo di stato nell’Unione Sovietica. Qualche numero, anche
solamente approssimativo, perché gli storici fanno ancora fatica a computare la
dimensione esatta della tragedia, per darci l’idea della dimensione dello
sterminio che i fratelli ortodossi e delle altre confessioni cristiane hanno
subito a motivo di questo tentativo di creare un’umanità nuova cancellando ogni
dimensione religiosa, ogni forma di spiritualità in nome di un sapere
scientifico onnisciente e di un potere politico onnipotente.
Durante il periodo sovietico che va dal 1917 al 1989, data
della caduta del muro di Berlino, si stima infatti che siano stati uccisi quasi
venti milioni di cittadini, moltissimi dei quali cristiani e condannati proprio
solo per questo. Uomini eliminati mediante fucilazioni o fatti morire di stenti
o internati nei gulag siberiani per il lavoro coatto e la “rieducazione” ai
valori della nuova società socialista. Sono stati assassinati circa 150 mila
preti e 250 vescovi tra ortodossi, cattolici e protestanti. Soppressi quasi
tutti i conventi e i beni dei patriarcati confiscati. Rase al suolo o
trasformate in museo la quasi totalità delle chiese e chiusi tutti i seminari.
Un’ecatombe spesso passata sotto silenzio e nell’indifferenza generale, perché,
come accade ancora oggi con il terrorismo islamista, le vittime per la fede non
fanno mai notizia o sono considerate “vittime minori”, non degne di particolare
attenzione e di commiserazione sui mezzi di comunicazione di massa. Un
pregiudizio assai strano che non ho mai francamente capito. Aggiungiamo che in
quel periodo del Novecento in Italia avevamo la presenza del maggiore partito
comunista dell’occidente che non consentiva di sollevare questo problema. Chi
ci provava veniva bollato come un “reazionario” e una persona sicuramente in
mala fede. Confesso che anche noi, che abbiamo vissuto in prima linea l’utopia
del sessantotto, questa tragedia l’abbiamo colpevolmente ignorata o ingenuamente
snobbata.
Amata ci tiene a dirmi che questa esperienza di Russia Cristiana
lei l’ha vissuta fin da piccola e che le ha dato molto sul piano della crescita
spirituale e su quello culturale.
Arriviamo per sera nella capitale. Ci accoglie la nuova
guida, che ci sollecita in modo imperativo a salire sul pullman per portarci
all’Hotel Holiday Inn Lesnaya, nel centro di Mosca. Ilena, la nuova guida, è
minuta, occhi chiari, parlantina fluente e non poche volte sovrabbondante, ma
mostra grande preparazione. A tratti riesce anche ad essere spiritosa, con
battute salaci e osservazioni ironiche sulla vita moscovita e sulla storia della
Russia.
È anche molto disponibile a fornirci risposte dirette e veritiere
sul momento politico che i russi stanno attraversando e non tergiversa sul passato
recente del suo Paese. L’impressione è di trovarmi di fronte ad una donna non
comune. Dopo aver imboccato larghe strade dominate dall’imponente torre della
TV che ci guarda dai suoi 533 metri d’altezza e contenente sulla sommità tre
ristoranti girevoli, l’affollato hotel ci accoglie per un’abbondante cena e ci
disperde sui suoi undici piani, con ascensori che con fatica riusciamo a
padroneggiare e che ci creano non pochi e divertenti inghippi.
Quinto giorno
Sergiev
Posad
Ci alziamo presto per recarci a Sergiev Posad dominato dal
Monastero della Trinità di san Sergio di Radonez. Le poderose mura di forma
trapezoidale che circondano il monastero con le dieci torri che presidiano il
luogo, lo fanno sembrare più ad una fortezza che ad un luogo di culto. Le
caratteristiche guglie a cipolla dorate e verdastre che vediamo elevarsi come
una selva al di sopra dei possenti bastioni ci dicono della ricchezza, vastità
e monumentalità del monastero. I portali che si aprono sotto imponenti torri con
copertura a cupola ci accolgono con affreschi che narrano la vita del santo. San
Sergio è forse il santo più venerato in Russia, perché ha dato origine alla
vita monastica ortodossa quale noi la conosciamo. E’, per certi aspetti, un po’
il corrispettivo ortodosso del nostro san Benedetto, ma, per altri, è più simile
a san Francesco. Quegli affreschi narrano la vita del santo con i suoi
miracoli, i suoi monaci e il suo dialogare con un orso, un po’ come la vita e i
fioretti di san Francesco narrati dalla pittura di Giotto. Sappiamo che il
santo fondò, nel XIV secolo, oltre alla casa madre della Trinità che stiamo
visitando, circa 400 monasteri in tutta la Russia e che si rifiutò per umiltà
di diventare metropolita dell’intera Russia. Pur vivendo una vita ascetica,
Sergio prese parte alla vita politica del suo Paese per sedare una rivolta
nella capitale Novgorod e per scacciare dalla Russia i tartari dell’Orda d’Oro.
Glorificato nel 1452, ora lì riposa, in una piccola chiesa del grande monastero
a lui dedicata, molto frequentata da composti pellegrini, veneranti devoti e da
curiosi turisti. Anche noi la visitiamo, dopo aver visto la chiesa della
Trinità, e quel che mi attira di più in quella sorta di cenotafio è la presenza,
sul sarcofago di san Sergio, di una rozza bara di legno massiccio che il santo
teneva sempre presso di sé, a ricordare a se stesso che la morte è sempre certa
ma la sua ora imprevedibile, e che quindi è necessario essere sempre preparati
al trapasso dalla vita mortale alla vita eterna. La bara come una memoria per
la gioia del ricongiungimento con il nostro Padre celeste, ma anche un richiamo
alla responsabilità per ciò che facciamo.
La prima visita del complesso, ricco di edifici di varia
natura e dalle fattezze un po’ arabe e un po’ gotiche, è dedicata alla chiesa
della Trinità, che si erge con una sola cupola su altissimo tamburo quadrato. Dentro,
per la verità, mi sembra una grande sala di ricevimento con lampadari
luccicanti che scendono da un soffitto affrescato e con la ricca iconostasi decorata
dal discepolo Rublev con 42 icone. Un capolavoro assoluto di arte russa. Sulla
parete, di fronte all’iconostasi, si può ammirare l’affresco del Giudizio Universale
e, nell’atrio, dipinti raffiguranti scene della Genesi. Dietro al campanile che si
erge alto e a gradoni, notiamo un bellissimo tempietto ottagonale di eleganti
forme barocche, costruito per racchiudere la famosa icona della “Odighitrìa”, la
Madonna Regina.
Attraversata la spianata, ci rechiamo nell’edificio più grande:
la chiesa dell’Assunzione, o della Dormizione come la chiamano gli ortodossi,
che non l’hanno significativamente mai tradotta
in dogma di fede. La cattedrale è alta e le pareti interamente affrescate e culminanti
con cinque cupole. Anche qui domina una sontuosa iconostasi del XVII secolo.
A mezzogiorno circa usciamo dal complesso con la sua selva
di cupole e guglie dorate per pranzare in un ristorante poco distante, poi
facciamo ritorno a Mosca.
Arriviamo al centro della città di circa 15 milioni di
abitanti attraverso le ampie strade a più corsie e soffermandoci quel tanto che
basta per ammirare il monumento ai conquistatori dello spazio che si innalza fino
a 100 metri, come una freccia di acciaio e titanio scagliata contro il cielo e culminante
con una scultura a forma di razzo, a magnificare le imprese spaziali dell’URRS.
Altre superstrade, altri palazzi di diversi periodi storici.
Poi un ponte, ed ecco che ci si para
danti ai nostri occhi la cattedrale di San Basilio, o dell’Intercessione, che si
staglia imponente all’ingresso della famosa Piazza Rossa, affiancata dall’altrettanto
celeberrimo Cremlino. Costruita su ordine di Ivan IV il Terribile come
ringraziamento della sua vittoria sui tartari, è una fantasiosa chiesa a forma
di croce greca dentro un quadrato. E’ certamente uno dei massimi capolavori
dell’architettura russa. Persino Stalin l’ha preservata dalla programmata
distruzione. Alla vista è sconcertante per la forma delle cupole: una a pigna e
l’altra a cipolla, una affusolata e l’altra ritorta. Coperture policrome le
ricoprono, una diversa dall’altra per colore e forma. Incredibile è il gusto
pittorico che caratterizza l’intero complesso. Al centro, si erge la torre a
forma di pigna sormontata da una piramide e da una cupoletta dorata con la
solita forma a cipolla, con in cima una svettante croce. Il colore prevalente del
complesso è il rosso, interrotto però dal bianco delle lesene, delle
trabeazioni e delle decorazioni.
La guida non ha prenotato l’entrata, così, mentre gli altri
del gruppo visitano la Piazza Rossa e i grandi magazzini del GUM, mi infilo con
Marcella zoppicante all’interno. La chiesa è ora un museo, e il gioco mutevole
delle prospettive nei bassi corridoi a cunicolo che congiungono le nove
cappelle ti fa sentire come dentro un labirinto. Adornata con le immancabili
iconostasi e ritratti di santi e madonne su legno, e con cappelle decorate che
esternamente vediamo come torrioni, crea un ambiente fatto di luce soffusa che
invita al raccoglimento. L’architettura complessiva è sobria ed essenziale. A
tratti sembra di stare nei meandri dei nostri castelli del trentino o nelle
cripte di qualche chiesa romanica.
Arriviamo al centro della torre centrale, nella grande
cappella che si eleva vertiginosa verso l’alto, con a fianco un’ iconostasi
tutta verticale. Udiamo un canto meraviglioso a più voci di cinque cantori che tornea
verso la copertura piramidale di quell’altissima torre. Dopo la fine del canto cerchiamo
l’uscita in un’affannosa ricerca delle scale. Faticosa la discesa per la gamba
di Marcella, ma alla fine ci ritroviamo sulla Piazza Rossa davanti al Patibolo,
luogo delle esecuzioni durante il dominio zarista..
La piazza è degna della sua fama. Rosso san Basilio, rosse
le possenti mura turrite del Cremlino, anche se, al loro nascere, erano bianche
ci ricorda la guida, rosso il museo storico che chiude la piazza a nord, rosso
è la torre dell’arsenale che affianca il museo e rossiccia è anche la piccola
chiesa di Santa Sofia rattrappita in un angolo. Solo il GUM, che si dilunga su
tutta la parte destra della Piazza Rossa, è di color panna. Il selciato è di un
grigio che tende stranamente al carminio, forse per un riflesso di luce.
Intravedo, accostato alle mura e sotto il torrione centrale, il mausoleo di
Lenin.
È un blocco di granito rosso a forma di piramide quadrata e
tronca, con alti gradoni della medesima fattura e sormontato da un colonnato di
granito. Sul primo di quei gradoni si affacciavano le autorità sovietiche per
salutare la popolazione durante la parata militare, simbolo della potenza militare
dell’URSS. Davanti a quel mausoleo, durante gli anni del regime, c’era sempre
un’ interminabile fila di devoti visitatori provenienti da tutto il mondo, per
rendere omaggio al padre della Rivoluzione per antonomasia, all’uomo che aveva
cambiato il mondo, al nuovo salvatore dell’umanità. Ora quel mausoleo è quasi
interamente coperto dai tubolari che hanno sorretto una copertura, per
nasconderlo alla vista durante la grande e famosa parata militare dei due
giorni precedenti. Mi vengono istintivamente in mente quel detto del Qoèlet: “O vanità immensa: tutto è vanità… non c’è
ricordo degli antichi e non ci sarà pure dei posteri presso coloro che verranno
dopo di loro”.
Il Mausoleo di Lenin |
Torno presso gli amici ritornati dall’ispezione al GUM o dal
girovagare nei dintorni della piazza. Informo Claudio del mausoleo e lui si
precipita a fotografarlo. Con Battista facciamo dei commenti sulla precarietà
della fama umana e sull’illusione dell’immortalità della memoria. Ricordiamo
insieme la sapienza del salmo 44:. “ L’uomo
è come un soffio, i suoi giorni come ombra che svanisce” E le amare
considerazioni del salmo 102. “Come l'erba sono i giorni dell'uomo, come
il fiore del campo, così egli fiorisce. Lo investe il vento e più non esiste e
il suo posto non lo riconosce”. Poi con il salmo 49 meditiamo sul fatto che ”muoiono i sapienti e i potenti, anche se erano
grandi e famosi e a città hanno dato il loro nome. Eppure l’uomo non comprende…
che il suo sfarzo non scenderà dietro di
lui”.
Una celebrità come Lenin dimenticato in un mausoleo da
nascondere e in procinto di essere rimosso da quel fastoso e solenne mausoleo e
tumulato con gli altri eroi della Grande Rivoluzione nelle mura del Cremlino,
non appena il nazionalismo putiniamo avrà fatto piazza pulita dei comunisti
ancora presenti sulla scena moscovita.
“L’uomo, come l’erba
del campo...”: proprio così!
Poi scendiamo tutti insieme per recarci in pullman in piazza
Puskin e per fermarci sul ponte degli innamorati che scavalca un canale della
Moscova, trapuntato dai getti delle fontane. Si intravede in lontananza una
delle più grandi statue del mondo fatta interamente in bronzo. Raffigura Pietro
il Grande ritto sulla tolda della più alta delle tre caravelle sovrapposte che
fanno da basamento alla vertiginosa scultura, a simboleggiare la potenza
marinara della Russia. In verità la statua era stata commissionata dagli
americani nel 1992 per glorificare Cristoforo Colombo, ma poiché il monumento
non era piaciuto ai committenti, lo scultore l’ha venduta al sindaco della
capitale dedicandola a Pietro I, non prima però di aver sostituito la testa di Cristoforo
Colombo con quella dello zar Pietro. Quel sindaco aveva motivato l’acquisto con
la notoria passione dello zar per la navigazione e per la marina. Il tutto, un
vero, colossale riciclaggio. Qualcuno ritiene quella statua essere la più
brutta del mondo, tanto che Ilena, che l’arte la conosce bene, se ne guarda
bene di farcela vedere da vicino, nonostante che la statua, con i suoi 94 metri
di altezza, incomba sul panorama circostante. Un’intelaiatura metallica con appesi innumerevoli lucchetti fa
da ingresso al ponte e un grande cuore fatto di fiori ci attende alla termine.
Nel bel mezzo di quel cuore in fiore, una passerella con panchina per le classiche
fotografie di coppia.
Al ritorno passiamo davanti al palazzo della Lubjanka, il
luogo più temuto della Russia. Anche Ilena ce lo indica, ma solo di passaggio e
con non poco disagio. E’ infatti la sede dei servizi segreti, sovietici prima, oggi
della nazione Russa. Ma la sostanza rimane. In quel palazzo di mattoni gialli,
squadrato e dalle fattezze vagamente classicheggianti, con un orologio sulla
sommità della facciata quasi ad indicare che, per chi vi entra, il tempo di
vita è contato, si sono consumati crimini inauditi. Sede della CEKA durante la
Rivoluzione d’Ottobre, diventa il cuore pulsante dell’Unione Sovietica come
KGB, mentre oggi ospita il temuto FSB di Putin, che proprio lì ha affinato il
suo sistema di potere.
La Lubjanka è stato luogo di torture, di interrogatori senza
speranza e di detenzione dura, in attesa di essere inviati nei Gulag. Non c’è
crimine di Stato che non sia stato concepito e organizzato in quel palazzo. Posto
su un sito leggermente più elevato del resto della città, i moscoviti dicono ancora
oggi, con amaro sarcasmo, che “è il palazzo più alto di Mosca, perché da lì si
vede direttamente la Siberia”. Nessuno di noi ha voglia di chiedere ulteriori
informazioni alla guida, perché tutti sanno che l’inferno non ha bisogno di ulteriori
spiegazioni. Stanchi della giornata, torniamo all’hotel tra strette vie in subbuglio,
per i lavori di risistemazione in vista dei mondiali di calcio.
Sesto giorno
La galleria
Tretyakov
La giornata inizia con un buon caffè espresso all’italiana, miracolosamente
scovato da Claudio nei pressi della galleria Tretyakov. La facciata della più
importante pinacoteca moscovita è di uno stile imprecisato, caratteristico dei
rifacimenti ottocenteschi. E ottocentesca è anche la data di fondazione da
parte di due industriali moscoviti appassionati d’arte di nome Michailovic e Tretjakov.
Dentro, 50 sale espongono decine di migliaia di pezzi, compresi quelli
custoditi nei sotterranei per la riserva. C’è di tutto: dal Medioevo alle
avanguardie del Novecento, comprendendo anche le opere del realismo socialista.
Ci soffermiamo come prima tappa davanti all’icona della
Trinità di Andrej Rublev, proveniente dal grande monastero che abbiamo visitato
il giorno prima. Un capolavoro assoluto. Amata ci fa notare la struttura
compositiva dell’icona e il suo significato simbolico, perché, presso gli
ortodossi, a differenza della nostra arte sacra, l’icona non è tanto una
raffigurazione pittorica di un evento, ma un vero e proprio discorso teologico.
L’icona come “sacramento” che mette in comunicazione diretta con ciò che rappresenta. Quindi, Amata ci spiega che i tre angeli raffigurati simboleggiano la Trinità. Al centro è il Figlio, con la veste di colore rosso e blu, a significare la sua duplice natura, umana e divina. Quest’angelo-Figlio di Dio indica con la mano destra un calice, posto sopra una sorte di altare di pietra, anch’esso a forma di calice, come l’intera composizione delle tre figure che si configura proprio a calice. E il calice è la trasfigurazione simbolica dell’ “Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo”, in sacrificio redentivo per tutta l’umanità. Gesù infatti è morto e risorto per tutti noi umani e per l’intera creazione. A destra del Figlio, vediamo il Padre, vestito di rosa. Questo colore indica, come l’aurora, la sua immutabilità, il suo essere senza principio e senza fine, l’ “Alfa e l’Omega”, l’Eterno. A sinistra del Figlio, appare la figura leggermente concava dello Spirito Santo, vestito di verde e di blu, a significare il “fiume di acqua viva” che promana dall’amore del Padre e del Figlio. Una circolarità perfetta nell’amore che gli sguardi reciproci sottolineano, rendendo una sola realtà le tre persone della Trinità..
La Trinità di Rublev |
L’icona come “sacramento” che mette in comunicazione diretta con ciò che rappresenta. Quindi, Amata ci spiega che i tre angeli raffigurati simboleggiano la Trinità. Al centro è il Figlio, con la veste di colore rosso e blu, a significare la sua duplice natura, umana e divina. Quest’angelo-Figlio di Dio indica con la mano destra un calice, posto sopra una sorte di altare di pietra, anch’esso a forma di calice, come l’intera composizione delle tre figure che si configura proprio a calice. E il calice è la trasfigurazione simbolica dell’ “Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo”, in sacrificio redentivo per tutta l’umanità. Gesù infatti è morto e risorto per tutti noi umani e per l’intera creazione. A destra del Figlio, vediamo il Padre, vestito di rosa. Questo colore indica, come l’aurora, la sua immutabilità, il suo essere senza principio e senza fine, l’ “Alfa e l’Omega”, l’Eterno. A sinistra del Figlio, appare la figura leggermente concava dello Spirito Santo, vestito di verde e di blu, a significare il “fiume di acqua viva” che promana dall’amore del Padre e del Figlio. Una circolarità perfetta nell’amore che gli sguardi reciproci sottolineano, rendendo una sola realtà le tre persone della Trinità..
L’ispirazione della Trinità è venuta al grande Rublev leggendo
il libro della Genesi, quando Dio appare ad Abramo sotto forma di tre visitatori,
per comunicargli la nascita di Isacco e contemporaneamente la distruzione di
Sodoma e Gomorra, perché società violente e negatrici dell’obbligo
dell’ospitalità verso lo straniero e il diverso, dovere sacro nell’antichità.
La composizione pittorica è datata all’incirca verso il 1422/27,
quando i Tartari stavano devastando la Russia ammucchiando cadaveri dovunque,
soprattutto fuori dalle porte delle città conquistate e sotto le mura dei
monasteri, quando non riuscivano a depredarli. In quell’ordalia omicida e
predatoria era sembrato che Iddio stesso avesse abbandonato l’uomo, tanto che anche
l’inquieto monaco Rublev, amico di san Sergio, abbandonò il pennello in preda
alla disperazione. Ma, si narra, che dal monastero della Trinità di Sergeiv
Posad gli arriva una voce che gli dice di scavare sotto le macerie del suo
monastero e tra il fango che lorda ogni cosa. Rublev obbedisce alla voce e,
scavando, trova un’icona raffigurante il volto del Crocifisso. Il monaco comprende
allora che, se anche il Figlio di Dio si trova lì in mezzo al fango, nessun
uomo può essere privato dell’amore di Dio, presente anche dove la morte la fa
da padrona. Il monaco pittore riprende allora con coraggio il pennello e,
raccogliendo l’eredità spirituale del maestro Sergio da poco morto, compone
questa icona sulla Trinità, al cui centro sta proprio il Figlio, per continuare
a testimoniare la fede nel Risorto per tutti gli uomini e per l’intera storia
umana.
Non sappiamo quanto di vero ci sia in questa tradizione e
quanto di leggendario, ma l’opera è indiscutibilmente straordinaria, a
significare quel particolare e drammatico momento della vita di Rublev e della popolazione
russa.
Lezione all'interno della Galleria |
Un’altra annotazione di Amata sul dipinto mi fa riflettere:
il punto focale della prospettiva è inverso rispetto a quello che troviamo
sulle nostre tele. Ed è sottolineato dal
basamento dei piccoli troni sui quali stanno seduti i due angeli ai lati. La
prospettiva non va così dal centro del quadro all’osservatore, ma dallo
spettatore al centro del quadro, dove troneggia la coppa dell’Agnello Immolato,
quasi a guidare il fedele verso il mistero centrale della fede cristiana. Un
bel capovolgimento di prospettiva, per chi, come me, è abituato a pensare la
Trinità secondo lo schema iniziato dal Masaccio nella Trinità di Santa Maria Novella
a Firenze e continuamente ripetuto nell’arte occidentale, che vede Dio, dipinto
come un vecchio con la barba bianca, lo Spirito Santo a forma di colomba che
svolazza sopra la testa del Figlio Crocifisso con il tutto che promana dal
centro del quadro all’osservatore. La Trinità del Masaccio si impone, quella di
Rublev raccoglie e indirizza. Molto interessante questo rovesciamento di
prospettiva.
Ci volgiamo poi a contemplare l’icona della trasfigurazione,
anch’essa del medesimo autore. Anche qui, colori brillanti e grande potenza
espressiva, con il Cristo trasfigurato immerso in una grande luce, con ai lati
Mosè ed Elia. Sotto, i tre discepoli prediletti ritratti come sgomenti e quasi
oppressi da questa luce così sfolgorante e insostenibile, tanto da essere
dipinti ripiegati, e due addirittura a testa in giù.
Visitiamo le numerose sale della pinacoteca per ammirare quadri
di autori russi che non conoscevo e che mi affascinano per la loro precisione
quasi calligrafica nel ritrarre paesaggi, descrivere persone, rappresentare ricostruzioni
storiche che esaltano personaggi della storia russa o dipingono trasfigurazioni
mitologiche di eventi patriottici. Nelle sale vediamo molte scolaresche, con
l’insegnante che fa sedere per terra i bambini e spiega loro, con pazienza e
con amore, le glorie dell’arte patria. È una scena che si ripete in modo commovente per
tutta la durata della visita e ci dà l’idea dell’amore di questa popolazione per
l’arte e per la loro storia collettiva. Ci soffermiamo poi a guardare il capolavoro ottocentesco di
Ivan Kramskoy intitolato: Ritratto di una
donna sconosciuta, “la Monna Lisa
della Russia”, ci tiene a sottolineare Ilena, e l’altro suo capolavoro: la Notte al chiaro di luna, molto
suggestivo per la capacità di rendere in pittura il chiarore lunare.
Vediamo di passaggio l’enorme tela raffigurante la vita di
Cristo di Ivanov, poi passiamo ai capolavori di Surjkov: “La Boiara Morozova” e
“Ivan il Terribile con il figlio assassinato”, che la guida ci commenta con molta
competenza. Attraversiamo la sala dei “pittori ambulanti” preimpressionisti,
che saranno imitati e copiati dal realismo socialista in funzione celebrativa. L’autore
che Ilena ama di più, e si dilunga a spiegarcelo per farcelo gustare appieno, è
Isaak Levitan, con i suoi stupendi paesaggi che sembrano fissare i sentimenti sulla
tela ed evocare stati d’animo nell’osservatore attraverso il sapiente uso dei
colori e degli scorci di paesaggi. Su un quadro in particolare si sofferma per
spiegarcelo. Il titolo dell’opera è già un programma: “Eterna Pace”. In effetti,
la raffigurazione nella tela di un lago con al centro una piccola isoletta e,
sulla riva inferiore dello specchi d’acqua, una chiesetta immersa in una
luminosità quasi crepuscolare riflessa nel lago da un cielo nuvoloso che non
riesce a nascondere il tramonto, rende bene il senso di quiete quasi metafisica
che domina tutta la composizione.
Poi uno sguardo molto sommario ad un autore che anticipa il cubismo mediante il colore disteso a spatola e con figure umane geometricamente accennate, e ci incamminiamo verso l’uscita. Pensavo che la visita fosse conclusa, Amata invece mi ricorda che “non si può non vedere la Theotokos di Vladimir”, e ci guida nel settore della galleria appositamente a lei dedicato, situato dentro una piccola chiesa dominata da una grande iconostasi.
Poi uno sguardo molto sommario ad un autore che anticipa il cubismo mediante il colore disteso a spatola e con figure umane geometricamente accennate, e ci incamminiamo verso l’uscita. Pensavo che la visita fosse conclusa, Amata invece mi ricorda che “non si può non vedere la Theotokos di Vladimir”, e ci guida nel settore della galleria appositamente a lei dedicato, situato dentro una piccola chiesa dominata da una grande iconostasi.
La Vladimirskaya, come la chiamano i russi, è l’icona della
Madre di Dio della tenerezza. Gli esperti la inquadrano nello stile della madonne
Eleusie. È l’icona più riprodotta in Russia ed è sicuramente la più famosa nel
mondo. L’abbiamo infatti ritrovata in copia in quasi tutti i luoghi di culto
ortodossi. L’originale ora è proprio
davanti ai nostri occhi, racchiusa dentro una grande teca di legno
rosato dagli intarsi orientaleggianti e protetta da un pesante lastra di vetro
antiproiettile. La leggenda la fa risalire addirittura a San Luca. In realtà è un’icona
databile alla fine del XII secolo e di ignoto autore. Il luogo di provenienza è
Costantinopoli, e lì è rimasta fino a quando il patriarca bizantino Crisoberge
la diede in dono a Jurij Dolgorukij, gran principe di Kiev, prima capitale
della Russia. Ma il figlio di costui la trasportò successivamente a Vladimir,
seconda capitale della Russia, per ospitarla nella grande cattedrale della
Dormizione, costruita proprio per accoglierla.
Solo nel 1395 approdò
a Mosca, perché Vladimir era stata assediata e messa a ferro e a fuoco dalle
truppe di Tamerlano, così che le autorità religiose decisero in fretta e furia di
farla trasferire nella più sicura Mosca. Per custodire questa icona venne
persino costruito il monastero di Sretensky. E’ storia che lo zar Basilio I di
Russia passò una notte intera in preghiera e in pianto davanti a quest’immagine
nel monastero che la ospitava, e il giorno successivo l’esercito mongolo si
ritirò dall’assedio di Mosca. I moscoviti perciò se ne guardarono bene di
riportare l’icona a Vladimir e la collocarono nella cattedrale della Dormizione,
dentro le mura del Cremlino. Anche negli assalti dei tartari del 1451 e del
1480, quest’icona ebbe un ruolo da protagonista, perché, dopo che venne portata
in processione attorno alle mura di Mosca, i tartari si ritirarono sconfitti.
L’ultimo di questi prodigi attribuiti alla Vladimirskaya avvenne nel dicembre
del 1941, quando le orde naziste erano arrivate vicine alla capitale e avevano
riservato a Mosca e ai suoi abitanti una fine atroce: sommergere la capitale
dell’URSS con tutti i suoi abitanti deviando il corso della Moscova e di altri
fiumi limitrofi, Volga compreso. L’ateo Stalin fece rimuovere la Theotokos dal
museo dove era stata relegata da Lenin, in coerenza con la proibizione di ogni
forma di culto religioso, considerato pervicace superstizione da estirpare ad
ogni costo, la fece imbarcare su di un aereo e la fece svolazzare per tre volte
sulla città. Alcuni giorni dopo i tedeschi iniziarono la rovinosa ritirata e la
Russia fu salva.
Si sussurra che, dopo questo “miracolo”, Stalin si fosse
fatto meno feroce e un po’ più dubbioso della religione come oppio dei popoli e
molto meno sollecito a firmare esecuzioni capitali o deportazioni nei campi di
lavoro. Forse qualche paura in più o qualche dubbio stava erodendo la sua
paranoica ferocia Alla luce di questi fatti storici, certamente ampliati dalla
tradizione, non c’è da stupirsi che quest’icona sia diventata l’emblema stessa
della Russia e, come tale, fatta oggetto di immensa devozione popolare.
Mi soffermo a contemplare quel dolcissimo abbraccio della
madre con il figlio e lo sguardo tenero ma penetrante di questa Madonna della
tenerezza. Poi la guida ci richiama al pullman per proseguire il viaggio.
Arriviamo alla cattedrale di Cristo Salvatore, sede del
Patriarcato di Mosca, una sorta di Vaticano Ortodosso. Dopo l’attraversamento
di un ponte si erge davanti ai nostri occhi una grande cattedrale a pianta
greca sul modello di Santa Sofia a Costantinopoli. Il tempio, iniziato sotto lo
zar Alessandro I nel 1812 in ringraziamento a Cristo Salvatore per lo scampato pericolo napoleonico. venne completato
solo nel 1860. Dopo la morte di Lenin il sito su cui sorgeva la cattedrale venne
destinato alla costruzione del Palazzo dei Soviet, che doveva elevarsi a
gradoni per oltre 300 metri d’altezza, con in cima una gigantesca statua di
Lenin alta 100metri. Stalin fece radere al suolo la chiesa nel 1931 per
realizzare questo grandioso progetto architettonico e insieme propagandistico,
anche con l’intento di cancellare dalla memoria collettiva ogni riferimento
religioso che potesse ostacolare l’avvento delle “magnifiche sorti e progressive” del socialismo mondiale di cui il Palazzo
dei Soviet doveva costituire il cuore e il simbolo stesso. Ma i fondi per una simile
impresa non si trovavano, e la voragine creata dagli esplosivi per la demolizione
dell’edificio sacro venne usata come discarica fino a quando Krusciov non la
trasformò nella più grande piscina aperta del mondo. La ricostruzione della cattedrale,
identica a quella precedente, iniziò solo dopo il collasso dell’Unione
Sovietica e venne terminata nel 2000.
L’interno di Cristo Salvatore è maestoso e di un’ampiezza
che toglie il fiato. Una grandiosa cupola michelangiolesca rende ancora più
smisurata la volumetria del tempio. Il susseguirsi di marmi policromi sulle
pareti e sul pavimento, alternati a statue bronzee e a grandi affreschi
rappresentanti santi o scene del Vecchio e Nuovo Testamento, rendono sfarzoso
il tutto e poco “ortodosso” quello spazio sacro. Nel luogo dell’iconostasi si
erge un’intera cappella sulla cui cuspide si innalza una croce e, sull’entrata
di questa piccola chiesa nella chiesa, si
intravede un’iconostasi vera e propria con quattro icone, devotamente baciate
dai fedeli.Ci soffermiamo per un po’ ad ammirare lo splendore della più grande chiesa
dell’ortodossia, poi usciamo sul grande piazzale contornato da piccole cappelle
e che dà sul ponte pedonale, dal quale si può ammirare da vicino il grande
complesso del Cremlino. Poi un pranzo frugale e veloce, per raggiungere in
tempo la prossima meta.
Arriviamo dopo pranzo al Monastero delle Vergini,
Novodevicij in russo. Fondato nel 1524 per celebrare la presa di Smolensk, è il
più grande complesso sacro di Mosca dopo il Cremlino. Le torri bianche e rosse
che vediamo, una quadrata e una rotonda che raccordano le alte mura di mattoni,
ci accolgono in un grande complesso formato
da chiese e da altri edifici che hanno segnato profondamente la storia della Russia. Sotto le sue mura infatti sono stati
sconfitti i Tartari di Crimea e i lituani. Boris Godunov venne lì incoronato
zar di tutte le Russie nel 1598. In quella prigione-convento vennero relegate
la reggente Sofia dal fratello Pietro I e Eudossia, la prima moglie del
medesimo zar. Napoleone desistette dalla distruzione dell’intero complesso
grazie alle suppliche delle monache e affascinato dalla preziosissima
iconostasi della chiesa principale di N. Signora di Smolensk e della “Odighitrìa”
in essa custodita.
Prima di entrare nel complesso, mi reco su una piazzetta che
si affaccia sulla Moscova e ci fra intravedere lontani gli altissimi
grattacieli del nuovo centro finanziario e industriale moscovita. Durante il
breve giro tra le diverse chiese, Ilena ci fa notare la presenza di una luna
sotto una croce dorata che svetta su una cupola verde, naturalmente a cipolla.
L’interpretazione di questo simbolo è molteplice, quella che gode di maggior
credibilità è il riferimento all’Apocalisse, della “donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi”, ma niente
di sicuro. Entriamo nella Trapeznaja, o chiesa refettorio, e nella cappella
della Trasfigurazione, che è considerata il gioiello del barocco russo. Nulla
di nuovo, rispetto a ciò che abbiamo visto altrove. Poi visitiamo il piccolo
museo che è stato anche la prigione della reggente Sofia, dalle cui finestre la
terrorizzata prigioniera era costretta a vedere ogni giorno pendere dalla forca
i suoi fidati Strelzi, complici nella congiura contro il fratellastro Pietro il
Grande. Fuori ci aspetta il cimitero, dove riposano il fior fiore dell’arte e
della scienza russa degli ultimi due secoli, ma è tardi e l’ingresso è ormai
impossibile.
Proseguiamo in pullman per recarci sulla Collina dei
Passeri, davanti alla gigantesca Università Lomonosov di Mosca, che con i
suoi 32 piani e la cuspide di 240 metri
domina l’intero paesaggio circostante e si fa vedere anche da lontano. Sfioriamo un’ala della città universitaria moscovita e proseguiamo lungo i giardini molto
curati che si dilungano fino al piazzale. Scendiamo per una sosta di dieci minuti.
Il piazzale, gremito di turisti, è diventato punto di ritrovo dei motociclisti
moscoviti. Confesso che lo spettacolo che si intravede dal poggio non mi sembra
un granché. Sotto si può vedere lo stadio, lontano la city moscovita con i suoi
altissimi e variegati grattacieli, a distanza più ravvicinata la Moscova con i
suoi meandri. Non riesco ad individuare il Cremlino, troppo lontano o forse per un mio
deficit di vista. Inconsciamente lo confronto con Piazzale Michelangelo a
Firenze, ma il paragone non regge e questo mi impedisce di gustarne la bellezza.
Un ultimo sguardo alla svettante Università, con i suoi
torrioni e le sue ali in stile tipico del realismo sovietico, che si ripete
nelle famose Sette Sorelle sparse in diverse località della capitale e vanto
dell’architettura del tempo, poi via verso l’hotel. Ci aspetta infatti la
visita notturna di Mosca.
Si parte alle 21 esatte e ci rechiamo subito nella zona del
Cremlino, dopo una brevissima sosta davanti alla Duma illuminata a giorno.
Entriamo nella Piazza Rossa attraverso la duplice porta a fianco del Museo
Storico, non dopo esserci soffermati a guardare prima la statua a cavallo del
generale Zucov che schiaccia un drago sotto gli zoccoli, simbolo delle armate
naziste, poi a toccare con le suole delle scarpe il Punto Zero, dal quale si
dipartono le maggiori strade che portano ai quattro angoli dell’immenso Paese.
La Piazza Rossa è ancora più impressionante di notte con i
suoi quasi 700 metri di lunghezza e i 130 di larghezza. A destra, si ergono
sulle mura illuminate a giorno le alte torri del nostro Pietro Antonio Solari,
costruttore anche di Piazza Castello a Milano.
In cima a quelle vertiginose cuspidi brillano le stelle
rosse di rubino sintetico che ruotano su dei supporti girevoli al soffiare del
vento. Sotto la Torre Senatskaja si intravede il mausoleo di Lenin che si
confonde con il colore delle mura di cinta.
A sinistra il GUM contornato di luminarie che lo fa
assomigliare più ad un luna park che ad un monumento degno di questo nome. In
fondo alla piazza, svetta San Basilio,
che le luci artificiali fan sembrare ancora più fantasmagorico nelle sue
forme e nei suoi colori. Nella strada a fianco è parcheggiata una limousine per
qualche prezzolata avventura notturna dei turisti. Un tocco di volgarità che
stride fortemente con la solennità e la bellezza del luogo. Risaliamo sul pullman
che ci porta attraverso le vie principali della città con i maggiori monumenti
sapientemente illuminati da appositi fari. Rivediamo il bianco della cattedrale
di Cristo Salvatore, il dorato degli alberelli illuminati nei viali attorno al
Cremlino, il verde del Palazzo Sojuzov, il giallo della Lubjanka, il rosato del Teatro Bolsoj, il blu di piazza Puskin, il color panna della
Biblioteca di Stato, infine: il rosso del Parco della Vittoria.
Questo Parco, che contiene luoghi di culto di diverse
religioni, è di straordinario impatto emotivo. Disteso sulla collina
Poklonnaja, è un memoriale di recente costruzione in onore della vittoria della
guerra patriottica del 1941-1945 sulla Germania nazista.
Scesi dal pullman ci incamminiamo per dei viali semibui che
ci portano al cospetto di un enorme obelisco triangolare alto quasi 150 metri,
sormontato da statue bronzee e da una Nike alata, simbolo della vittoria contro
la barbarie hitleriana. Dietro l’obelisco, che si innalza al centro di una
grande piazza circolare, intravediamo il palazzo del Museo della grande guerra
patriottica a forma di semicerchio, con al centro una bassa cupola, anch’esso illuminato
di un rosso carminio. Davanti a noi, si distendono ampie vasche con fontane che
sprizzano acqua rossastra, culminanti, in fondo, con un grande arco di trionfo.
Sui viali laterali, riusciamo a scorgere colonne anch’esse rosse sorrette da
alti basamenti con una sorta di capitello a forma di bandiere al vento. È buio,
e riusciamo solamente a intravedere le forme dei monumenti che ci circondano,
ma il colore dominante tutto il parco è il rosso fuoco.
Ma sono le fontane che sprizzano acqua color sangue che
impressionano. Sono 1418, tante quanti i giorni della follia dell’invasione
nazista, che ha causato alla sola Russia non meno di 30 milioni di morti. Davanti
a questo spettacolo, non riesco a non pensare alla follia umana, che trova
nella guerra la sua espressione più tremenda ed eclatante. Mi passano davanti
agli occhi della memoria le imperiali legioni romane con i massacri di intere
popolazioni, le montagne di teschi erette da Gengis Khan davanti alle città conquistate
e distrutte, le carrettate dei condannati alla ghigliottina durante la
Rivoluzione Francese in nome della libertà, uguaglianza e fraternità
universale, i massacri della prima e seconda guerra mondiale con i
bombardamenti indiscriminati delle città. E poi ancora: le camere a gas, i
forni crematori, gli stermini di massa. Più vicini a noi: il mostruoso fungo
atomico, le pulizie etniche dell’ex Jugoslavia, i massacri tribali in Africa,
le morti per fame e per le enormi ingiustizie sociali, le vittime del terrorismo islamista. Quando rileggo la storia umana, vedo che
gronda sangue per una malvagità insensata. Sembriamo dei pazzi che si divertono
a distruggere ciò che continuamente costruiamo e costruiamo al solo scopo di
distruggerlo, in una circolarità perversa di infinita stupidità. La distruzione
e la violenza sembrano per l’animale umano quasi una condanna ineluttabile, un
giogo imposto da un oscuro destino, una coazione a ripetere. Forse dobbiamo
riflettere un po’ meno superficialmente quando parliamo di peccato, salvezza e
redenzione. Davanti a questo fiume di sangue ci rendiamo conto da che cosa il
Risorto ci vuole salvare. Ma la liberazione da questo “peccato del mondo” non riusciamo a procuracela da noi.
Riconosciamolo con verità: non ce la facciamo da soli. L’ultimo titanico
tentativo di liberaci con le nostre sole forze da questa sorte di costrizione alla
guerra, dal desiderio irrefrenabile al dominio, dalla insaziabile avidità e
dalla pervicace volontà di oppressione è stato sperimentato proprio qui, ed è
fallito miseramente, producendo altra violenza, altre ingiustizie, altre
oppressioni. Pur con tutte le buone intenzioni degli inizi, il paradiso
bolscevico è lastricato di cadaveri degli uccisi in massa.
Mi convinco sempre più che la salvezza da queste miserie ci
sarà data come un dono dal cielo, secondo la promessa del libro dell’Apocalisse,
che noi troppo poco conosciamo e che è stato troppo spesso travisato. Un libro
difficile certamente e da interpretare in chiave simbolica e con finalità
pedagogiche, non in senso letterale, altrimenti andremmo fuori strada come
spesso è avvenuto. Ecco come questo libro della consolazione descrive per noi,
che rimaniamo sgomenti di fronte all’enigma del male, il futuro ultimo del
mondo: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra
di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la
nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per
il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono. Ecco la dimora
di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed
egli sarà il “Dio con loro”. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà
più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono
passate. E colui che sedeva sul trono disse: “Ecco io faccio nuove tutte le
cose…a colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita.”
La nuova umanità e il nuovo futuro ci saranno dati
gratuitamente dall’alto. La fine che ci attende è la vita piena ed eterna, non
la distruzione dell’umanità. La buona notizia del Vangelo è tutta qui condensata.
.A noi attenderla con fiducia dal Padre, invocandolo con l’antica formula
aramaica del “Maranà-thà”, “vieni,
Signore Gesù” e ponendo qui ed ora dei segni anticipatori di questo mondo
rinnovato nell’amore per sempre.
Ritorniamo stanchi per l’intensa giornata all’hotel,
passando per gli alti grattacieli della Mosca più recente che tralucono nella
notte.
Settimo giorno
Ci alziamo presto. È domenica e ci rechiamo in una saletta
dell’hotel per celebrare l’eucarestia prima della partenza per le nuove visite.
Il rito è quello caratteristico della comunità Nazareth, fatto soprattutto di
segni, ma che non tutti i partecipanti conoscono e che tende a rendere
comprensibile, visibile e palpabile quel mistero che il pope celebra solitario
dietro l’iconostasi. L’incarnazione si
fa cena fraterna e il Totalmente Altro si rende visibile nei gesti, negli
sguardi, nelle parole, nell’esperienza quotidiana dei presenti colmando quella
distanza che sentiamo come infinita. L’Arcano si fa pane e vino, e noi diventiamo
così popolo fraterno.
Il Vangelo del giorno
ci narra di come i discepoli di Gesù hanno vissuto e interpretato la sua
risurrezione dai morti. Don Emilio ci invita a riflettere su quell’esperienza centrale
per la nostra fede e ci invita ad
esprimere il nostro modo di riviverla oggi, immersi nella nostra
contemporaneità così complessa. Poi le parole della consacrazione, i gesti
della fraternità e l’invito finale a
vivere in pienezza il nuovo giorno. E si parte per le nuove escursioni.
Scendiamo con le scale mobili nella metropolitana fino ad
una profondità di quasi cento metri. Perché questo prodigio della tecnologia
sovietica ha dovuto fare i conti con il sottosuolo di Mosca che è in realtà un
acquitrino. Del resto, il significato etimologico di Mosca è proprio “città
dell’acqua”.
La metropolitana si estende a mo’ di ragnatela per tutta
l’estensione della città, con linee che vanno, a raggiera, dal centro
all’estrema periferia, e si intersecano con altre linee che, in forma di cerchi
concentrici, collegano tutti i quartieri della capitale. Ci si può muovere
senza automezzi in città e in periferia, solo che, a giudicare dall’intenso
traffico che intasa le strade, sembra che i moscoviti non se ne siano ancora
accorti.
Le due stazioni che visitiamo ci offrono uno spettacolo a
dir poco inconsueto. Mosaici dappertutto, a magnificare il nuovo ordine del
mondo comunista. Marmi intarsiati come pavimento. Preziosi lampadari a goccia o
a diversa foggia che pendono da soffitti affrescati o mosaicati, invece di semplici lampadari a soffitto o funzionali plafoniere
come da noi. Uno sfarzo celebrativo che è costata la vita a migliaia di
condannati ai lavori forzati e che ha creato il culto stakanovista per il
lavoro finalizzato alla creazione della nuova società. Guardiamo, ammiriamo e
ci stupiamo. Poi saliamo sulla metropolitana per due fermate e risaliamo in
superficie
Una sosta su una laterale di via Tserskaya per lo shopping
previsto per ogni viaggio organizzato. Niente di particolare, se non gli alti
prezzi dei souvenir. Entriamo in uno di questi negozi e scopriamo che
l’immagine di Putin spunta dappertutto. Orologi, coperchi di cofanetti, foto
ricordo ed altri riportano una fotografia del presidente russo. Al primo piano
c’è addirittura una riproduzione a grandezza naturale di Putin per eventuali
fotografie ricordo. Il culto della personalità in Russia evidentemente non è
mai morto.
Un pranzo veloce e via per la visita più importante: il
Cremlino.
Entriamo nella cittadella fortificata, perché questo è il
significato del termine Cremlino, dalla torre Kutafja: un rivellino rotondo di
pietra bianca del XIV secolo che conduce, attraverso un ponte, all’imponente
torre Troickaja, la più alta delle torri del Cremlino e che dà l’accesso vero e
proprio al complesso monumentale. Il detto russo che “al di sopra di Mosca c’è
il Cremlino, al di sopra del Cremlino non c’è che il cielo”, rende bene
l’imponenza di questa città nella città, che si sviluppa a forma triangolare
per oltre due chilometri, racchiusa da mura merlate alte più di dieci metri e
armate da venti torri che si innalzano incoronate da coperture piramidali.
Cinque di esse sono sormontate da una girevole stella rossa. Dentro, palazzi
grandiosi in stili diversi, cattedrali solenni, piazze di foggia italiana e
giardini.
La prima notizia del Cremlino è anche la prima notizia su
Mosca. Infatti si narra che la città sia nata dall’incontro tra due principi
rivali sul colle Borovickij, nell’angolo sud-occidentale dell’attuale complesso,
per stipulare accordi di pace. Nel 1156, Jurij, il gran principe di Vladimir,
fece costruire in quel luogo una fortezza in legno, che venne però distrutta
dai tartari un secolo dopo. Sotto il gran-principe Dimitri III Donsksoj, nel
1367 le mura venero innalzate in pietra e Mosca, identificata con il Cremlino,
assunse l’appellativo, durato a lungo, di “città di pietra bianca”. Distrutto
anche questo nucleo di città fortificata in pietra da parte del Khan tartaro
Tokhatmish, il Cremlino venne ricostruita nelle forme e strutture attuali da
Ivan III il Grande alla fine del XV secolo. Questo primo vero e proprio zar chiamò
diversi architetti italiani per l’impresa, quali il Fioravanti, il Solari, il
Ruffo, l’Aloisio ed altri architetti di minor fama, che usarono maestranze
russe per la costruzione di quella che diventò la sede del principato di Mosca.
Questi architetti italiani venivano chiamati dai moscoviti “Frjazin” e lo stile
che ne derivò nella costruzione della nuova città è universalmente noto come
stile “frjazskij”: un misto tra il primo Rinascimento italiano e alcuni stilemi
bizantini. La sorte di Mosca come capitale di tutte le Russie fu alterna.
Infatti la capitale venne più volte spostata a San Pietroburgo, per riprendersi
questo ruolo centrale dopo la Rivoluzione d’Ottobre nel 1918. Da quel momento
fino ad oggi il Cremlino è diventata la sede del governo russo, pur
nell’alternanza dei regimi politici, e Mosca l’indiscussa capitale della
Russia. Entrati dalla Torre della Trinità, ci troviamo davanti al modernissimo
Palazzo dei Congressi che non visitiamo. A sinistra si stende il lungo palazzo classicheggiante
dell’Arsenale. Poco più avanti, sempre a sinistra, si staglia il triangolare e
neoclassico ex Senato coperto da una bassa cupola, oggi luogo di lavoro e di
governo del presidente russo e che si intravede anche dalla Piazza Rossa. Più
avanti ancora si possono scorgere i ben curati giardini all’italiana.
Tra questa parte sinistra del Cremlino e la parte destra,
quella più antica che stiamo per visitare, si stende una grande spazio vuoto,
asfaltato e con linee di parcheggio ben definite. Ilena ci raccomanda di non
inoltrarci in alcun modo in quest’area, che è riservatissima e controllata
oltre ogni immaginazione, essendo limitrofa al cuore del potere russo. Ci
avviciniamo, stando sempre sul marciapiedi a destra dell’entrata, a quello che la
guida dice di essere “il cannone più grande del mondo”, o, come lo chiamano
qui, lo “zar dei cannoni”. E in effetti è una bombarda del 1586 di dimensioni
gigantesche: oltre cinque metri di altezza, con l’affusto dai rilievi bronzei
sospeso su colossali ruote, per sparare palle di cannone di due tonnellate. Dalle
ultime analisi effettuate su questo colossale obice sembra che questo cannone abbia
veramente sparato.
Dal cannone passiamo alla piazza della cattedrali. Magnifico
esempio di piazza italiana in stile veneziano. A sinistra si innalza, su tre
piani e così rastremato da sembrare un minareto terrazzato, il Campanile di
Ivan il Grande con annessa chiesa. Ai suoi piedi, la “più grande campana del
mondo” ci dice con la solita enfasi Ilena. Che sia la più grande di tutte, non
saprei, che sia enorme è lì da vedere. La “campana dello zar”, come la chiamano
i moscoviti, è alta oltre sei metri e
larga altrettanto, con 216 tonnellate di
peso. Non ha mai suonato, perché si è rotta durante la fusione. Infatti appare
squarciata su un lato, mentre il battacchio sembra una trave di bronzo infilata
in una buca sotto la bocca della singolare campana. Tutt’attorno alla bianca
piazza, una selva di cupole dorate delle cinque chiese che si affacciano su
quell’ampio spiazzo, che ha visto i momenti più solenni, ma anche quelli più
drammatici, della storia russa. Davanti a noi la cattedrale dell’Arcangelo
Michele e la cattedrale dell’Annunciazione. Alla nostra destra, la cattedrale
dell’Assunzione e la chiesa della Deportazione della Veste della Vergine con la
sua selva di piccolissime cupolette d’oro. Dietro di noi, la cattedrale dei
Dodici Apostoli. Visitiamo per prima la Cattedrale dell’Assunzione che è una
sorta di cubo di pietra bianca, pieno di affreschi, tra cui il grande “Giudizio
Finale”, sorretto da quattro grandi pilastri anch’essi affrescati. La cattedrale
dell’Assunzione è il luogo più sacro di Mosca. In essa infatti venivano
incoronati gli zar e si conservano ancora il trono di Ivan IV il Terribile e i
troni della zarina e del metropolita. L’iconostasi mostra al centro la celebre icona di San Giorgio,
capolavoro della scuola di Novgorod. La cattedrale dell’Arcangelo Michele è invece
molto più sobria, più italiana.
E’ infatti il capolavoro dell’architetto veneto Lamberti da Montagnana e conserva, dentro la gigantesca iconostasi dorata, la preziosissima icona dell’Arcangelo Michele di Rublev. Dopo il solito giro all’interno del tempio, usciamo e, dalla candida piazza, raggiungiamo i giardini fioriti, sotto un sole che splende alto, per incamminarci lungo la fiancata del Grande Palazzo del Cremlino, inaccessibile al pubblico e luogo di rappresentanza del governo russo.
Il Palazzo del Governo all'interno del Cremlino |
E’ infatti il capolavoro dell’architetto veneto Lamberti da Montagnana e conserva, dentro la gigantesca iconostasi dorata, la preziosissima icona dell’Arcangelo Michele di Rublev. Dopo il solito giro all’interno del tempio, usciamo e, dalla candida piazza, raggiungiamo i giardini fioriti, sotto un sole che splende alto, per incamminarci lungo la fiancata del Grande Palazzo del Cremlino, inaccessibile al pubblico e luogo di rappresentanza del governo russo.
Entriamo invece nel museo, installato nell’antico Palazzo
dell’Armeria e collocato presso l’uscita della Torre Borovickaja, attraverso
uno scalone che con fatica Angelo supera con la sua carrozzina, grazie
all’ascensore e alla presenza di Claudio, sempre al suo fianco come un fedele custode.
Siamo molto stanchi e le cose da vedere sono tante, troppe. Attraversiamo
le diverse sale con lo sguardo un po’ trasognato. Chi si concentra sulle armi e
sulle armature, soprattutto sullo stupendo Saadak, una guaina di faretra
tempestata di rubini, diamanti, smeraldi, zaffiri e quant’altro. Chi contempla
a bocca aperta i troni e i gioielli della Corona, con l’incredibile sfilata delle
corone degli zar, tempestate di pietre preziose e sempre più sontuose col
passare delle generazioni reali. Chi si attarda ad ammirare pezzi importanti di
arte russa, che trova nel “Globo d’Oro” dello zar Aleksej Michajlovic il pezzo
più celebrato. Anche qui si sprecano oro, diamanti, rubini, zaffiri e smalti,
come su altri manufatti di incredibile fattura, come un evangelario letteralmente
tempestato di diamanti. C’è anche in mostra il più grande smeraldo del mondo,
che qualcuno osserva, e la corona di Caterina la grande con i suoi 4936
diamanti che la ricoprono, che quasi nessuno di noi degna di uno sguardo. Tutto
qui è esagerato, come sempre, in Russia. Anche lo stupore.
Poi scendiamo a vedere le carrozze di gala degli zar, una
diversa dall’altra. Spicca, su tutte le
carrozze riccamente intarsiate e addobbate, quella della zarina Elisabetta
Petrovna: un arzigogolo di intarsi di legno e oro, che la fanno sembrare
addirittura irreale, stupefacente alla vista. Usciamo stremati da quella
galleria dell’eccesso, per rivedere un’ultima volta, vicino ai giardini di
Alessandro, la statua bronzea, ovviamente smisurata, di Vladimir I il Santo,
con il crocione innalzato al cielo dalle sue stesse le mani. L’uomo che, nel
988, ha fatto convertire al cristianesimo bizantino questo sconfinato Paese. E
ritorniamo in albergo esausti, per prepararci alla partenza.
Ottavo giorno
Il ritorno
Dopo i “sette giorni
della ricreazione russa” di noi pellegrini, si riparte.
Per arrivare all’aeroporto di Mosca occorre attraversare la
periferia sud della città. Ed è una
sequenza infinita di palazzoni di venti o trenta piani, uno uguale all’altro, senza
terrazze di sorta. È l’architettura “funzionale” ereditata dall’URRS, dove il
principio di uguaglianza veniva tradotto anche in piccoli appartamenti,
ricavati in questi alveari di cemento e forniti gratis dallo Stato alle
famiglie, indipendentemente dal numero degli occupanti, e dove il
riscaldamento, per un Paese che scende anche sotto i meno trenta gradi
d’inverno, era centralizzato. Tutti gli abitanti di questa enorme città erano in
balia dell’arbitrio della burocrazia sovietica. Poi, al crollo del regime,
qualcuno più furbo e più disonesto degli altri, ha fatto incetta di questi
appartamenti arricchendosi senza remore, ma soprattutto senza misura, come di
dovere in Russia. L’uscita da questo infinito Paese è defatigante. Salutiamo e
ringraziamo Ilena per la sua professionalità e la sua compagnia. La donna si
mostra commossa per il nostro affetto e la nostra ammirazione, ma deve
scappare, perché l’attende un altro gruppo da accompagnare. I mondiali di
calcio sono vicini e, durante quel mese di passione sportiva, i gruppi
turistici vengono drasticamente ridotti di numero per lasciar posto ai più
paganti tifosi provenienti da ogni parte del globo.
Mi sorbisco ben due radiografie per accertare che la mia
protesi all’anca destra sia vera durante i ripetuti chek-in, nonostante il
certificato medico italiano regolarmente esibito lo dichiari esplicitamente. La
credibilità della sanità italiana sembra davvero molto bassa in Russia. Poi la
partenza per Malpensa, via Vienna. All’aeroporto di Vienna altro chek-in ed
altre palpate di accertamento. Poi, volo per l’Italia: finalmente!
Mentre sorvoliamo le Alpi, non posso fare a meno di ripensare
all’esperienza vissuta.
Un gruppo di circa trentacinque persone, la maggior parte delle
quali gravitante attorno alla comunità Nazareth, si sono trovate a vivere
un’esperienza comune in terra straniera,
guidate da una ragazza che fa parte di un’altra comunità, ma che si è aperta e
confrontata con la nostra esperienza di fede e di vita. Persone vissute a
contatto quotidiano e che hanno visto le medesime cose, hanno sentito le stesse
parole, hanno camminato insieme e insieme hanno mangiato e bevuto. Gli sguardi
si sono spesso incrociati: a tavola, per strada, sul pullman. Molte si si sono
anche confessate alcune vicende della loro vita. Altre hanno scherzato su
quanto visto e sentito. Altre ancora hanno riso o si sono stupite per i costumi
di un altro popolo. La difficoltà della lingua ha certamente reso ancora più
coeso il gruppo e l’ha misurato su un’altra dimensione non solo linguistica. E
poi la presenza della carrozzella di Angelo, con le sue inevitabili “montagne
russe” per superare le barriere
architettoniche che qui imperversano, ha richiamato tutti noi al dovere della
solidarietà e sperimentato l’efficacia dell’aiuto reciproco.
Mi sembra che sia questa la fraternità di cui sentiamo tutti
il bisogno e della quale tanto parliamo. È in questo incrocio di sguardi,
nello scambio di parole quotidiane o di divertenti battute di spirito. È nel
leggero tocco del nostro sgomitare per
sistemarci sul pullman o per sentire la presenza dell’altro che la
fraternità trova casa e si alimenta.
Credo che, oltre all’indubbio arricchimento culturale per
ciò che abbiamo visto, sono proprio questi elementari gesti e nel semplice
“stare davanti all’altro”, che ci fanno crescere sul piano esistenziale e ci
aprono ad una dimensione che va ben oltre a ciò che immediatamente percepiamo
come realtà. Forse il senso più profondo di questo nostro viaggiare insieme sta
proprio qui, in questa apertura del cuore. Forse.
[Villa D’Almè: 23 luglio 2018]
***
UNA SETTIMANA A NEW YORK
di
Jacopo Gardella
Veduta di New York |
Tornato da un breve soggiorno a New York mi sento fare la
ormai scontata domanda: che cosa ti è piaciuto di più di quella unica e
particolare città?
Rispondo che è una città che presenta luci ed ombre: luci
se si pensa a come è abitata; ombre se si guarda a come è costruita.
Affascinante e quasi inebriante è il modo di vivere; deludente e quasi
irritante è il modo di costruire. New York è una città vivace, intensa, frenetica, ricca di
opportunità e di risorse; ma stancante. Una città per giovani, non per persone
anziane; un posto adatto a chi è in ascesa, non per chi è in pensione. La folla
nelle strade, gli acquirenti nei negozi, il pubblico nei luoghi di divertimento
e di spettacolo sono attivi e presenti, e agiscono senza interruzione, senza
sosta, senza tregua, dando una sensazione di attività instancabile. Il traffico
nelle strade è continuo, spesso caotico, continuamente arrestato da ingorghi e
da lunghe attese ai semafori e negli incroci principali; ciò è indice di una
vitalità ininterrotta, di una operosità incessante, ma è anche segno che una
città imponente ed autorevole come è la capitale economica e finanziaria
dell’America non sa risolvere il problema del traffico in modo razionale:
diminuendo, per esempio, le vetture private ed aumentando i mezzi di trasporto
pubblici sia in superficie che in sottosuolo.
Occorre perciò riconoscere che oltre alle luci, al di là
degli aspetti luminosi ed insieme al lato brillante della città, esistono anche
le ombre, i risvolti oscuri, il volto triste e squallido, e tutto ciò appare
nello spettacolo della edilizia più recente: la città costruita negli ultimi
anni è lussuosa ma non elegante, opulenta ma banale, spettacolare ma sciatta e
scadente; gli edifici più recenti sono privi di ogni qualità estetica; le
ultime architetture sono brutte, dozzinali, ordinarie. Il volto nuovo della
città non è degno della sua fama; e neppure è paragonabile al passato della sua
storia edilizia; un passato che vanta capolavori come l’Empire State Building,
il grattacielo che per anni è stato il più alto del mondo; oppure come il
Chrisler Building, il grattacielo dalla sommità più bizzarra e fantasiosa di
ogni altro modello analogo; oppure come il Rockfeller Center, il nucleo urbano
fra i meglio studiati e più accoglienti della intera città.
Empire State Building |
L’ultimo sviluppo edilizio della città sembra dominato da
due fattori impellenti ed incalzanti: la massima fretta e il minimo gusto.
Costruire, costruire, costruire; non importa come e con quale risultato finale,
purché si proceda velocemente. Enormi casermoni, massicci volumi, colossali
blocchi edilizi si alternano a stravaganti grattacieli dalle forme più
inaspettate e sorprendenti. Grossi edifici per appartamenti, all’interno dei
quali ci si sente schiacciati come dentro ad un alveare, si susseguono e si
alternano a vertiginose torri per uffici, proiettate verso l’alto, in una gara
esasperata di chi vuole essere ogni volta il più elevato.
E’ questo il triste esempio della nuova moda
architettonica che da New York si è ormai diffusa in tutto il mondo ed è
dilagata con maggiore virulenza nei paesi che una volta erano considerati
sottosviluppati nei continenti che appartenevano al terzo mondo.
E’ sufficiente esaminare un solo campione di questa vuota
architettura per comprendere la qualità scadente di tutte le altre: il Nuovo
Museo innalzato recentemente nel quartiere di Bowery.
L’edificio del Museo Nuovo (New Museum) progettato dallo
studio giapponese SAANA è un gioco di equilibri acrobatici ed inquietanti. Ogni
piano è un cubo di cemento che esce a sbalzo di qualche metro rispetto al piano
(o meglio al cubo) che gli sta sotto: gli sbalzi che sporgono ora su un lato e
ora su un altro, ora in avanti ed ora indietro, danno la impressione di una
torre che sia sul punto di disfarsi e di crollare. Lo scopo a cui tende il
progettista è soltanto quello di sbalordire, di lasciare esterrefatti, di
sorprendere. La funzionalità e la buona utilizzazione dell’edificio sono
pesantemente ridotte perché la parte centrale di ogni piano è occupata da un
voluminoso nucleo rigido di cemento reso necessario per contrastare il
ribaltamento dei successivi sbalzi che essendo tutti dissimmetrici non si
controbilanciano reciprocamente. Il risultato è riprovevole perché la
superficie libera per la esposizione delle opere è alquanto ridotta e non
proporzionata né al volume considerevole né al costo altissimo dell’edificio.
Eppure queste vuote ed insulse architetture sorte negli
ultimi anni a New York hanno contagiato molti paesi, e tra i paesi va inclusa
anche l’Italia, ed hanno ormai rinunciato ai requisiti di razionalità, di
misura, di armonia che distinguevano l’architettura del passato. Sono edifici
che denotano una preoccupante perdita di gusto e di buon senso; e vogliono
essere una vera e propria sfida alla correttezza ed alla saggezza costruttiva,
accontentandosi di essere pure e
semplici esercitazioni di acrobazia statica e di stravaganza compositiva.
New Trade Center |
Forse la frenesia che invade la popolazione cittadina è
anche la conseguenza di una architettura così poco cordiale, poco accogliente,
poco umana. Gli spazi esterni realizzati di recente sono scostanti, inospitali,
respingenti. Il più infelice di questi spazi è il celebratissimo World Trade
Center (Centro del commercio mondiale) ultimato da pochissimo tempo sul luogo
in cui è avvenuta la tragedia delle torri gemelle crollate in seguito al
micidiale attentato dell’anno 2001. Un luogo di tragedia, che avrebbe dovuto
essere votato al raccoglimento e pensato per suscitare un ricordo doloroso e
per favorire un momento di riflessione. E’ diventato invece un punto di
transito intenso ed affannato, uno spazio incapace di offrire una atmosfera di
serietà ed invitare ad un momento di silenzio e di meditazione; una specie di
luna park dove due enormi gelide e nude vasche quadrate di cemento, piene
d’acqua, ricordano non tanto – come dovrebbero – il vuoto creato nel terreno
dal crollo dei due grattacieli, quanto il bacino industriale di una centrale
idroelettrica oppure le vasche per anfibi di un giardino zoologico. Completa
questa atmosfera così poco sacra, così stridentemente profana, la nuova
stazione della linea metropolitana progettata dell’ing. Calatrava e simile ad
un mostruoso uccello preistorico pronto ad agitare le ali come se stesse per
alzarsi in volo ma con il rischio di andare a sbattere contro il vicino
grattacielo.
Per conferire ad un luogo così denso di emozioni
l’atmosfera grave e solenne che dovrebbe meritare bisognava isolarlo e
difenderlo dalla agitazione rumorosa della folla e separarlo dall’intenso
traffico circostante. Il terreno occupato dai due grattacieli crollati doveva
essere recintato e chiuso da una quadriportico continuo sulla cui faccia interna
esporre i nomi delle più di duemila persone morte per colpa dei terroristi. Con
un solo sguardo e senza ulteriori aggiunte si sarebbe avuta una visione
contemporanea dell’intero numero delle vittime e si sarebbe percepita la
immensa dimensione della tragedia.
I mediocri e poco sensibili progettisti del World Trade
Center hanno commesso un errore imperdonabile; hanno avuto la insensata idea di
scrivere i nomi delle vittime sulle facce esterne dei due parapetti che
delimitano le due vasche quadrate e così facendo hanno suddiviso e scritto la
intera serie dei nomi su otto pareti distinte rendendoli impossibili da
guardare e da leggere contemporaneamente; ed hanno inevitabilmente impedito una
percezione completa ed unitaria dell’impressionante quantità di persone morte.
High Line |
Celebrata, osannata, elogiata come straordinario esempio
di percorso ricreativo immerso nel verde è la “High-Line”, la strada alta,
ossia la linea ferroviaria sopraelevata lungo il fiume Hudson. Oggi essa, non
più in uso, è stata trasformata in una lunga passeggiata botanica sulla quale
tuttavia il verde è scarso e malamente distribuito, mentre purtroppo sono molti
i punti panoramici poco attraenti e ben visibili dalla alta quota su cui la
passeggiata si snoda: tetti malconci di vecchie catapecchie, terrazzi polverosi
di povere abitazioni, disordinate antenne di impianti televisivi, arrugginiti
depositi di acqua potabile, enormi cassoni di climatizzatori domestici; queste
sono le tristi vedute sugli immediati dintorni urbani squallidi e desolati. I
progettisti evidentemente non hanno studiato l’Architettura dei Giardini e la
loro Storia; ed ignorano l'esistenza del giardino all’italiana. Se la
passeggiata, ad imitazione dei viali tracciati con perfezione geometrica nei
giardini rinascimentali, fosse stata chiusa entro due alte siepi di verde si
sarebbe impedita la vista sui desolati
dintorni e si sarebbe creato un viale perfettamente delimitato lungo i due lati
da schermi di verde, un corridoio incorniciato tra due fitte barriere di
cespugli, una strada interamente tracciata in mezzo alla vegetazione. Soltanto
di tanto in tanto, là dove il panorama lo suggeriva, le siepi di verde
sarebbero state interrotte e avrebbero consentito una veduta o sul fiume Hudson
o su qualche significativo scorcio urbano.
Peccato avere perso questa unica e rara occasione di
intervento sul paesaggio; peccato avere trasformato il lungo itinerario
sopraelevato in una banale successione di aiuole, di praticelli, di piccoli e
smilzi alberelli più adatti al giardino di una villetta che non a quella che
avrebbe potuto essere (ma non lo è stata) una suggestiva passeggiata urbana, un
tunnel di verde a cielo aperto, un viale continuo chiuso fra due barriere di
fitta vegetazione.
Nuovo Museo Whitney |
Le considerazioni sulla “High-Line” (la strada alta)
inducono a fare una critica alla recentissima nuova sede del Museo Whitney
progettata da Renzo Piano. Il museo è adiacente al termine della passeggiata
sopraelevata; la sua posizione avrebbe offerto una brillante combinazione ed
una perfetta integrazione tra edificio e percorso verde: quale conclusione più
nobile e più dignitosa per quello stesso percorso di quanto non sarebbe stato
l'ingresso principale al nuovo Museo? E quale viale di accesso al nuovo museo
più autorevole e più maestoso di quanto non sarebbe risultato il lungo percorso
alberato? Si sarebbe arrivati al Museo percorrendo un sontuoso cammino nel
verde come una volta si arrivava alle ville nobiliari percorrendo un lungo
viale di alberi secolari.
La felice ed unica occasione è stata miseramente
sprecata. L’ingresso principale al Museo Whitney è stato aperto su una
malinconica via secondaria, in una zona di desolata periferia dove vecchie e
malconce case fanno da stridente contrasto con la facciata del Museo luccicante
di alluminio e di vetro. Sarebbe questa la grande capacità progettale di un
nostro architetto di fama internazionale?
Chrisler Building |
La palese incapacità che dimostrano gli architetti
contemporanei nel progettare spazi pubblici ed ambienti all’aria aperta delude
ed amareggia se paragonata alla attenzione ed alla sagacia con cui gli
urbanisti del passato disegnavano le diverse parti della città.
La accogliente, dignitosa ed allegra Washington Square
(Piazza aperta in onore di George Washington) è collocata alla fine meridionale
della Fifth Avenue (la Quinta Strada): così la strada più importante di tutta
New York si conclude con uno spazio dignitoso e grandioso; una conclusione resa
ancora più monumentale dalla presenza dell’Arco eretto in onore del Primo
Presidente degli Stati Uniti.
Nelle realizzazioni del passato i diversi elementi
urbanistici trovano una ben calcolata corrispondenza, ottengono un reciproco
arricchimento, si articolano in una logica successione di spazi e di percorsi.
Se la progettazione di Washington Square risale alla fine
del XVIII secolo l’intervento del Rockfeller Center (il centro Rockfeller) è
stato realizzato all’inizio del XX secolo. Entrambi sono ottimi esempi di
progettazione urbanistica. Il notissimo grattacielo del Centro Rockfeller è
preceduto da una piccola e raccolta piazza ben definita in tutti i suoi quattro
lati ed animata tutto l’anno da vivaci ed esperti pattinatori: la piazza a sua
volta si apre su di una tranquilla via pedonale ben delimitata lungo entrambi i
lati da due file di edifici simili; infine la via pedonale termina e sbocca
sulla Fifth Avenue, la più nota arteria della città. Agli angoli in cui questa
via pedonale si immette nella arteria principale due blocchi edilizi simmetrici
e contrapposti segnalano a chi percorre la Avenue la presenza del Centro ed
indicano l'inizio del percorso pedonale che conduce alla piazzetta più interna
e raggiunge l'imponente ingresso dell'altissimo grattacielo. I due blocchi
edilizi sono simili a due robusti bastioni posti ai lati della porta di una
antica cittadella. Il Rockfeller Center infatti può considerarsi il centro di
una moderna cittadella e per questo è stato chiamato Center (centro) con
termine più che appropriato. Anche in questo caso, come nella Washington
Square, vi è una successione pensata e attentamente calcolata di ambienti
urbani strettamente collegati e tra loro complementari. Tutti gli spazi urbani
hanno una reciproca corrispondenza progettata con attenzione; presentano tra di
loro una successione logica e funzionale; posseggono la facoltà di esaltarsi e
di potenziarsi l’un l’altro e di far risaltare i diversi edifici da cui sono
circondati.
New Museun of Contemporary Art |
In contrasto con i due esempi urbani citati sopra la
povertà degli edifici moderni risalta tra l’altro anche dalla mancata
attenzione data oggi a tre precisi dettagli costruttivi considerati cruciali in
ogni buon edificio; l’architetto Ernesto N. Rogers li faceva notare ai suoi
allievi e ne metteva in evidenza la determinante importanza architettonica. Il
basamento, ossia il contatto tra edificio e terreno; la copertura, ossia il
contatto fra edificio e cielo; lo spigolo ossia il contatto fra una facciata
dell'edificio e la facciata adiacente; i tre dettagli elencati qui sopra sono
tutti parti di un edificio che ogni buon architetto è consapevole di non poter
trascurare. Nelle costruzioni antiche questi tre importanti dettagli erano
messi in risalto e trattati con particolare enfasi; nelle costruzioni moderne
gli stessi dettagli sono considerati di nessuna importanza e sono trattati
senza attenzione e senza cura. Basamento, cornice, spigoli sono diventati parti
dell’edificio prive di importanza non più messe in evidenza ma trascurate e
lasciate prive di qualsiasi qualità architettonica. Finita ogni gerarchia
compositiva, annullata ogni differenziazione fra i vari elementi che compongono
l’edificio, spento ogni interesse per il particolare costruttivo,
l’architettura moderna, sia americana che cosmopolita, è sprofondata nella
insignificante banalità dell’International Style.
Traffico a New York |
Una sorpresa negativa della città è l’ingorgo costante
del traffico. Non era così in passato quando mi ero trovato qui per l’ultima
volta. Adesso il traffico veicolare non è soltanto intenso ed incessante, come
non lo ricordavo anni fa, è diventato anche lento e stagnante: ad ogni
semaforo, ad ogni incrocio, ad ogni strettoia si formano lunghe ed immobili
code, si creano confusi ed inestricabili grovigli di autovetture. Ne risentono
ovviamente anche i mezzi pubblici: autobus e taxi rimangono anche loro
imbottigliati dentro all’ingorgo del traffico e proseguono a passo d’uomo. Nei
tempi passati bastava sporgersi dal bordo del marciapiede ed agitare una mano e
subito uno dei molti taxi di passaggio si fermava e caricava chi lo aveva
chiamato. Oggi i taxi passano velocemente davanti a chi li richiede ma
proseguono senza fermarsi, o perché sono già occupati oppure perché sono
diretti verso destinazioni lontane, quando non sono anche loro chiusi nella
morsa inesorabile dei continui ingorghi. Per percorrere tratti di strada anche
non molto lunghi occorre calcolare più del doppio del tempo impiegato in
passato. Gli spostamenti sono diventati lenti, problematici, non affidabili.
Occorre muoversi in grande anticipo; prevedere una lunga durata delle corse che
conducono da un punto all’altro della città.
Whashigton Square |
Perché questo innegabile peggioramento? Come mai una
città moderna come la capitale finanziaria dell’America non riesce ad
organizzare un servizio di trasporti cittadini sicuro ed efficiente? La
risposta non è difficile. In una economia interamente basata sul libero
mercato, sulla iniziativa privata, sullo scarso e malvisto intervento della Autorità Pubblica, è inevitabile che si
creino delle disfunzioni, dei gravi scompensi, delle pesanti inefficienze.
Quando il servizio pubblico è ridotto e tenuto volutamente scarso il trasporto
privato prende necessariamente il sopravvento. L’automobile personale diventa
il solo mezzo di trasporto attendibile e sicuro. E’ successo tuttavia un
fenomeno non previsto, un fatto non calcolato con sufficiente lungimiranza: si
sono moltiplicati i veicoli privati; è aumentato il numero di persone che usano
la propria auto in città; è cresciuta la quantità complessiva di spostamenti.
Le strade cittadine sono diventate insufficienti ad accogliere l’ingigantito
flusso di veicoli. Oggi questo flusso è già entrato in crisi, domani diventerà
insostenibile. Come tutte le grandi metropoli anche New York dovrà adattarsi a
potenziare il trasporto pubblico; e a contenere, ridurre, dimezzare il mezzo
privato. Lo sfrenato ed incontrollato liberismo porta al caos ed alla paralisi;
e punisce proprio coloro che lo sostengono fanaticamente. L’America, capitale
della libertà economica e della libera iniziativa privata, langue e si
paralizza per eccesso di un incontrollato individualismo e per difetto di un
sano e dosato dirigismo di iniziativa pubblica.
Taxi nel caos di New York |
Voglio terminare queste impressioni di viaggio con una
nota positiva; anzi con due avvenimenti incoraggianti e stimolanti: l’asta di
oggetti d’arte organizzata dalla Fondazione Rockfeller e la festa campestre
nella fattoria biologica sempre di proprietà della stessa Fondazione.
L’asta è stata un esempio di perfetta ed efficiente
organizzazione logistica; il personale di guardia in elegante divisa agiva con
la educazione e la gentilezza propria di un ospitale padrone di casa; il
servizio di informazioni dava la propria assistenza con premura e cortesia; la
disposizione dell’immensa raccolta di oggetti esposti e messi in vendita
seguiva un ordine chiaro, comprensibile, facilmente individuabile.
Comparivano mobili, ceramiche, dipinti, gioielli,
soprammobili; tutti pezzi di grande valore artistico e di elevato pregio
economico.
La quantità e qualità degli oggetti, esposti con
precisione e grande attenzione, offrivano uno spettacolo di lusso, a volte di
sfarzo, sempre di grande gusto. Ricompariva l'America del periodo d’oro
coincidente con la rapida crescita avvenuta fra le due guerre mondiali; una
America di grandi fortune e di enormi ricchezze spesso amministrate con
intelligenza e con sincera passione per la cultura. Una America oggi scomparsa
e non più apprezzata né rimpianta come invece ancora meriterebbe. Vittima
anch’essa di un’epoca frenetica e congestionata che ha perso l’interesse per il
passato, ha dimenticato il valore dei ricordi, ha cancellato l’amore per la
Storia.
Rockefeller Center |
A visita ultimata, con gli occhi ancora abbagliati dalla
ricchezza dei beni esposti, sorge una domanda: perché mettere all'asta tutta questa
straordinaria raccolta? Perché condannare ad essere diviso e smembrato un
patrimonio così' unico, un bene così prezioso raccolto con fatica da persone
colte ed intelligenti? Perché dissolvere ed annullare la magnifica fatica
affrontata con pazienza, con coraggio e con sacrifici dalla famiglia
Rockefeller?
Lo scopo della vendita è nobile ed elevato: raccogliere
una consistente cifra da destinare ad opere di beneficienza o ad attività
produttive indirizzate a scopi didattici e culturali. Tuttavia il contributo
finanziario da devolvere ad iniziative assistenziali ed educative avrebbe
potuto essere ricavato in altro modo e con altre procedure: creando ad esempio
un museo (e sarebbe stato un museo straordinario!) e raccogliendo gli introiti
derivati dalla vendita dei biglietti e dal prestito delle opere richieste da
altri musei per mostre temporanee. E’ probabile che questa procedura non
avrebbe ottenuto la medesima ed enorme disponibilità finanziaria che verrà
sicuramente assicurare da una vendita all'asta ma avrebbe avuto il vantaggio
culturale di salvaguardare un bene artistico unico ed inimitabile; e avrebbe
avuto il merito di mettere a disposizione di studiosi, di ricercatori, di
amanti della Storia e della opere d'Arte una fonte di studio che si presenta
riunita, catalogata, ed ordinata; e costituisce un patrimonio di ricchezza
eccezionale.
La statua della Libertà |
La festa campestre è stata uno spettacolo altrettanto
affascinante ma del tutto opposto a quello dell’Asta. Entrambe manifestazioni
promosse dalla benemerita Fondazione Rockefeller ma l’una di grande impronta
aristocratica, l’altra di vivace tono popolare.
La festa campestre era stata organizzata dalla Azienda
Agricola della Fondazione: una vasta tenuta di produzione agricola e di
allevamento ovino improntata alla massima attenzione per la natura ed al
massimo rispetto per la crescita di prodotti agricoli coltivati e fatti
maturare senza additivi chimici perché mantenuti in condizioni rigorosamente
naturali. La festa era aperta a famiglie americane provenienti da dintorni più
o meno immediati e da città poste a breve distanza: famiglie di giovani coppie
con bambini piccoli; scolaresche giocose ed allegre; gruppi di amici in grande
confidenza e visibilmente affiatati. Si era di fronte ad uno spaccato significativo
di una America minore, serena e distesa; di una società medio-borghese,
semplice e sana; di una popolazione dai modi gentili e corretti che per la
maggior parte vive nelle province limitrofe.
Nella ben conservata sede della fattoria, costruita in
stile inglese ad imitazione di un falso ma dignitoso gusto neo-medioevale, si
svolgeva un allegro banchetto all’aperto, funzionante ad orario continuo; si
compravano cibi preparati su cucine da campo; si consumavano portate su piatti
di carta stando seduti a rustici tavoli di legno. Il punto culminante della
festa si è avuto quando l’improvvisa irruzione di una banda musicale ha
elettrizzato tutti i presenti e scatenato l’entusiasmo dei numerosi e vivaci
bambini. Una banda, apparentemente improvvisata ma in realtà esperta ed abile,
la quale ha iniziato una musica vivacissima, ritmata, stimolante che presto ha
contaminato tutti i presenti ed ha trasmesso ai più giovani il desiderio di
battere il tempo e di muoversi a ritmo cadenzato. Accompagnavano i suonatori
tre giovanissime danzatrici vestite con comici costumi folkloristici o militari
ed impegnate in una danza sfrenata, scatenata, incontrollata, quasi da ragazze
invasate. Le tre bravissime ballerine si divincolavano, ruotavano su se stesse,
si proiettavano in avanti ed indietro con grande abilità mimica e trasmettevano
una gioiosa eccitazione a quanti le vedevano. Grazie a questa generosa e
gratuita esibizione l’America ha mostrato un volto sereno e dinamico, vivace e
sano; un volto che lascia sperare in un paese così ricco di contrasti e pieno
di sorprese.
Veduta newyorkese |
Giunto al termine del resoconto di questo bel viaggio
ripeto la stessa risposta data alla domanda iniziale: cosa mi è piaciuto di più
dell’America? Rispondo che mi sono piaciute le luci ma che mi hanno sconcertato
le ombre. Mi hanno affascinato molte testimonianze del passato me mi hanno
deluse alcune manifestazioni realizzate di recente. Tutto ciò tuttavia non deve
indurre a conclusioni pessimiste.
Chi rimpiange il passato non è un vecchio nostalgico
rimasto arretrato e ormai superato dai tempi; al contrario chi ha nostalgia
della tradizione è un osservatore attento e partecipe del mondo presente ed è
capace di giudicare la Storia con occhio consapevole e cosciente. È un lucido testimone
della generale decadenza che dilaga nel nostro tempo, ma è anche il fiducioso
sostenitore di un avvenire ricco di promesse.
“Elogiare il
passato non significa condannare il presente, ma soltanto aiutare quest’ultimo
a riacquistare la qualità dei tempi antichi. Fare una seria critica significa
avviare una sana bonifica”.
COMMENTO ALLE FOTOGRAFIE
EMPIRE STATE BUILDING (anno 1930-1931)
L’articolazione
dei corpi che compongono il volume del grattacielo ed il loro progressive
degradare verso l’alto che si conclude con una altissima antenna rendono questo
edificio un esempio ammirevole dei composizione architettonica.
CHRISLER BUINDING (anno 1928-1930)
La sommità di
questo grattacielo è una esplosione di fantasia decorativa; un esempio di come
si deve valorizzare la cuspide conclusiva delle costruzioni quando sono visibili
da lontano.
ROCKFELLER CENTER (anno 1930-1939)
Veduta del
Centro Rockfeller visto dalla Quinta Strada (5th Avenue): due corpi uguali e
simmetrici allineati lungo la importante arteria cittadina inquadrano il
percorso pedonale diretto alla piazza che si apre davanti all’ingresso
dell’altissimo grattacielo.
Il Centro Rockfeller è un vero e proprio complesso
urbano, articolato in più spazi pubblici connessi tra loro e disposti secondo
un disegno attentamente studiato.
WASHINGTON SQUARE (anno 1971)
La piazza è
interamente circondata da eleganti e sobri edifici alti 5 piani fuori terra;
costruiti in mattoni secondo lo stile architettonico georgiano essi si ripetono
a ritmo costante lungo il perimetro della piazza. Nel centro della piazza è
scavata una vasca d’acqua circolare; in asse con la vasca si eleva un arco
commemorativo eretto in onore del Primo Presidente degli Stati Uniti; in asse
con l’arco e alle sue spalle inizia la lunghissima 5th Avenue (quinta strada).
Gli spazi
urbani sono progettati con attenzione e collegati gli uni agli altri in modo
organico e razionale.
NEW TRADE CENTER
(Nuovo Centro Commerciale) (anno 2016),
ing. Santiago Calatrava
Il Nuovo
Centro dovrebbe ricordare la tragedia dei due grattacieli colpiti e crollati a
causa di uno spettacolare ed efferato attentato terroristico. In realtà nel
nuovo centro non vi è nulla né di solenne né di raccolto né di austero: niente che
aiuti a ricordare la sciagura. La nuova spettacolare stazione della linea
ferroviaria sotterranea, progettata dall’ing. Santiago Calatrava, ha la forma
di un enorme volatile che sta per sollevarsi da terra. L’invadenza profana
dell’edificio dimostra la incapacità del progettista di comprendere la
solennità del luogo e di rispettarne la atmosfera che dovrebbe essere di
meditazione e di raccoglimento.
NUOVO MUSEO WHITNEY (anno 2015), arch. Renzo Piano
Il Museo si
presenta eccessivamente articolato e complesso senza una logica successione dei
vari corpi che sono accostati male e poco correlati. L’ingresso principale al
Museo si apre su di una strada secondaria di periferia e risulta difficile da
trovare: grave errore di progettazione urbanistica!
HIGH-LINE (passeggiata chiamata "linea alta")
(anno 2009-2014)
La
passeggiata High-line, molto elogiata ma anche molto criticabile, è stata
realizzata sul tracciato della abolita ferrovia sopraelevata che corre lungo il
lato ovest di Manhattan. La vista che dalla altezza della passeggiata si apre
sui dintorni è squallida e desolante: coperture disordinate e sporche, terrazzi
deserti ed abbandonati, facciate scrostate di modesti edifici popolari. Possibile
che i giardinieri-progettisti del percorso non abbiano pensato di nascondere le
vedute mortificanti elevando fitte barriere di alti cespugli?
NEW MUSEUM OF CONTEMPORARY ART (Nuovo Museo) (anno 2007), studio di architettura
SAANA
Il Nuovo
Museo è stato eretto nel popolare quartiere della Bowery allo scopo di
risanarlo e renderne più civile la vita degli abitanti. L’edificio è una
gratuita e costosa acrobazia di volumi disassati. La stravagante composizione ha
avuto grande successo presso il pubblico ma resta priva di qualsiasi valore
culturale.
***
TABULA RASA (alla Arvo Pårt)
di Christian
Eccher
Reportage
geopoetico dal Kirghizistan
All’Ippopotamo
Ludus
Aynagulj cammina
a passi veloci sul marciapiede del Boulevard Chui, l’arteria principale di
Bishkek – la capitale del Kirghizistan – che attraversa la città da ovest verso
est. Dal centro commerciale ZUM all’agenzia di stampa russa Sputnik ci sono
circa due chilometri. Ainagulj guarda a terra, raramente alza gli occhi scuri e
pungenti verso i passanti. Le pupille sono nere, dello stesso colore del
piccole nevo che le decora la cornea sinistra e la rende ancor più
affascinante. Sette anni fa, lavorava come giornalista per il quotidiano in
lingua kirghisa “Zhany Agim”, che nel frattempo è purtroppo fallito. Sin da
bambina, Aynagulj sognava di fare politica ed era entrata in Parlamento come
portaborse subito la Rivoluzione del 2010, quando il popolo aveva letteralmente
cacciato il presidente Kurmanbek Bakyev e il Kirghizistan era diventato il
primo paese con un assetto democratico nel Centro-Asia. L’allora presidente della
Repubblica, Roza Otunbayeva, aveva garantito una transizione pacifica verso il parlamentarismo
e nel 2011, alle prime elezioni presidenziali libere, era arrivato alla carica
presidenziale Almazbek Atambayev, del partito democratico, che ha governato
fino all’ottobre scorso.
Il 24 novembre ha preso il suo posto il neo-eletto
Sooronbai Zheenbekov, da tutti considerato un uomo di Atambayev. Le elezioni si
sono svolte in un clima sereno e senza brogli. Un vero successo per la
democrazia, almeno a livello formale. La situazione è in realtà molto
complessa, e la storia di Aynagulj dimostra che a livello sostanziale la
democrazia kirghisa si è svuotata di contenuti. Già da adolescente, Aynagulj
era un membro di Ata-Meken, il partito socialista, guidato da Omurbek
Tekebayev, coraggioso uomo di opposizione, carismatico e intelligente. Dopo la
Rivoluzione del 2010 era stata nominata assistente di Zhoomart Saparbayev, un
giovane ventissettenne che era il simbolo della rinata vita politica kirghisa:
preparato, deciso, pronto a sacrificarsi per il bene del proprio paese. Dopo 7
anni, Zhoomart non è più in Parlamento perché ha deciso di ritirasi dalla scena
pubblica. Tekebayev è dall’aprile scorso in carcere, con l’accusa di aver
intascato una tangente da parte di un magnate russo; in realtà, l’imputazione
fa acqua da tutte le parti e non è un segreto che Atambayev, l’ex presidente,
si sia voluto liberare di uno scomodo uomo d’opposizione, l’unico forse rimasto
nel Parlamento.
Anche molti giornalisti sono stati costretti a lasciare il
paese o a cambiare mestiere: è il caso di Amalia Benlyan, ex direttrice del più
importante quotidiano della capitale, il “Vecernyi Bishkek”, che ha subito
diverse pressioni dai vertici dello Stato e che per questo si è dimessa. Ora è
impiegata in una banca come addetta alle pubbliche relazioni. Non rimpiange il
giornalismo e non intende più occuparsi di politica e di media. Esattamente
come Aynagulj, che se ha deciso di continuare a lavorare come free-lance per
l’agenzia russa “Sputnik”, ha comunque preferito lasciare il Parlamento e il
partito per ritirarsi a vita privata. “Che delusione la politica. – dice
Aynagulj – Sin da bambina sognavo di entrare in Parlamento. Adesso ho una
visione diversa della vita. Mi dedico alla famiglia e alle attività che più mi
piacciono. Vado spesso a trovare le mie sorelle che lavorano a Dubai. Forse un
giorno mi trasferirò anch’io. La gente si aspettava che dopo la rivoluzione del
2010 ci sarebbero stati grossi cambiamenti.
In realtà non è successo
assolutamente nulla, è tutto come prima”. In effetti, il parlamentarismo
kirghiso si è perso in giochi politici di coalizione che sembrano aver perso di
vista i bisogni reali della gente che vive in condizioni difficili: la paga
media a Bishkek si aggira intorno ai 300 euro al mese, ma un giovane, anche
laureato, non ne guadagna più di 100. A fare le veci dello Stato sono le
famiglie, i cui membri si aiutano a vicenda, soprattutto economicamente.
L’istituzione familiare in Kirghizistan è un vero e proprio “Grande Altro”, per
usare un termine dello psicanalista Lacan, vale a dire un valore assoluto, che
assume una valenza sacra, quasi religiosa. Molto più di una semplice ideologia,
come dimostrano le numerose commedie che affollano i cinema di Bishkek: tutte a
lieto fine, con coppie che si uniscono in matrimonio e prolificano il più
possibile. I giovani si sposano presto, a vent’anni, ancora sentimentalmente
immaturi e il tasso di divorzi, almeno a Bishkek, è altissimo. La
globalizzazione neoliberista, con la sua Weltanschauung basata sul godimento
personale, entra in collisione con le più antiche tradizioni e genera una forte
confusione fra coloro che non hanno i mezzi culturali per capire le dinamiche
del mondo contemporaneo. La democrazia non sa dare risposte alle contraddizioni
del tempo presente e la conseguenza più evidente, e anche più pericolosa, è l’islamizzazione di una
società che fino a 7 anni fa era fra le più laiche dell’Asia Centrale. A
Bishkek ci sono molte donne con lo chador;
nel giro di pochissimo tempo le moschee sono cresciute come funghi, fino
a cambiare lo skyline della capitale. Il vuoto culturale che la democrazia non
è stata in grado di riempire, viene colmato dai missionari sauditi che offrono
un approdo sicuro ai giovani che schizofrenicamente vivono spauriti le
dinamiche globali e allo stesso tempo guardano alle tradizioni secolari
ereditate dai propri avi come all’unico possibile ricetto. Gli imam non
lesinano aiuti economici ai più poveri e bisognosi.
Chi non
condivide il pessimismo strisciante che si respira a Bishkek è Roza Otunbayeva,
l’ex presidente ad interim, molto amata dai kirghizi. Elegante, gentile e
decisa, siede in un caffè del centro e parla volentieri della situazione nel
suo paese: “La democrazia non si costruisce in sette anni, ci vuole molto più
tempo, e ci vuole lo sforzo di tutti. I kirghizi vorrebbero tutto e subito. La
rivoluzione del 2010 è stata un punto di partenza, non di arrivo”. Anche la
collega e amica di Aynagulj, Saltanat, sostiene che in realtà le cose
lentamente migliorano rispetto al passato: “Nei paesi di montagna, soprattutto
vicino al lago di Issyk-Kulj, nascono piccole e medie aziende, che si occupano
di pastorizia, agricoltura e turismo. Alcune sopravvivono, altre falliscono in
breve tempo. Fa nulla. L’importante è che la gente abbia capito che non è più
necessario aspettare che lo Stato indichi una direzione da seguire, come ai
tempi del Comunismo. Il popolo comincia a capire di avere il destino nelle
proprie mani”. Saltanat ha un viso da bambina, uno sguardo attento a cui sembra
non sfuggire nulla. Cammina veloce mentre va al lavoro. La sua voce melodiosa
non riesce però a coprire i rumori del traffico che attanaglia i boulevard di
Bishkek. Colonne di automobili rimangono per ore ferme agli incroci. Le marshrutke, i piccoli furgoncini che
fanno concorrenza al servizio pubblico, si infilano in ogni spazio libero pur
di guadagnare qualche metro e qualche secondo. Gli incidenti sono un fenomeno quotidiano
nella capitale del Kirghizistan. L’aria è irrespirabile e lo smog cancella i
contorni delle montagne che cingono a sud la capitale. Alte 5000 metri,
scompaiono e si dissolvono nel frastuono assordante delle vie di Bishkek.
Silentium
Aselj ha 28
anni. È sposata da un anno. Con un compagno di scuola, conosciuto alle elementari.
In realtà, nella sua vita c’era già da tempo un tedesco, conosciuto durante gli
studi universitari di laurea specialistica a Erfurt, in Turingia, molto tempo
prima. Esattamente 7 anni fa, ai tempi della Rivoluzione kirghisa. Aselj, che è
ingegnere, non ha avuto la forza di opporsi alle decisioni dei genitori, che di
stranieri non ne hanno voluto sapere e hanno scelto per lei un ragazzo del
paese, un musulmano. Di Rotfront, esattamente come loro, una località fondata –
ironia del destino – dai tedeschi del Volga subito dopo la Seconda guerra
mondiale, quando Stalin, in preda a chissà quale delle sue mille paranoie, diede
l’ordine di trasferire intere etnie dalla Russia europea all’Asia centrale.
Rotfront è un villaggio di frontiera, affossato nella pianura che guarda al
Kazakistan e che si trasforma in steppa a pochi chilometri dal confine. Aselj
ha accettato la decisione dei genitori come si trattasse del Destino (Era, sai, la speranza e promessa, quella;
ma l’ape da’ suoi bugni uscita, pasceva già l’illusione).
Nonostante il
lungo periodo trascorso all’estero, ha annullato la propria personalità, si è
affidata ciecamente ai valori assoluti che regolano la vita delle piccole
comunità kirghise e che sono minate dalla spersonalizzazione portata dalla
mondializzazione, che non è sempre un male da esacrare e condannare. Il
problema è insito nelle dinamiche contraddittorie che il neoliberismo associato
alla globalizzazione nasconde in sé: spazza via le antiche strutture sociali e
lascia il vuoto di un’ideologia basata esclusivamente su un falso piacere. Per
questo Aselj è schizofrenica: è in continuo contatto con i suoi amici in
Germania tramite il proprio smartphone, guarda i film di Hollywood ma non ha il
coraggio di uscire dalla gabbia in cui l’hanno costretta i genitori. Il
Kirghizistan non è l’Afghanistan e la donna ha comunque la possibilità di
scegliere il proprio uomo e di opporsi alle decisioni della famiglia. Aselj non
ce l’ha fatta. Forse è proprio quella gabbia a sembrarle un rifugio dalle
insidie di un mondo che la tenta ma che è in qualche modo a lei estraneo.
Quell’universo rappresentato dal ragazzo tedesco, che quando sbarcò per la
prima volta in Kirghizistan, all’aeroporto di Manas ancora occupato dagli
Ercules panciuti dell’aeronautica militare americana pieni di bare
d’Afghanistan, sembrava un marziano, con i sandali, gli occhiali e la pella
troppo chiara (Non li ricordi più,
dunque, i mattini meravigliosi?). Neanche Roza Otunbayeva, incontrata per
caso in un caffè della capitale, è riuscita a convincere Aselj a lasciare il
paese e a terminare gli studi di ingegneria all’estero. Il Kirghizistan
contemporaneo ha più bisogno di gente preparata che non di mogli silenziose e
ubbidienti
La sera prima
della propria cerimonia nuziale, Aselj ha ricevuto una telefonata. Un conoscente
di infanzia, dopo aver saputo per caso del matrimonio imminente, dato che la
stessa Aselj non aveva voluto rendere nota la notizia per paura che le amiche
la criticassero, le aveva proposto un giro in macchina. Così, tanto per
parlare. L’ha aspettata sotto l’appartamento che la famiglia di Aselj ha
comprato a Bishkek. Una volta che la ragazza è entrata in auto, lui ha bloccato
le portiere ed è partito a tutta velocità verso la periferia della città. Le
strade della capitale sono a sera vuote, non c’è traffico (Una nube, una pioggia...; a poco a poco tornò l’inverno; e noi
sentimmo, chiusi per lunghi giorni, brontolare il fuoco). L’amico ha
imboccato la strada a due corsie che va verso est, verso le montagne del
Tien-Shan, e ha guidato senza parlare per lunghe, interminabili ore. I fari
hanno bucato la notte della pianura kirghisa, condannata dalla Storia
all’assenza di industrie che la illuminino almeno lungo la Strada magistrale.
Solo le stelle e i fanali posti lungo il reticolato di ferro che delimita il
confine con il Kazakistan regalano agli occhi un labile appiglio, la salvezza
dalla paranoia e dal nichilismo. Fino al grande incrocio della pianura: A sinistra
si va a Rotfront e poi si può proseguire verso Almaty e Astana, a destra si va
verso il lago di Issyk-Kulj. Aselj, contro la propria volontà, è andata a destra,
la notte prima del suo matrimonio.
È un’antica usanza kirghiza quella del
rapimento delle ragazze da parte dei loro pretendenti: i genitori hanno 24 ore
per andare a riprendere la figlia a casa dell’innamorato, se non lo fanno la
fanciulla si deve obbligatoriamente sposare. Il Parlamento ha vietato questa
usanza dopo che qualche tempo fa una giovane donna si era impiccata pur di non
andare in sposa a un uomo che le faceva ribrezzo e che l’aveva portata via con
la forza dal villaggio in cui abitava e dove stava semplicememente passeggiando
con le amiche (Sparvero i bianchi e rossi
alberi, infusi dentro il nebbione; per il cielo smorto era un assiduo sibilo di
fusi). La politica non può però cancellare con un colpo di spugna le
abitudini radicate da millenni nella mentalità maschile. La strada per
Issyk-Kulj passa attraverso una stretta gola, chiusa ai lati da aride e aguzze
montagne, alte fino a 3000 metri. Lì l’automobile si è fermata per fare
rifornimento: Aselj è riuscita a scappare, si è precipitata sulla Magistrale e ha
fermato una vettura che procedeva in direzione Bishkek; l’autista, un signore anziano,
si è impietosito, ha invitato Aselj a salire e la ragazza è tornata finalmente
a casa verso 6 del mattino.
Alle 7 sono arrivati i genitori, l’hanno portata a
Rotfront, dove l’hanno vestita, agghindata, come una scimmia allo zoo, per
poter poi celebrare il matrimonio. Alla presenza di 400 persone, per lo più
sconosciute alla stessa Aselj e a suo marito (Stava senza timore e senza festa, e senza inverni e senza primavere,
quella; cui non avrebbe la tempesta tolto che foglie, nate per cadere). Solo
a tarda sera, quando il padre e la madre se ne sono andati e hanno lasciato la
figlia nella casa dei suoceri, Aselj si è resa conto di essersi sposata per
davvero. Il marito l’aspettava nel letto, e in quel preciso momento, la
tristezza ha invaso il suo animo e il suo corpo (dove le branche pari a filigrane? Tutti petali a terra. E su l’aurora
noi calpestammo le memorie vane ognuna con la sua lagrima ancora)...
C’è una foto,
un selfie, che ritrae Aselj con i capelli corti; una pettinatura moderna, con
la frangia obliqua, irregolare, quasi a coprire l’occhio destro. Lo sguardo
pieno di odio e di disprezzo. È stato questo l’unico atto di ribellione nella
vita di Aselj: cambiare pettinatura subito dopo il proprio matrimonio. Già dopo
pochi giorni ha però deciso di accettare il suo destino. Adesso lavora in una
banca e durante il fine settimana va dai suoceri a servire: cucina, lava,
stira. Fa quello che una brava moglie deve fare. La domenica pomeriggio
apparecchia la tavola per il pranzo, mentre la TV trasmette le immagini di New
York, di Trump che stringe la mano a Putin, di una surreale e poco credibile Pyongyang
che lancia missili come comete a solcare i cieli del mar del Giappone.
Il lago di Issyk-Kulj cambia colore più volte al giorno. È grigio, poi azzurro
e se soffia il vento dalle montagne, che tanto somiglia alla bora istriana, si
colora di blu. È profondo 600 metri. Le spiagge sono deserte, la sabbia è
levigata dalle onde chiare e cristalline che si infrangono sulla battigia.
Intorno i monti, quelli descritti con estrema maestria da Cingiz Aitmatov nei
suoi romanzi. Il lago è deserto, non ci sono turisti in questa stagione. Sulla
sponda nord, a metà strada fra Balykchy e Karakol, c’è una città dalle case con
il cortile e in mezzo un baldacchino dal tappeto rosso: d’estate, i kirghisi si
accomodano sul tappeto e mangiano intorno a un tavolo basso, senza sedie, con
la schiena appoggiata al cuscino e le gambe distese. Ci sono gli edifici
diroccati delle aziende agricole fallite dopo il crollo dell’URSS e sulla
spiaggia lacustre spuntoni di ferro, pontili arrugginiti e vecchie panche che
guardano verso il largo. Questa città si chiama Cholpon-Ata. Al mattino, i
bambini vanno a scuola disciplinati e composti: i maschietti hanno la
giacchetta e spesso la cravatta, le femminucce un fiocco bianco sulla testa a
raccogliere i capelli. Anche le figlie di Aigulj, una signora che abita non
lontano dalla riva del lago, escono dalla loro casa bassa in cemento armato;
imboccano la strada non asfaltata che le separa dal centro urbano e poi
percorrono a piedi un pezzo di Magistrale, stando attente alle automobili che
sfrecciano in direzione Bishkek.
La mamma si è tanto raccomandata di non
correre e di attraversare solo sulle strisce. Tengono in mano una mela per la
merenda, spesso ne comprano un’altra per pochi Som dalla signora che le vende
proprio davanti alla scuola, per racimolare qualche soldo dato che la pensione
sociale garantita dallo Stato è infima. Vanno verso l’edificio scolastico: si
tengono per mano e camminano lentamente. Parlano a bassa voce in russo e in
kirghiso, mischiano le due lingue, come spesso avviene in Kirghizistan. Il
vento che spira da ovest, arriva dal Caspio e dall’Uzbekistan, e dopo aver
spazzato la steppa, le cupole di samarcanda e gli edifici grigi di Tashkent, attraversa
la pianura e acquista velocità nella gola che all’improvviso si apre al lago, nasconde
e copre le loro parole, le intreccia, le confonde e le porta lontano lontano,
verso la Cina, la Corea del Nord, fino in Giappone e poi sugli Stati Uniti,
intorno intorno al mondo, in un infinito girotondo (E piovve e piovve. Il sole (onde mai sorto?) brillò di nuovo al suon
delle campane; tutto era verde, verde era quell’orto).
***
I corpi nascosti dei giapponesi
di Claudio Zanini
Questo articolo segue e
conclude le mie “Impressioni giapponesi”
scritte e pubblicate su ODISSEA circa un
mese fa in questa rubrica.
Ammirando le eleganti attrici del Nō, le hostess degli
ostelli riokan, oppure le commesse
seriali dei grandi magazzini, mi vagava per la mente il pensiero di quanto i
loro corpi, avvolti da raffinati kimono o abbigliati in impeccabili divise,
possano suscitare l’impressione di involucri che proteggano dall’esterno;
mentre, dell’interno non lascino filtrare che esigui segnali codificati (come
l’ideogramma, una scrittura non personale, oggettiva).
Estrapolando, immagino dei
corpi nudi, indifesi nonostante il machismo di certi atteggiamenti virili.
Corpi glabri e quasi diafani, rivestiti dall’ombra pudica di cui scrive
Tanizaki; il quale, tra l’altro, parla del corpo d’una donna tradizionale come una gruccia
che sostiene l’abito, lo scheletro sottile della marionetta del teatro bunraku. Oggi la realtà è senz’altro
diversa ma, al fondo rimane, nel viaggiatore tale sensazione.
Notavo, più sopra, come la spoglia esterna
rivesta grande importanza, citando la sontuosa confezione dei pacchetti dono o
la forma dello haiku. Infatti, il
costume, il trucco, l’atteggiamento formalizzato (in cui sono trattenuti
impulsi e sentimenti), esprimono, con cortesia ed estremo ritegno: la forma,
l’ideogramma comune a tutti. Meglio una condivisione collettiva e condivisa,
poiché l’intimità dev’essere custodita inviolata. Un’intimità fragile da
proteggere. Essa è come il vuoto dei templi; nello spazio centrale del “sacro” racchiuso nella
penombra di pareti sottili, ma invalicabili. Uno spazio vibrante nella costante
attesa (mai esaudita) d’essere riempito.
Torniamo, come per
chiudere un cerchio, ai templi. Rivedo, nella memoria, i gesti minimi
all’interno d’essi. Quasi i due vuoti (quello centrale dell’edificio e quello
intimo del fedele) avessero una corrispondenza effimera e misteriosa. Risento,
nella recita corale dei sutra, come
il significato si vada via via dileguando nella ripetizione, per far posto a un
vuoto colmo di segrete e inesprimibili risonanze. Quel vuoto mentale che si
raggiunge nell’assorta meditazione, in cui è sospesa ogni attività dei sensi.
Stato in cui si può conseguire l’esperienza di liberarsi dall’Io ed essere
all’unisono col mondo, oppure un assoluto (assurdo e inumano, direi)
annullamento del sé. Annullamento, si badi bene, non in senso figurato, poiché,
con raccapriccio, ho saputo che sono esistiti in Giappone dei monaci asceti che
si facevano seppellire vivi, in postura meditativa, entro una sorta di bara
ricoperta di terra da cui affiorava una canna di bambù che assicurava una
minima areazione. Fino al sopraggiungere della morte. Si attendevano mille
giorni, quindi si riesumava il corpo e, se questo si fosse mummificato, lo si
esibiva alla pubblica devozione. Tale pratica fu definitivamente vietata
dal governo Meiji nel 1879.
Questo concetto di
vuoto, o meglio, quest’esperienza, dunque, che costantemente si ripresenta nel
mondo giapponese, mi richiama alla memoria il nostro atteggiamento nei
confronti del sacro e del rapporto del corpo con esso. Noi, rispetto ai
giapponesi, abbiamo con il trascendente un coinvolgimento corporeo diretto,
spesso passionale, in cui dolore e gioia, si esprimono nei riti e nelle
pratiche sostanziate da tali sentimenti. La ritualità in Giappone è astratta,
come depurata dal sentimentalismo che spesso rende grottesche certe nostre
manifestazioni.
Il corpo, i gesti, la maschera, il costume hanno un preciso
significato nel codice, sono segni (tuttavia, non dimentichiamo che il segno
rivela spesso ciò che vuole dissimulare, malgrado l’astrazione); come accade
nella cerimonia del tè, esplicito esempio di formalizzazione.
Il corpo ha un peso ineludibile nella nostra
esperienza religiosa, nonostante (oppure grazie a esso) il dualismo nei
confronti dell’anima, lascito della tradizione. Basta pensare ai tormenti -spesso sadicamente descritti- dei santi martiri di cui la “bestia” corporale è
vittima. Oppure alla continua lotta che il cattolicesimo ha ingaggiato nei
confronti del corpo, mortificandolo, arginando i suoi impulsi, censurando i
suoi desideri, negandolo ma avendolo sempre e ineludibilmente presente. Il
corpo è opaco involucro che contiene il pieno dell’anima; carne impura ma anche
altare e ricettacolo dello spirito; materia corrotta e contingente ma
vivificata da un principio d’eterno. La carne negletta trionferà alla fine dei
tempi.
In Giappone non c’è la
fine dei tempi. La vita, le cose, la natura sono fugaci come l’effimero fiorire
dei ciliegi in aprile, celebrato con una grande festa. Tutto trascorre. Oltre
c’è il vuoto della cui presenza si ha cognizione e stupefatta attesa, ma di cui
tutto si ignora. L’anima si ritrae in tale constatazione, naufraga
nell’infinito respiro dell’universo.
Osservando i dipinti
giapponesi notavo come, nella rappresentazione tradizionale, i corpi
soprattutto femminili siano pallidi, esangui; privi di plasticità e volume (la
pesantezza) che l’ombra conferisce alla pittura occidentale (strano che
l’ombra, cui Tanizaki dedica il titolo d’un libro, non figuri nell’iconografia
giapponese della figura umana). Dicevo che i corpi appaiono come schiacciati
sul supporto di carta in cui sono raffigurati. L’abbigliamento sontuoso che li
riveste li rende simili a splendidi fiori la cui voluttuosa bellezza dissimula
il richiamo sessuale. È qui che si gioca la dimensione erotica, spostandola
all’involucro.
Il corpo è anemico,
pare non vi scorra il sangue. La sua epidermide depurata d’ogni impurità mostra
forme semplificate che si intravedono tra le pieghe della stoffa (si allude
forse al vuoto?). Nei dipinti esplicitamente erotici di Kitagawa Utamaro, ciò
che l’abbigliamento svela, come oltre un sipario aperto, è invece l’esibizione
degli organi sessuali (soprattutto quelli maschili) ritratti con enfasi
eccessiva. Su di essi, infatti si deve focalizzare lo sguardo. Loro è l’imperio
della scena. Cerco di spiegarmi. I visi (tanto stilizzati quanto i sessi sono
minuziosamente particolareggiati), sono privi d’espressione alcuna. Non
lasciano trasparire passione né gioia. L’introspezione psicologica è
inconcepibile. Gli occhi sono fessure, le bocche s’avvicinano quasi timorose, a
labbra chiuse tra cui fa capolino una linguetta rossa ma timida. I sentimenti,
dal rapporto amoroso (o meglio dalla sua dimensione sessuale), sono
accuratamente espunti. La rappresentazione mostra con dovizia l’apparato
scenografico lussuoso, ricco di colore, in cui avviene la brutale (tale,
sovente pare, a mio avviso) meccanica dell’atto. Dunque, i moti dell’anima e
del cuore non si devono esprimere (sono vaghi e personali, temono un’invasiva
messa a nudo), mentre gli impulsi primari (collettivi) e l’implicito dominio
maschile, impongono la cruda messa in scena.
Il palcoscenico di tale
rappresentazione richiede un breve sguardo sullo spazio nella pittura
giapponese. In Occidente, dal Rinascimento in poi, la scoperta e la
teorizzazione della prospettiva centrale (in particolare) pone al centro del
mondo l’uomo. Suo è l’occhio che osserva e sua la capacità di misurare (quindi
possedere) l’intero spazio che guarda. La struttura spaziale della pittura
tradizionale giapponese (e orientale) è assonometrica. Vale a dire che le linee
di costruzione di cose e oggetti nello spazio sono parallele; non tendono,
quindi, verso un punto di fuga che unifica lo spazio e corrisponde all’occhio
dell’osservatore. Bensì gli scorrono al fianco situandolo fuori scena. La
realtà dell’accadere gli passa accanto senza coinvolgerlo, senza che egli possa
misurarla, quindi possederla, sia emotivamente sia fattualmente. La scena
dipinta rivela la propria essenza nel gioco astratto e combinatorio delle
infinite forme. Nulla d’individuale e psicologico; tutto nella progressiva
identificazione dell’universo, nella sua enumerazione, al fine d’aderire
all’istante prima che dilegui. Qui, l’uomo è immerso nella natura. Effimera,
quest’ultima è pervasa dal vuoto di brume, orizzonti sfumati, luci soffuse in
cui l’io si perde e naufraga. Minima particella coinvolta nel divenire del suo
vasto respiro, il sé s’annulla; senza poterla modificare. La può, tuttavia,
mimare. Ecco, dunque, la ricostruzione di perfetti giardini, l’ossessione
fotografica delle comitive turistiche giapponesi nei confronti del reale (in
occidente, tutto fotografavano). E, oggi infine, la ricerca frenetica della
robotica antropomorfa.
D’accordo, il vuoto è
dominante. Puro e silente. Tuttavia, un fascino segreto traspare dai volti
degli attori del teatro Kabuki. Dipinti di bianco, respingono la luce; impenetrabili a
essa e agli sguardi dello spettatore, trattengono ogni espressività. Sono come
dei fogli bianchi in attesa della scrittura (Barthes). Gli occhi bui, piccoli e
allungati e le labbra scarlatte (un tempo le donne si annerivano i denti e usavano
un rossetto bluastro e iridescente) rilevano tale candore gessoso dei visi. Le
pupille evocano segni quasi impercettibili, il gesto è quello elegante delle
mani, delle dita che ruotano ventagli. Irrompe un mimo dall’incarnato naturale,
che si muove frenetico come nei film muti d’una volta. Giocando con il suo
ombrello, suscita ilarità. Mima la vita, come la buffa figurina d’una stampa di
Hokusai.
Vorrei ribadire che
questo breve scritto nasce da impressioni e immagini del tutto soggettive
suscitate da un viaggio in Giappone. Un breve scritto che non pretende
l’esaustività. Il Giappone è un paese infinitamente più ricco e complesso di
quanto ha colpito la mia sensibilità e ha sollecitato codeste riflessioni che,
tuttavia rimaste nella memoria, mi hanno svelato rilevanti aspetti della sua
realtà.
***
Impressioni giapponesi
di Claudio Zanini
Lo scrittore giapponese YunichiroTanizaki,
in Libro d’ombra, osservava con mesto
disappunto (già nel 1933) l’inarrestabile ed eccessivo progresso
dell’illuminazione elettrica nelle città giapponesi: sparivano l’intimità e il
mistero della penombra, quello spazio segreto in cui forme e oggetti sono
evocati dal lume d’una candela. Oggi Tanizaki inorridirebbe percorrendo il
quartiere di Giza a Tokyo, rutilante di luci, colori, insegne e schermi abbaglianti.
Anche noi siamo rimasti colpiti dal bombardamento d’immagini e suoni che
ben riassume la vita frenetica e pulsante della sconfinata Tokyo: una delle
prime e immediate impressioni giapponesi (frettolose e forse superficiali, ma
intense) di un breve soggiorno d’appena due settimane. Nel corso d’un viaggio
faticosissimo lungo il quale abbiamo preso un centinaio di mezzi: treni, metrò,
autobus, battelli; camminato una quindicina di chilometri il giorno, il
Giappone si è presentato ai nostri occhi come un paese alieno, percorso da
estreme contraddizioni e molto diverso da come l’avevamo immaginato. Meglio non
farsi delle idee prima d’intraprendere un viaggio o, come dice un amico, i
paesi esotici sarebbe preferibile conoscerli dai libri di fotografia (ben
sapendo che trasmettono un immaginario inesistente). Una rapida e caotica modernizzazione, iniziata dalla seconda metà dell’800
con la dinastia Meiji, quindi drammaticamente continuata dopo la tragedia di
Hiroshima e Nagasaki (1945) e la conseguente sconfitta militare (traumatico fu
l’annuncio della resa senza condizioni da parte dell’imperatore Hirohito (che,
nell’occasione, rinunciava alla sua origine divina), causa di molti suicidi),
hanno segnato indelebilmente il suo paesaggio e la sua anima, suscitando nel
viaggiatore l’impressione che, ancora oggi, costantemente emergano, immedicabili, i segni e le ferite
della guerra.
Il Giappone sembra un paese privo di storia; quasi che, senza soluzione di
continuità, al medioevo feudale degli shogun
sia improvvisamente succeduta, una modernità senz’anima oggi dominata da una
potente oligarchia finanziaria. Il vecchio viene sistematicamente distrutto (esemplare
la vicenda del famoso Hotel Imperial
di F.Loyd Wright a Tokyo che, edificato nel 1922, venne demolito nel 1969 per
costruire un nuovo albergo). Questo nuovo (a parte certi quartieri
d’architettura contemporanea d’eccellente qualità di Tokyo, di Kyoto e forse
altrove) è il prodotto d’una speculazione selvaggia e disumanizzante. Persone
come robot, inquadrate, efficienti, sciamanti in un flusso continuo; sui treni
e metropolitane dormono o digitano sul cellulare (alto è il numero dei suicidi
causati dallo stress del superlavoro: mi sono spesso chiesto se in Giappone
esista e si pratichi la psicoanalisi). Tecnologia sopraffina, non c’è una carta
in terra, i treni spaccano il secondo; loro sono puliti, gentili ma
impenetrabili; nei grandi magazzini, accompagnano il visitatore sorrisi gelidi,
cortesi inchini delle commesse simili a tante geishe seriali. Soltanto alcuni
giovani chiedono, vogliono sapere, dialogano; ma il Giappone è un paese di
vecchi. Vittima d’un inarrestabile spopolamento, ha uno dei più alti tassi di
suicidi giovanili. Certo, belli i bambini e i ragazzi che girano con le divise
della loro scuola, dalle quali, tuttavia si percepiscono i diversi livelli
sociali. La scuola superiore e l’università costano molto, sono rigide e
competitive; l’oligarchia deve perpetuare il proprio potere e selezionare
un’efficiente e fedele classe dirigente. Siamo in un paese gerarchizzato, di
scarsissima mobilità sociale, dove ciascuno deve stare al proprio posto.
Suscitano un fascino strano i templi buddisti e scintoisti, ricostruiti
dopo incendi, terremoti, distruzioni belliche, e altri rimessi a nuovo
recentemente a seguito d’una concezione transitoria ed effimera della vita e
delle cose (come il fugace fiorire dei ciliegi in primavera) oppure quasi s’intendesse
rimuovere il passato, cancellarlo con una mano di belletto? (il Kinkaku-ji, il Padiglione d’oro di Kyoto, di cui scrive Yukio Mishima nell’omonimo
romanzo, è stato bruciato da un monaco nel 1950 e ricostruito dopo cinque anni.
A proposito di Mishima, dopo questo viaggio, nel corso del quale mi sono
rimaste inspiegate molte cose, credo tuttavia, d’aver intuito le motivazioni
della sua tragica fine. Non volendo sopravvivere alla brutale modernizzazione e
alla decadenza dei valori della tradizione, di cui noi oggi vediamo le nefaste
conseguenze, nel 1970 a 45 anni, si sottopose pubblicamente al suicidio d’onore
(seppuku). Noi, all’epoca,
frettolosamente lo tacciammo di nazionalismo fascista.)
Alla bellezza dei templi corrisponde l’infittirsi caotico del tessuto
urbano. Sul velocissimo “treno proiettile” Shinkansen,
nei 900 chilometri percorsi da Tokyo a Hiroshima in quattro ore, abbiamo visto
scorrere ai nostri fianchi una squallida periferia urbana interrotta da esigui
campi a risaia. Un susseguirsi di case minime, tristi e precarie o degli enormi
condomini anonimi, avulsi da un qualsiasi organizzazione dello spazio urbano,
mezzo disabitati, che si mangiano lo spazio l’uno all’altro, come i fitti
arbusti delle foreste di bambù. Al fascino astratto e geometrico dei giardini di pietra zen, agli spazi
silenziosi dei monasteri isolati, al sacro magicamente evocato da certi
santuari (vedi Koyasan, dove siamo stati ospiti) immersi in foreste di sequoie
secolari, del tutto estranei, tuttavia, e lontani dal caotico indaffararsi
delle persone, si contrappongono le luci fredde delle frenetiche stazioni
ferroviarie e metropolitane, il gracchiare ininterrotto degli altoparlanti; luoghi
come gli onnipresenti mercatini di cianfrusaglie, oppure come Ginza, il
quartiere del lusso di Tokyo, che ha l’aspetto d’un enorme cimitero in cui i
mausolei funebri sono gli smisurati palazzi delle grandi case di moda: Gucci,
Louis Vuitton, Versace, Paul Smith, Armani, Cartier… in un’estrema celebrazione
del consumismo. E poi, in un altro quartiere, entro altrettanti grattacieli, le
sedi delle multinazionali dell’elettronica, della tecnologia soft robotics, della ricerca proiettata
verso un futuro che mette i brividi.
Simboli d’una modernità alienante che certo sgomenterebbe Tanizaki, hanno
stordito e turbato anche noi contemporanei. Comprendiamo e condividiamo,
dunque, la nostalgia di spazi scuri, indefinibili, dove lo sguardo si prolunga
nel silenzio dell’ombra e il tempo pare si sia fermato (ombre e luci diffuse, che
noi ritroviamo nella massima parte dei centri storici e architetture delle
città europee). Forse, oggi in Giappone, quest’ombra satura di mistero si
rintraccia ancora, relegata all’interno dei templi e dei monasteri. Tale
suggestione di spazi indefinibili, come in assorta attesa di qualcosa che li
riempia, richiama il concetto, o meglio, l’esperienza
del vuoto.
Provo a chiarire meglio. Il centro dei templi, che avvolge e definisce lo
spazio del sacro (sacro è una
definizione nostra e impropria che, tuttavia, penso possa rendere l’idea), in
realtà è involucro del vuoto. Il vuoto qui non significa, come in Occidente,
assenza, bensì esperienza indeterminata
ma intensa e potente, in un rimando costante che non si esaurisce perché sfugge
alla nostra percezione.
Mi azzardo a dare una spiegazione intuitiva: per noi il vaso è il
recipiente, l’interno è vuoto. Qui il vaso è il vuoto che l’involucro avvolge.
La forma del vaso senza vuoto non sussisterebbe.
Ho trovato traccia di quest’ombra e di questo vuoto nella foresteria del monastero
di Koyasan; sebbene provvisto di tutte le comodità contemporanee, il vuoto
delle stanze decorate dalle delicate pitture sulle pareti sottili,
l’opalescenza della luce filtrata dalla carta delle finestre, la penombra dei
corridoi dove s’aprono vani segreti, suscitano una sottile e strana emozione.
Un’allusione al vuoto, che forse chiarisce con semplicità il concetto
(spero non banalizzandolo), si scopre nei pacchetti giapponesi; dove l’incarto,
la confezione d’accurata e geometrica raffinatezza prevale sull’oggetto avvolto,
anzi “è l’involucro (a essere) consacrato come cosa preziosa, sebbene gratuita;
(…) è (quasi) la scatola il vero oggetto del regalo, non già ciò che contiene”
(Roland Barthes, L’impero dei segni,
1970), mentre il contenuto ha scarsa importanza; anzi potrebbe, paradossalmente,
non esistere. Il vuoto, in effetti, sarebbe il perfetto contenuto del
pacchetto.
Proseguendo sull’onda del medesimo pensiero, si può affermare che l’haiku (breve componimento poetico),
respingendo ogni interpretazione e senso, indica null’altro che il vuoto.
Infatti, la sua forma è l’involucro, il suo contenuto (anche questa è definizione
purtroppo fuorviante e inadeguata) il puro vuoto. Lo spiega bene il poeta e
monaco zen Basho (1644/1694):
“Come è ammirevole / colui che non
pensa / “la vita è effimera” / vedendo un lampo”.
Un altro esempio. L’esperienza del vuoto pervade i magnifici e perturbanti giardini
zen. Dalla superfice geometrica di ghiaia mossa appena da leggere modulazioni, simili
a piccole onde incurvate, le rocce emergenti perdono peso, si smaterializzano,
assumono senso in quanto circondate e affioranti da quella sorta di mare di
pietra: guardando mi è balenata la sensazione che si trattasse dell’oceano dell’essere (strana e improvvisa
risonanza che, tuttavia, non saprei spiegare) e, nello stesso istante d’un
vuoto che si percepisce denso d’energia. Un vuoto di cui le increspature appena
percettibili sulla ghiaia definiscono la presenza; le rocce che ne affiorano
sono segni perentori, richiamano la macchia nera di china dell’ideogramma sul
bianco della carta. Anche quest’ultima, la carta, è un vuoto che attende la
scrittura e da essa è indissolubile. Mi auguro che questi esempi incrociati siano riusciti a suscitare una
almeno vaga approssimazione dell’idea giapponese del vuoto.
La carta giapponese è morbida, “simile al manto della prima neve”
(Tanizaki) e l’ideogramma dipinto sembra succhiare energia dal suo spazio
bianco e vuoto, concentrarla nel segno nero d’inchiostro di china, corposo e
risoluto.
Sotto l’occhio vigile e benevolo d’un elegante monaco in kimono bianco, abbiamo fatto prove di
calligrafia. I risultati discutibili hanno suscitato alcune considerazioni.
Il pennello, tenuto perpendicolare al foglio bianco e guidato
dall’avambraccio, produce, scorrendo senza staccarsi dalla carta, segni decisi
o morbidi, sottili o più larghi, Qui, pittura e scrittura coincidono. Il segno
s’impone, ma il vuoto dello spazio invaso lo preme tentando di forzarne i
margini. È una lotta tra opposti. Bianco e nero.
La nostra scrittura corsiva occidentale pare, piuttosto, incidere il
supporto cartaceo oppure, in certi casi, sovrapporsi a esso; sovente ha la
forma del grafico d’una qualche funzione corporea (cardiogramma,
encefalogramma, ecc). Decifrandolo, i grafologi possono intuire la personalità
di chi scrive. Dall’analisi dell’ideogramma giapponese (e cinese) credo si
possano ben ricavare le minime variazioni del suo significato, ma nulla sullo
scrivente. Il corsivo occidentale è soggettivo, quindi funzionale alla scrittura automatica, che ritengo
impossibile in Giappone, poiché il significante possiede un’oggettività
inattaccabile.
Sono molto belli ed eleganti i kimono
che ogni giorno trovavamo nella stanza dell’albergo, ma problematiche le
microstanze (in Giappone lo spazio va sfruttato al massimo) in cui eravamo
ospiti.
Variopinto come una tavolozza di colori e di sapori molteplici, è il sushi, preparato davanti ai tuoi occhi.
Assai meno gradevole (per il nostro gusto) il tofu; sebbene la zuppa di miso
venga servita in raffinate ciotole di lacca. Curiose (per noi) le hashi, bacchette con cui si porta il
cibo alla bocca. Non sono affilate e pungenti come le nostre posate. Non
tagliano, stringono il cibo morbidamente, quasi con delicatezza; esigono
eleganza e destrezza manuale; e, all’inizio, infinita pazienza.
Superbo il torii (portale) rosso,
segno potente, sorgente dall’acqua della baia dell’isola di Miyajima e
affascinante il santuario di Itsukushima, anch’esso di legno purpureo, sospeso
su palafitte. Enigmatico il grande Budda bronzeo di Kamakura, gli occhi chini
sul proprio ombelico, chiuso nella sua imperturbabilità; d’intorno, lo sciame
di turisti lo mitraglia con migliaia di scatti fotografici.
Un fascino segreto traspare dai volti delle attrici del teatro nō. Dipinti di bianco, respingono la luce; impenetrabili a
essa e agli sguardi dello spettatore, trattengono ogni espressività. Sono come
dei fogli bianchi in attesa della scrittura (Barthes). Gli occhi bui, piccoli e
allungati e le labbra scarlatte (un tempo erano blu) rilevano tale candore
gessoso. Le pupille evocano segni quasi impercettibili, il gesto è quello
elegante delle mani, delle dita che ruotano ventagli. Irrompe un mimo
dall’incarnato naturale, che si muove frenetico come nei film muti d’una volta.
Giocando con il suo ombrello, suscita ilarità, come la buffa figurina d’una
stampa di Hokusai.
L'ALTRA RUSSIA
di Christian Eccher
(TRITTICO
SIBERIANO)
ALL’INCROCIO FRA I MONDI: DRUŽININO.
A Chingiz Aitmatov, poeta della steppa
Casa a Irkutsk |
I
treni da Mosca e per Mosca arrivano sempre in orario a Družinino, un luogo che
è non è un paese e non è una città, ma soltanto un importantissimo snodo
ferroviario che unisce l’oriente all’occidente, l’Europa all’Asia. Tutti
convogli a lunga percorrenza delle Ferrovie Russe che percorrono la
Transiberiana si fermano qui, in questa piccola località degli Urali
meridionali; fanno una pausa più o meno lunga, i macchinisti scendono dalle
locomotive, lasciano il posto ai colleghi e si riposano per qualche ora nei
locali del Dopolavoro ferroviario prima di riprendere il viaggio in direzione
opposta e tornare nei luoghi da cui erano partiti. Sui binari una decina di
treni aspetta che si apra il segnale per poter proseguire verso gli scambi del
sezionamento e riprendere la corsa verso est o verso ovest lungo la linea della
Transiberiana (Поезда в етих краях шли с востока на запад и с запада на восток...). Visti dal sovrappasso che congiunge l’edificio
centrale all’altra estremità della stazione e che permette di attraversare i
binari senza correre rischi, i treni sembrano bestie mansuete che riposano in
fila; i locomotori ronzano sordi, la maggior parte di loro traina un numero
indefinito di vagoni merci, piatti e aperti, ricolmi di carbone, nero fino all’orizzonte,
che si estende oltre i segnali di ingresso alla stazione e gli scambi del
sezionamento. Un mare in tempesta, scuro e torbido, è quello che sembra
agitarsi sui binari di Družinino; onde nere la cui cresta si alza al centro per
poi abbassarsi improvvisamente in corrispondenza delle pareti rosse e basse dei
singoli vagoni, vicino ai respingenti che ancora combaciano l’uno all’altro a
causa della brusca e stridente frenata a cui il treno è stato costretto dopo
essere entrato in stazione: dato il notevole peso del carico trasportato, le
ruote di acciaio, quasi fossero ipnotizzate, tendono a perpetuare il movimento
in avanti a cui il locomotore, dopo il dolente strappo iniziale, le ha
costrette per chilometri (O carro vuoto
sul binario morto!). Quando dalla locomotiva arriva ai vagoni il segnale di
frenata tramite un getto di aria compressa, le pastiglie di ferro del freno
vanno a toccare la ruota, che emette un gemito freddo e stridente, quasi si
ribellasse al comando ricevuto. L’asse che unisce le due ruote continua a
girare, ma in maniera sempre più lenta, finché non si ferma di colpo. È questo
il momento in cui il carbone si scuote e qualche pezzo rotola giù, fino a
sbattere con un tonfo metallico sulla parete del vagone. I passeggeri dei treni
a lunga percorrenza già fermi si svegliano di soprassalto nelle loro cuccette,
guardano storditi attraverso i finestrini la luce scialba dell’alba e il verde
delle betulle che per il poeta Sergej Aleksandrovich Yesenin simboleggiano il
corpo e magro e slanciato delle ragazze russe. Il vento dell’ovest agita
drammaticamente le foglie degli alberi e dei cespugli che crescono lungo la
massicciata e getta qualche grassa goccia di pioggia sui volti dei viaggiatori
che escono dal vagone per fumare una sigaretta o per comprare qualcosa da
mangiare nell’unico negozio in riva alla ferrovia. I treni passeggeri si arrestano
sui binari più esterni, dalla parte opposta dell’edificio bianco della
stazione, lì dove comincia il centro abitato, una serie di case basse con le
paraboliche sopra il tetto a captare i segnali televisivi dai satelliti
artificiali in orbita, con i giardini in cui ruzzolano cani e galline e con le
strade non asfaltate, impolverate d’estate e fangose d’inverno.
Druzinino |
A Družinino
vivono principalmente le famiglie di coloro che si occupano del traffico
ferroviario e della manutenzione del tratto uralico della Transiberiana; è
grazie a questi uomini coraggiosi che le merci e i passeggeri possono muoversi
liberamente da est verso ovest e da ovest verso est. Vicino alle scale del
sovrappasso di trova l’unico negozio della stazione: all’interno, un’anziana
signora dalle rughe del volto marcate e dai movimenti lenti e posati vende uova
sode, peperoni, piroshki (focacce
fritte ripiene di patate o di cavolo), bevande fredde e pomodori dalla buccia
liscia e traslucida, troppo rossa per essere naturale. Gli scaffali sulle
pareti sono quasi vuoti. I passeggeri dei treni in sosta fanno la fila per
comprare acqua e dolciumi. C’è tempo prima di riprendere il viaggio; qualcuno
si avvia verso l’edificio della stazione ferroviaria, in cerca di una doccia o
di un bar che offra tè e caffè. Oltrepassato il cavalcavia pedonale, costituito
da un basamento di cemento ormai sgretolato dal clima rigido degli inverni
russi e dalle estati che a queste latitudini sono comunque torride, ci si trova
davanti a un portone in legno, che si apre con estrema facilità, nonostante sia
massiccio e molto grande. La biglietteria è completamente vuota; nessuno prende
il treno a Družinino. Le persone che abitano in paese si spostano solo quando
hanno qualche commissione incombente altrove; in poche ore si arriva a
Jekaterinburg, la capitale della regione degli Urali. Per raggiungere Mosca ci
vogliono invece 24 ore. Gli impiegati, vestiti con le eleganti divise delle
ferrovie russe, una delle aziende con più impiegati al mondo, parlano sottovoce,
perché l’eco non faccia rimbombare le loro voci nell’androne spoglio e alto,
come la navata di una cattedrale. La stazione di Družinino assomiglia a un
tempio poco visitato dai fedeli. Nella sala d’aspetto, adiacente alla
biglietteria, un uomo dorme su una panchina di ferro, sdraiato su un fianco,
con le ginocchia sul petto e la giacca appoggiata sulle spalle a mo’ di
coperta. Sotto la panchina c’è una bottiglia di vodka semivuota. Forse si
tratta di uno dei rari passeggeri che ha perso il treno, o forse è soltanto un
abitante del luogo che smaltisce la sbornia della sera precedente. Attraverso
delle scale di marmo, pulite e scintillanti come se fossero quelle di un
ospedale, si accede al piano superiore, dove ci sono le docce e la toilette,
chiuse al pubblico, gli uffici del capostazione e quelli dello smistamento. Una
vera e propria torre di controllo, il cuore e la mente di Družinino.
Druzinino |
All’incrocio
fra i mondi non ci sono né ospedali né scuole, ma c’è solo un pugno di uomini
coraggiosi che dirige il passaggio dei treni da oriente a occidente e da
occidente a oriente. Поезда в етих краях шли с
востока на запад и с запада на восток...
(In Kazakistan c'è uno snodo ferroviario di
primaria importanza, Boralni – in russo – o Burani – in lingua kazaka. Si trova
nel mezzo dell’immenso mare stepposo che comincia in Ungheria, nella “puszta”
magiara del poeta Petöfi (solo tu, caro “aist”, piangesti accanto al corpo del
poeta ucciso!), e finisce a Vladivostok, lì dove l’erba lascia improvvisamente il
posto al Mar del Giappone. Il passaggio dei treni da ovest verso est e da est
verso ovest è da tre decenni automatizzato. Subito dopo la Seconda guerra mondiale,
e fino agli Settanta, due uomini, Edigey e Kazangap, lavoravano nella piccola
stazione di snodo insieme a una decina di colleghi: il loro compito era quello
di riparare i binari, aprire e chiudere i segnali di ingresso e di uscita,
spalare la neve quando era necessario. Si erano trasferiti nella steppa dal
lago di Aral, il quale adesso non esiste più, dato che l’Uzbekistan, al fine di
irrigare le proprie piantagioni di cotone, ha bloccato con dighe selvagge
l’acqua degli affluenti del bacino d’acqua, grande a tal punto che i Kazachi lo
chiamavano mare. A inizi anni Cinquanta, a Edigey e Kazangap si unì Abutalip
Kuttybajev, un maestro elementare allontanato dalla scuola di Astana dove
lavorava prima della guerra per il solo fatto di essere di etnia tedesca e di
aver combattuto al fianco dei partigiani di Tito in Jugoslavia. Nel ’48 Tito
aveva rotto i rapporti con Stalin e si era rifiutato di ricevere direttive da
Mosca; per questa ragione, Stalin il paranoico guardava con diffidenza tutti
coloro che avevano combattuto a fianco del Maresciallo. Una notte di primavera
del 1952, Abutalip fu deportato in un campo di concentramento per dissidenti.
Morì in condizioni mai chiarite nell’aprile del ‘53, un mese dopo la morte di
Stalin. A Boralni-Burani rimase ancora per qualche anno la moglie di Abutalip,
a cui non mancò mai la solidarietà delle poche famiglie dei lavoratori dello
snodo; le donne si occupava dei bambini, senza privilegiare i proprio figli a
scapito di quelli altrui; si prendevano anche cura dell’orto e degli animali
domestici, mentre i mariti lavoravano lungo la massicciata. Per questa gente,
la linea ferroviaria era come il meridiano di Greenwich: il mondo si divideva
in due parti, quella sinistra e quella destra rispetto alla strada ferrata. Nel
villaggio non c’erano né acqua potabile – che veniva portata su un vagone cisterna
da Almaty – né energia elettrica. Il bene più prezioso a Boralni-Burani erano i
cammelli, che pascolavano liberamente nella steppa. Lo stesso Edigej aveva un
cammello, sano e forte, e con quell’animale accompagnò Kazangap fino al
cimitero di Ana-Bejt, dopo che l’amico morì in una notte di settembre, a fine
anni Sessanta. Ad Ana-Bejt riposano adesso anche Edigej e sua moglie. A
Boralni-Buran oggi non abita più nessuno. Dal treno in corsa è ancora visibile
quel che resta delle case in terra battuta in cui abitavano coloro che si
occupavano dello snodo ferroviario prima dell’avvento dell’automazione. I figli
di Edigej e dei suoi collaboratori si sono trasferiti all’estero o ad Almaty. I
cammelli continuano a pascolare indiffenti nella steppa. Ogni volta che passa
un treno, la terra di Ana-Bejt, che non è lontana dalla ferrovia che unisce la
Russia, il sud del kazakistan e le città secche del lago di Aral, si scuote e
sussulta per far credere a Edigej e a Kazangap, lì sotto terra, che il mondo sia
ancora uguale a quello di 50 anni fa).
Druzinino |
SIBERIA
Ad Aleksandr Gorodnizkyi e a tutti i bardi della Steppa
siberiana
Siberia orientale |
Evgenija
Vladimirovna guarda con orgoglio le piante di pomodori che crescono a grappoli
nell’orto della sua “dacia” – la casa in campagna in cui i russi di città sono soliti
trascorrere le proprie vacanze – alla periferia di Tomsk. Da alcuni anni a
questa parte, a causa dei cambiamenti climatici, in Siberia sono comparsi
verdure e ortaggi che fino a un decennio fa potevano essere solamente importati
dai paesi caldi. Ormai in tutta la Russia, l’estate comincia già a maggio, con
un mese di anticipo rispetto alla norma, e finisce a settembre; le temperature
massime a luglio e ad agosto sfiorano e spesso superano i 30 gradi e permettono
agli abitanti dei villaggi che si trovano lungo la linea della Transiberiana di
coltivare prodotti che da queste parti sono indubbiamente esotici. Evgenija, professoressa
di russo presso il Politecnico di Tomsk, è una delle poche persone a essere
preoccupata da questi improvvisi mutamenti: “Piantare e poi raccogliere i
pomodori è senz’altro una soddisfazione, ma forse era meglio continuare a
comprarli al mercato”, dice con un’espressione del viso accorata, che,
nonostante un abbozzo di sorriso, non riesce a nascondere un profondo
turbamento. “Nel nord della Siberia, nella penisola dello Yamal, oltre il
Circolo Polare Artico, le temperature elevate hanno causato epidemie fra persone
e animali”. Evgenija ha purtroppo ragione: lo scioglimento del permafrost, il
terreno gelato che è una caratteristica peculiare della Siberia del nord, ha
liberato un batterio del ceppo dell’antrace che era imprigionato nel ghiaccio
da migliaia di anni. I corpi degli essere umani e degli altri animali non hanno
le difese immunitarie adatte a fronteggiare questa invasione batterica, che nel
luglio scorso ha abbattuto numerosissime renne e ha colpito in maniera grave 3
esponenti della tribù nomade Nenet. I cambiamenti climatici colpiscono
soprattutto le zone continentali del nostro pianeta; proprio in Siberia è
cominciato il processo che potrebbe portare la specie umana all’estinzione. Con
lo scioglimento del permafrost si potrebbero liberare enormi quantità di metano
e di anidride carbonica che potrebbero a loro volta cambiare la composizione
chimica dell’atmosfera terrestre. Non è possibile stabilire quanto gas sia
attualmente trattenuto dai ghiacci. I danni dello scioglimento del permafrost
sono però già visibili: a Jakutsk, capoluogo della Socha-Jakutsia, e a Irkutsk,
vicino al lago Bajkal, le fondamenta delle case appoggiavano su uno strato solido
di terriccio e rocce ghiacciati; negli ultimi dieci anni, con l’aumento delle
temperature, il ghiaccio si è sciolto, il suolo si è ammorbidito e ha cambiato
densità, deformandosi: alcune case sono così letteralmente sprofondate nel
terreno. Il paesaggio in Siberia diventa a poco a poco apocalittico e surreale:
abitazioni il cui primo piano è completamente coperto di terra, case e stalle
inclinate, come se fossero state colpite da un terremoto di forte intensità;
voragini che si aprono qua e là, inghiottono boschi e sputano fuori fiamme e
gas volatili.
A
Tomsk e nel sud della Siberia, però, i cambiamenti climatici non sono così
drammatici come nel nord della regione. Per la verità, Nord e Sud, Est e Oves
sono in Siberia concetti vaghi, dato che questa immensa regione non ha frontiere
ben definite. Dal punto di vista geografico, tutto il territorio che va dagli
Urali al Mar del Giappone e dal confine kazaco al Mare del Nord è Siberia. Politicamente,
invece, il Distretto Federale Siberiano comprende soltanto la parte centrale
della regione, fino al lago Bajkal. A livello geologico, la maggior parte del suolo
siberiano è un “trappo”, ovvero una gigantesca colata vulcanica risalente a
circa 250.000 anni fa, quando una delle più potenti eruzioni mai avvenute sulla
Terra coprì la superficie dell’allora Siberia e le sue paludi, che si sono di
conseguenza trasformate in un mare nero, sotterraneo, di carbone. La successiva
deriva dei continenti ha risparmiato la Siberia, che è rimasta come incastrata
fra le diverse zolle della crosta continentale: i monti Altai, la penisola Kamchatka
e gli Urali sono le frontiere geologiche della Siberia, i luoghi che con le
loro montagne accartocciate testimoniano il gigantesco scontro fra le placche
tettoniche, in parte ancora in corso. Gli storici invece cominciarono a parlare
di Siberia soltanto dopo l’avvento di Ivan il terribile, nel XVI secolo. Prima
di allora, al di là degli Urali si estendeva uno spazio sconfinato in cui
vivevano antiche popolazioni, oggi quasi completamente dimenticate, nonostante
alcune di esse siano sopravvissute e si oppongano con ogni mezzo alla
russificazione delle proprie usanze e, soprattutto, al tentativo da parte di
Mosca di imporre loro il russo come lingua ufficiale. Gli Aleuti della Kamchatka,
i Keti di Krasnoiarsk sono solo alcune di queste etnie, che vivono di
allevamento e in condizioni di grave povertà. La Siberia è caduta spesso nelle
mani di grandi imperi, come quello mongolo e cinese, ma non fu mai colonizzata.
I nuovi arrivati si limitavano a creare avamposti militari. Durante il
Medioevo, per gli europei la Siberia non era altro che un territorio di
transito, attraverso il quale passavano mercanti e carovane che univano la Cina,
l’attuale estremo oriente russo con Bisanzio e l’Europa intera. Trasportavano
sale, legno e la allora ricercatissima pelliccia di ermellino. Durante il XVI
secolo, Ivan il Terribile decise di conquistare il territorio a est degli Urali
e di centralizzare la Russia al fine di concentrare tutto il potere nelle
proprie mani. San Pietroburgo sarebbe stato il centro dell’impero, a cui tutte
le altre regioni si sarebbero dovute sottomettere. Venivano così gettate le
basi che avrebbero costituito l’infrastruttura del potere della Russia degli
zar prima e di quella sovietica poi. L’esercito guidato da Jermak Timofejevich
riuscì a imporsi sulle numerose etnie e tribù che abitavano la Siberia: i
Tatari, che almeno nominalmente controllavano la regione, furono sgominati. Le
altre popolazioni, che fino ad allora avevano vissuto liberamente lì dove
c’erano le risorse naturali fondamentali, vale a dire l’acqua e il legno,
furono soggiogate, ma non del tutto. I tatari erano e restavano musulmani, i
mongoli buddisti, molte tribù animiste, nonostante il cristianesimo fosse la
religione ufficiale in Russia: non a caso, una delle prime preoccupazioni di
Ivan il Terribile fu quella di porre sotto il proprio controllo i vertici della
Chiesa ortodossa. Al fine di colonizzare davvero e in toto la Siberia erano
necessari ancora molto tempo e molti sforzi ed era soprattutto fondamentale
creare una rete di istituzioni: San Pietroburgo cominciò a spedire oltre gli
Urali soldati, vescovi e preti; il rapporto dei colonizzatori nei confronti
della Siberia era però molto problematico. Quando nel XVIII secolo – a
colonizzazione quasi terminata! – Katerina II decise di mandare 90 preti a Tobolsk,
città della Regione di Tjumen, ne arrivarono solo 9. Gli altri si diedero alla
macchia: le loro mogli (la Chiesa ortodossa permette il matrimonio per i
ministri di Dio) non ne volevano sapere di lasciare la Russia europea per
ritrovarsi in mezzo a uomini selvaggi che per giunta vivano in condizioni
climatiche proibitive.
Siberia orientale |
Le
prime città russe in Siberia presero il nome di “ostrog” (“ostro” significa
appuntito): erano infatti circondate da palizzate in legno con le punte
affilate rivolte verso il cielo. Queste fortificazioni ospitavano e difendevano
dai pericoli esterni i mercanti, gli artigiani e i soldati: questi ultimi costituivano
la grande maggioranza degli abitanti. A mano a mano che la Siberia veniva
colonizzata, cresceva anche la popolazione, che gli “Ostrog” non erano più in
grado di ospitare. Nacquero così le prime grandi, moderne città, come Omsk,
Tomsk, Krasnojarsk e Novosibirsk. Sin dai tempi di Ivan il Terribile, oltre ai
colonizzatori, gli zar spedivano in Siberia i criminali e i propri nemici
politici. Si trattava di una sorta di esilio dorato: coloro che erano stati
condannati non potevano tornare nella Russia europea ma avevano la possibilità
di vivere liberamente oltre gli Urali. Molti di loro insegnavano nelle scuole,
a sera frequentavano le osterie e leggevano i libri dei principali filosofi
occidentali che gli amici spedivano loro da San Pietroburgo o da Mosca. La
Siberia era uno spazio di libertà, in cui circolavano le più pericolose idee in
campo politico e sociale. Ciò non disturbava affatto gli zar, i quali, chiusi
nel Palazzo d’Inverno, si sentivano protetti delle migliaia di chilometri che
li distanziavano dalla Siberia. Le cose cambiarono con Nikola II, all’inizio
del XIX secolo, dopo la rivoluzione decabrista. I decabristi avrebbero voluto
assassinare l’imperatore e dar vita a una società moderna, senza servi della
gleba, decentralizzata e repubblicana (Не всегда для свободы победа нужна, ей нужнее парой пораженье). Quando il
tentativo di colpo di Stato fu sventato, i decabristi furono mandati in
Siberia; da allora, però i prigionieri, politici e non, furono rinchiusi negli
“Ostrog”, rimasti vuoti a causa del trasferimento dei cittadini nelle nuove
città. Da grande territorio militare, la Siberia si trasformò in un’enorme
prigione. Ciò comportò la creazione di una rete infrastrutturale fatta di guardie
carcerarie, infermieri, medici, cuochi; nuova gente arrivò dalle città della
Russia dell’ovest per lavorare negli “ostrog”. Certo è che i condannati non
insegnavano più nelle scuole e non frequentavano più i caffè come nei tre
secoli precedenti; uscivano soltanto per lavorare: cominciava
l’industrializzazione della Russia zarista, si aprivano miniere e nel 1892 venne
intrapresa la costruzione della grande ferrovia transiberiana. I detenuti
fornivano manodopera a costo zero. (Dal
finestrino del treno, il Capitano degli Oceani e della Steppa mostrava a tutti,
con orgoglio, il monumento ai decabristi, nella piccola stazione al di là degli
Urali, al di qua dello Yenissei. Una lastra in marmo tagliata in verticale,
sghemba, con i nomi di coloro che furono mandati in Siberia e che non fecero
mai più ritorno. Ma il loro spirito di libertà aleggia ancora nei territori
pianeggianti che vanno dalla Mongolia alla Kamchatka; quello stesso anelito di
libertà che spinse il Capitano a lasciare il continente in cui era cresciuto e
a spingersi fino a Vladivostok, e poi oltre, per mare, sulle navi mercantili
che rigano gli oceani in tondo, fino ad abbracciare l’intera circonferenza
terrestre.
Cantiamo piano; sentiamo a stento noi stessi. Un tozzo di
pane, Iulia, per l’inverno che ci aspetta e per la primavera che non
aspetteremo).
Nel
XIX secolo, la colonizzazione della Siberia da parte della Russia giunse a buon
fine, ma non del tutto. C’è ancora oggi una scollatura fra Mosca e le città
siberiane; fra le élite intellettuali e politiche di Mosca e San Pietroburgo da
un lato e quelle di Novosibirsk e Tomsk dall’altro non c’è mai sovrapposizione
completa. Perché? Per capire la sottilissima divergenza fra il centro
dell’impero e la sua periferia, divergenza che spesso passa inosservata agli
analisti occidentali, dobbiamo tornare a Katerina II, la Grande. Ivan il
Terribile e i suoi successori avevano governato per mezzo del terrore; non
avevano certo il popolo dalla propria parte. Katerina fu la prima a capire che
non avrebbe potuto garantire a lungo il trono alla famiglia regnante se non
avesse creato un consenso intorno alle scelte politiche degli zar. Erano
necessari quelli che Gramsci chiamava “intellettuali organici”, vale a dire
persone influenti che si riconoscessero nella Weltanschauung (Ideologia,
visione del mondo) della classe al potere e che facessero da cinghia di trasmissione,
da intermediari fra il vertice e la base della società: il loro compito sarebbe
stato quello di diffondere anche ai ceti più infimi i valori di coloro che
erano al vertice. Quegli stessi valori sarebbero così diventati dominanti. Per
Gramsci, intellettuali sono tutti coloro che hanno a cuore le sorti della
società e non solo scrittori, pittori e insegnanti. Al giorno d’oggi, gli
intellettuali organici lavorano per lo più in televisione. Fino all’avvento
della società di massa, gli artisti e i rappresentanti del clero erano coloro
che creavano miti e ideologie per tutta la società (la poesia vino di servi; la serviva Vassilissa, ai tavoli, nelle
cantine di Tomsk). Nella Russia del XVIII secolo cominciarono a ruotare
intorno alla figura di Katerina i cosiddetti “dvoriani”, vale a dire
funzionari, scrittori, scienziati, mercanti che frequentavano la corte del
Palazzo d’Inverno (“dvor” in russo vuol dire cortile, anche nel senso più ampio
di corte) e a cui la zarina regalava, in cambio della loro fedeltà, terre e
titoli. In Russia prendeva vita per la prima volta nella storia
un’intellighenzia a cui era affidato il compito di conferire prestigio ed
egemonia alla classe dominante. Gli zar successivi però non furono illuminati
come Katerina e molti “dvoriani” si trovavano spesso in contrasto con la
famiglia regnante, e per questo finivano in Siberia, in carcere. Il sistema
messo a punto da Katerina, inoltre, funzionava perfettamente fino agli Urali;
al di là del confine fra Europa e Asia, però, non era possibile controllare
così bene il popolo. La terra era troppo povera per essere regalata ai “dvoriani”
locali. Allora come oggi, la Siberia e il Lontano Oriente russo avevano e hanno
altre esigenze rispetto a Mosca e a San Pietroburgo. In più, già da secoli il
potere esiliava in Siberia i propri nemici: certe idee sovversive, legate a
ideali democratici e repubblicani, si erano davvero diffuse, anche fra i ceti
più bassi della popolazione. Come portare, se non definitivamente, almeno
efficacemente a termine il processo di colonizzazione? Semplice: bastava
sostituire i “dvoriani” con i “cinovniki”, vale a dire con i burocrati. Se non era
possibile controllare il territorio grazie alle ideologie dominanti (in Siberia
nessun concetto è assoluto, da queste parti anche nozioni come “Dio” e “patria”
sono relative), si potevano usare montagne di carta e di timbri. A ogni azione
che il cittadino, o meglio, il suddito compiva, seguivano o precedevano decine
di documenti, che attestavano, registravano, schedavano, descrivevano,
controllavano. Alla lunga, questo sistema sfibrante (che funziona ancora oggi,
senza il timbro in Russia non sei e non sarai mai nessuno) ha portato i suoi
frutti, soprattutto durante gli anni staliniani durante i quali alla burocrazia
si associò nuovamente il terrore, come ai tempi di Ivan il Terribile. Né i
“cinovniki” né il comunismo sono riusciti però a piegare del tutto quello
spirito libertario e rivoluzionario che ancora oggi si respira in Siberia e
che, anche sotto il pugno di ferro di Vladimir Vladimirovich Putin, i cittadini
esternano con la loro pungente ironia e la loro fortissima energia vitale. Ciò
che è rimasto dei tempi antichi, l’eredità dei decabristi e di tutti coloro che
erano stati esiliati, è una tendenza alla critica, all’analisi profonda della
realtà che ci circonda, e non solo da parte degli intellettuali, ma di quasi
tutto il popolo. Cosa non da poco nel mondo attuale, dove le ideologie
dominanti (soprattutto quelle neoliberiste) si impongono ovunque con estrema
facilità.
Siberia occidentale |
(I campi
di cereali ingialliscono lentamente e si piegano al vento dell’ovest, che muove
anche la chioma delicata e nobile delle betulle. I pini prendono a poco a poco
il sopravvento sulle coltivazioni; è lì che inizia la taiga, il bosco che copre
le latitudini intermedie della Siberia per poi lasciare spazio alla tundra,
dalle erbe basse e dai licheni che crescono sulla terra e sul permafrost.
All’estremo nord, oltre il Circolo Polare Artico, c’è una città, Norilsk, in
cui d’inverno il termometro raggiunge i meno 40 gradi centigradi e che rimane
isolata dal resto del mondo per alcuni mesi. È un centro nato alla fine degli
anni Trenta e vive dell’estrazione del petrolio e del gas. Dopo il crollo
dell’URSS, Norilsk subì un calo demografico notevole. Negli ultimi anni, oltre
agli ingegneri di Lukoil e di Gasprom che accettano di trasferirsi nel nord
della Siberia in cambio di paghe molto alte e di un appartamento a Mosca, a
Norilsk sono arrivati anche gli immigrati dalle ex Repubbliche sovietiche
dell’Asia centrale: giovani tagichi, kirghisi e uzbeki hanno aperto bar e
ristoranti, negozi di frutta e verdura, rivendite di abbigliamento. Norilsk
conosce così una rinascita senza precedenti, che fa di questa città dura e
isolata un luogo vivibile, dove alcune famiglie moscovite, arrivate per motivi
di lavoro, decidono di rimanere per sempre.
Da Strezhevoj, invece, un centro di 40.000 abitanti che
si trova nel sud della Siberia, vicino a Tomsk, è in corso un vero e proprio
esodo. Anche Strezhevoj è una città del petrolio, esattamente come Norilsk. Le
riserve stanno però finendo e il crollo del prezzo dell’oro nero ne ha reso
troppo costosa l’estrazione. Non c’è più lavoro e molte famiglie scelgono di
emigrare. Cosa fare delle nuove generazioni, che a Strezhevoj sono nate e si
sentono a casa? Come far rivivere una città destinata tristemente a scomparire?
Sono questi i nuovi problemi della Siberia, a cui il Cremlino sta cercando di
trovare una risposta).
Nel
parco comunale di Tomsk, il professor Vladimir Vladimirovich Maksimov passeggia
insieme alla sua splendida consorte, una donna kirghisa emigrata in Siberia, e alla
sua figlioletta di 4 anni, che curiosa tocca tutto ciò che si trova davanti a
lei e si nasconde vergognosa nell’abbraccio della madre quando gli estranei le
rivolgono la parola. Magro, con la barba ispida e i capelli grigi, Vladimir
Vladimirovich insegna Scienze Siberiane al Politecnico di Tomsk. Sorride
sincero e dice che c’è solo una certezza quando si pone la questione sui
rapporti fra la Siberia e il resto della Russia: “Non potrà mai esistere una
Russia forte senza una Siberia forte. Il cuore e il motore economico della
Federazione sono qui, in questa regione infinita, insensata e ribelle”.
TOMSK
Ad Anna Stepanovna Politkovskaya
Steppa vicino ad Omsk |
Nel
sud della Siberia scorre il Tom, un fiume poco profondo il cui letto è in
determinati punti largo alcune centinaia di metri: le immense pianure russe
permettono ai corsi d’acqua di estendersi a dismisura e di scorrere in maniera
lenta e regolare. I marinai di pianura siberiani sanno che non è impossibile
guadare questi fiumi a piedi: basta spostarsi da un banco di sabbia all’altro
ed evitare di cadere nelle numerose buche che l’acqua torbida e sporca di terra
nasconde. Quando soffia il vento, la superficie del Tom si copre di spuma
bianca; l’aria cede la propria energia all’acqua, la quale prima si increspa e
poi si arcua in onde minute e giocose che si vanno a infrangere sulle rive
melmose, fra canneti, rane immobili ma guardinghe e fili d’erba tremanti. Sulla
riva destra del Tom si trova Tomsk, una città che prende il nome dal fiume su
cui sorge e che è stata capoluogo della Siberia fino al 1925, quando
Novosibirsk le strappò il primato di centro più importante della regione. La
città si presenta all’improvviso a chi arrivi dagli Urali: dopo aver
attraversato Novosibirsk, la strada statale che va verso nord scorre per circa
200 km fra campi di cereali e boschi di betulle e, oltrepassato il ponte sul
Tom, le automobili si ritrovano nel centro di Tomsk. Non ci sono periferie,
palazzi di epoca sovietica, officine, ferrovie ad annunciare il centro abitato,
che, senza pudore, si apre ai turisti, ai camionisti che hanno viaggiato per
giorni e che avrebbero voluto sistemarsi, pettinarsi e indossare una maglia
pulita prima di entrare in città. È troppo tardi: Tomsk coglie i propri ospiti
di sorpresa. A destra della strada statale, che in città si trasforma in un
largo boulevard, si estende il “Lagerni Sad”, il parco comunale nel quale,
durante l’estate, i giovani corrono con le cuffie alle orecchie, le madri
spingono carrozzine con i bambini ben coperti perché non prendano freddo e gli
scoiattoli si affacciano dai tronchi esili degli alberi in attesa che qualcuno
dei passanti getti loro del cibo. Al centro del parco c’è il monumento ai
caduti in guerra e tutt’intorno un bosco di betulle. Il “Lagerni Sad” segue il
corso del fiume Tom e costeggia la collina su cui si trova anche la città. A
ovest, il parco confina con la via Nahima che è sempre molto trafficata; a est,
invece, digrada all’improvviso verso il fiume, con pendii che per la loro
ripidità ricordano le scarpate alpine: si tratta di rarissime (da queste parti)
rocce marine; ciò che rimane di un passato lontano completamente cancellato
dalla millenaria erosione del suolo. Nel paleozoico, infatti, quest’area della
Russia centrale era coperta dalle acque dell’oceano, che si sono ritirate già
nel mesozoico, a causa dei processi orogenetici in corso nella zona degli Altai
e che crearono delle alture anche nella Siberia meridionale, simili a quelle
che oggi caratterizzano le zone europee prealpine della Germania. Tutto quello
che resta di quel lontano periodo e di quelle montagne sono i pendii del
Lagerni Sad, all’interno dei quali sono rimasti imprigionati gli scheletri di
animali marini estinti, ora pietrificati in fossili che ogni tanto gli
archeologi portano alla luce. La città, però, non ha conosciuto questi
drammatici cambiamenti geologici, che risalgono a epoche in cui l’essere umano
non era ancora comparso sulla terra. Tomsk è stata fondata nel 1604; per il
pianeta, 400 anni sono un come un battito di cuore per l’homo sapiens; il tempo
scorre in maniera differente, per le pietre, per gli uomini e per gli altri
animali. Meglio che la mente non si addentri nei cuniculi del tempo, meglio
vivere l’illusione del presente, che sembra immobile, come l’acqua del Tom
vista dall’alto. Meglio abbandonarsi e seguire il flusso di auto e di pedoni
del boulevard Lenin, l’importante arteria che collega il “Lagerni Sad” alla
periferia nord della città. Il boulevard è lungo 7 km e segue il corso del Tom
che, dopo aver piegato verso est per costeggiare con un’ansa larga e ariosa il
Lagerni Sad, vira verso sud. I rari filobus e la miriade di furgoni privati che
sostituiscono il quasi inesistente trasporto pubblico percorrono per interno il
boulevard e passano davanti al Politecnico, all’edificio in stile neoclassico
dell’Università Statale, alla piazza Novosaborskaia con il suo parco e la sua
elegante fontana, alle Poste centrali, al Teatro, alla Filarmonica che si trova
accanto al Municipio di cemento e di vetro. Più giù, le case si fanno anonime,
bianche e basse, e si confondono con il cielo incolore per via dell’umidità
estiva che smorza tinte e odori in una soffocante omogeneità acquosa. Una
quinta monotona e circolare sembra chiudere la città all’orizzonte e separarla
impietosamente dal resto del mondo; il cielo è immobile, metafisico, mentre nel
boulevard Lenin il moto di auto e pedoni sembra essere perpetuo. La giunta
comunale ha intenzione di spostare le principali attività economiche e
commerciali nel boulevard Frunze, che costituisce il decumano di Tomsk, mentre
il boulevard Lenin ne è il cardo; l’arteria attualmente più trafficata della
città diventerebbe così una piacevole passeggiata, incassata fra il fiume e i monumenti
storici che la delimitano. A sinistra del boulevard Lenin, lungo il fiume, si
trova il quartiere tataro: i Tatari, l’ultima popolazione musulmana al di là
degli Urali a opporre una strenua resistenza alla colonizzazione della Russia
cominciata ai tempi di Ivan il Terribile, vivono a Tomsk da secoli e si
riuniscono nella loro moschea. La convivenza con i russi ortodossi è sempre
stata pacifica.
A
destra del boulevard ci sono edifici nuovi in costruzione, dietro i quali si
estende il nucleo storico di Tomsk; qui è possibile imbattersi nelle case in
legno più antiche dell’intera Siberia. Alcune abitazioni sono sobrie, costruite
con semplici travi portanti e assi; altre invece sono estremamente complesse,
con architravi arricchiti di fregi, lunette, capitelli intagliati, che per
eleganza ricordano i palazzi romani dal bugnato in pietra. Le case dei polacchi
– una delle molte etnie presenti in Siberia, arrivati durante gli anni in cui
Stalin era al potere e disperdeva i nemici del popolo su tutto il territorio
dell’URSS – sono particolari: hanno infatti una sorta di torre svettante che le
fa somigliare a un castello.
In
una via parallela al boulevard si snodano le rotaie del tram, costituito da un
solo vagone, rosso, che trema e si scuote al passaggio. Se guardati nella loro
infinita lunghezza, i binari sembrano non essere paralleli, ma spostarsi
continuamente a destra e a sinistra. In realtà, si tratta di un’illusione
ottica: la ferrovia urbana, infatti, è composta da singoli pezzi di una decina
di metri ciascuno che non sono posizionati alle stessa altezza: il suolo della
Siberia, che si gela e scongela a seconda della stagione, costringe le rotaie a
innalzamenti e abbassamenti continui. La conseguenza è che il tram non ha
un’andatura regolare e obbliga i passeggeri a reggersi ai sostegni di ferro in
ogni momento della corsa e ad aspettare con ansia la fermata successiva, come
fosse un’isola di tranquillità nel mare in tempesta siberiano. Il tram in sosta
ricorda una barca spinta sulla sabbia nella sua raggelata e improvvisa
immobilità. Dopo la chiusura delle porte, un ronzio sordo annuncia la partenza;
il vagone-nave di ferro torna a scuotere le persone, gli oggetti, persino le
lampade rettangolari al neon che non siano bene avvitate al tettuccio. Uno dei
due capolinea del tram si trova alla periferia nord di Tomsk, al Bazar, un
quartiere abitato prevalentemente da immigrati centro-asiatici, che sono
l’anima del grande mercato che si trova proprio in questa zona. Kirgisi, Uzbeki
e soprattutto Tagichi vivono nelle vecchie case in legno che costeggiano la via
Bol’saia e si occupano di commercio: importano frutta e verdura dalla propria
terra per venderle qui, nella gelida e poco fertile Siberia. La via Bol’saia è
larga, senza marciapiedi, al centro ci sono le rotaie incassate nella sede
stradale e non è affatto facile salire sul tram. Non ci sono pensiline,
banchine, neppure un cartello sospeso alla linea elettrica o appeso a un palo
di sostegno a segna(la)re le fermate collocate a distanza regolare l’una dall’altra.
Durante l’estate, la polvere copre con un fastidioso e incerto manto marrone i
bordi della via; il vento alza all’improvviso lingue di sabbia, che investono
passanti e ciclisti, i quali inutilmente cercano di proteggere gli occhi. I
granelli minuscoli di terra, i cristalli quasi invisibili dell’antico suolo
siberiano ormai nebulizzato, si insinuano nelle palpebre e irritano la cornea,
che brucia e lacrima a lungo. L’asfalto è cosparso di buche che gli acquazzoni
estivi riempiono di acqua piovana. D’inverno, invece, il suolo si ghiaccia e la
polvere rimane immobile, prigioniera della terra fredda, dura e pesante.
Eppure, la via Bol’shaia ha una bellezza affascinante: le chiome degli alberi
coprono a ombrello la strada, la stringono in un abbraccio verde, protettivo e
rassicurante. Alcuni kirghisi, con indosso cappelli di feltro finemente
ricamati, siedono davanti alla propria casa, bevono il tè, parlano e ridono ad
alta voce. Alla fermata del tram cinque donne rom, magre, dai capelli neri,
consapevoli e fiere della propria bellezza, stanche di aspettare fermano con un
gesto della mano rapido e deciso un taxi di passaggio. Una ragazza molto
giovane è appoggiata con la schiena al muro della piccola rivenditoria in cui
lavora: fuma svogliata una sigaretta e mostra ai passanti la piramide verde e
striata dei cocomeri che si trova davanti ai tre scalini di accesso al negozio.
Dall’altra
parte della città, all’altro capolinea del tram, il fascino del Bazar si perde
nei palazzi di epoca socialista e nei giganteschi ingorghi automobilistici che
rendono Tomsk indistinguibile da tutte le altre città dell’impero sovietico. La
stazione ferroviaria Tomsk I è un edificio giallo, il cui interno è quasi
deserto. Tomsk non si trova lungo la linea transiberiana e il traffico è
soprattutto merci: il legno, il petrolio e il carbone che vengono dal nord
della Siberia passano di qua; i convogli si fermano per qualche secondo al
segnale di ingresso e poi proseguono verso Novosibirsk. Da lì continuano il
proprio viaggio alla volta di Mosca o del Lontano Oriente Russo. L’edicola di
Tomsk I è l’unica in tutta la città a offrire agli acquirenti il giornale
indipendente “Novaya Gazeta”, in cui lavorava Anna Politkovskaya, uccisa 10
anni fa davanti al suo appartamento nella capitale russa. A Tomsk si respira
aria di libertà, come d’altra parte nel resto della Siberia. Tomsk è una città
studentesca, forse è troppo pericoloso diffondere “Novaya Gazeta” da queste
parti, o forse il problema è semplicemente legato alla cattiva distribuzione:
“Novaya Gazeta” è un giornale a tiratura limitata e non riesce a coprire
completamente il territorio nazionale. A Tomsk si trova anche la più grande
clinica psichiatrica della Siberia. La pazzia è contagiosa; meglio isolare i
malati e persino i troppo sani di mente lontano dalla grande via di
comunicazione della Transiberiana. Il sindaco di Tomsk Ivan Kljajn appartiene
al partito del Presidente Vladimir Vladimirovich Putin ed è anche il
proprietario della birreria “Tomskoe pivo”, che rifornisce di birra, acqua e
bibite gassate l’intera Siberia. La famiglia Kljajn ha acquistato dallo Stato
l’azienda subito dopo il crollo dell’URSS e l’ha gestita in maniera esemplare,
salvandola dall’infame destino a cui sono andate incontro molte altre fabbriche
dell’impero sovietico: vendute ai privati per pochi spiccioli, sono state
spesso oggetto di sciagurate operazioni finanziarie o di svendite di macchinari
che le hanno portate al fallimento e poi alla chiusura. La birreria si trova
vicino al quartiere tataro e dà lavoro a decine di persone. Tomsk, il suo primo
cittadino e la giunta comunale hanno anche saputo reagire alla
deindustrializzazione seguita alla crisi degli anni Novanta. Hanno deciso
infatti di investire nell’istruzione e nella ricerca scientifica, facendo della
città un centro universitario di primaria importanza. Tutte le Università di
Tomsk sono di qualità eccellente; nel momento in cui la Siberia è in recessione
per via delle sanzioni imposte a Mosca dall’Occidente e a causa del calo del
prezzo del petrolio, questo centro di 400.000 abitanti si difende egregiamente
offrendo a centinaia di giovani – non solo russi, ma anche cinesi, coreani e
centro-asiatici – la prospettiva di acquisire competenze e saperi di ogni
genere, sia teorici sia pratici. Come ovunque nel mondo, anche a Tomsk le
Università vengono in parte finanziate da ditte private, in particolare da
Lukoil e Gasprom, i giganti russi del petrolio. Nell’atrio del Politecnico,
alcuni studenti bevono un caffè nei bicchieri di plastica marrone di un
distributore automatico e si chiedono se la dipendenza economica degli istituti
di ricerca dai privati non metta in discussione il pensiero critico, che
dovrebbe essere appannaggio di tutti coloro che lavorano e studiano
all’Università, indipendentemente dal fatto che si tratti di Facoltà
scientifiche e umanistiche.
Già
a ottobre a Tomsk cade la prima neve. A causa dei cambiamenti climatici, anche
in Siberia fa sempre più caldo. Ma quando, dopo le arsure estive, la città si
sveglia di bianco, il rumore del boulevard Lenin si attenua improvvisamente,
gli odori si spengono, l’aria ritrova purezza
e trasparenza. La terra e le rocce del “Lagerni Sad” si ammorbidiscono,
scompaiono sotto la coltre candida e leggera e dimenticano tutti gli anni, i
secoli, i millenni della loro troppo lunga esistenza.
(Tomsk,
Novi Sad – estate 2016, inverno 2017) Castro, scorre musica a fiumi tra mille luci colorate
Iniziano le vacanze nel Salento dei due mari
di
Carmen Mancarella
Carmen in rosso e giornalisti |
Si accendono mille luci colorate, il cielo si veste di
fuochi d’artificio, scorre musica a fiumi. Con la Festa in onore della Madonna
dell’Annunziata a Castro iniziano le vacanze nel Salento dei due mari. Ci sarà
da ballare tutte le sere la pizzica nelle piazze, bere buon vino, degustare
prodotti tipici e divertirsi nella magica primavera - estate 2017.
Ad aprire le danze è Castro sul Mar Adriatico.
Il 23, 24 e 25 aprile di ogni anno ricorre la grande
Festa che inaugura la lunga serie di eventi di tradizione nel Salento. Ce ne
saranno uno per ogni week end di primavera e poi addirittura uno ogni sera
d’estate. E si avrà solamente l’imbarazzo della scelta, non sapendo dove andare
prima per ballare e condividere con la gente del posto la gioia di vivere. All’inaugurazione
delle vacanze 2017 hanno partecipato giornalisti esperti di eventi, moda e
turismo provenienti da India, Germania, Francia e Italia ospiti del Comune di
Castro grazie al bando ospitalità della Regione Puglia nell’ambito dei POR
FESR-FSE 2014-2020, Asse VI, Azione 6.8.
Castro sfilata storica |
A Castro la
Festa inizia nel pomeriggio del 24 con la sfilata storica: gli abitanti
indossano abiti medioevali e fanno fare ai visitatori un salto nel tempo,
quando la città era una contea e il conte con i nobili e i cortigiani
festeggiavano la Madonna deponendo ai suoi piedi un cesto di fiori.
Subito dopo avviene la degustazione de “lu pisce a
sarsa”. Si tratta di vope (in dialetto ope) fritte cosparse di aceto e mollica
di pane. Era il piatto tipico dei pescatori i quali conservavano il pesce
azzurro nell’aceto per non farlo andare a male. E oggi questa gustosa pietanza
viene offerta gratuitamente agli ospiti. E’ considerata la variante della
scapece gallipolina, dove il pesce piccolo viene fritto e lasciato macerare
nell’aceto e colorato con lo zafferano.
All’imbrunire
si accendono le mille luci colorate delle luminarie, impalcature di legno che,
con i loro ghirigori, si ispirano al barocco leccese. Le ditte del Salento sono
uniche in Italia tant’è che vengono chiamate anche all’estero per decorare i
centri commerciali e le grandi vie delle capitali europee e del mondo come
Parigi, Hong Konk e Tokyo.
Il
cielo si colora di fuochi d’artificio e la banda intona i grandi capolavori
della musica lirica italiana. Quest’anno variante in swing con Conturband, una
banda di giovanissimi originaria di Turi che propone i grandi classici della
musica internazionale e pizzica con i giovani di Castro. Intanto cresce
l’attesa per i fuochi d’artificio: si sfidano ben quattro ditte per ottenere
l’ambito premio e avere anche l’onore di ritornare a Castro. Lo spettacolo dura
due ore: dalle 21 alle 23 ed è bello assistervi e commentare con la gente del posto.
Castro passeggiata panoramica |
Al
mattino si celebra un rito religioso molto intenso: la processione in onore
della Madonna dell’Annunziata che attraversa tutte le vie del paese! Il sindaco
consegna le chiavi della città alla Madonna e anche durante la processione, in
pieno giorno, vengono sparati fuochi d’artificio in segno di festa. La statua della Madonna con l’Angelo,
restaurata di recente, è essa stessa un capolavoro. Venne realizzata dal grande
maestro della cartapesta leccese Maccagnino
nell’800 e viene conservata nella chiesa madre assieme ad altri
capolavori dell’arte sacra, in cartapesta, come la Statua della Madonna
Addolorata e del Cristo Risorto, firmato dall’altro grande maestro della
cartapesta leccese Manzo.
Ma
Castro è bella da vivere tutto l'anno. Ogni anno la città richiama migliaia di
turisti grazie alla Grotta Zinzulusa e al fascino del suo centro storico,
entrambi visitabili con guida grazie al biglietto unico (8 euro) che permette
l’ingresso in grotta (sia via mare che via terra) e al rinnovato Museo Archeologico
dove si può ammirare l’imponente busto della Dea Minerva, cui era dedicato il
tempio.
La
Grotta Zinzulusa deve il suo nome ai pescatori: vedendo da lontano le
stalattiti che pendevano dal soffitto come tanti stracci, i pescatori la
soprannominarono la Zinzulusa (dal dialetto zinzuli che vuol dire stracci). Le
stalattiti e le stalagmiti assumono le forme più fantasiose: la torre di Pisa, il Duomo… ancora adesso vivono in
grotta specie di cui si ha traccia sin dalla preistoria, i gamberi ciechi!
Salendo
poi per il centro storico si attraversa la piazza, dove sono visibili i resti,
le colonne e gli affreschi dell’antica chiesa bizantina, sulle cui rovine è
sorta poi l’attuale chiesa madre, sede per un certo periodo anche del
Vescovado. Ma è appena dietro l’angolo che Castro sfodera ancora un altro
gioiello: le rovine del tempio della Dea Minerva che dominava la città e le
imponenti mura messapiche che si possono ancora oggi ammirare. A scoprirle
assieme al busto della Dea Minerva l’equipe guidata dal professore Francesco
D’Andria.
“Castro”,
dice il professore “era un grande emporio commerciale, proteso sul
Mediterraneo, una città molto famosa nel Mondo Antico, tanto che Virgilio nel
III libro dell’Eneide la cita, facendovi approdare l’eroe Troiano, Enea, che
avrebbe dato i natali a ROMA. L’imponente statua della Dea Minerva è stata
trovata sepolta in un cassettone di pietra tra le rovine del tempio, un tempio
molto imponente a giudicare anche dalle decorazioni in pietra leccese che sono
state trovate”.
IN
OTTOBRE LA DEA MINERVA DI CASTRO IN MOSTRA NELL’ARA PACIS A ROMA. “La Statua e
le decorazioni del tempio saranno in mostra in autunno nell’Ara Pacis”,
annuncia il sindaco, Alfonso Capraro. “Sarà l’occasione per far conoscere
ancora di più la nostra bella Castro che attrae ogni anno sempre più turisti.
L’anno scorso abbiamo registrato un aumento del 7,7 per cento. Puntiamo non
solo sul turismo balneare, grazie al nostro splendido mare, dove sventola ormai
da anni la Bandiera Blu, ma anche sul turismo culturale avendo arricchito
l’offerta con l’apertura del museo archeologico nel castello, proprio nel cuore
del centro storico”.
Imperdibile
è la visita al museo archeologico per ammirare la Statua della Dea Minerva
e la romantica passeggiata lungo le mura
del castello dove lo sguardo si perde tra gli ulivi e l’orizzonte.
Castro giornalisti in posa davanti al busto di Minerva |
ROCA
VECCHIA. Per conoscere sempre più a fondo le storie dei popoli che abitavano e
abitano sulle sponde del Mediterraneo, non può mancare una visita all’area
archeologica di Roca Vecchia, definita la Micene del Salento. Era un villaggio
abitato dall’Età del Bronzo fino all’alto Medioevo, al centro di numerosi
scambi commerciali e culturali. Lo stanno rivelando gli scavi condotti
dall’Università del Salento da diversi anni, avviati dal professore Cosimo
Pagliara e oggi condotti da un’equipe di giovani archeologi. “Roca era un
importante approdo per le genti che solcavano il Canale d’Otranto, dove i
locali convivevano con gli abitanti provenienti da Mykonos”, spiega
l’archeologo Nico Scarano.
Il
sito è aperto tutti i giorni dal lunedì al venerdì e dalle 8 alle 16.30 per
visite guidate gratuite come ha annunciato l’assessore al turismo del Comune di
Melendugno, Anna Elisa Prete che aggiunge: “Il Comune di Melendugno si è
posizionato al terzo posto per aumento dei flussi turistici in tutta la Regione
Puglia. Vogliamo mantenere questo trend positivo migliorando sempre di più la
qualità dell’offerta turistica”.
Grotta Poesia |
A
pochi passi dal sito archeologico si trova la Grotta della Poesia piccola: era
un Santuario dove i naviganti del Canale d’Otranto scrivevano le loro preghiere
in ben tre lingue: il greco, il latino e il messapico. Invocavano il dio Tutor
latino, Thaotor greco, Thator messapico perché li conducesse sani e salvi
sull’altra sponda del mare.
La
Grotta della Poesia piccola (non visitabile) è collegata via mare alla Grotta
della Poesia grande, dove avvengono ogni estate spettacolari tuffi. I lettori e
i giornalisti del National Gepgraphic l’hanno definita tra le dieci piscine
naturali più belle al mondo! E un hotel lì di fronte è diventato un caso
studiato da google: in una stessa settimana sono arrivati turisti provenienti
da 80 nazionalità diverse!
Ma
se a Roca la costa si caratterizza per le scogliere, le Marine di Melendugno
sono famose anche per le morbide e bianche spiagge che vanno da Torre Specchia
con San Basilio a San Foca (le Fontanelle e Li Marangi) fino a Torre dell’Orso,
una delle baie più belle al mondo, racchiusa da due falesie e con una pineta
che le fa da chioma. Definite dall’Associazione pedriati italiani a Misura di
Bambino, sulle spiagge sventola Bandiera Blu del Fondo sociale europeo per lo
sviluppo e per l’ambiente e Bandiera Gialla di Legambiente.
A
Torre Sant’Andrea la Natura si è divertita a giocare con gli scogli. Ecco i magnifici
faraglioni: lu Pepe a forma di Arco e l’Italia a forma di Stivale mentre la
Sfinge protegge con il suo sguardo i piccolo villaggio dei pescatori.
area archeologica |
Di
giorno un tuffo nelle spettacolari acque di Castro e di Melendugno, la sera a
ballare la pizzica nelle piazze o ad ascoltare la banda tra mille luci
colorate.
Salento,
una vacanza indimenticabile.
Castro luminarie e fuochi |
Mura messapiche |
Processione |
Veduta panoramica |
***
PAVIA: SAN PIETRO IN CIEL D’ORO
di Fabio Greggio
San Pietro in Ciel d'Oro |
Esiste una chiesa a Pavia che rappresenta
il destino di Pavia: San Pietro in Ciel d'Oro, menzionata da Dante nella
Divina Commedia (Paradiso, X) e da Petrarca (lettera a Boccaccio, 1365). La
chiesa pavese è ben nota: in essa Boccaccio ambienta un episodio della
penultima novella del Decameron. Un
gioiello che da sola farebbe la fortuna di una città. Vi sono sepolti Sant'Agostino
e San Severino Boezio. Se ciò non bastasse accanto ai Santi anche i principi vi
trovarono sepoltura, da Re Liutprando a Galeazzo II Visconti e al figlio
Gian Galeazzo. Ed essa, come Pavia, racchiude in se la Storia importante
che ha segnato parte del mondo allora conosciuto, ma, inspiegabilmente come
Pavia, caduta nell'oblio e nell'indifferenza di tutti, primi fra tutti i Pavesi
di cui i più ignorano chi sia sepolto in questa chiesa così appartata e senza
campanile, distrutto da Napoleone che la sconsacrò e la ridusse a bivacco e a
magazzino, dopo averla depredata. È probabile che la chiesa sia stata fondata,
nella zona extraurbana del cimitero romano, a poca distanza di tempo dal
martirio di Severino Boezio (525), le cui spoglie vi dovettero essere traslate
assai presto. Di certo sappiamo che esisteva nel 604 a Pavia una basilica di San
Pietro apostolo, citata da Paolo Diacono, ma non ne conosciamo le forme né
l'ubicazione precisa. Tra il 723 e il 725 il re longobardo Liutprando rinnovò
la basilica, detta allora «in cielo aureo» forse per un soffitto ligneo dorato
o per un mosaico absidale a fondo oro, e vi collocò con tutti gli onori, in una
cassetta d'argento, il corpo di Sant'Agostino, che aveva fatto trasportare
dalla Sardegna a Pavia capitale del regno. Lo affidò alle cure di una comunità
monastica benedettina, istituita in San Pietro in Ciel d'Oro, dove lo stesso re
ebbe poi la propria sepoltura (oggi ricordata da un'epigrafe nel pilastro
sud-occidentale che regge la cupola). A sua volta Carlo Magno diede impulso a
una scuola di studi superiori ospitata nel monastero, nella quale nell' 825
quasi certamente insegnò il monaco irlandese Dungallo. Si trattava di una
scuola di grammatica e di retorica ad altissimo livello: vi si conservavano e
copiavano codici antichi, primo nucleo della biblioteca che fiorì per secoli
presso il monastero (in età moderna saccheggiata fino alla completa
dispersione). Papi e imperatori concessero donazioni e privilegi che tra l'
VIII e il XIV secolo ne fecero uno dei più potenti e significativi centri
culturali e religiosi del Medioevo europeo. Vi furono ospitati importanti
personaggi come San Maiolo e l'imperatore Enrico II.
La chiesa altomedioevale fu totalmente ricostruita tra XI e XII secolo, con una lunga fase costruttiva da ancorare al 1132, data della consacrazione celebrata in occasione del passaggio di Papa Innocenzo II. Intanto la città si era allargata e la nuova cinta muraria (fine XII secolo) aveva abbracciato anche il sedime di San Pietro in Ciel d'Oro, che rimaneva tuttavia in un'area (la cittadella) separata dal nucleo urbano più antico. Nel 1221 i Canonici Regolari subentrarono ai Benedettini e nel secolo successivo (1327) anche gli Agostiniani Eremitani costruirono il loro convento a sud della basilica. Da allora le due comunità religiose si affiancarono nell'officiatura della chiesa. Con le soppressioni dei due conventi (1785) incominciò il declino e molti capolavori andarono dispersi o distrutti. Napoleone nel 1803 destinò a palestra e scuola di artiglieria le strutture conventuali a nord e mise in vendita la chiesa stessa, che divenne magazzino di combustibili e foraggi per le truppe. Un primo salvataggio fu eseguito dal vescovo Luigi Tosi che riuscì a ottenere per qualche tempo l'ex convento lateranense per il Seminario Vescovile (dal 1829 al 1859) e salvò la chiesa dalla demolizione. Nel 1859 però il Ministero della Guerra si riappropriò del convento per farne un ospedale militare. La trascuratezza provocò il crollo della navata destra e nel 1877 crollarono le volte addossate alla facciata. Furono distrutti quasi totalmente anche i chiostri meridionali. Finalmente nel 1884 si avviò il restauro della chiesa, inizialmente mirante alla ricostruzione delle parti crollate, soprattutto col fattivo apporto della Società per la Conservazione dei Monumenti dell'Arte Cristiana in Pavia; nel 1894, grazie allo stanziamento che Luca Beltrami ottenne dal Ministero, l'architetto Angelo Savoldi provvide alla ricostruzione della cripta. La riapertura al culto avvenne nel 1896 e dal 1900 una comunità di Agostiniani è tornata a officiare la basilica e abita strutture conventuali nuovamente costruite sulla sua destra, mentre l'edificio tardo barocco del monastero dei Canonici lateranensi sulla sinistra è affidato ai Carabinieri.
L'arca di Sant'Agostino
Opera di grandissima importanza religiosa, storica e artistica, il monumento funebre di impianto rettangolare a tre ordini ha come precedente l'arca di San Pietro Martire in Sant'Eustorgio a Milano. Fu progettata forse già prima del 1350 ed eseguita in buona parte da un gruppo di scultori lombardi della seconda metà del XIV secolo, maestri campionesi influenzati dal pisano Giovanni di Balduccio. Concepita per essere collocata al centro della sacrestia meridionale (non più esistente), con la possibilità di circolarvi intorno, fu smontata e rimontata più volte, trasferita in Duomo, e infine ricollocata nella chiesa nel 1900. Nel basamento, datato 1362, i riquadri con Apostoli e Santi sono divisi dalle figure allegoriche delle Virtù teologali, cardinali e monastiche. Al di sopra la cella, aperta da otto archi, lascia intravedere la figura del Santo disteso circondato da sei diaconi che sollevano il lenzuolo funebre. Nella volta il Cristo benedicente accoglie l'anima di Agostino nella gloria degli angeli e dei santi, nel momento del trapasso, rappresentato come rinascita gloriosa alla vita eterna. Nel terzo livello, otto riquadri e dieci formelle triangolari presentano scene della vita, dei miracoli e traslazione delle spoglie. Il racconto inizia sul lato frontale, da sinistra:
1. Agostino assiste a una predica di Ambrogio;
2. Conversa con Simpliciano, poi mentre medita sotto un albero gli appare l'angelo che lo invita a leggere;
3. Riceve da Ambrogio, l'abito del neo battezzato insieme a suo figlio Adeodato, alla presenza di Monica. Sul lato corto di sinistra: Agostino in cattedra tra Milano e Roma, le due città dove tenne il suo insegnamento.
Nel lato lungo posteriore, da sinistra:
1. I funerali della madre Monica a Ostia;
2. Agostino presenta la Regola;
3. Vescovo catechizza e battezza un gruppo di giovinetti.
Sul lato corto, da destra:
1. Traslazione del corpo di Sant'Agostino dalla Sardegna (avvenuta nel 724);
2. Arrivo a Pavia e solenne entrata nella chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro.
Nelle formelle triangolari di coronamento, a partire da sinistra, con la stessa sequenza:
1. Agostino libera un carcerato;
2. lo conduce alla sua casa;
3. Libera un'indemoniata.
Sul fianco destro:
1. Apparizione a quelli che, andando a Roma per essere guariti, sono avvisati la notte di visitare a Pavia la sua chiesa (miracolo di Cava Manara);
2. Vengono risanati (è rappresentata la chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro).
Si concentrano così sul lato destro, cioè dalla parte della testa del Santo, le quattro formelle con gli episodi pavesi. Sul lato lungo posteriore:
1. Preghiera e conversione di un eretico;
2. Conversione di eretici (raffigurati con i piedi di pollo);
3. Agostino muore a Ippona.
Sul lato sinistro:
1. Guarigione del cavaliere di Ippona a cui doveva essere amputata una gamba;
2. Un gruppo di persone davanti a una chiesa (forse pellegrini che vanno alla tomba del Santo).
La cripta
Distrutta nel Settecento, la cripta fu ricostruita alla fine del XIX secolo seguendo l'impronta di quella antica. È stato ricostruito anche il pozzo dal quale sgorgava acqua di prodigiose virtù. I capitelli sono stati realizzati dai restauratori ottocenteschi in stile bizantino-ravennate, come il piccolo sarcofago con le reliquie di Boezio. Nella cripta erano nascoste, in un riempimento di muro dietro l'altare, le spoglie di Sant'Agostino, racchiuse in un'urna argentea, con crocette funebri longobarde in lamina d'oro. Rinvenute nel 1695, sono ora conservate nell'altare maggiore. Agostino, nato a Tagaste in Numidia nel 354 e morto nel 430 a Ippona, di cui era vescovo, fu docente prima a Cartagine, poi a Roma e quindi a Milano dove si convertì ascoltando sant'Ambrogio. Tornato in Africa dopo la conversione affiancò all'attività pastorale un'intensa attività culturale producendo una serie di opere di grande rilievo nella storia del pensiero filosofico e religioso dell'Europa fino ancora ai giorni nostri. Anicio Manlio Torquato Severino Boezio, senatore e filosofo, fu fatto imprigionare da Teodorico a Pavia, dove scrisse il De consolatione philosophiae, e dove morì nel 525.
***Distrutta nel Settecento, la cripta fu ricostruita alla fine del XIX secolo seguendo l'impronta di quella antica. È stato ricostruito anche il pozzo dal quale sgorgava acqua di prodigiose virtù. I capitelli sono stati realizzati dai restauratori ottocenteschi in stile bizantino-ravennate, come il piccolo sarcofago con le reliquie di Boezio. Nella cripta erano nascoste, in un riempimento di muro dietro l'altare, le spoglie di Sant'Agostino, racchiuse in un'urna argentea, con crocette funebri longobarde in lamina d'oro. Rinvenute nel 1695, sono ora conservate nell'altare maggiore. Agostino, nato a Tagaste in Numidia nel 354 e morto nel 430 a Ippona, di cui era vescovo, fu docente prima a Cartagine, poi a Roma e quindi a Milano dove si convertì ascoltando sant'Ambrogio. Tornato in Africa dopo la conversione affiancò all'attività pastorale un'intensa attività culturale producendo una serie di opere di grande rilievo nella storia del pensiero filosofico e religioso dell'Europa fino ancora ai giorni nostri. Anicio Manlio Torquato Severino Boezio, senatore e filosofo, fu fatto imprigionare da Teodorico a Pavia, dove scrisse il De consolatione philosophiae, e dove morì nel 525.
LA MAGICA INCANTATA PAVIA
di Fabio Greggio
A Pavia c'è una targa su
un muro che ricorda dove visse Ugo Foscolo. Trecento metri prima un'altra
ricorda la casa di Ada Negri, a 5 minuti dalla piccola fabbrica che fu della
famiglia Einstein e ancora si ricorda Albert che in bicicletta andava sulle
rive del Ticino. Più su abitava Alessandro Volta, vicino alla casa di Cardano.
E in una piazzetta ombrosa chiamata "della Rosa”, abitava Giosuè Carducci.
Scendendo
verso il fiume la basilica di San Michele dove venivano incoronati i Re di un
regno che si estendeva fino a Benevento e dove fu incoronato Federico
Barbarossa e Liutprando fra i te deum
dei cori e i bassorilievi di sirene e grifoni, draghi e arabeschi che ornano la
facciata da mille anni esatti.
Appena
fuori le mura la chiesetta costruita da Carlo Magno a Santa Sofia per
battezzare la figlia Adelaide, e verso nord, ad un soffio dalle mura esterne,
la cascina Repentina dove il re francese Francesco I, sconfitto nel 1525, si
rifugiò chiedendo cibo e la contadina mise insieme brodo uova e formaggio
inventando la famosa zuppa pavese portandone poi la ricetta a corte e
diffondendola nel mondo come “Soupe a la
pavoise".
Tornando
in centro trovi la cattedrale con i resti di San Siro, patrono di Pavia, la
città di San Severino Boezio sulla cui tomba fu costruita la Basilica di San
Pietro in Ciel D'oro, altra chiesa più a nord all'interno della quale sono
sepolti Sant'Agostino, una delle figure più importanti per la religione
cristiana, e Re Liutprando.
San Michele Maggiore |
Non
c'è più il palazzo imperiale di Teodorico dove visse Alboino e Teodolinda,
Rotari e Liutprando e quel Ariperto II che rubò tutto il tesoro di palazzo e
affogò in Ticino con il peso di tutto l'oro, e nemmeno la statua equestre in
faccia alla cattedrale, forse anticamente meccanica come usava a Bisanzio, ma
possiamo supporre la piazza dove venne emanato l'Editto di Rotari... e poi
ancora la casa di Spallanzani... la cripta di Sant'Eusebio... il naviglio
progettato da Leonardo che visse in città diverso tempo all'Osteria del
Saracino.
E
a proposito di Regisole... Leonardo passò molto tempo a disegnare diverse
versioni del cavallo del Regisole per progettare quello promesso a Ludovico il
Moro e quindi non ispirandosi come dice la storia al Marco Aurelio, ma alla
statua pavese difronte al Duomo..."che come più di ogni altra statua di
cavallo, sembra dotata di movimento".
E
poi c'è un'altra targa più antica che ricorda l'entrata in Pavia, dopo tre anni
di assedio, del re longobardo Alboino, che cadde da cavallo nel 572 d.C., e
quando inferocito promise razzie, il suo cavallo si rialzò e un panettiere
pavese donò lui un dolce a forma di colomba, ed essendo Pasqua, la colomba
divenne il dolce simbolo di pace e della Pasqua in tutto il mondo.
E
che dire di Francesco Petrarca di casa vicino alla piazza che oggi porta il suo
nome, in vari momenti in quella città che ormai si chiamava Pavia dal 1353 al
1361 allorché scrisse in venti epistole, contenute nel Regesto, tutto il suo
amore per Pavia facendola conoscere a tutto il mondo allora conosciuto, amore
dichiarato anche all'amico Giovanni Boccaccio in una meravigliosa lettera sulla
città, scritta in latino. Petrarca a Pavia perse il nipotino di due anni,
sepolto in una chiesa nel centro vicino alla tomba di San Zeno. Della chiesa di
San Zeno restano alcuni ruderi in piazza Guicciardi. E alla fine ti accorgi che
Pavia non è la classica città di provincia, forse nemmeno di provincia, ma
un'antica capitale, una metropoli mancata, un concentrato sconosciuto di
Storia, di quella che ha cambiato le cose, gli uomini, i tempi.
Chiesa del carmine |
Una
città con 25 mila studenti universitari su nemmeno 100mila abitanti dove hanno
studiato o insegnato nomi illustri di oggi e di ieri come Rubbia, Pannella,
Vecchioni, Goldoni, Foscolo, Volta, Forlanini, Golgi, Galvani, Goldoni e molti
altri... Nobel e inventori, scienziati e letterati, che forse passavano
frettolosi davanti all'ingresso dell'Università in Strada Nuova, dove di fronte
c'è l'antica pasticceria Vigoni che inventò la Torta Paradiso e Torta
Margherita.
Bella
da morire, misteriosa e antica, una nobile dama che ritrosa, non si lascia
scoprire, ma si dà poco alla volta fra quei vicoli nebbiosi che sanno di legno
bruciato nei camini e antiche pietre in cotto rosso come le 100 torri altissime
da far vergognare Bologna. Pavia discretamente nobile, inspiegabilmente
dimenticata, colta e dotta, romantica e ingiustamente ignorata, che ha regalato
pagine di storia immortali, che ha visto gli uomini che hanno cambiato la storia,
con il suo dialetto ricco di suoni francesi e tedeschi, quasi un milanese con i
primi soffi di emiliano, la sua storia è quella di una grande città concentrata
in strette mura e un borgo aldilà di quell’ amato fiume che a Pavia è detto
"Canàl", quasi fosse fatto da loro, tanto è pavese il Ticino. Tanto
bella che basta un po' di pioggia per diventare così magica che, se fai due
foto a caso fra i vicoli dal selciato di sassi lucido, lei ti regala immagini
irripetibili, lei che fu prima una delle capitali del Regno Ostrogoto con
Teodorico e poi per 200 anni la capitale del Regno Longobardo e quindi di quasi
tutta la penisola. Lei, che se ci passi una sera d'inverno con la nebbia nei
vicoli, scopri che è una delle città più fiabesche e misteriose d'Italia, e non
te la dimentichi più, proprio come una bellissima donna..
***
IN GIRO PER VERONA
di Lisa Albertini
Lisa Albertini ci porta magnificamente a spasso per la
sua splendida città.
Proprio
ieri l’altro passai in auto vicino al fiume tra il Parco Naturale dell’Adige e
gli ultimi due ponti cittadini, quelli oltre la zona universitaria. Con
sorpresa, vidi alcune centinaia di bianchi gabbiani in fila sull’argine. Non
saprei perché così tanti, ordinati e ben disposti a guardare verso il centro,
anziché l’acqua. Sembravano sfidare il traffico, l’andirivieni degli uffici,
attratti dai giardini sotto le mura poco distanti dalle ultime Porte. In una
seria intenzione di essere cittadini veronesi anch’essi, residenti dentro
l’ansa dell’Adige che contiene, da secoli e millenni, il centro storico. Fu
allora, che decisi come condurre in visita a Verona la coppia di amici toscani
che attendevo e avevano poco tempo a disposizione. Non è facile, in una città
come questa: passeggiando oltrepassi un ponte con i cavalli in bronzo o un
altro con i merli, esci in una piazza medievale o rinascimentale, sali su uno
scalino vecchio di secoli, scendi nel vallo sotto le mura, entri nel volto di
un palazzo o nel chiostro di un’abbazia e scopri molte difformità, scarse
similitudini, particolari inattesi un po’ dovunque, che non facilmente ti
indirizzano a un’epoca o a uno stile. Nemmeno, però, riesci a giustificare
quella sensazione di armonia nella disposizione di forme o colori e
d’accoglienza d’ambiente, che provi al primo sguardo. E ancor più si conferma,
spaziando con la vista verso i colli circostanti ricchi di verde, posti
naturalmente a fare da cornice. Pensai allora di svolgere assieme agli amici un
percorso seguendo l’ansa dell’Adige, per il quale cercare riferimenti in
secoli di cui non vi è un ricordo vivo, ma si affacciano in noi dalla memoria
d’altri, occhieggiando scorci in cui
immaginare i Veronesi d’altro tempo di cui qua e là ancora s’intuisce,
silenziosa, la presenza.
Fermi sul
marciapiede del Ponte Pietra, su cui ci siamo incontrati, nel guardare verso il
Colle S. Pietro possiamo raffigurarci alla sua sommità i Veronesi primissimi dei
quali la Storia parla, accampati sul Colle nel Neolitico e poi nell’età del
bronzo e del ferro. Cui fecero seguito i primi fondatori del vero nucleo
cittadino nell’ansa dell’Adige, l’urbs,
che si consideravano protetti, salvo le esondazioni, dalla presenza del fiume,
del quale utilizzavano acqua, forza della corrente e difese naturali. Ancora
non vi era il Ponte Pietra, costruito nell’anno, il 49 a.C. in cui a Verona
venne data da Cesare cittadinanza romana, attribuendole un agrum di 3.700 km. quadrati e definendola municipium, con il nome di Res
Publica Veronensium. Nel divenire nodo strategico di collegamento tra Roma
e il Nord Europa la città ebbe ricchezza e, in riconoscimento della sua
importanza, la costruzione di Terme e del Teatro Romano: sito sotto al Colle,
allora si estendeva sino al fiume, mentre adesso in frammezzo vi si trova una strada e l’argine, costruito
dopo l’alluvione del 1882, che alzò il fiume di ben cinque metri oltre l’usuale
livello.
Scendiamo dunque dal Ponte
e ci avviamo per il lungadige a destra, passando davanti al Teatro. Rimaniamo
subito nell’incanto della fila di antiche case colorate, vicine a sorreggersi
l’un l’altra dalla sponda opposta e proseguiamo oltre, in direzione del Ponte
Nuovo. Lo sguardo ci spazia a sinistra verso l’abitato di Veronetta, fatto di
edifici antichissimi signorili e popolari, con insospettabili giardini
nascosti, chiostri, scalette, strade e vicoli che segnavano, intorno a Via
Interrato dell’acqua morta, anche l’Isolo, reale isolotto racchiuso tra il
fiume e una sua diramazione con canali e ponticelli, strategicamente interrato
dopo la grande alluvione. Allora animato da attività artigianali di lavorazione
dei bachi da seta, legname in arrivo sui barconi dal Trentino, pelli da
conciare, oltreché da andirivieni di barche per la gente ospitava un vero
traffico, che in buona parte sfruttava la corrente del fiume da Nord a Sud con
cui, specie a partire dal X secolo d.C. si animavano pure le pale dei mulini
natanti, che immaginiamo lungo il corso dell’Adige, in movimento a gruppi di
due o tre.
Dell’antico borgo ricordo agli amici le botteghe artigiane, presenti
sino a buona parte del 1900: dal materassaio (stramassàr), allo stagnino (parolòto),
all’impagliatore di sedie (caregàr) e
così via, che sin dai tempi più remoti lo costellavano, fra casette dai
laboratori a piano terra e palazzi nobiliari ricchi di affreschi e stucchi.
Vicino, covi nascosti di delinquenza e osterie, tra miagolii di gatti in amore
e squittio di topi, nelle cantine a volta ricche di salumi e vino, tra le urla
di pescivendolo (pèssee),
straccivendolo (strassarioloo) o
arrotino (el molèta).
Sono, quelli, ambienti
d’un medioevo lontano, cui Verona rimase sempre fedele. La città sperimentò
invasioni barbariche, quindi il passaggio da paganesimo a cristianesimo con la
costruzione di chiese e basiliche, piccoli e grandi gioielli come S. Zeno dai
dodici apostoli in piedi sulla balaustra, S. Stefano dalle ricche sinopie, e
altre. Ebbe poi il dominio di re Teodorico, artefice di nuove mura e torri, di
Bizantini e Longobardi, di Carlo Magno e discendenti, sino ad approdare, dopo
la lotta tra famiglie guelfe e ghibelline durante la nascita dei Comuni, alla
lunga Signoria Scaligera dal 1259 al 1387. Epoca che vide una rinascita
culturale e artistica. E assieme l’ampia produzione prima di lana, poi di seta.
I traffici via Adige proseguirono per secoli, valutati nel milleseicento con
più di 70.000 colli di merci in transito! Il medesimo secolo, sia pure segnato
dalla grande peste del 1630, portò le opere dell’architetto Sammicheli, le
varie Accademie e una cultura a dimensione europea. Tradizione che si rinnovò
sino ad oggi, ampliandosi in aree universitarie, tra cui la recente Provianda,
grande panificio che in guerra nutriva centomila soldati al fronte divenuto
ora, con larghe volte e muri in pietra, inedita sede universitaria, o in
Istituti di Ricerca, Biblioteche, Gallerie d’Arte, Teatri, Conservatori di
musica, e quant’altro fa di Verona un’Urbs
in continua, dinamica relazione di rinnovamento con altre Città e Stati.
Abbandoniamo ora
l’immagine di Veronetta, ricordando che fu dominata a fine del millesettecento
dagli Austriaci, e c’inoltriamo, attraversando il successivo Ponte Navi, verso
il Centro Storico racchiuso nell’ansa dell’Adige, dominato alla stessa epoca
dai Francesi. La curiosa suddivisione della città tra due popoli con diverse
lingue e costumi lasciò nel tempo, con fertili e vivaci discordanze tracce nei
cittadini.
Alla fine del Ponte ci si
apre davanti la vista della gotica basilica di S. Fermo, e a destra un
continuum coincidente con il Cardo romano che dalle vie Leoni e poi Cappello,
arriva a Piazza Erbe. La piazza, con la sua Domus Mercatorum vicino agli
edifici ebraici stretti e alti del Ghetto, ha da parte opposta le case Mazzanti
affrescate nel 1500 all’esterno, così come centinaia di case in città,
all’epoca urbs picta in un tripudio di scene colorate; sullo sfondo il sognante
palazzo Maffei, davanti Madonna Verona e tra banchi e ombrelloni il ricordo
delle donne in lunghi abiti colorati e scialli, nei quadri di Angelo Dall’Oca
Bianca.
Camminando ora sul
lungadige parallelamente al Cardo, guardando il corso del fiume ci sembra di
risalirne la corrente, di fatto in continua discesa. Proseguiamo, e da una
breve scalinata scendiamo in via Sottoriva bassa e parallela al fiume, con
portici antichi sede di vecchie osterie rivisitate, di fronte a botteghe
antiquarie. Ancora avanti S. Anastasia, con all’ingresso i due gobbi marmorei a
sorreggere le acquasantiere e sullo sfondo
lo straordinario dipinto ‘San Giorgio e il drago’ del Pisanello.
Continuiamo oltre, sino al Ponte Pietra e lo attraversiamo girando, questa
volta, a sinistra.
Percorriamo il lungadige di S. Giorgio e i successivi, in
fila, sino a raggiungere il Ponte di Castelvecchio. Potremmo da lì rientrare
nel Centro Storico e proseguire sino alla passeggiata delle Regaste in riva al
fiume verso il borgo di S. Zeno. Rimango invece lì in principio, e conduco gli
amici a scendere la scalinata a lato verso il fiume, in uno scorcio
indimenticabile: il ponte che rispecchia nell’acqua bassa i suoi riflessi
rossastri con merli e torrette, tra voli di gabbiani e ondine di schiuma
bianca, vicino a uno slargo di graniglia sassosa e canne di fiume, ad
arricchire il greto.
Alle nostre spalle la
Verona di oggi: da piccolo mondo antico addensato solamente tra le anse, si è
espansa in uno assai più esteso, dai quartieri limitrofi con edifici liberty e
giardini ai successivi e ai borghi periferici inglobati. Città nei secoli
contesa tra chi la abitava e chi la voleva a tutti i costi governare,
trovandosi in posizione strategica tra Nord e Sud, Est e Ovest, messa in
ginocchio da terremoti, peste, alluvioni e bombardamenti, fu sempre ricostruita
a nuova vita. Detta in altre regioni ‘città della musica’, ospita di continuo
concerti e opere liriche, specie in Arena, anfiteatro romano del secolo I a.C.,
che ancora si conserva in Bra con gradinata per oltre ventimila persone. Offre
d’estate drammi di W. Shakespeare al Teatro Romano e commedie nei chiostri di
antichi palazzi; da Piazza Bra, nelle notti di plenilunio, il cielo con le
stelle spiegato dagli astronomi. Fa assistere ogni anno al dibatto
interreligioso tra rappresentanti di diverse confessioni, da Ebrei a Musulmani,
da Cattolici ad Evangelici, senza spunti d’ intolleranza e offre amichevole
spazio d’accoglienza a ospiti appena giunti, limitrofi o extraeuropei, non
dicendo loro tutto di sé al primo istante, ma aspettando che si adeguino
all’andamento generale peraltro diviso, come un tempo tra Guelfi e Ghibellini,
tra destre e sinistre, a tutt’oggi ineliminabili.
Abbiamo percorso i
lungadige, ora non più luoghi d’attracco per chiatte o barconi, ma di passeggio
ombreggiati dalle fronde dei tigli dal profumo intenso a primavera. Il flusso
d’acqua del fiume, che anima l’abitato dentro e fuori le sue anse assorbe, come
un tempo, la foschia invernale e rispecchia gli incendi dei tramonti estivi;
della città registra umori, entusiasmi e dissapori, le storie di chi vi abita e
di chi passa; le fa scorrere di continuo e le placa, accogliendone in un’unica
scia date, censo, colore per poi farle passare tra vecchie case, vicoli,
piazzette e scale. Né accenna a fermarsi.
***
REPORTAGE DI CHRISTIAN ECCHER
QUADRI DALL’ARMENIA (Sinfonia concertata)
PRELUDIO: Tbilisi,
alle pendici del Monte Santo
Yerevan Piazza della Repubblica |
Lungo
la riva destra del fiume Mtkvari, la città vecchia di Tbilisi biancheggia aggrappata
al Monte Santo, sul quale troneggiano la grande ruota panoramica e il traliccio
delle telecomunicazioni. Vista dagli aeroplani che incessantemente sorvolano il
Caucaso e che collegano l’Occidente all’Asia, la città vecchia appare come una
lastra di marmo bianca rigata da solchi neri e sottili. Quei solchi sono in
realtà strade lunghe e strette dove persino la luce si insinua a fatica; sui
marciapiedi anziane signore passeggiano curve appoggiandosi al bastone con una
busta della spesa inverosimilmente ricolma appesa al braccio sinistro; giovani
con gli occhiali da sole si affrettano non si sa dove; coppie di fidanzati
passeggiano tenendosi per mano; furgoni carichi di merci arrancano in salita e
sfiorano pericolosamente i passanti con gli specchietti retrovisori. In uno di
quei vicoli (dalla via Rustaveli, l’arteria principale della città vecchia che
scorre parallela al fiume, bisogna svoltare improvvisamente a sinistra dopo
aver superato il Teatro dell’Opera e arrampicarsi di qualche metro per poi
imboccare con prontezza la prima strada a destra), Lima gestiva il proprio
negozio, che si chiamava semplicemente “Market”. Lima è armena, la sua famiglia
vive da sempre in Georgia. A Tbilisi è a casa. Nella sua bottega era possibile
trovare di tutto: uova fresche, affettati, lampadine, bevande, oggetti per la
casa. Magra e gentile, i capelli neri e lunghi raccolti da un fermaglio e
lasciati cadere sulle spalle, Lima amava intrattenersi con gli avventori e li accompagnava
fin sull’uscio una volta terminati gli acquisti. Dopo 30 anni, è stata
costretta a chiudere l’attività: anche i clienti più fedeli hanno optato per i
grandi centri commerciali che sorgono ovunque alla periferia della città e che
hanno lo stesso aspetto, a Tbilisi come a Bishkek, a Novosibirsk come a Tomsk e
a New York. Lima non ha né annunciato né pubblicizzato la chiusura. Una mattina
di giugno, una qualsiasi, con l’estate alle porte e gli abitanti di Tbilisi che
si svegliano con i capelli già bagnati di sudore per via dell’aria calda e
umida che ristagna nella valle, la saracinesca del “Market” è rimasta
abbassata. Coraggiosa e decisa, Lima ha venduto il locale, ha lasciato la città
e nessuno sa dove sia. “Lima non è più qui”, urlano alcune bambine a chi si
avvicini al negozio, mentre saltellano sui contorni irregolari di una “campana”
disegnata sul marciapiede con un gessetto colorato. Si arrestano un istante, con
in mano il sasso da gettare sull’asfalto, per guardare in faccia coloro che
ancora non sanno che il negozio rimarrà chiuso per sempre. Lima ha capito che,
pur essendo riuscita a sopravvivere al crollo dell’URSS e al caos economico e
politico che negli anni Novanta ha investito la Georgia, non si sarebbe potuta
opporre alla forza omologatrice e distruttrice della globalizzazione
neoliberista. I grandi consorzi internazionali sono arrivati anche nel Caucaso
e hanno ormai quasi completamente soffocato le rivendite al dettaglio.
Yerevan periferia Sud |
Il negozio di
Lima è adesso in fase di ristrutturazione. Il nuovo padrone lo rinnova e spera
presto di affittarlo. In un angolo del locale, Lima aveva il suo ufficio, dove
spesso trascorreva anche la notte: una stanzetta ordinata, con i libri di
contabilità, il computer, il crocefisso appeso alla parete. Ora è completamente
vuota. Sul muro di fronte alla porta di ingresso sono rimasti soltanto l’ombra
polverosa lasciata dal crocefisso, che probabilmente Lima ha voluto portare con
sé, e un’icona della Madonna che piange inconsolabile sul corpo del figlio
morto.
(Le finestre del palazzo di fronte spandono il riverbero del sole sui muri
scrostati dell’edificio che a pian terreno ospitava il “Market”. Un muratore siede
con le gambe piegate, come un pappagallo sul trespolo, su un mattone, proprio
davanti al negozio. Fuma e centellina il caffè appoggiando appena le labbra al
bordo della tazzina, quasi abbia paura di romperla. “Sì, certo, Lima, non è più
qui, non si sa, non si sa dove sia... Il suo negozio? Va al primo che lo
vuole”. Il caldo scioglie l’asfalto. Anche il palazzo signorile all’inizio
della via è in ristrutturazione, c’è solo la facciata, come una scenografia a
teatro; al di là delle finestre si intravvedono il blu del cielo e il bianco
dei cumulonembi di condensazione sui monti del nord; sono le nubi che annunciano
il meriggio. Il muratore fuma felice e incredulo di avere davanti a sé un uomo
di “besa”, venuto dalla pianura del Danubio per far fede alla parola data molti
anni prima in quel negozio della Città Vecchia).
Per le strade di Yerevan |
PRIMO MOVIMENTO: romantico e un poco solenne (come il primo
atto di “Anush”)
La strada che
collega Tbilisi all’Armenia ha solo due corsie. È percorsa da camion
mastodontici, ricchi fuoristrada, vecchie e piccole “Lade” con il portapacchi
coperto da teli di plastica i cui orli vibrano gioiosamente al vento, e dalle marshrutke, furgoni adibiti al trasporto
dei passeggeri. Un solo treno al giorno va da Batumi, sulla costa del Mar Nero,
a Yerevan, via Tbilisi, passando per la Colchide, la pianura in cui gli
argonauti cercarono il vello d’oro e che oggi viene attraversata in fretta dai
turisti diretti in Turchia o a Kutaisi, la città che ha aperto il proprio
aeroporto alle compagnie aeree europee a basso costo. La Georgia guarda sempre
più a occidente e sembra voler dimenticare il proprio passato sovietico. Gli
autobus pubblici sono quasi inesistenti; chi non è dotato di un mezzo proprio e
voglia raggiungere la capitale armena si deve affidare alle marshrutke o ai taxi. Un sistema che dà
lavoro a decine di persone, soprattutto a coloro che erano impiegati in aziende
statali sovietiche, privatizzate dopo il crollo dell’URSS e fallite nel giro di
pochi anni. L’altipiano che separa Tbilisi dalla frontiera è martoriato dal
sole: la forte luce invade l’intera volta celeste e schiaccia l’erba al suolo,
per giorni, fino a farla ingiallire a poi morire. Già agli inizi di luglio, i
prati verdi si trasformano in un’enorme spianata di sabbia marrone, su cui si aprono
qua e là le chiome di piccoli e coraggiosi alberi. Sono per lo più acacie, le
cui foglie sono verdi e impassibili, indifferenti al caldo che soffoca il
Caucaso. Lungo la strada, semplici casupole di cemento ospitano rivendite di
frutta e verdura; impossibile scorgere l’interno di questi negozi che vivono
del traffico frontaliero: lenzuola bianche o tende nascondono l’uscio per
difendere commercianti e avventori dal caldo e dalle mosche. A un certo punto,
l’altipiano lascia il posto a colline dalle cime aspre e appuntite, che mimano montagne
d’alta quota. La strada piega improvvisamente verso ovest e la frontiera si
annuncia dietro a un’altura su cui svetta un traliccio con in cima un grappolo
di ripetitori circolari e antenne di trasmissione rivolti verso Tbilisi. Le marshrutke si incolonnano indisciplinate
al posto di blocco, cercano di superarsi a vicenda per arrivare prima ai
controlli. I passeggeri scendono e si incamminano verso l’edificio bianco e
lungo dove si trova la frontiera. Oltrepassato il confine, bisogna percorrere
un centinaio di metri a piedi e superare il ponte sul fiume Debed, lungo il
quale si attorciglia la ferrovia a un binario che si ostina a rimanere in
territorio georgiano ancora per qualche chilometro prima di incontrare un cavalcavia
e superare lo stretto corso d’acqua verde, che scorre veloce verso la piana del
Mtkvari. Dal confine si intravvede già l’Armenia, mentre la Georgia rimane
chiusa, invisibile al di là dell’altura su cui svettano i ripetitori.
L’edificio della dogana, oltre il prefabbricato in lega metallica in cui
alloggia la polizia di frontiera, è in tufo rossastro, a indicare l’ingresso in
una terra di vulcani ormai spenti, di magma innocuo perché da secoli raffreddato,
ma anche di terremoti improvvisi e violenti.
Armenia del Sud, composizione geologica |
Superato Bagartashen, un paese che
si trova a ridosso del confine, il paesaggio cambia radicalmente. La strada
percorre un tratto lungo la valle del Debed per poi arrampicarsi, fra continui
tornanti, sulle alture dell’Armenia settentrionale. La vegetazione è fitta a
valle e si fa più rada a mano a mano che si sale. I querceti e i faggeti
lasciano il posto ai pini caucasici, che ornano i pendii a mezza costa; sotto
la fascia dei pigneti domina il verde confuso della vegetazione tipica delle
quote più basse; al di sopra si estendono i piani alpini ricoperti di erbe e
licheni che trasformano le montagne in calvi giganti. Ai lati della strada,
negli spiazzi polverosi fra la carreggiata e lo strapiombo, dove spesso gli
automobilisti si fermano per riposare, compaiono bancarelle improvvisate dietro
alle quali siedono anziani signori o adolescenti. Vendono frutta, verdura,
acqua, pannocchie di granoturco appena abbrustolite. Fra le piramidi di
cocomeri striati di bianco fanno capolino le teste abbronzate di bambini
ubriachi di sole. Immobili, seduti per terra o su un mattone appoggiato
sull’asfalto, guardano indifferenti e con gli occhi socchiusi le auto
sfrecciare. Nessuno sembra accorgersi che l’immobilità a cui il meriggio costringe
la natura è solo apparente. Nelle viscere della terra, la placca tettonica
europea continua a scontrarsi e a essere sommersa da quella iraniana, in un
processo lento e inarrestabile che dura ormai da 25 milioni di anni. Le rocce
si contorcono come serpenti arrabbiati, scivolano l’una sull’altra, si
distendono fino all’inverosimile per poi rompersi di schianto, rilasciando
calore ed energia a scuotere come un panno di bucato l’intera penisola
caucasica. Le due placche cominciarono a scontrarsi nel Cenozoico; nello stesso
periodo anche l’Africa iniziò a muoversi verso nord, verso l’Europa.
Contemporaneamente al Caucaso, anche in Europa la terra si increspò e formò i primi
corrugamenti alpini. I movimenti tettonici dell’Eurasia condannarono l’antico
Oceano Tetide alla scomparsa; chiuso in una morsa mortale, l’antico mare si
restrinse fino a diventare un golfo all’interno del Mediterraneo, destinato a
sua volta a sparire fra pochi milioni di anni, quando la penisola italiana
scivolerà su quella balcanica. Il grande Oceano di un tempo era stato già dai
marinai della Serenissima declassato a “Golfo di Venezia”, anche se i geografi delle
epoche successive gli hanno restituito la dignità di mare, mare Adriatico, dal
nome di Adria, una città scomparsa, di cui non si sono mai trovati i resti. Nel
Caucaso, come in Italia e nei Balcani, la Grande Catastrofe sembra lontanissima;
forse arriverà quando l’umanità non esisterà già più, in un tempo altro, mitico,
in cui il passato si ricongiungerà al presente, chiudendo il Tempo in una
circolarità letale, che annullerà anche lo spazio e ridurrà l’esistente a un
unico punto nero nel vuoto del nulla. In ogni caso, i venditori ambulanti sanno
che non vale la pena occuparsi di simili questioni e sembrano essere impensieriti
esclusivamente dal fatto che solo raramente gli automobilisti sostano per
rifornirsi di viveri. Le marshrutke invece
non possono permettersi il lusso di fermarsi, e il viaggio verso Yerevan continua,
fra sorpassi e bruschi abbrivi.
Armenia del Sud |
(I
paesaggi del nord dell’Armenia non sono cambiati molto da come li aveva rappresentati
il pittore Stepanos Nersissian a metà ’800. Le ragazze dei paesi e delle
contrade sprofondati nelle vallate non vanno più alla fonte per prendere
l’acqua, ma la natura è rimasta selvaggia come un tempo. In uno di questi
villaggi nacque anche il poeta armeno romantico Hovhannes Tumanyan, che creò la
sua opera principale, “Anush”, nel 1892.
Il poema è scritto nella variante orientale della lingua armena, che è anche
l’idioma ufficiale dell’attuale Repubblica Armena. La variante occidentale era
invece parlata nei territori dell’ovest, nell’ex impero ottomano, ed è oggi la
lingua della diaspora. Le due varianti si discostano a tal punto da far pensare
che si tratti di due lingue diverse. Il compositore Armen Tigranyan musicò il
testo di Tumanyan e nacque così il primo melodramma armeno. Era il 1912, il
paese viveva, in ambito culturale, il proprio risorgimento nazionale. La musica
di Tigranian accosta motivi popolari armeni a quelli tipici del romanticismo
russo, soprattutto di Pietr Ilich Chajkovski. A Vienna, il compositore Gustav
Mahler -colui che fece letteralmente esplodere la tradizione classica europea e
aprì le porte a una nuova era in campo musicale- riposava già da un anno nel
cimitero di Grinzig insieme alla figlia Maria “Putzi”, morta nel 1907.
L’Armenia arrivava in ritardo rispetto all’Europa, ma ciò non vuol dire che
l’arte di questa piccola nazione sia meno interessante di quella occidentale.
Nella musica di Tigranyan, inoltre, non mancano echi wagneriani, a testimoniare
che il nuovo aveva comunque fatto breccia anche nel Caucaso. Le ragioni del Risorgimento
culturale tardivo armeno vanno ricercate nelle complicatissime vicende storiche
del paese: alla fine del XIV secolo, gli armeni avevano perduto per sempre il
proprio impero -che nei tempi antichi si estendeva dall’attuale Turchia
orientale fino al Mar Caspio- a causa delle continue e snervanti invasioni dei
Turchi, dei Persiani e dei Mammalucchi siro-egiziani. Soltanto nel XIX secolo
gli armeni dell’est si sono ritrovati sotto un’entità statuale stabile. Nel
1813, infatti, passarono sotto il dominio degli zar russi, insieme alla
Georgia. Furono gli armeni e i georgiani stessi a chiedere protezione ai russi affinché
li difendessero dalle continue scorribande dei persiani, popolo musulmano. A
unire russi, armeni e georgiani era la religione, il cristianesimo ortodosso. Gli
zar garantirono quella tranquillità politica necessaria allo sviluppo di una
coscienza e di un’arte davvero nazionali. Gli armeni dell’ovest, invece, erano
già da secoli sotto il giogo dell’impero ottomano. Fino al 1991, anno in cui fu
proclamata l’indipendenza, non è esistito un vero e proprio stato armeno, a
eccezione della breve parentesi costituita dalla Prima Repubblica, nata nel
1918 e spazzata via dai Bolscevichi due anni più tardi. Nell’attuale Repubblica
Armena il russo è ancora molto diffuso, anche se i giovani tendono ad
abbandonare l’idioma di Tolstoj per concentrarsi sull’inglese, una lingua molto
prestigiosa non solo perché parlata ovunque, ma anche perché veicola ideologie
e modelli di vita occidentali. I rapporti fra Yerevan e Mosca sono rimasti
comunque ottimi, e non sono come quelli che solitamente intercorrono fra uno
Stato colonizzato e quello colonizzatore. Non si può parlare di vera e propria dominazione
da parte dei russi in Armenia: piuttosto di simbiosi, di coesistenza di
culture, in cui il Cremlino ha avuto spesso l’ultima parola per via della
propria superiorità demografica, politica e, soprattutto durante il periodo
sovietico, anche militare).
Armenia del Sud, composizione geologica |
All’improvviso, dopo una lunga
galleria, la strada abbandona le montagne e digrada verso valle, per
costeggiare il lago Sevan, uno dei più grandi del Caucaso, i cui colori e le
cui spume ricordano il mare. L’azzurro cobalto dell’acqua profonda e dolce contrasta
con il marrone scialbo, spoglio e polveroso delle alture limitrofe. Il cielo
dialoga con il lago, quasi a voler ribadire la dominazione incontrastata del
blu sul paesaggio circostante. La strada diventa più comoda, a quattro corsie,
e le marshrutke possono accelerare;
Yerevan dista solo un’ora dal bacino di Sevan e i primi grattacieli si stagliano
all’orizzonte, sagome regolari che compaiono e scompaiono fra gli scheletri dei
magri cespugli cresciuti lungo il bordo dell’autostrada e già seccati dal sole.
SECONDO MOVIMENTO: allegro con moto - notturno, allegro sostenuto alla Khachaturyan
Yerevan, periferia Sud |
Il centro di
Yerevan è racchiuso all’interno di un anello, costituito a ovest da un largo
boulevard al centro del quale si trova un parco lungo e stretto, costellato di
caffè e ristoranti. A est e a nord, invece, i declivi delle colline cingono la
città, quasi fossero gli spalti di uno smisurato teatro a cielo aperto di cui
la stessa Yerevan costituisce l’immensa platea. Yerevan è moderna, quasi
interamente edificata in tufo rosa-rossastro. Agli inizi del secolo scorso, l’architetto
Alexander Tamanyan ridisegnò la pianta urbanistica del centro storico; i
palazzi da lui progettati sono ispirati al classicismo italiano e al Medioevo
armeno: la piazza principale, Piazza della Repubblica, non solo ricorda
l’architettura italiana del periodo fascista, ma sembra anche ricalcare la
metafisica delle “Piazze d’Italia”, la serie di dipinti realizzata da Giorgio
De Chirico agli inizi del secolo scorso. I fregi e gli ornamenti dei palazzi
sono quelli tipici delle chiese medievali armene. Anche l’imponente scalinata delle
“Cascate”, adagiata sulla collina a nord-est della città, ricorda in maniera
impressionante Piazza di Spagna a Roma. Yerevan sembra voler a ogni costo
rimarcare le proprie radici occidentali e rimuovere quelle orientali, russe,
persiane e in misura minore anche turche. L’Armenia è un paese fortemente
nazionalista e ciò è visibile persino nella struttura urbanistica della
capitale. La via principale, che taglia l’anello del centro da nord a sud-est,
è intitolata a Mesrop Mashtos, il monaco e linguista che nel 405. d.C. codificò
l’alfabeto armeno. Via Mashtos, dopo aver attraversato trionfalmente il cuore
della città, finisce ai piedi del Matenadaran, un maestoso edificio in stile
neoclassico che ospita tutti i manoscritti e i libri stampati della tradizione
armena, dal Medioevo fino al Novecento. Il Matenadaran non è un semplice museo,
ma un vero e proprio tempio: le sale sono state progettate in maniera tale da
assumere le sembianze delle antiche chiese armene che si trovavano in
territorio ottomano, quelle distrutte dai “Giovani Turchi” ai tempi del
genocidio. I manoscritti non sono solo dei documenti storico-culturali, ma
anche dei veri e propri feticci. La visita al Matenadaran è sentita come un
obbligo morale da ogni cittadino armeno e ha una valenza patriottica e quasi
religiosa. Accanto al Matenadaran si trova la gigantesca statua in bronzo della
“Madre Armenia”, una donna dai tratti fisici squadrati (ispirati di nuovo alla
retorica fascista italiana, soprattutto alla statua della Sapienza che si trova
all’Università di Roma) con in mano una spada, a proteggere la città e l’intera
nazione. I turisti camminano lentamente per le vie del centro, con le macchine
fotografiche appese al collo e la bottiglia dell’acqua in mano come unica
difesa dal sole forte e dal caldo che assedia la città. La vera Yerevan, quella
sincera, autentica, non imbellettata di lussuosi negozi e dei simboli tipici
della globalizzazione neoliberista, si trova però a sud, lì dove i visitatori
stranieri raramente si avventurano. La metropolitana, costruita durante il periodo
sovietico e costituita da treni con due soli vagoni, collega la periferia
settentrionale, dove si trovano i quartieri residenziali, a quella meridionale,
che fino agli inizi degli anni Novanta ospitava le principali fabbriche del
paese.
Lavash |
Nell’Unione Sovietica una città acquistava prestigio e poteva vantarsi
di essere una metropoli solo se aveva la metropolitana. Tbilisi e Yerevan erano
capoluoghi piccoli e la costruzione di una ferrovia urbana sotterranea è stata
un dono politico del Cremlino alle due capitali del Caucaso e non il frutto di
una scelta legata alla necessità di muoversi velocemente e di diminuire il
traffico di superficie. L’Armenia era famosa per le sue industrie
metalmeccaniche, che producevano materiale rotabile per le ferrovie dell’intero
impero sovietico. C’erano anche fabbriche specializzate nell’alta tecnologia
(un settore che è ancora oggi abbastanza forte nel resto del paese, ma non
nella capitale), in particolar modo nella creazione di microchip e componenti
aero-spaziali. Negli anni ’90, dopo una sciagurata politica di privatizzazioni,
la maggior parte delle industrie è fallita. La periferia sud di Yerevan è un
triste monumento ai tempi passati, emblema di decadenza e di abbandono. Ai lati
della linea della metropolitana si susseguono gli edifici che un tempo
ospitavano operai e macchinari. I vetri alle finestre sono rotti o scheggiati,
il ferro degli infissi, che nessuno più ha verniciato, cola sotto forma di
ruggine sui mattoni di tufo rosso. All’interno dei cancelli la vegetazione ha
preso il sopravvento sulle panche e sugli spazi in cui i lavoratori si
riunivano per fumare durante le pause. I binari di servizio, che collegavano
alcune aziende con la linea ferroviaria per Tbilisi e l’Iran, si snodano per
decine di metri incorporati nell’asfalto di stradine secondarie. Si
interrompono all’ingresso degli ex stabilimenti: la morsa dell’asfalto si
allenta e le rotaie tornano a scorrere sulla terra; vengono però subito
soffocate da erbacce altissime e persino da qualche albero da frutto, cresciuto
per caso fra le traversine. Le uniche fabbriche ancora attive sono quelle
legate alla produzione di materiali edili e alla manifattura del tabacco. Lungo
il grande boulevard che unisce il centro della città all’autostrada, ci sono
solo alcune officine, davanti alle quali giovani apprendisti abbronzati e a
petto nudo sorseggiano un caffè o bevono una coca-cola ghiacciata. Guardano
sornioni i rari passanti, con gli occhi semichiusi per l’albedo solare che
spande luce ed energia non solo dal cielo, ma anche dall’asfalto e dagli
edifici circostanti. Le uniche abitazioni a mostrare qualche traccia di vita
sono le vecchie “krusciovke” a 5 piani, i condomini che il Presidente dell’URSS
Nikita Krusciov fece costruire per risolvere l’annoso problema della casa che
costringeva le famiglie dell’impero a condividere gli appartamenti.
Noravank |
La
situazione economica in Armenia è critica proprio perché non c’è produzione
industriale. Anche in centro, sono numerosi i segnali che indicano il disagio
in cui la popolazione è costretta a vivere: balza agli occhi l’enorme quantità
di “Lombard”, una parola che in russo sta a indicare i monti di pietà: già nel
Medioevo, infatti, i primi ad aprire i banchi dei pegni ovunque in Europa
furono dei ricchi commercianti lombardi. In uno di questi locali c’è anche
Astrid, professoressa di chimica all’Università di Yerevan. Alta e dinoccolata,
la pelle olivastra, i capelli nerissimi e gli occhi grandi e allungati, sta
impegnando la collana d’oro ereditata anni fa dalla nonna: “Non è un grande
problema -dice Astrid con un sorriso che non riesce a nascondere la delusione- a
settembre comincerò di nuovo a tenere lezioni private e ricomprerò la collana.
Purtroppo adesso è estate e gli studenti sono in vacanza. Solo dello stipendio
universitario non è possibile vivere: la paga media di un docente è di circa
180 dollari al mese...”
Hovhannes Aivazovsky. "Noè scende dall'Ararat" (1889) |
TERZO MOVIMENTO: lento ma non troppo – ostinato
Azhad Saryan
vive in un appartamento in centro città, in un edificio in mattoni di tufo rosso
che si trova proprio lungo la via Mashtos. Siede al tavolo di lavoro e con un
monocolo appoggiato all’occhio sinistro incastona con grande precisione una
pietra preziosa nel gambo di un anello d’oro. Azhad ha appreso sin da bambino
dal padre Serzh l’arte orafa. Ogni domenica mattina vende i gioielli che
produce in una specie di fiera che ha luogo in un ampio locale nella centralissima
Piazza della Repubblica. Azhad è in realtà un assistente sociale, lavora in una
cooperativa da lui stesso fondata insieme a degli amici alcuni anni fa, quando
ha capito che non avrebbe potuto impiegarsi in un ente pubblico senza
l’appoggio di un politico o di un qualche potente amministratore. Dopo un anno
trascorso in Russia, a Mosca, in cerca di una sistemazione migliore, Azhad ha
deciso di tornare a Yerevan per non lasciare soli i genitori ormai anziani,
Serzh e Iulia. Serzh ha lavorato per 40 anni come ingegnere presso l’Azienda
Trasporti di Yerevan. Ha una pensione di circa 90 euro al mese. Iulia ha
insegnato lingua armena per tutta la vita nella scuola elementare del quartiere
e la sua pensione è uguale a quella del marito. La famiglia Saryan, per potersi
permettere una vita decente, non solo crea e vende gioielli, ma ospita anche a
casa propria studenti e volontari stranieri, per lo più giovani, la seconda o
la terza generazione di emigranti armeni che decide di tornare nella terra dei
progenitori per imparare la lingua. La Repubblica Armena ha circa 3 milioni di
abitanti; più di 8 milioni di armeni vivono all’estero, soprattutto in Russia,
negli Stati Uniti d’America e in Ucraina. La diaspora armena è cruciale per la
sopravvivenza della stessa Repubblica: le rimesse degli immigrati non solo
contribuiscono a risanare le casse dello Stato, ma anche quelle delle singole
famiglie rimaste in patria che possano vantare almeno un parente in terre
lontane. I Saryan all’estero non hanno nessuno, e per questo si arrangiano come
possono per arrivare alla fine del mese. In una calda sera d’estate, Iulia si
intrattiene con gli ospiti stranieri nella spaziosa cucina del suo
appartamento. Sul tavolo ci sono ancora i resti dell’abbondante cena: il lavash
- il pane armeno, piatto come una piadina- il formaggio salato, le melanzane affumicate e
trifolate in padella, la carne, il vino rosso della piana di Areni, la località
dove per la prima volta nella storia gli esseri umani hanno scoperto la vite e
i segreti della sua coltivazione. Iulia esalta le gesta del popolo armeno, che
è eroicamente sopravvissuto al genocidio e che per secoli non ha avuto un
proprio Stato. Ricorda che nel Medioevo l’Armenia occupava l’intero Caucaso,
prima che arrivassero gli “usurpatori”, vale a dire georgiani, azeri e turchi.
Nello stesso tempo, però, è molto critica nei confronti delle attuali élite
politiche, soprattutto del presidente Serzh Sargsyan, che governa
ininterrottamente il paese dal 2008. Nel 2018, Sargsyan non si potrà più
candidare ma il Parlamento ha prontamente cambiato la Costituzione e dal 2017
l’Armenia non sarà più una Repubblica presidenziale bensì parlamentare. Questo
significa che i poteri politici non si concentreranno più nelle mani del
presidente ma in quelle del premier. Inutile dire che Sargsyan sta già pensando
di presentare la propria candidatura a Presidente del Consiglio. Iulia era una
compagna universitaria di Sargsyan. Lo ricorda come un ragazzo silenzioso,
timido, ma con grandi capacità organizzative. Il presidente appartiene al
Partito Repubblicano, che ha stravinto alle elezioni politiche del 2012 e che
controlla in toto la vita pubblica e i mezzi di comunicazione di massa del
paese. In ogni caso, la popolarità del Presidente sembra lentamente ma
inesorabilmente incrinarsi: nonostante abbia ancora l’appoggio della
maggioranza della popolazione, nelle strade di Yerevan si sentono sempre più
spesso lamentele nei confronti delle scelte politiche dei governanti.
Noravank . Il Dio mongolo cristiano |
Nel 2013,
dopo un incontro a quattr’occhi con il presidente russo Vladimir Vladimirovich
Putin, Sargsyan ha deciso di interrompere le trattative legate a una
collaborazione economica e culturale con l’Unione Europea per avvicinarsi all’Unione
Eurasiatica, in cui l’Armenia è entrara nel 2015. Dell’Unione Eurasiatica fanno
parte la Federazione Russa, la Bielorussia, il Kazakistan e il Kirghizistan. La
decisione di Sargsyan non è campata in aria: la Russia -che ha promosso con
tutte le proprie forze la formazione di questa organizzazione internazionale- è
un partner importantissimo per l’Armenia. Nell’immenso territorio compreso fra
Mosca e Vladivostok vive più di un milione di armeni e il fatto che per loro
non sia necessario il visto di ingresso è un vantaggio notevole. In più, la
Russia non ha soltanto interessi nel Caucaso, ma è anche fisicamente presente
nel nord della penisola: paradossalmente, la sua influenza è più forte in
Armenia o in Sud Ossezia che non in Cecenia e nelle altre repubbliche
caucasiche direttamente controllate da Mosca. La rottura delle trattative con
l’UE ha però costretto l’Armenia all’isolamento geo-politico: le frontiere con
la Turchia sono chiuse a causa dei problemi legati al genocidio di inizi
Novecento, quando il governo dei “Giovani turchi” fece uccidere 1 milione e
mezzo di armeni presenti sul territorio ottomano: l’UE avrebbe potuto
contribuire a scongelare i rapporti fra i due paesi. Le relazioni diplomatiche con
l’Azerbaigian sono ai minimi storici a causa della guerra in Nagorno-Karabakh; quelle
con la Georgia sono assai precarie: Tbilisi ha optato per una decisa e chiara
politica pro-occidentale, soprattutto dopo l’aggressione russa che fra il 1991
e il 2008 ha sottratto al paese l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia. Solo l’Iran,
con cui l’Armenia condivide il confine meridionale, gode apparentemente della
totale fiducia di Sargsyan e dei suoi uomini. Frotte di turisti iraniani si
aggirano per le vie di Yerevan: per loro non è necessario il visto di ingresso.
Coppie scure di carnagione che si tengono per mano e ragazze giovani con lo chador
appena appoggiato sui capelli, in maniera sensuale e provocante, mangiano nei
ristoranti e fotografano piazze e fontane, persone e luoghi di culto. L’Iran,
però, sembra preferire come partner commerciale caucasico l’Azerbaigian, con
cui ha stipulato degli accordi per la costruzione di una ferrovia che unirà la
Russia a Teheran. Il progetto iniziale prevedeva che il tracciato passasse per
l’Armenia, ma si è rivelato troppo costoso e gli Ayatollah hanno preferito accordarsi
con Baku. Richard Giragosyan, direttore dell’ONG “Regional Studies Center”, ha
lavorato per molti anni negli Stati Uniti, al servizio della Casa Bianca. Ha
deciso di tornare nella terra dei suoi avi e di dedicarsi alla sua ONG, che è
legata al governo degli Stati Uniti ma che mantiene un ampio margine di
autonomia e si dedica soprattutto a studiare la situazione politica armena. Energico
e deciso, alto e sportivo, non risparmia parole e commenti quando qualcuno gli
pone domande di scottante attualità. “In Armenia, la Russia controlla completamente
settori strategici quali quello dell’energia, delle telecomunicazioni, dei
trasporti e, indirettamente, l’intera economia. Adesso che siamo nell’Unione
Eurasiatica, ritengo sia estremamente difficile che Mosca permetta l’ingresso
di investitori stranieri nel nostro paese... Certo sarebbe un suicidio rompere
le relazioni con la Russia”. Secondo Giragosian l’Armenia ha tutte le carte in
regola per posizionarsi fra Oriente e Occidente, fra l’UE e la Russia,
approfittando anche dei litigi fra le grandi potenze che ancora oggi, così come
cento anni fa, tentano di estendere la propria influenza sul Caucaso. “Il
nostro ceto politico non è in grado di attuare una così alta politica estera,
che prevede scelte delicate e oculate. I governanti armeni -continua Giragosian-
sono dei vecchi dinosauri che non hanno idea di quello che avviene oggi nel
mondo contemporaneo. I più pericolosi, poi, sono quelli che indossano abiti
occidentali, parlano la stessa lingua degli europei e degli americani,
conquistano il loro appoggio e le loro simpatie ma hanno una mentalità
sovietica e un solo obiettivo – la presa del potere a qualsiasi costo”. Eppure,
qualcosa sta lentamente cambiando: “Le nuove generazioni hanno una mentalità
completamente diversa rispetto a quella dei nostri politici. Sono in contatto
con il mondo, sanno le lingue, si informano attraverso internet. Prima o poi i
giovani arriveranno al potere e le cose dovranno cambiare.
Georg Bashinjaghian "Ararat" 1912 |
L’Armenia ha un
grande potenziale umano e culturale”. Giragosian conclude l’intervista con una
nota personale, inaspettata ma gradita perché molto sincera: “Io non sono
pazzo. Non avrei mai lasciato gli USA, dove lavoravo per il governo, per
trasferirmi in un paese che non ha futuro. Se sono qui è perché so che le cose
cambieranno, e in meglio”. Giragosian ha ragione: le giovani generazioni, anche
se a livello politico non sono affatto attive, hanno una nuova mentalità che
potrebbe davvero modificare il volto del paese, nonostante siano molto più
isolate rispetto a quelle georgiane, azere e turche. Perché? La colpa è della
politica estera di Yerevan: i problemi con la Turchia, come accennato, sono di
vecchia data (Se Yerevan piange, Ankara e
Istanbul non ridono. In questa calda estate del 2016, una delle più torride da
quando si hanno misurazioni meteorologiche attendibili, in tutte le città della
Turchia si respirano nervosismo e terrore, che si appiccicano alle pelle come
l’umidità contenuta nell’aria bollente. Gli elicotteri sorvolano di continuo i
quartieri di Istanbul con piccole telecamere attaccate ai pattini. Carri armati
e mezzi blindati della polizia stazionano immobili come pachidermi nella piazza
davanti alla Moschea Blu, dove i turisti si radunano per poi disperdersi nei
vicoli a ridosso del mare. La libertà di movimento per i cittadini turchi è
sospesa, le foto del presidente Erdoǧan giganteggiano ovunque, sui muri delle
case, in metropolitana, sui cartelloni pubblicitari. Un’enorme bandiera, rossa
con in mezzo la mezzaluna bianca, pende davanti a un negozio di alimentari; si
agita alla brezza della sera e accarezza per un istante il volto delicato di un
transessuale iraniano che cerca fra i turisti un compagno con cui trascorrere
il tempo che lo separa dall’alba).
Karen Harutynyan |
Dopo l’indipendenza, proclamata nel
1991, l’Armenia aveva instaurato contatti diplomatici con Ankara, ma la guerra
in Nagorno-Karabakh ha fatto precipitare la situazione. Durante il conflitto,
infatti, la Turchia ha appoggiato l’Azerbaigian, che già ai tempi dell’URSS
contendeva all’Armenia questa piccola regione montuosa al confine con l’Iran.
Il Nagorno-Karabakh era abitato sia da armeni sia da azeri. Lo scontro armato è
cominciato nel 1988 ed è ufficialmente terminato nel 1994, anche se al fronte
le scaramucce continuano con sparatorie e provocazioni reciproche da parte di
entrambe i contendenti. Il Nagorno-Karabakh ha anche proclamato l’indipendenza
ma nessuno stato al mondo l’ha riconosciuto. Dal 1994 in poi, gli azeri sono
stati cacciati dalla neonata e sedicente repubblica, così come da tutto il
territorio armeno. La stessa cosa è accaduta agli armeni residenti in Azerbaigian.
Certo è che dopo centinaia di anni di contatti e scambi economici e culturali, i
rapporti fra Yerevan e Baku si sono completamente interrotti e, per la prima
volta nella storia, le giovani generazioni dei due paesi in lotta non hanno alcun
tipo di rapporto con i vicini. Come è possibile che un conflitto armato duri da
così tanto tempo e che non si sia ancora trovata una soluzione? Il
Nagorno-Karabakh è una terra estremamente povera e i pochi giacimenti
petroliferi non giustificano odi così profondi e una guerra così lunga e
snervante. La verità è che i governi armeno e azero utilizzano la regione per
creare un sentimento nazionale forte e distrarre l’attenzione dei propri
cittadini dai numerosi problemi interni. Uwe Halbach, ricercatore presso la
“Stiftung Wissenschaft und Politik” di Berlino, afferma che la politica azera e
armena è completamente “karabachizzata”. La retorica bellica, che è presente quotidianamente
sui media, ha il compito di accrescere il patriottismo all’interno dei due
paesi e di addossare le colpe del malcontento sociale a un nemico esterno.
Fonti vicine al presidente Sargsjan, che vogliono restare rigorosamente anonime,
asseriscono che sono in corso dei tentativi da parte del governo armeno per
trovare una soluzione definitiva al problema legato al Nagorno-Karabakh.
L’Armenia sarebbe pronta anche a restituire alcuni territori illegalmente occupati
che appartengono senza dubbio all’Azerbaigian. Le trattative sono però segrete:
dopo anni di propaganda, il popolo armeno non è pronto ad accettare alcun tipo
di compromesso. Il primo presidente armeno, Levon Ter-Petrosyan, ha perso le
elezioni nel 1998 proprio perché stava cercando una soluzione pacifica al
problema, che potesse accontentare anche gli azeri e smorzare una volta per
tutte le tensioni. Per questo Sargsyan è molto cauto e non esce allo scoperto
con proposte pubbliche. In ogni caso, nell’aprile del 2016 la polizia ha
arrestato Zhiran Sefilyan, un eroe di guerra che da anni organizza proteste
pacifiche in tutta l’Armenia contro il governo e il presidente e che si è
apertamente schierato contro ogni eventuale cessione di territori all’Azerbaigian.
Sefilyan ha fondato un movimento che si chiama “Riformare il parlamento” ed è
stato accusato di voler organizzare un attentato terroristico volto ad
abbattere il ripetitore delle telecomunicazioni di Yerevan. Le accuse erano in
realtà tendenziose; fatto sta che a luglio un gruppo di veterani di guerra ha
occupato una stazione di polizia alla periferia della capitale, uccidendo anche
alcune guardie, per richiedere la liberazione di Sefilyan. I combattenti
speravano che il popolo si riversasse nelle piazze e nelle strade della città
per sostenerli, ma vicino alla caserma si sono radunate poco centinaia di
manifestanti. Dopo giorni di trattative, i “terroristi” sono stati arrestati,
nonostante le autorità avessero promesso loro l’amnistia. La loro protesta non
era legata solo al Nagorno-Karabakh, ma anche alla situazione politica interna,
alla corruzione e alle numeroso difficoltà in cui l’economia armena si dibatte.
In generale, i veterani di guerra, molti dei quali soffrono di stress
post-traumatico e vivono in condizioni di estrema povertà, sono stati quasi
dimenticati dal governo, non hanno un lavoro e ricevono pensioni miserrime;
oltre a ciò, non hanno alcun riconoscimento o prestigio sociale. Si possono
rifugiare solo nell’alcol oppure nella lotta armata. La famiglia Saryan è rimasta
sconvolta dagli eventi di luglio e segue con interesse e passione le proteste
dei pochi cittadini che ogni venerdì si riuniscono nella piazza del teatro
dell’Opera per chiedere le dimissioni di Sargsyan e del governo. Quelle rare
volte che i manifestanti sfilano in corteo per la via Mashtos, dove si trova
l’appartamento dei Saryan, Iulia chiude la finestra per non far sentire agli
ospiti stranieri gli slogan e le urla arrabbiate. Non solo, sono proprio quelli
i momenti in cui Iulia esalta le gesta passate del suo popolo.
Vardges Surenyants "Ferdowski legge il poema Shahn" 1913 |
Il passato
diventa mito quando il presente è insopportabile e il futuro sembra essere
destinato a non arrivare mai. La situazione attuale in Armenia è molto simile a
quella balcanica degli anni Novanta: da un lato c’è un’insoddisfazione diffusa
e radicale per via delle pessime condizioni di vita, dall’altro la propaganda
bellica impedisce che quella stessa insoddisfazione diventi aperta e chiara protesta
politica. I cittadini avvertono inconsciamente che le contestazioni -a cui
spesso guardano con simpatia- sono sinonimo di tradimento; introiettano un
senso di colpa che impedisce loro di schierarsi del tutto contro le autorità.
Una situazione schizofrenica, che spinge gli abitanti di Yerevan a simpatizzare
con i manifestanti del venerdì ma a non uscire di casa per unirsi a loro. La
polizia, dal canto suo, fa di tutto per bloccare chi il venerdì sera voglia raggiungere
il Teatro dell’Opera: chiude le vie del centro al traffico e i vicoli prossimi
al luogo delle manifestazioni. “Come hanno potuto arrestare Sefilyan, un vero
eroe e difensore della Patria, e come hanno potuto arrestare coloro che
difendevano Sefilyan, anche loro ex-combattenti nel Nagorno-Karabakh”, dice
Iulia con un’espressione amareggiata sul viso solcato da pochissime rughe,
nonostante abbia da poco compiuto 70 anni. A luglio, la polizia ha arrestato
anche Armen Martirosyan, vice-presidente del partito di opposizione “Eredità”,
perché aveva manifestato per la liberazione di quelli che il governo definisce
terroristi. Iulia ama ripetere che Martorisyan è “uno del popolo, uno di noi”. È
stato liberato dopo tre settimane di carcere e dopo che i suoi compagni hanno
pagato una cauzione in denaro. Appena uscito di prigione, ha raggiunto
immediatamente il Teatro dell’Opera e ha trovato il tempo di scambiare quattro
chiacchiere con i giornalisti stranieri, nonostante decine di persone lo
acclamassero ininterrottamente e facessero la fila per stringergli la mano:
“Negli ultimi 25 anni i problemi si sono accumulati -dice Martirosyan- i
giudici non fanno il proprio dovere, la corruzione è onnipresente, della
polizia meglio non parlare. Il popolo è davvero stanco di tutto ciò”. Perché
allora le proteste non riescono a essere efficaci, a cambiare davvero le cose?
Nel settembre del 2016 il Presidente del Consiglio Hovik
Abrahamyan si è dimesso per calmare gli animi, ma si ha
l’impressione che ogni trasformazione sia funzionale al mantenimento dello
status quo. Cambiare tutto affinché nulla muti per davvero. Il senso di colpa
legato al tradimento del sentimento patriottico può spiegare fino a un certo punto
l’attuale immobilità della società armena. Ci aiuta a capire cosa si cela
dietro questa situazione di stallo Karen Harutyunyan, direttore del
giornale-televisione on-line “Civilnet”, finanziato dall’Occidente (soprattutto
dall’UE) e dalla diaspora armena. Harutyunyan ci accoglie nel suo ufficio
all’ultimo piano di un nuovo edificio in centro a Yerevan, proprio di fronte al
Teatro dell’Opera. Parla con voce calma, dietro di lui ci sono scaffali ricolmi
di libri in armeno, inglese e russo. Attraverso la porta a vetri del suo
ufficio è possibile scorgere molti giovani collaboratori intenti a scrivere e a
prepararsi per una diretta dallo studio televisivo ricavato all’interno della
redazione. “Quello che in Armenia manca – sostiene Harutyunyan – è una massa
critica in grado di pensare con la propria testa. I media non sono affatto
obiettivi, addirittura non è chiaro chi siano i padroni e i finanziatori dei
giornali e delle televisioni più popolari. Quando si legge un articolo, è
difficilissimo distinguere la notizia in sé dal commento di chi scrive. Questo
crea ovviamente confusione. I cittadini non sanno a chi rivolgersi per capire
davvero ciò che accade e non sanno distinguere propaganda e realtà.” In ogni
caso, anche Harutyunyan, così come Richard Giragosyan, è convinto che le cose
siano destinate a mutare e che le nuove generazioni cambieranno completamente
il volto del paese nel giro di pochi anni.
Stepanos Nersissian, "Picnic sul fiume Kura" 1860 circa |
FINALE: sostenuto, allegro ma non troppo
DI TUFO E DI VENTO
Yerevan si
trova in una grande vallata, fertile e ubertosa, fra due grandi montagne,
vulcani mansueti perché ormai spenti: L’Ararat e l’Aragat. L’Ararat è il monte
mitico su cui si incagliò l’arca di Noè subito dopo il Diluvio. Alle sue
pendici Noè bevve del vino e si ubriacò: cominciò a correre nudo sull’erba di
un greppo mentre i figli, impietositi e pudici, cercavano di raggiungerlo e di
coprirgli le membra ormai vecchie e mollicce. L’Ararat si trova adesso in
territorio turco, ma appartiene, con le sue due gobbe inconfondibili, rispettivamente
di 5000 e di 3000 metri, all’immaginario collettivo armeno. L’Aragat invece è
situato alle spalle della città e si nasconde dietro le colline della periferia
settentrionale. È alto più di 4000 metri. A sera, l’aria sulla cima dell’Aragat
si raffredda molto velocemente, mentre a valle rimane calda. Si crea così una
drammatica depressione barica che costringe l’aria fredda in quota a discendere
verso la pianura. Poco prima che il sole tramonti e poi fino a tarda sera, Yerevan
viene spazzata da un vento forte e insistente, che in armeno si chiama “kami”. L’aria
fresca entra nei minuscoli fori dei mattoni di tufo e fa suonare come uno
strumento musicale tutti gli edifici, in un unisono armonico e appena
percettibile. Il vento fa danzare i fili dell’alta tensione, disperde in
minuscole e invisibili goccioline il getto d’acqua che esce dalla grande
fontana di Piazza della Repubblica, solleva le gonne leggere delle ragazze che
passeggiano nelle vie del centro e che abbassano gli orli dei vestitini con la
mano destra, urlano “uh” e poi corrono a piccoli e rapidi passi a cercare
riparo sotto ai portici del Museo di Storia Armena, lì dove il vento si placa
come una bestia domata. Bere dalle fontanelle che sono disseminate ovunque nelle
vie del centro diventa impossibile, perché il fiotto d’acqua che esce dalle
bocche di metallo viene spazzato via senza pietà e bagna l’asfalto lucido
circostante. Alla periferia sud, dove di sera nessuno cammina e non c’è neppure
un’anima che si affacci alle finestre, il vento alza al cielo le foglie seccate
dal sole e cadute precocemente dagli alberi; di loro non ci sarà più traccia al
mattino successivo, forse riescono ad arrivare ad alta quota e a sorvolare la
frontiera con la Turchia, per poi cadere al di là del confine, innocenti e inconsapevoli
di essere arrivate in territorio nemico. Il vento entra anche dalle finestre
aperte delle case: le tende all’interno si sollevano come fantasmi, le carte e
i giornali lasciati sulle scrivanie si sparpagliano ovunque nel corridoio e i
lampadari dei salotti traballano felici, liberi dall’immobilità polverosa a cui
sono stati per anni costretti.
Il vento si calma solo intorno
a mezzanotte, quando la depressione barica fra la valle e il monte si colma del
tutto. Yerevan rimane immobile, stanca e sconvolta dalla violenta sfuriata
d’aria, ma pulita, e scintillante anche.
[Yerevan, Novi Sad – agosto, settembre 2016]
VARIAZIONI SUL TEMA: GYUMRI
Lento e dissonante, per arpeggione solo
Gyumri |
Era il 7
dicembre 1988 quando la terra tremò per circa 30 secondi nel nord dell’Armenia,
ai piedi del monte Aragat. I pendii e i picchi dell’Aragat furono scossi da
onde potenti, ripetute, per lo più ondulatorie, del settimo grado della scala
Richter. La città di Gyumri, che si trova nel nord-ovest dell’Armenia, al confine
con la Turchia, fu rasa quasi completamente al suolo. Gli edifici costruiti
all’epoca di Stalin resistettero e furono semplicemente danneggiati. Le “Kruschovke”
rimasero in piedi ma erano pressoché inabitabili. I palazzi edificati al tempo
di Brezhnev si disintegrarono completamente, quasi a rimarcare la progressiva
decadenza dell’URSS nel corso dei decenni. Un anno dopo la potente scossa, la
vecchia Unione Sovietica si sarebbe dissolta del tutto e l’Armenia avrebbe
cominciato il proprio percorso verso l’indipendenza, proclamata nel 1991. Per
Gyumri, però, questi sconvolgimenti storici non ebbero alcun significato
fondamentale. Le macerie sono rimaste lì dov’erano per anni. Già l’8 dicembre
del 1988, i sopravvissuti capirono a quale destino stessero andando incontro:
nessuno arrivò a soccorrere i feriti e a scavare fra i resti delle case per
recuperare i cadaveri. Passarono giorni interi prima che Mosca si decidesse a
spedire i primi aiuti. Negli anni successivi, Yerevan sarebbe stata troppo
impegnata nel conflitto con l’Azerbaigian per pensare alla ricostruzione di
Gyumri. La città è così lentamente ma inesorabilmente morta; si è spenta ed è
diventata un monumento, il cippo funebre di sé stessa. Il centro è ancora in
parte distrutto, come se il terremoto fosse avvenuto ieri e non trent’anni fa.
Le case, in pietra vulcanica nera, sono per lo più disabitate. Le famiglie che
ci vivevano hanno preferito emigrare o risiedono ancora nei container -ormai
arrugginiti- alla periferia del centro urbano. Molte abitazioni hanno gli usci
sprangati. Le vie del centro sono piastrellate con blocchetti di leucite,
lucidi a tal punto da sembrare bagnati, un po’ come i sanpietrini a Roma.
Gyumri |
Le
case hanno spesso un ampio cortile interno e un balcone che corre lungo tutta la
facciata, a ripetere il perimetro della corte. Serviva per collegare gli
appartamenti delle varie famiglie, che dividevano in condominio la corte stessa
e l’ampio ingresso all’edificio, costituito spesso da un largo e corto
corridoio, una sorta di entrata trionfale dai portali scolpiti. Alcune case
sono ancora abitate: all’interno, gli alberi da frutto, soprattutto susini,
regalano ombra e appigli per stendere le corde da bucato. Due signore lavorano in
un cortile, preparano la salsa di pomodoro per l’inverno o mettono sotto sale i
peperoni. Alcune case hanno la facciata signorile, ancora intatta; l’interno,
però, è infestato da erbacce e quel che resta del pavimento è spesso nascosto
da un alto strato di pattumiera. Il primo piano di un appartamento è stato
letteralmente troncato a metà dal terremoto: sono ancora visibili una poltrona
rossa sospesa sul nulla e la tappezzeria alle pareti, verde, impreziosita da
eleganti motivi floreali.
Gyumri |
Ai tempi dell’impero sovietico, Gyumri si chiamava
Leninakan ed era una città ricca e culturalmente molto viva, che ospitava
spesso concerti, opere e rappresentazioni teatrali. Risuona ancora per le
strade l’eco del concerto per violino e orchestra di Aram Khachaturyan, che fu
suonato per la prima volta a Mosca nel 1940 e che venne eseguito diverse volte
anche qui, a Gyumri. Dello splendore antico non è rimasto più nulla. Le strade
sono quasi deserte: un bambino guarda i rari passanti dal garage in cui suo
padre sta facendo delle riparazioni a una vecchia “Lada” e sembra non avere il
coraggio di avventurarsi oltre. Un anziano signore, che cammina curvo,
appoggiato a un bastone, dà la mano in segno di rispetto a tutti coloro che
incontra. Una signora di mezza età entra con uno scolapasta in mano nel
container con il simbolo della Croce Rosa ormai sbiadito, vicino a quella che
era la sua casa, di cui rimangono intatti solo i muri portanti. In una via
secondaria giacciono le carcasse di due auto, chissà da quanto tempo
dimenticate lì. La piazza principale è immensa ma non vi passeggia quasi
nessuno; la chiesa in tufo nero è stata ricostruita ma a terra giace ancora la vecchia
cupola, abbattuta dal terremoto.
Gyumri |
C’è chi, come Alexan Ter-Minasyan, cerca di
restituire nuova vita a Gyumri: con l’aiuto del governo tedesco, Alexan ha
costruito un ospedale e un hotel, le cui stanze sono impreziosite dalle opere
pittoriche e scultoree dei principali artisti armeni viventi. C’è in realtà
poco da fare. Gyumri sembra essere in coma irreversibile. I politici compaiono
in città solo alla vigilia delle elezioni. Non sanno più neppure cosa
promettere, per questo i loro comizi sono molto brevi. Scappano via il prima
possibile; le guardie del corpo impediscono alla popolazione di avvicinarsi a
quelli che dovrebbero essere i loro rappresentanti. Alle scorse elezioni
politiche, il partito del presidente ha preso pochissimi voti, sia in città sia
nei villaggi che, come satelliti, ruotano intorno a Gyumri. Da quel 7 dicembre
1988, la politica nazionale e Gyumri sembrano aver divorziato per sempre.
***
KAZAKISTAN
(Reportage geopoetico)
di Christian Eccher
Sonata Estiva
Primo movimento – allegro moderato
(Nella steppa del Sud)
Turkestan |
I villaggi in Kazakistan sono come isole nella steppa. Interrompono la
monotonia ossessiva dei colori e dei suoni: il giallo sporco dell’erba bruciata
dal sole; il marrone scheletrico degli arbusti dalle foglie riarse che giorno
dopo giorno si piegano sfiniti dal sole e si accasciano al suolo, finché le
pioggie autunnali non li trasformano in humus; il fruscio della sabbia che scivola
su altra sabbia nei deserti vicino al confine con l’Uzbekistan.
I centri abitati si
annunciano all’improvviso, con un pugno di case dai muri di cemento grigi e dai
tetti di lamiera ondulata azzurra. Alle finestre tende molto semplici; qualche
cane randagio si aggira in cerca di cibo sul retro delle abitazioni. Non ci
sono strade vere e proprie, ma solo piste sabbiose, scavate dagli pneumatici
delle jeep e delle automobili di passaggio. I paesi si trovano per lo più
vicino alle grandi vie di comunicazioni; non è raro che le autostrade fendano i
villaggi dividendoli in due e costringendo gli automobilisti a rallentare
all’improvviso. Ai lati della strada asfaltata si affollano bambini, uomini di
mezza età dalla pelle bruciata dal sole, donne con lo chador sedute sul
marciapiede o su neri copertoni con la mano sulla fronte per difendere gli
occhi dalla luce abbacinante del mattino. Vendono cocomeri, rossi e succosi,
focacce e pagnotte tonde, dalla crosta color terra e a tratti screziata, che
lascia scorgere il bianco della mollica all’interno. Nei mercati, al centro del
paese o in quelli improvvisati ai bordi dell’autostrada, si vende di tutto:
carne di cavallo, di vitello o di mucca, lampadine, ciabatte e asciugamani
fabbricati in cina, berretti di lana provenienti dalle montagne del
Kirghizistan, e poi frutta, tanta frutta fresca, sistemata a piramide su bianche
scodelle.
La steppa del Sud |
Lungo l’autostrada fra
Shymkent e Turkestan, le “marshrutke”, furgoni privati che fanno concorrenza al
trasporto pubblico, pressoché insesistente, si susseguono l’una dopo l’altra.
Gli autisti guidano in maniera frenetica, a bordo di ogni Ducato ci sono fino a
dodici persone: madri con i figli piccoli dal volto sudato e bagnato di
lacrime, giovani studenti che tornano a casa per le vacanze, uomini d’affari
con la valigetta nera, i capelli impomatati e gli occhiali da sole. Gli autisti
delle marshrutke salutano i colleghi che sfrecciano nella direzione opposta con
un cenno del pollice, che si solleva per un brevissimo istante dal volante. Un impercettibile
segno di solidarietà fra i capitani della steppa.
Vicino alla città di Turkestan,
non a caso antica capitale del Kazakistan, le campagne sono coltivate. La terra
fertile ha permesso ad alcune tribù kazache di abbandonare mille anni fa la
vita nomade e di occuparsi di agricoltura. Così è nato il Khanato Kazaco, che fra
il XVI e il XVIII secolo conquistò l’intera Asia Centrale. Quella del Khanato
fu però una dominazione debole, che non è riuscita a controllare davvero le
tribù nomadi della steppa e che per questo si è dissolta all’arrivo delle
truppe russe. Rimangono le antiche vestigia dell’ex capitale: un tempio
risalente al Quattordicesimo secolo mai terminato e le mura megalitiche di una
città-isola nel mare della steppa. Fra le antiche pietre delle costruzioni
crollate, i cammelli pascolano mansueti: ogni tanto, un corvo si siede sulla
gobba di uno di loro e scruta il paesaggio circostante, incurante delle
continue ondulazioni a cui la schiena dell’animale lo costringe.
Verso sud, la fascia di
terra fertile lascia di nuovo il posto al consueto paesaggio brullo e marrone. In lontananza, verso est, si scorgono lievi
alture, senza vegetazione e dal profilo nervoso, con picchi e rocce zigrinati
come se si trattasse di vere e proprie cime montuose. Sono le prime sommità
della catena del Tien Shan, che si estende per oltre 2500 km dal Kirgizistan
fino alla Cina.
Nelle ore più calde della
giornata, le colline scompaiono, inghiottite dall’umidità dell’orizzonte o
cancellate dalla fortissima luce solare. Il divario di temperatura fra l’aria
al suolo, riscaldata dalla terra rovente, e quella in quota, di gran lunga più
fresca, genera delle differenze di pressione che danno vita a numerosi,
piccoli, ridicoli tornadi, del diametro di 5-10 metri. I vortici d’aria percorrono
la steppa in tutte le direzioni, indipendentemente l’uno dall’altro. Sollevano
al cielo enormi quantità di polvere. Può capitare che attraversino l’autostrada
o incrocino una linea ferroviaria. Le automobili o i treni che si scontrano con
essi interrompono il gorgo ascensionale e la tromba d’aria perde d’intensità,
fino a esaurirsi nel giro di pochi secondi. La polvere rimane sospesa per
lunghi, interminabili minuti, poi lentamente si deposita al suolo e ricopre la
vegetazione rara, i vagoni merci dimenticati su qualche linea ferroviaria
secondaria, le periferie delle poche grandi città che sorgono nella steppa e su
cui le trombe d’aria non osano vorticare. Le città: le uniche forme certe, le
uniche isole sicure nel mare secco e immenso che va dalla Russia fino al
Kirghizistan e all’Uzbekistan.
(forse una volta, poiché sbiadisce la memoria, un giorno in questo mare
ci è parso di cantare)
Secondo movimento – lento e pensoso, andante con
moto
(Schymkent, pane e
sabbia)
Schymkent |
Shymkent non ha conture
ben definite. Continua a crescere inesorabilmente da circa vent’anni.
Paradossalmente, il centro della città si trova ormai in periferia, ed è
composto da due grandi bolevard che si incrociano proprio nel punto in cui sorge
un’enorme fontana a forma di tulipano. Davanti alla fontana, una gradinata, su
cui i cittadini siedono per trovare un po’ di refrigerio durante i caldi
pomeriggi estivi. A sera, dalle bocchette situate lungo il basamento circolare
che fa anche da vasca di contenimento, partono potenti getti d’acqua verso il
grandioso tulipano rosso, che giganteggia proprio al centro della fontana.
L’acqua scende copiosa lungo le pareti del fiore di pietra, in parte si
nebulizza e viene portata dal vento verso la gradinata. Se i raggi obliqui del
sole al tramonto fendono le minuscole goccioline in sospensione, si forma una
striscia di arcobaleno che i bambini tentano inutilmente di afferrare, saltando
e allungando la mano verso l’alto.
Shymkent è una città abitata
da kazachi e da uzbeki, che da sempre vivono fianco a fianco sin dalla
fondazione della città, che risale a mille anni fa. Shymkent non è lontana dall’Uzbekistan
e fino a pochi mesi fa era possibile passare il confine illegalmente, dato che
la frontiera non era ancora marcata. Gli uzbeki arrivavano in Kazakistan soprattutto
da Tashkent e venivano ospitati per qualche tempo dai parenti di Shymkent;
lavoravano in nero nei cantieri e tornavano a casa dopo qualche mese. Le paghe
in Kazakistan sono più alte di quelle in Uzbekistan. Da quando le autorità
kazache hanno deciso di porre un limite all’immigrazione clandestina, per gli
ubeki è diventato molto più difficile spostarsi e ottenere il visto di lavoro.
Spesso la Storia mostra il suo volto beffardo: i kazachi sono stati per secoli
nomadi, mentre gli uzbeki stanziali, poiché vivevano in zone fertili dove era
possibile la coltivazione dei campi. Shymkent, così come Tashkent e Samarcanda,
sono città uzbeke nate come caravanserragli lungo la via della seta, in cui i
pellegrini, i viaggiatori e i commercianti in viaggio avevano l’opportunità di
rifocillarsi e acquistare frutta e verdura fresca. Al giorno d’oggi, sono gli
uzbeki a doversi muovere, dato che il petrolio kazaco ha fatto sì che
l’economia prosperasse di più nei territori controllati da Astana che non nel
loro paese. Resta il fatto che gli uzbeki sono famosi per la loro abilità in
campo commerciale e non è un caso che quelli nativi di Schymkent siano
proprietari di attività commerciali di ogni tipo. I loro ristoranti hanno le
pareti e gli architravi dipinti di verde, proprio come a Samarcanda. Le
cameriere sono timide ragazze con il velo a nascondere i capelli, che non si
affacciano quasi mai sulla soglia e corrono indaffarate dai saloni alla cucina,
rosse in viso e con un sorriso appena accennato sulle labbra scarlatte e
carnose. Lungo le strade del centro, anziane signore dai vestiti sgargianti
spingono carretti ricolmi di pane uzbeko: enormi, tonde pagnotte profumate, le
stesse che inebriano i viaggiatori all’arrivo alla stazione delle autolinee, sul
marciapiede vicino al bazar coperto da una larga tettoia. Le venditrici di pane
sono di poche parole, hanno i visi intagliati da rughe profonde, scavate più
dal sole che non dall’età.
Shymkent finisce
all’improvviso. Verso nord, senza preavviso, la steppa prende il sopravvento
sulle piccole case dal tetto in lamiera blu. Poi, più nulla; lo sguardo vaga
sconsolato per chilometri e avvista solo i mulinelli delle trombe d’aria,
lontano, in un punto indefinito dell’orizzonte. Meglio voltarsi dall’altra
parte, andare verso il parco Abay e ancora oltre, incontro ai centri
commerciali, ai cantieri dei palazzi nuovi di quella che un tempo era la
periferia e che ora si trova al centro della città. E poi più giù, ancora, fino
al Parco dell’Indipendenza e alla stazione ferroviaria, un edificio in stile
neoclassico dai treni blu e dalle numerose bancarelle che, vicino all’ingresso,
vendono cibarie di ogni tipo e tutto ciò che può essere utile per un lungo
viaggio. Le 26 carrozze azzurre del treno per Almaty sono già posizionate sul
primo binario; aspettano sornione il locomotore, che non è stato ancora
agganciato alla testa del convoglio. I passeggeri salgono lentamente e prendono
posto nelle vetture arroventate dal sole. La terza classe è priva di
scompartimenti, le cuccette sono diposte a gruppi di quattro e sono separate da
una semplice parete divisoria. Due letti sono sistemati ai lati, nel corridoio,
uno sopra l’altro. I bambini corrono avanti e indietro, signore di ogni età
passano lungo i vagoni e vendono vestiti, tovaglie, lenzuola e asciugamani. Il
treno si muove con uno strattone, dopo che il cuccettista ha invitato coloro
che non devono viaggiare ad abbandonare la carrozza.
Farhod è uzbeko, ma vive
da trent’anni a Shymkent. Va ad Almaty a ritirare il passaporto presso il
consolato del proprio paese. Il presidente dell’Uzbekistan Karimov ha infatti
deciso che solo coloro che hanno la residenza all’interno dei territori
controllati da Tashkent appartengono alla nazione uzbeka. Tutti gli altri sono
stranieri e per ottenere qualsiasi documento si devono rivolgere alle
rappresentanze diplomatiche all’estero. Farhod è quindi straniero sia in patria
sia in Kazakistan, ma la cosa non sembra disturbarlo. Nato ai tempi dell’URSS,
quando l’Asia Centrale faceva parte dell’immenso impero sovietico, Farhod si
sente a casa ovunque. A Shymkent ha una piccola azienda che si occupa di
installazione di caldaie di seconda mano provenienti dall’Olanda. Insieme a lui
lavorano tre ragazzi, anche loro uzbeki. Farhod ha i capelli ricci, un fisico
sportivo, lo sguardo profondo e una camicia elegante sbottonata sul petto, a
causa del caldo asfissiante nel vagone. Si asciuga nervosamente il sudore dalla
fronte con un fazzoletto di stoffa ben piegato. Dal finestrino di sinistra si
scorge solo la steppa, marrone e striata di bianco verso l’orizzonte. Da quello
destro giganteggiano già le montagne del Tien Shan; i ghiacciai occhieggiano
sulle cime, stemperati dalla foschia della sera che ne rende i contorni incerti
fino a confonderli con i picchi rocciosi circostanti. Farhod è stato alpinista,
conosce ogni cima del Tien Shan fino alla catena del Pamir. A cinquant’anni ha
un unico grande desiderio: vedere Venezia, città sprofondata nella laguna, l’esatto
opposto delle montagne su cui ha trascorso buona parte della propria esistenza.
Non sa se tornerà a vivere in Uzbekistan: la moglie e i figli si sono ormai
ambientati a Shymkent. Tutto dipende dalla situazione politica: quando il
presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbayev, che ha 75 anni, non ci sarà
più, potrebbero scoppiare disordini fra le componenti minoritarie e i Kazachi;
soprattutto i russi nel nord del paese potrebbero proclamare l’indipendenza con
l’appoggio di Mosca. Uno scenario ucraino non è purtroppo da escludere neanche
in Kazakistan. In un caso simile, sarebbe forse meglio tornare a casa, a
Tashkent, o provare ad aprire un’attività commerciale a Samarcanda.
Nell’incertezza del mondo post-sovietico, in una situazione politica liquida,
anche gli uzbeki, da sempre stanziali, sono diventati un popolo migratorio.
(volgetevi verso il richiamo, benedite i fiori
calpestati, l’acqua dei pozzi che avete bevuto vi saranno protettori durante
l’esilio intrapreso: fra selve incantevoli e stagioni impetuose.)
Terzo movimento – allegro con moto, andantino.
(Ten chi: cielo e terra)
Il rapido da Schymkent entra
puntuale nella stazione di Almaty 2, davanti alla quale una massa confusa e
brulicante di tassisti abusivi prende d’assalto i passeggeri in arrivo, ancora
assonnati e stanchi. L’aria è fresca, quasi pungente, una brezza leggera scende
dai monti i quali, alle spalle della città, raggiungono i 3500 metri di
altezza. Farhod si avvia rapidamente verso la fermata dell’autobus, lungo il
boulevard delimitato ai lati da due piccoli canali, fra la strada e il
marciapede. Quasi ogni strada di Almaty è fornita di simili fossi, al fine di
convogliare l’acqua proveniente dalle montagne verso nord, dove comincia la
steppa e il formidabile altopiano che dai piedi del Tien Shen si estende fino alla
Siberia.
La periferia settentrionale
di Almaty non ha una forma ben definita. Le case sono basse e molto semplici,
con giardini poco curati sul retro, e si alternano a officine dalle
saracinesche sollevate, che lasciano intravvedere l’intimità degli interni
ombrosi: copertoni abbandonati negli angoli più remoti, dove la polvere della
steppa si deposita in maniera impercettibile ma testarda; telai arrugginiti di
vecchie automobili; uomini a petto nudo affaccendati intorno a presse e tavoli
ricolmi di attrezzi di ferro. Fra le strade, come innocui serpenti, si insinuano
i binari di linee ferroviarie secondarie, ormai in disuso: fino a qualche anno
fa, servivano le industrie di Almaty, privitizzate dopo il crollo dell’URSS e
successivamente fallite. Adesso ospitano le carcasse di vecchi vagoni, le cui
ruote sono completamente ricoperte da rovi ed erbacce: la terra, immobile e
invidiosa, ha voluto legare per sempre a sé i carri che per anni l’hanno
percorsa in velocità e in assoluta libertà.
La città prende corpo,
dimensioni e forma verso sud, lungo il boulevard Dostyk, ex boulevard Lenin,
che attraversa tutto l’agglomerato urbano. Come Shymkent, anche Almaty non ha
un vero e proprio centro. Gli edifici di fattura sovietica si alternano a
parchi, chiese ortodosse e piccole moschee. Almaty è stata la capitale del
Kazakistan fino al 1997, fino a quando cioè il presidente Nazarbayev non ha
deciso di trasferire la propria residenza, il parlamento e i ministeri ad
Astana, che fino ad allora era poco più grande di un qualsiasi villaggio perso
nella steppa. Ufficialmente, Nazarbayev ha preso una simile decisione per via
dei numerosi sciami sismici che colpiscono Almaty; la vera ragione è però legata
al fatto che il presidente ha voluto rimarcare la presenza delle istituzioni
kazache nel nord del paese, abitato principalmente da russi.
Sulle panchine disposte
lungo il perimetro di Piazza della Repubblica, un enorme quadrangolo che ospita
il nuovo palazzo delle conferenze, siedono giovani ragazze che centellinano
gelati e si guardano attorno indolenti e annoiate. Fra loro c’è anche Marina:
ventiquattrenne, ha il viso squadrato e i lineamenti molto regolari. Gli occhi
sono leggermente a mandorla, asiatici. Marina è russa ma la sua famiglia vive
ad Almaty da generazioni, da quando cioè la città, fondata nel 1854 come avamposto
meridionale dell’impero russo, ha cominciato a svilupparsi economicamente. Marina
ha terminato la facoltà di ingegneria dell’Università kazaco-tedesca di Almaty;
ha anche discusso la tesi di master ad Hannover ed è tornata in Kazakistan
convinta di riuscire a trovare lavoro senza grosse difficoltà. Chi non è in
possesso di una raccomandazione, però, raramente riesce a impiegarsi in
un’industria, sia pubblica sia privata; in più, le poche aziende che hanno
contattato Marina le hanno chiesto se fosse disposta ad accettare tangenti da
parte dei clienti. Marina si sarebbe dovuta occupare di controllo degli
impianti elettrici ma la maggior parte delle industrie kazache non sono in
regola con le normative previste dalla legge. I direttori risolvono il problema
pagando gli ispettori, che in cambio certificano la regolarità degli impianti.
Marina ha fermamente rifiutato questo tipo di lavoro e sta valutando l’ipotesi
di tornare a vivere in Germania. La spaventa anche il futuro politico ed
economico del Kazakistan. Il presidente Nazarbayev, che controlla con mano di
ferro il paese da vent’anni, non sembra pensare alla propria eredità; non ci
sono élite pronte a proseguire il suo operato. In più, il Kazakistan ha basato
la propria economia sull’esportazione di petrolio: adesso che il prezzo del
greggio è crollato da 100 a 40 dollari al barile e la situazione economica
comincia a peggiorare, gli egoismi nazionali potrebbero esacerbarsi e portare
alla dissoluzione del paese. Se il nord, abitato prevalentemente da russi,
dichiarasse l’indipendenza, a pagarne le conseguenze sarebbero quelli come
Marina e la sua famiglia, russi kazachi che da sempre vivono ad Almaty. Il
Kazakistan rischia di diventare una nuova Jugoslavia.
(Le porte dell’Inferno sono a Tengiz, vicino al
Mar Caspio, dove si trova il più grande giacimento petrolifero kazaco. Il
dottor Fischer, americano, docente di economia a San Francisco, visitò insieme
ai propri studenti i pozzi con una maschera antigas sul viso, per difendersi
dagli acidi sulfurici che il terreno di tanto in tanto e senza preavviso rilascia.)
La passeggiata domenicale a Shymbulak |
Dalla parte opposta della
piazza, di fronte all’hotel Kazakistan, un altissimo edificio sulla cui sommità
svetta un ornamento di cemento simile a una corona, un’enorme fontana spruzza
acqua verso il cielo ed è come un’isola di refrigerio nell’asfalto che la
assedia da ogni lato. Ogni sera, poco prima del tramonto, una signora anziana,
dagli occhi a mandorla e dalle gambe solcate da vene visibilmente dilatate, si
arrampica lungo il boulevard Dostyk, verso le panchine poste di fronte alla
gran vasca d’acqua. Con lei ci sono sempre due bambini, grassi e malati, due
fratelli, che camminano a fatica; uno dei due trascina dietro di sé un
camioncino di plastica, legato a un filo di spago. Giocano per qualche tempo
vicino alla fontana, che nella loro fantasia assume le dimensioni del mare. La
donna anziana, forse la loro nonna, li guarda con apprensione, sa che se
dovessero fuggire verso la strada trafficata lei non potrebbe correr loro
dietro, non ne avrebbe le forze. I bambini giocano, cercano di coinvolgere
anche gli altri ragazzini, a loro volta attratti dall’acqua come le vespe.
Nessuno però vuole fermarsi e passare del tempo con loro due, e a nulla vale il
tentativo di mettere in mostra il bel camioncino rosso e giallo, con una
betomiera che ruota su sé stessa quando anche le ruote nere e luccicanti sono
in movimento (una sera di agosto, davanti
alla fontana si fermò un gruppo di giovani manager, con in mano dei palloncini arancioni
ricolmi di elio su cui nereggiava il nome della ditta per cui lavoravano. I due
bambini si fermarono incantati, uno di loro cercò di afferrare un pallone, ma
il capo dei manager, una ragazza sui trent’anni, cacciò via i fratellini, con
educata e impietosa fermezza). Solo quando il sole tramonta, la nonna
chiama i fratelli e si avvia verso casa: la signora ancheggia faticosamente,
reggendosi a stento sulle gambe che, muovendosi a scatti, costringono il busto
a piegarsi ora a destra e ora a sinistra, proprio come una nave nel mare in
tempesta. I bambini scappano via veloci, discendono il boulevard Dostyk allegri
e schiamazzanti, mentre accanto a loro sfrecciano i ragazzi con lo skateboard:
Almaty è una città obliqua e in bicicletta o con lo skateboard, se i semafori
sono verdi, si può andare nel giro di pochi minuti dalla periferia meridionale
a quella settentrionale, lì dove finiscono le case e comincia il mare della steppa.
(Pietà, infinita pietà… - Azucena, atto II)
Il mercato centrale di Almaty |
Finale: a tempo di minuetto
Da Piazza della
Repubblica a Medeu ci vogliono solo 15 minuti di autobus. Medeu è la località
più a sud di Almaty, ed è già alta montagna: dal piazzale di fronte allo stadio
del ghiaccio parte una lunghissima funivia che permette a chi voglia scappare
dal caldo della città di arrivare in pochissimo tempo a Shymbulak, un
larghissimo spiazzo a 3100 metri di altezza da cui si dipartono numerose piste
da sci. Il ghiacciaio che fino a qualche anno fa ricopriva il picco più alto di
Shymbulak si sta a poco a poco sciogliendo: dietro di sé lascia un’impressionante
quantità di detriti, che la lingua di ghiaccio ha portato verso valle nel corso
dei secoli. Il paesaggio è brullo, immerso in un silenzio interrotto soltanto
dai lontani rombi di frane e di pietre che rotolano. Il Tien Shan è una catena
giovane, ancora in via di formazione, nata dall’incontro-scontro fra la placca
eurosasiatica e quella indiana. Le montagne si innalzano incessantemente, i
picchi raggiungono altezze vertiginose in poche migliaia di anni e le rocce
sulla loro sommità spesso perdono l’equilibrio, cadono all’improvviso e lasciano
dietro di loro una scia di polvere marrone, che rimane sospesa per qualche
minuto fra cielo e terra.
Solo le cime più alte
sono coperte da nubi. Sul Tien Shan sia i cumuli sia i cumulonembi,
responsabili dei violenti temporali estivi che flagellano le montagne, non si
formano quasi mai sotto i 5000 metri d’altitudine. Nella stagione calda, le
nuvole arrivano da sud, dal lago di Issyk-Kulj e dai massicci del Kirghizistan.
Le alte pressioni che dominano sulla steppa, però, impediscono a questi sistemi
nuvolosi di estendersi oltre le montagne, oltre Medeu e la periferia sud di
Almaty. D’inverno, invece, le perturbazioni scendono da nord-ovest, dalla
Siberia, e portano pioggia e neve persino in pianura. Anche in questo caso,
però, le nuvole viaggiano ad altezze notevoli. Almaty non si sveglia mai nella
nebbia. Il cielo è pulito, privo delle scie di condensazione degli aeroplani,
dato che le principali rotte aeree passano per il nord del Kazakistan o più a
sud, sul Pakistan e sull’India. La via della seta continua a essere soltanto
una via di terra.
Il mercato verde di Almaty |
Aziza ha ventidue anni. Magra,
alta, dinoccolata, ha un viso regolare e la forma degli occhi appena allungata:
è kazaca ma è nata e cresciuta a Tashkent. I tratti somatici tradiscono
ascendenze uzbeke: il meticciato è tipico del Centro-Asia, da sempre crocevia
di popoli e di culture. Aziza ha deciso di trasferirsi in Kazakistan per
l’Università. I genitori e i due fratelli più piccoli l’hanno seguita, dato che
ad Almaty le retribuzioni sono di gran lunga più alte che a Tashkent. Di sera,
la ragazza balla in un ristoranze uzbeko e durante il giorno studia lingue
straniere in uno dei numerosi atenei privati della città. Con il proprio stipendio,
Aziza aiuta i genitori a pagare il mutuo dell’appartamento che hanno comprato
nella periferia a nord di Almaty, vicino all’autostrada che i cinesi stanno
costruendo e che collegherà Pechino all’Europa in soli 4 giorni.
Aziza sogna di
trasferirsi in Irlanda, perché ha sentito dire che laggiù le nuvole sono basse,
e navigano sospese sul mare come se fossero grandi, bianche e grigie navi da
crociera.
***
CATALINA
Pensieri liquidi
di Sabrina Peron
Per compiere la
traversata del Catalina Channel (L.A. – California) occorre rispettare alcune
regole fondamentali della Catalina Channel Swimming Federation - CCSF: si nuota
senza muta, con un normale costume da piscina, la cuffia e gli occhialini; non
si può mai toccare il kayak o la barca che seguono da vicino. La distanza da
percorrere è di circa 20/21 miglia (poco meno di 39 chilometri, a seconda delle
correnti). Generalmente si parte di notte per evitare il traffico delle navi e
le correnti sfavorevoli. Io sono partita
alle 00,16 del 22 agosto 2015, dalla spiaggia di Doctor's Cove - Isola di
Catalina Le condizioni del tempo erano ottimali: mare calmo, leggera brezza,
temperatura dell'acqua 22 gradi circa (71 Fahrenheit, che per lo stretto di
Catalina è insolitamente "calda").
Durante la traversata ho ricevuto
alcune "visite" piuttosto insolite per quel tratto di oceano
Pacifico. Alle 8,32 del mattino, uno squalo martello di circa 2 metri, senza
intenzioni aggressive, avvistato a poco più di una quindicina di metri da me.
Alle 10,37 una tartaruga marina, a circa 10 metri. Tra le 11,17 e le 11.23, un
giovane squalo blu, a circa 20 metri. Sono arrivata alla spiaggia di Terranea
Cove di Ranchos Palos Verdes, dopo 12 ore, 10 minuti e 38 secondi: la prima
donna italiana nella storia ad aver attraversato lo stretto di Catalina a nuoto. Qui sotto i miei pensieri, necessariamente, liquidi e
frammentari.
Inizio
Notte
20/21 agosto 2015
Oceanside
(Ca) – Home: Sogno. Notte. Mare. Nero. Onde. Pesci. A branchi numerosissimi.
Uno grande. Enorme (Balena? Leviatano?). Nero come il mare. Nero su nero.
Spalanca la bocca. Gigantesca. Come Pinocchio ci nuoto dentro: bracciata,
bracciata, respirazione, gambata. Nero.
21
agosto 2015
Giorno
Oceanside
(Ca) - Home: Feeding plan: pronto. Integratori: pronti. Cuffia, costume
occhialini: pronti. Vestiti caldi per il “prima” e il “dopo” traversata:
pronti. Io: pronta, ma vorrei essere altrove.
Tardo
pomeriggio – ore 16 circa
Oceanside
(Ca) - Home: arriva a prenderci Anthea Beletsis (con il kayak). Caricata
la macchina. Partiamo in tre: Anthea (paddler), Ingrid (head-crew),
io (swimmer…ma vorrei non esserlo più).
Tardo
pomeriggio
Freeway 405: On the road verso San Pedro (Ca). Da lontano scintilla
l’Oceano. Pacifico Lo guardiamo tutte. Anthea, mi guarda e sorride: we’re
near… si we're near, ma vorrei essere altrove.
Freeway
405: Penso: illusioni, aspettative, desideri, speranze, scopi, sono tipicamente
umani. Penso: Oceano = Natura. Natura priva di telos. Tantomeno fini che
hanno a che fare con l'Uomo. Con me. La natura segue leggi fisiche. É
indifferente a tutto. Penso. Penso la lezione di Leopardi. Lo penso ma, poi,
vorrei invocare Divinità barbare, Dei mediterranei (schiere di Dattili, Eolo,
Poseidon, Minerve alate), Madonne cristiane, Pater noster. Penso: è tutto
inutile. Penso: lo è davvero? Penso: le mani di dio. Penso Rodin. Penso é
troppo facile ora avere fede. Penso: paura, fragilitá. On the road
procediamo verso la nostra meta.
Freeway
405: Penso (ancora): affrontare il mare ad "armi pari”: sfida?
insolenza? vanità?
Métron (limite, il mio). Hybris
(tracotanza, la mia). Didódai díkēn: pagherò il fio di così tanta
tracotanza? Si risveglieranno le Erinni o veglieranno le Benevole?
Freeway
405: Altri pensieri: non posso controllare il mare, le correnti, i venti. Posso
controllare solo il mio corpo e la mia mente. Sicura? No. Riformulo: posso tentare di controllare.
Devo sperare di controllare. Devo controllare. Solo il mio corpo. E la mia
mente. Tutto il resto in balia degli eventi, del mare, delle sue creature. Di
chi mi accompagna. Fiducia. Fiducia negli altri. Fiducia in me stessa. Fiducia
nella sorte, nei venti, nelle correnti. Fiducia nei pesci.
Sera
- ore 19 circa
San
Pedro (Ca) – Long Beach Habor : Arrivate, attendiamo sul molo. Osserviamo
pescherecci ormeggiare con sea lions e pellicani a seguito. Arriva il
capitano dell'Outrider (John Pittman). Arrivano i due Observers del
Catalina Channel Swimming Federation - CCSF (Jodi DiLascio e David Clark),
arriva Neil van der Byl (paddler). Passa Dan Simonelli per un saluto e
per portare acqua (spacciata per) miracolosa: la kangem water. La bevo.
Come fosse acqua santa, acqua di Lourdes. L'Outrider ritarda la partenza:
problemi col motore? Penso, bene tanto non ho fretta. Spero in un guasto
irreparabile. In un autoaffondamento dell’Outrider. L’Outrider parte.
Sera
- ore 22 circa
Sull’Outrider
(in viaggio verso l'isola Santa Catalina – più o meno due ore): Esame del feeding
plan: Ingrid spiega. Esame degli integratori: altre spiegazioni pazienti di
Ingrid. Raccomando: acqua calda, bollente, per sciogliere integratori e
maltodestrine. Raccomando (ancora): warm
feed, please. Speranze: speriamo non mi facciamo star male di
stomaco. Training mentale: aspettati sapori disgustosi; aspettati
lingua&gola bruciata dal sale. Aspettati il peggio. Sempre. Messa a punto:
da dove mi passeranno gli alimenti? Neil (perentorio): dal kayak. Tutti
approvano. Anch’io. Neil si è portato un piccolo zaino che pare la borsa di
Mary Poppins: estrae pinzette e trasforma delle semplici bottigliette in
borracce. Pronte a essere lanciate in acqua e riprese dal kayak.
Sempre
sull’Outrider (sempre in viaggio verso l'isola Catalina): è ora del briefing.
Momento solenne. Riuniti in cabina. Tutti presenti: swimmer (Sabrina), headcrew
(Ingrid) paddlers (Anthea e Neil) observers (Jodi e David), captain
(Jonh Pittman). Mi siedo vicina a Jodi: la sua presenza, non so perché, mi
rassicura. Jodi&David enunciano (solennemente) le regole del CCSF: è
permesso indossare solo una cuffia, gli
occhialini e un normale costume da piscina. E’ permesso spalmarsi di
vaselina o lanolina. Non è permesso toccare il kayak o la barca. Il
cronometro parte dal momento in cui metti un piede in acqua. Il cronometro si
fermerà nel momento in cui metterai entrambi i piedi sulla sabbia asciutta.
Sguardi. Domande. Spiegazioni. Rassicurazioni
Penso:
ok keep calm Sabrina. Segui il kayak nuota non fare mai di testa
tua, nuota. Segui il kayak. Tu segui il kayak. Non viceversa. Tu
dai il ritmo. L'Outrider la direzione. Il kayak segue l’Outrider.
Fidati. Siamo qui per te. Perché tu possa traversare questo stretto. Arrivare.
Toccare la terraferma. Tornare a casa.
Neil
dice (severo): non allontanarti dal kayak. Il kayak non verrà a
prenderti se ti allontani. Poi dice: immagina il kayak come la corsia
della piscina. Segui la corsia. Facile, penso. Sono in piscina. Il kayak
è la corsia. Bene sì. Facile. Seguo la corsia. Non ho paura. Acqua fredda. Gli observers
sentenziano (gravi): questa è una traversata di acque fredde, a cold water
challenge. Fortunata. Sei fortunata l'acqua è quasi calda: 21/22 gradi.
L’Oceano è calmo. Smoother. Condizioni ideali. Dream condition for a swimmers. Keep calm.
Siamo qui
per te: questa è la tua festa. It’s your party. Ora dormi. Riposati.
Si
ora mi stendo e dormo. Punk nelle orecchie. Occhi chiusi. Mi copro,
vestiti caldi a strati e sotto il costume. Colorato. Allegro. Voglio allegria: it’s
my party. L’Outrider avanza e ondeggia. Smetto di pensare. Non pensare. Tra
poco arriveremo all’Isola Catalina. Non pensare. Musica. Alza il volume.
22
agosto 2015
Isola
di Catalina (Passata da poco la mezzanotte): ci siamo l'Outrider è quasi
arrivato. Sento che rallenta. Balzo su. Sono pronta. Rido. Mi spoglio. Resto in
costume. Mi spalmo di lanolina. Ingrid mi aiuta. Prendo dose doppia di
integratori preparati da Ingrid. Ho freddo. No non è vero. Non ho freddo.
Sistemo la luce sulla cuffia. Ingrid mi aiuta a sistemare la candela luminosa
sul costume. Nervosismo. Ingrid spezza la candela. Come ha fatto? Sono tutta
luminescente. Strisce luminose verdi lungo le gambe. Ingrid ha le dita delle
mani tutte verdi. Mi viene da ridere. Ingrid sistema una nuova candela. Ecco
sono pronta. Esco dalla cabina. Mi guardo attorno. E’ tutto buio. Ho freddo,
non importa, non ho freddo, non lo sento. Ho freddo appoggio le mani sul thermos
caldo (meglio di niente penso, ma non pensare). Ecco ci siamo. Metto gli
occhialini: li ho sporcati di lanolina, pulisco le mani, pulisco gli
occhialini, li rimetto. Esco sulla ponte. Guardo il mare, Anthea vicina
sorride, mi incoraggia. Ingrid, mi rassicura dice: vai. Nero. Devo saltare in
acqua. Rido. Stringo la mano a Jodi. Una stretta forte. Neil sta preparando il kayak.
Cerco il fondo dell’acqua. Nero. Chiedo è abbastanza profondo? Si lo è. Si è
ora. E’ ora, dai. Tuffati. Mi tuffo.
Ore 00,16
Dall’Outrider
(ormeggiato) all’Isola di Catalina
Mi
tuffo. Cerco di fare un tuffo dignitoso. Come se fossi in piscina. Ai blocchi
di partenza. Penso: ma sono un brocco nei tuffi. Penso non importa. Pronti,
Via. Ecco sono in acqua.
Mi
dirigo verso la Doctor’s Cove Beach. Acqua fredda. No. Meno fredda di quanto mi aspettavo. Penso: Ok
posso farcela. Devo farcela. Sono sulla spiaggia. Esco dall'acqua. Sistemo gli
occhialini. Mi attengo alle regole: alzo una mano, metto il piede nell'acqua.
Mi dimentico di abbassare la mano. Resto con il braccio alzato, i piedi
nell’acqua. Cosa devo fare? Neil dice qualcosa: abbassa il braccio. Non
capisco. Neil mi fa segno. Sì devo abbassare il braccio. Lo abbasso. Ecco ora
il cronometro è partito: ore 00,16 - 22 agosto 2015. Tic, tac. Entro in acqua.
Inizio a nuotare. Bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Nero. Come nel
sogno.
La
lunga notte
Nell’Oceano
– Notte (primi minuti).
Temperatura acqua
72F[1]. Temperatura aria 69F.
Altezza onde: mare piatto, glassy. Velocità vento: 5 nodi[2]. Frequenza bracciate: 57
al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).
Penso
sto bene. Penso è buio. Penso non importa. Penso è fredda. L’acqua. L'aria.
Penso no, non ho freddo. Penso sto bene. Penso nuota: nuota, bracciata,
respirazione, gambata. Penso: conta. Conto: uno due tre quattro. Mi fermo a
quattro. Di più non riesco. Troppo faticoso. Ricomincio: uno due tre quattro.
Sto vicina al kayak. Vicinissima. Non voglio perderlo, perdermi nella
notte. Non pensare, nuota.
Il
kayak di Neil è grande, a pedali, usa poco la pagaia. Bene, così riesco a stargli vicino. Il kayak
Neil ha una lunga luce verde sul lato: é proprio come la corsia della
piscina, penso. Mi sento protetta. L'Outrider è al di là del kayak, lo
intravedo, io sono nella posizione più esterna: Outrider, kayak,
Sabrina. Respiro a sinistra. Solo così posso vedere il kayak. Quindi io
a sinistra sul lato esterno. Alla mia sinistra il kayak e alla sinistra
del kayak, l'Outrider. La luce verde del kayak mi ipnotizza.
Nell’Oceano
- Notte (prima mezz'ora e oltre).
Temperatura acqua
72F. Temperatura aria 70F. Altezza onde: 1ft [3] (scala
Wave Height Feet). Velocità
vento: 5 nodi Frequenza bracciate: 53 al minuto (Fonte dati: diario di bordo
tenuto dagli Observers CCSF).
La rotta |
Ore
2.45 – 3.15
Nell’Oceano
- Notte (fonda).
Temperatura acqua
72F. Temperatura aria 68F. Altezza onde: 1ft. Velocità vento: non riportata. Frequenza
bracciate: 51 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers
CCSF).
Neil
avvisa: al prossimo rifornimento cambio di canoa. Allora son circa tre ore al
prossimo rifornimento. Di già? Tre ore. Sei rifornimenti. Conta: uno- due- tre-
quattro. Neil si dà il cambio con Anthea. La canoa di Anthea è più piccola, non
è a pedali ma solo con la pagaia. Non
posso starle troppo vicino: Non ci riesco. Mi avvicino troppo Anthea non riesce
a pagaiare. Non vedo la fine della pagaia. Notte. Buio. Ma dove finisce la
pagaia?
Mi
avvicino ancora. Finisco quasi sotto la kayak. Mi allontano. Ora sono troppo
lontana. Vado più vicina. Cerco le luci del kayak. Cerco di orientarmi
con la distanza: non troppo lontana, non troppo vicina. Gli occhialini sono
sporchi. Entra acqua. Devo resistere
fino al prossimo rifornimento. Non ci pensare nuota. Conta: uno-due-tre-quattro.
Attenta alla pagaia. I piedi hanno toccato, qualcosa. Cosa? Non ci pensare. E’
stato un attimo. Forse non hanno toccato nulla è stata una impressione. Nuota
non pensare. Anche la mano destra ha toccato qualcosa. Cosa? non pensare nuota.
Avanti. La notte finirà. Sentinella a che punto è la notte?
All’angolo
destro dell'occhio destro vedo lampi di luce. Non ci pensare. Saranno gli
effetti della bioluminescenza. All’angolo sinistro dell’occhio sinistro vedo
invece dei cerchi concentrici. No, non è vero. Non ci sono cerchi in mare. Non
pensare. Nuota. Seguo il kayak. Penso: non avanziamo, stiamo girano in cerchio.
Lampi di luce nell'occhio destro. Davanti a me appare una palizzata enorme di
legno marrone. Impossibile. Siamo in mare. Attenta ci vai a sbattere.
Impossibile siamo in mare, non si sono palizzate in mare. Stiamo girando in
cerchio. Impossibile l'Outrider sa la direzione. Quando arriva il prossimo
rifornimento? Ho freddo. Anthea fa segno con la mano: due. Mancano due minuti.
Conta. Forza, conta le bracciate. Ne conto quarantacinque. Arriva il
rifornimento: è freddo. Chiedo un rifornimento caldo: a warm feed, please.
Ho freddo.
Ore
3,12 - 4,45
Temperatura acqua
72F. Temperatura aria 68F. Altezza onde: 2-4ft. Frequenza bracciate: 53 al
minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).
Dall'Outrider
vogliono sapere: cosa ha chiesto? Come sta?
Rispondo: good! gooood! (she says she feel good,
riporteranno nel diario di bordo). Riprendo a nuotare. Conto: uno-due-tre-quattro.
I lampi di luce sono passati. Avanti così. Quando finirà anche questa notte? Mi
chiedo. E’ una notte che non passa. Mi rispondo. Si passa. Sto diventando
schizofrenica, penso. Penso: pazienza. Ci vuole pazienza, il tempo scorre
arriverà il giorno. Pazienza. Non pensare, nuota. Nuovo rifornimento Anthea
dice continua da sola, sempre dritta, vado a prenderti del warm feed.
Guardo l'Outrider, beccheggia. Mi sembra enorme. Guardo davanti a me. Cerco di
decifrare la notte. Vedo onde nere. Anche loro mi sembrano enormi. Mi sembra
che mi sollevino e mi sprofondino. Guardo oltre le onde. Lontanissima la luce
di un faro: appare e scompare. Mi sembra di vedere delle mura dietro il faro.
Perché penso alla città di Dite? Sto andando all’inferno penso. Riprendo a
nuotare. Sola. Anthea è andata verso l’Outrider. Non ho paura. Fidati. Vai.
Anthea arriverà subito. Questione di minuti. Anzi di secondi. Anche meno. Ecco
Anthea con il warm feed. Sto meglio. Riprendo a nuotare: bracciata,
bracciata, respirazione, gambata. Conto uno, conto due. Conto tre. Conto
quattro. Ancora tocco qualcosa con la mano destra ma non ci penso e conto.
Conto uno. Conto due. Conto tre. Conto quattro.
Penso
agli squali. No, non ci sono squali qui. Penso ad altri animali: orche, balene,
delfini. No non si sono animali qui. Ci sono io. Non pensare nuota. Conta.
Sento la canea che monta. Lo so stanno aspettando: il successo, il fallimento.
Ho freddo. Penso: se hai freddo nuota più forte. Non posso fermarmi. Non mi
fermerò. Non posso. Non voglio rinunciare. Non me lo perdonerei, non mi
perdonerei la canea e quel stupido video ed i commenti. Sento il ringhio di
sottofondo. Sento: ah ma noi l’avevamo detto che nuotava troppo lenta; ah ma
noi l’avevamo detto che c'era freddo, che c'erano i pescecani … che non poteva
farcela.
Penso:
maledetta hybris. Ho superato il mio métron. Penso ancora: non ci
sono squali. Non se ne sono mai visti qui. Ah che gusto quando dirò fifoni,
menagrami non ci sono squali, non ne abbiamo visto uno. Ah che gusto. Non
pensare nuota. Non dirai proprio nulla. Nuota. Cerca il ritmo. Conta:
uno-due-tre-quattro. Ha da passà ‘a nuttata. Ha da passà.
L’alba
Nell’Oceano
- Alba
Ore
– 4.45 – 6,15
Temperatura acqua
72F. Temperatura aria 69F. Altezza onde: 1ft. Velocità vento: 3-4 nodi.
Frequenza bracciate: 52 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers
CCSF).
Nuovo
rifornimento. In lontananza mi pare di vedere il cielo più chiaro. Chiedo ad
Anthea se sta arrivando l'alba. Yesss, dice e sorride. O forse così mi
pare o così ricordo. Penso è fatta, se supero la notte è fatta. E’ passata ‘a
nuttata. E’ passata. Nel frattempo Ingrid, l’headcrew, lotta contro la
nausea.
Nuovo
cambio di turno dei kayakers, arriva Neil: c’è luce. Finalmente. Vedo
Neil, finalmente. Non più la luce verde ipnotizzante della canoa. Al primo
rifornimento glielo dico: finalmente posso vederti. Dall'Outrider vogliono
sapere cosa ho detto e poi tutti sorridono (nel diario di bordo annotano: Sabrina
says: “All right. Finally I can see you”.
All smiles). Arriva del warmfeed. Sto bene. Sto bene (nel
diario di bordo annotano ancora: “I’m feeling very good!”, says Sabrina).
Nuoto. Non ho problemi. Con la luce aumento il ritmo. Dall'Outrider arriva
odore di uova fritte e bacon. Sulla barca è ora della colazione. Mi viene una
fame sgangherata, penso che mangerei una dozzina di uova. Penso che vorrei essere
sull'Outrider al caldo ad ingozzarmi di cibo. Poi penso ok con la luce arriva
il sole. Tra un po' arriverà il sole. Here comes the sun. Canticchio. E
sono quasi felice.
Giorno,
finalmente!
Nell’Oceano
– Giorno
Ore
6.15 – 7,45
Temperatura acqua
72F. Temperatura aria 69F. Altezza onde: 2-4 ft. Velocità vento: 3-4 nodi.
Frequenza bracciate: 53 -50 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli
Observers CCSF).
Nebbia,
nebbia, nebbia e ancora nebbia. Sono circondata dalla nebbia.
Al
rifornimento chiedo: quando arriva il sole? Presto, rassicura Neil. L’oceano ha
preso un colore grigio metallico. Sabrina hoping for the sun scriveranno
gli observers. Si spero nel sole. Spalle fredde. Vorrei del sole che mi
scaldasse le spalle, la schiena. Al rifornimento successivo chiedo ancora: ma
il sole tra poco arriva, vero? Il sole non arriva. Mi viene voglia di piangere.
Solo nebbia. Una nebbia oceanica. Non si vede nulla. E poi, a tradimento,
eccolo: un crampo. Parte dal piede sinistro e risale lungo la gamba. Mi
concentro. Cerco di controllarlo. Provo ad andare avanti. Bracciata, bracciata,
respirazione, gambata. Posso controllarlo, penso. Voglio controllarlo. Finisco
di pensarlo e il crampo si prende anche la gamba destra. Vai avanti, mi dico.
No. Vai avanti! No, non ce la faccio. Mi fermo. Le gambe sono di sasso. Mi
tirano giù. Non riesco a muovermi. Cramps! Grido. Neil chiede se
sull’Outrider ho portato qualcosa contro i crampi. Scuoto la testa,
mortificata. No non ci avevo pensato e poi cosa si prende contro i crampi? Neil
dice ci penso io. Fruga nello zaino di Mary Poppins ed esce una bustina. Dentro
c'è una sostanza marrone. E’ senape! Buona. Penso. Ne vorrei ancora. Poi penso:
senape per far passare i crampi. Questi sono pazzi. Sono Pazzi Questi Americani.
No fidati, lo sanno. Yesss i crampi sono passati. Le gambe riprendono la
loro battuta. Le braccia riprendono a
girare. Bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Sono persino felice.
Prendo velocità. Uno-due-tre-quattro. Vai. Neil grida a Jodi: must be the
mustard kicking her (anche questa frase viene puntigliosamente annotata nel
diario di bordo).
Ore
7.30 - 8,37
Temperatura acqua
72F. Temperatura aria 69F. Altezza onde: 2-4 ft. Velocità vento: 3-4 nodi. Frequenza
bracciate: 52 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers
CCSF).
Io
nuoto. Non penso. Il labirinto dei miei pensieri è sbarrato. Al centro c’è solo
un pensiero: nuota, nuota, nuota. Per il resto nella mia testa si è fatto il
vuoto.
Però
la spalla destra mi fa male. Non voglio fermarmi. Continuo a nuotare. Ogni
bracciata parte un dolore lancinante. Cosa devo fare? Fermarmi? Dirlo? Stare
zitta? Continuo a nuotare. Ma al successivo rifornimento Neil mi chiede se mi
fa male la spalla. Dice che ho cambiato la bracciata: il dolore non è sfuggito
al suo occhio vigile. Ammetto: sto male. Mi passa un antinfiammatorio. Lo
prendo e riprendo a nuotare. Il dolore diminuisce. Poi passa. La bracciata
torna regolare. In lontananza si intravede la terra. Ma non ci voglio pensare, se ci penso so che
sarà troppo lontana e allora crollerò. Non ci pensare non c’è terra, solo mare
e acqua salata.
Nuoto.
Bracciata. Bracciata. Respirazione. Gambata. Cos’è quell’agitazione sulla
barca. Che succede. Osservano il mare. Guardano Neil. Neil li guarda. Osserva
il mare. Non pensare. Nuota. Nuoto vicino al kayak. Più vicino. Non
chiedere. Meglio non sapere. Nuoto: bracciata, bracciata, respirazione,
gambata. Conto: uno, due, tre, quattro. Nel frattempo nel diario di bordo
annoteranno: “6-8 feet [4] hammerhead cruised by
Port-bou, about 20 yards [5]
from swimmer. No aggressive action. Crew
just watched till out of sight”.
Ore 8,50 - 10,00
Temperatura acqua 72F. Temperatura aria 69F. Altezza onde: 1 - 2 ft. Velocità
vento: leggera brezza (light breeze). Frequenza bracciate: 53 al minuto
(Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).
Condizioni
del mare ottime: “still dream conditions for a marathon swim”. Nuovo
cambio: si alterna Anthea. Bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Osservo
Anthea: pagaia sicura, tranquilla. Penso: sto nuotando nell’Oceano, ho al mio
fianco un ex pilota d'aereo, suo padre è uno dei fondatori della scuola di
psicologia di Palo Alto. Queste cose possono accadere solo in America. E’ il
sogno americano. Spero che sia sogno americano anche per me. Nuoto, conto,
respiro, non penso. C'è
nuova agitazione sull’Outrider. Osservano il mare. Guardano Anthea. Anthea li
guarda. Forse dice qualcosa. Osserva il mare. Non pensare. Nuota. Nuota vicino
al kayak. Più vicino. Non chiedere. Meglio non sapere. Anthea si
avvicina all'Outrider. Io mi impongo di non pensare e restare vicinissima al kayak, continuo a nuotare, regolare.
Nuoto:
bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Nel frattempo sul diario di bordo
annoteranno: “10,47 sea turtle basking on surface about 10 mt from Sabrina.
Tartaruga!”. Dall'Outrider tutti rimangono affascinati: mai si era vista
una tartaruga marina in quel braccio di oceano.
E poi circa mezz'ora dopo annoteranno ancora: “11.17
small shark, paralleling our course, overtaking and passing ahead of us. At the
closest it was about 20mt to starboat of Sabrina and kept on going. Saw it until 11,23”.
Tutti
(mi diranno poi) tirano un sospiro di sollievo. Io, volutamente ignara,
continuo con la mia nuotata. Bracciata-bracciata-respirazione-gambata.[
Ore
11,28 – 12,27
Temperatura acqua
71F. Temperatura aria 73F. Altezza onde: 1 - 2 ft. Velocità vento: 8-9 nodi. Frequenza bracciate: 52 al minuto (Fonte
dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).
Ora
tutti sono rilassati la costa si fa vicina. Mi dicono che mancano solo pochi yards. Ma quanto misura un yard mi chiedo.
Non ci pensare sono sempre troppi, mi dico. Nel frattempo un po' di sole è
uscito. Ma non mi importa più. Non penso. Non voglio guardare la costa. Ma poi
alzo la testa. La guardo. Penso saranno ancora cinque chilometri. Ancora
cinque! Dalla barca mi incitano: sento Ingrid gridare ormai ce l’hai fatta! Io
penso: ma no. Ma c'è ancora tutto quel mare davanti. Saranno almeno cinque
chilometri. Cinque. Sei arrivata. Penso: potrei esplodere e disintegrarmi prima
dalla stanchezza. Poi penso: non ci pensare. Non ci pensare. E continuo e
continuo: bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Uno-due-tre-quattro. Ora
la costa è vicinissima. Osservo il fondo del mare: è più chiaro. Cerco di
guardare il fondale: ecco sì, finalmente si vede. Ecco ora ci siamo. Anthea va
avanti. Mi fa da guida per evitare gli scogli. Io la seguo, facendo attenzione.
Dall'Outrider avvisano i bagnati di non avvicinarsi finché non sono sulla
spiaggia asciutta. Io continuo a nuotare fino a quasi grattare il naso nella
sabbia. Poi mi tiro su. Di nuovo su due gambe. Come gli umani. Mi impongo di
non barcollare. Mi controllo. Sto bene, mi dico. Procedo a passi (che mi
sembrano) lenti, pesanti. Sabbia bagnata. Continuo. Sabbia asciutta. Ecco alzo
la mano. Sono arrivata. E’ finita. Tic, tac. Il cronometro di ferma: 12 ore 10
minuti 38 secondi. Dalla spiaggia scoppia un applauso tutto gridano: brava. Mi
fa uno strano effetto. Imbarazzo. Mi sento una sorta di fenomeno da baraccone.
Ma poi penso: chissenefrega. Ce l’ho fatta. Alzo tutti e due i pugni al cielo.
Rientro in acqua per raggiungere l'Outrider. Anthea dice di attaccarmi al kayak.
Rispondo di no. Dall’Outrider mi sono allontanata a nuoto, all’Outrider voglio
ritornarci a nuoto. Ecco sono le ultime bracciate. Mi tirano fuori dall’acqua:
mi tengono, mi sollevano. Mi coprono. Mi fanno domande, per constatare se sono
lucida. Tutti mi abbracciano e io rido e batto i denti e mi guardo le mani che
sono gonfie e bianche e rugose e ancora mi viene da ridere.
Note
Sabrina Peron |
45 YUNNAN
44 PATAGONIA
43 VALLI DEL KALASH
COSTARICA
Per scaricare il documento clicca sull'immagine |
FOTOS RARAS DE CELEBRIDADES
ITALIANI UNICI AL MONDO
di Walter Porzio
AUGURI ANNO NUOVO
NON MALE
BUONI PREPARATIVI
di Lidia Sella
Iran centrale:
da sud a nord (aprile 2014)
Al termine di
una settimana di viaggio a ritmi serrati -e sempre velata- se ora mi volto
indietro, vedo una carovana di immagini ed emozioni…
Masjed-e Vakil
(Moschea del Reggente): una corrente di sacralità talmente intensa da
rapire anche il profano: come nel bosco di colonne della Mezquita di Cordova.
Tomba di Hafez. Al tramonto,
“happy - hour" rigorosamente non alcolico. Per innamorati di tutte le età.
Ma soprattutto per la gioventù locale, affamata di sensualità non
virtuale. L’appuntamento fra le anime gemelle della città ha luogo in uno
scenario inconsueto, cioè nel giardino dove riposa Hafez (“colui che conosce a
memoria il Corano”), poeta di corte vissuto nel Trecento.
Qui un
adolescente foruncoloso, accoccolato ai piedi del sepolcro di pietra, legge a
mente alcuni versi di una pagina aperta a caso in una silloge del poeta. La
leggenda vuole che quel che lì sta scritto si avvererà, a patto che chi implora
la grazia d’amore
si trovi presso l’eterna dimora del vate, dove si crede aleggi il suo spirito.
“Per quale motivo la gioia dell’oggi gettare al
domani?”… Chissà se
Lorenzo il Magnifico conosceva questo verso di Hafez? La rasserenante saggezza
laica che affiora in alcuni “ghazal” di Hafez mi ha ricordato i pensieri di
Marco Aurelio Imperatore, filosofo stoico. Dai testi di Hafez emerge anche una
matrice anticlericale: “E tu bacia due cose soltanto, poeta: le labbra e la
coppa / perché grave peccato è baciare la mano ai bigotti.” Dedito ad amori
omosessuali, Hafez aveva una predilezione per i giovinetti. Un vizietto che non
lo abbandonò nemmeno in età matura: “Sono vecchio, ma stringimi forte una notte
sul petto, / e io dal tuo abbraccio ancor giovane nasco nell’alba.”
Non si può
capitare su questo pianeta senza passare di qui. A Persepoli si respira aria di
eternità.
Capitale dell’impero
Achemenide, fondata da Dario I a partire dalla fine del VI secolo, questa città fu
distrutta da Alessandro Magno già nel 330 A.C.:
una meteora di potenza e bellezza nel firmamento della storia.
I bassorilievi
con il corteo delle delegazioni dei ventitré popoli assoggettati ai Persiani -fra cui Egizi, Libici, Parti, Indiani- carichi di ogni genere di doni per l’imperatore:
carri, scudi, asce, lance; vesti, tessuti, bracciali; vasi, coppe e canestri; e
poi agnelli, tori, antilopi, asini, cavalli, cammelli, dromedari… Mi sarei
soffermata per ore a studiare le sequenze di questa pellicola impressa nella
pietra, eccezionale serbatoio di informazioni di carattere storico, militare,
etnografico, etc... Una scultura didascalica, poco psicologica, tutta tesa
piuttosto a tramandare la consapevolezza della propria superiorità. E l’atmosfera
circostante, in questa giornata di luce perfetta (così l’avrebbe
definita Pessoa) sembra ancora impregnata della solennità
di quei momenti. La stessa nobile magia ariana ci accoglie a Naqsh Rostam, con
le tombe di Dario II, Artaserse I, Dario I e Serse I, tutti avvolti nel manto
azzurro di questo cielo indoeuropeo.
Anche le divinità passano di moda. Chissà se un giorno si parlerà del Dio dei cattolici come oggi di Zeus, Odino o Ahura Mazda?
Anche le divinità passano di moda. Chissà se un giorno si parlerà del Dio dei cattolici come oggi di Zeus, Odino o Ahura Mazda?
Fazargade
L’architetto che
ha progettato la Tomba di Ciro il Grande ha affidato a questo monumento
-austero, imponente, misterioso- un compito semplicissimo:
esprimere una gloria destinata a sopravvivere per millenni. E così è stato.
Interessante la
testimonianza di Arriano sul comportamento di Alessandro Magno verso il nemico defunto: “Alessandro, cui stava a cuore
visitare la tomba di Ciro, trovò che tutto era stato portato via tranne il
sarcofago e il letto; gli “sciacalli”, dopo aver levato il coperchio del
sarcofago, avevano profanato il cadavere di Ciro. Alessandro ordinò di
restaurare la tomba di Ciro, riporre nel sarcofago le parti ancora integre del
suo corpo, metterci sopra il coperchio e murare la porticina d’accesso,
intonacandola d’argilla, e con il sigillo reale. Poi fece arrestare i Magi,
custodi del sepolcro, li sottopose a tortura perché denunciassero i
profanatori, ma costoro si dichiararono innocenti, né fu provato in alcun modo
che fossero complici del misfatto. Pertanto furono rilasciati. I Persiani
accusarono allora il satrapo Orxine, che fu dichiarato colpevole di aver
depredato le tombe reali. Perciò i soldati di Alessandro lo impiccarono.”
Abar Kouk
La Casa del
ghiaccio, edificio di forma conica, a metà strada
fra preistoria e fantascienza.
Yazd
Le Torri del
vento: antichissimi sistemi per rinfrescare gli ambienti in modo naturale,
soluzioni ingegnose e seducenti. I nostri impianti di condizionamento d’aria,
al confronto, sembrano barbare invenzioni.
Nel Tempio di
Zoroastro, una sacra fiamma -accesa nel 425- arde da quasi 1600 anni.
Commovente tributo alla forza degli ideali. E all’importanza
dei simboli.
Torri del
silenzio.
I principi dello Zoroastrismo, applicati al culto dei morti, hanno ispirato la
costruzione delle Torri del silenzio. Qui i cadaveri venivano esposti alle
intemperie e alla voracità dei corvi per
evitare miasmi e impurità derivanti dalla
cremazione.
Raggiunta la
torre più alta di questo sito archeologico, ho notato un adolescente sdraiato a
terra, immobile, le membra abbandonate, sanguinante, in stato di
semi-incoscienza. Accaldato dal sole cocente del meriggio, procedendo lento,
sotto il peso della sua disperazione, è salito fin quassù, cercando proprio la
casa della morte. E ha bussato alla sua porta. Quando lei gli ha aperto, le ha
chiesto solo un po’ di pace e la
forza di ferire il proprio corpo in più punti, con una pietra aguzza.
Tra Yazd e
Isfhan
A Na’in, la
Masjed-e Jameh: moschea
fra le più belle e antiche dell’Iran, costruita fra il X e l’XI secolo.
Suggestivo il mitreo sotterraneo.
Lungo la strada
per Isfahan, ci investe una violenta tempesta di sabbia e vento. All’improvviso
noi e il nostro bus veniamo catapultati nel regno dell’invisibile: sarebbe
stato un buon inizio per un viaggio nello spazio-tempo, attraverso altre
dimensioni.
Isfahan
Mentre cammino
per le vie della città, mi rammento le parole di Robert Byron ne “La via
per l’Oxiana”, quando inserì Isfahan “nel numero più ristretto di quei luoghi,
come Atene e Roma, che costituiscono una fonte continua di delizia per tutta
l’umanità.” Come dargli torto?
Nella sala da
musica all’ultimo piano del Palazzo Ali Qapu, assisto a un concerto
improvvisato davvero speciale, eseguito con uno strumento d’epoca “a corda”,
chiamato “taar". Il musicista -lineamenti levantini ed espressione ispirata- gioca di fantasia su motivi tradizionali del repertorio persiano. Antico e
moderno, Oriente e Occidente si sposano con naturalezza in queste melodie
esotiche ma universali. Nell’ascoltarle ritrovo la stessa vena tragica sottesa
agli “Ultimi quartetti per archi” di Beethoven.
Geniale lo
studio sulle proporzioni auree celate nel progetto della Naqsh-e Jahan Square, per dimensioni
la seconda al mondo dopo Tien’ ammen a Pechino.
A svelare l’appassionante mistero, Jason Elliot, nel sesto capitolo di “Specchi
dell’invisibile - Viaggio in Iran” (Neri-Pozza, Vicenza, 2007).
Torri dei
piccioni.
Costruite per esigenze pratiche eppure non prive di fascino. Qui i volatili
ottengono ospitalità in cambio del loro prezioso concime: una fruttuosa società
tra uomini e animali.
Immersi in
questa architettura di pieni e di vuoti, si ha l’impressione di camminare su
una scacchiera di tenebre e luce. Una sorta di viaggio iniziatico che mi ha
riportato a quelle atmosfere narrative un po’ surreali che ci accompagnano in
certi racconti di Borges. (“Biblioteca di Babele” , “Giardino dei
sentieri che si biforcano” ).
Quartiere
Armeno, Cattedrale di Vank. Un affresco del giudizio universale in stile
Hieronymus Bosch, dove il demonio mette in scena diverse e raffinate forme di
supplizio. Quando i film horror non esistevano ancora, così forse i fedeli
saziavano la loro sete “splatter" di sangue, mostruosità e ferocia.
Un delizioso
gelato allo zafferano, nella sala da tè dell’Abbasi Hotel.
Tappeh-ye Seyalk
(Sialk)
(fra Kashan e
Fin)
Uno ziggurat
del IV millennio, forse ancora più antico di quelli mesopotamici, eroso
dall’acqua e dal tempo, ma in parte ancora integro. L’istinto di pensare in
grande e l’impulso a creare, a costo di immani fatiche, opere capaci di resistere
ai millenni, presuppone una straordinaria fede nel futuro, oltre che energia,
entusiasmo, immaginazione. Fattori che, a giudicare dai risultati, durante
l’infanzia dell’umanità non dovevano certo mancare.
Teheran
Una megalopoli
popolosissima. Dodici milioni di abitanti, la notte. Che durante il giorno, per
l’afflusso di pendolari, salgono a sedici. Una sacca infernale di smog, inquinamento, rumore. Né le auto né i pedoni rispettano i semafori rossi. Forse anche per questo il traffico è spaventoso.
Meraviglioso il Palazzo
Golestan, con sale sfarzosissime e pareti esterne rivestite di specchi in
cui si riflettono giardini incantati.
Imperdibili
capolavori al Museo del vetro e della ceramica.
Teoria di tesori
al Museo Nazionale,: statuina di femmina acefala, tutta cosce e mammelle
(VII millennio), modellino di casa in muratura (V millennio), gigantesco
lucchetto di granito (III millennio), ruota in pietra (II millennio), forchette
sasanidi del 230 d.C. …
Purtroppo, per
un imperdonabile errore organizzativo da parte del nostro tour operator,
capitiamo a Teheran nell’unico giorno in cui il mitico Museo dei
gioielli, ospitato nel caveau della Banca Centrale, resta chiuso al
pubblico.
Come premio di consolazione, indimenticabile visita al Museo del tappeto: dolce naufragare in quel caleidoscopio di colori, motivi, epoche e stili diversi. E, mentre attraverso questo labirinto immaginifico, noto che da ogni figura geometrica affiorano carovane di forme: una sorta di nemesi dell'arabesco.
Gli iraniani appaiono poco sicuri di sé. Quando incontriamo persone del luogo ci chiedono sempre se il Paese ci piace e che cosa pensiamo di loro.
Come premio di consolazione, indimenticabile visita al Museo del tappeto: dolce naufragare in quel caleidoscopio di colori, motivi, epoche e stili diversi. E, mentre attraverso questo labirinto immaginifico, noto che da ogni figura geometrica affiorano carovane di forme: una sorta di nemesi dell'arabesco.
Gli iraniani appaiono poco sicuri di sé. Quando incontriamo persone del luogo ci chiedono sempre se il Paese ci piace e che cosa pensiamo di loro.
Dopo tanta
carne, finalmente assaggio uno squisito kebab di storione.
Anche qui
alberghi spesso fatiscenti, scarsa pulizia ovunque e toilette pubbliche con
bagni per lo più alla turca.
Birra
analcolica: sapore dolciastro e colore equivoco, servita quasi sempre tiepida.
E poi niente vino. Questo lo si sapeva. Ma almeno avevo sperato nell’acqua
minerale gassata, che invece è introvabile. Così, mentre rimpiango un buon
bicchiere di vino bianco, ripenso a una splendida quartina di Omar
Khayyam, poeta e astronomo persiano dell’XI
secolo d.C., appassionato di vino e di donne:
“Quando son
sobrio, la gioia mi è velata e nascosta,
Quando son ebbro,
perde ogni coscienza la mente,
Ma c’è un
momento, in mezzo, fra sobrietà e ubriachezza…
Per quello tutto
darei, quello è la Vita Vera!”
SICHUAN
SORRISI DAL MONDO
ROMANIA
YEMEN
A SPASSO FRA LE PLEIADI
Sette isole,
un’estate. Reportage
di Lidia Sella
Rodi
La via dei Cavalieri |
Ore ventuno del 9
agosto 2014. Atterro a Rodi. Aeroporto affollatissimo. Per ingannare l’attesa
dei bagagli, invento un passatempo divertente. Osservo -dal “punto-vita” in su- alcuni rappresentanti del genere maschile. Se sono molto burini, scommetto
con me stessa che portano i bermuda: e non sbaglio!
Dato l’enorme afflusso di turisti, i tassisti organizzano solo corse collettive.
Al Nireas, cena deliziosa: insalata di ricci freschi, crocchette di granchio, gelato alla crema con backlava.
Uno strano negozio offre l’opportunità di immergere i piedi in una vasca piena di pesciolini, per un massaggio “ittico”.
A notte fonda mi avventuro nella Rodi vecchia, lontano dalla baraonda: pergole di bouganville, aria che profuma di gelsomino come a Capri, luna piena fra le antiche mura e, a sorpresa, l’orgoglioso rudere di una chiesa del XIV secolo, che sembra una San Galgano in miniatura.
La mattina dopo, visito il Palazzo del Gran Maestro e l’Ospedale dei Cavalieri. Poi il Museo archeologico. Con specchio di età minoica (XIII-XIV secolo a.C.), precoce manifestazione di narcisismo. E terracotte del XII secolo a.C.: ma quanti millenni sopravviverà il nostro servizio da cucina?
Dato l’enorme afflusso di turisti, i tassisti organizzano solo corse collettive.
Al Nireas, cena deliziosa: insalata di ricci freschi, crocchette di granchio, gelato alla crema con backlava.
Uno strano negozio offre l’opportunità di immergere i piedi in una vasca piena di pesciolini, per un massaggio “ittico”.
A notte fonda mi avventuro nella Rodi vecchia, lontano dalla baraonda: pergole di bouganville, aria che profuma di gelsomino come a Capri, luna piena fra le antiche mura e, a sorpresa, l’orgoglioso rudere di una chiesa del XIV secolo, che sembra una San Galgano in miniatura.
La mattina dopo, visito il Palazzo del Gran Maestro e l’Ospedale dei Cavalieri. Poi il Museo archeologico. Con specchio di età minoica (XIII-XIV secolo a.C.), precoce manifestazione di narcisismo. E terracotte del XII secolo a.C.: ma quanti millenni sopravviverà il nostro servizio da cucina?
Tílos
Pace e silenzio
irreali: mai un rumore a interrompere il sonno.
Una
sola strada, poco battuta. Impressionanti scorci a strapiombo sul blu, lungo la
via per il Monastero di Agios Panteleimon.
Sul porticciolo di Livadia, dove i traghetti attraccano in un mare limpido come un lago alpino, si affacciano diverse taverne. Kriticos, forse, la migliore.
Sul porticciolo di Livadia, dove i traghetti attraccano in un mare limpido come un lago alpino, si affacciano diverse taverne. Kriticos, forse, la migliore.
Isola
aspra lungo le coste ma con un cuore verde. Qua e là, rocce rosse, simili a unghiate
sulla pelle della Terra.
Acque tiepide, trasparenti, e rari sprazzi d’azzurro. Le spiagge più suggestive sono di ciottoli, quasi deserte persino a ferragosto, per lo più da raggiungere camminando a lungo sotto il sole cocente. O, in alternativa, con la barca un po' zozza del grasso greco Stelio che, incurante del proprio scarso fascino, si lancia in spericolate avances verso le sue clienti. Su un altro pianeta di civiltà si muove invece il fido e simpatico Rob di Manchester, che lo affianca nelle manovre e nell’organizzazione. Peccato gli orari svizzeri, con partenze troppo mattiniere e la giornata spezzata da rientri a metà pomeriggio.
A Plaka, eleganti pavoni si esibiscono fra i bagnanti, nella speranza di conquistarsi una merendina…
Acque tiepide, trasparenti, e rari sprazzi d’azzurro. Le spiagge più suggestive sono di ciottoli, quasi deserte persino a ferragosto, per lo più da raggiungere camminando a lungo sotto il sole cocente. O, in alternativa, con la barca un po' zozza del grasso greco Stelio che, incurante del proprio scarso fascino, si lancia in spericolate avances verso le sue clienti. Su un altro pianeta di civiltà si muove invece il fido e simpatico Rob di Manchester, che lo affianca nelle manovre e nell’organizzazione. Peccato gli orari svizzeri, con partenze troppo mattiniere e la giornata spezzata da rientri a metà pomeriggio.
A Plaka, eleganti pavoni si esibiscono fra i bagnanti, nella speranza di conquistarsi una merendina…
Nella splendida insenatura di Àgios Sérgios, mi
preoccupo di dissetare un intero gregge di caprette. Risultato? Si contendono una
sorsata d’acqua a cornate.
Serata metafisica a Mikro Chorio, music-bar inserito in un paese fantasma: lo spettacolo pirotecnico delle stelle cadenti che sfrecciano sullo schermo infinito del cielo aggiunge un respiro cosmico a questa città sospesa fra vita e morte.
Serata metafisica a Mikro Chorio, music-bar inserito in un paese fantasma: lo spettacolo pirotecnico delle stelle cadenti che sfrecciano sullo schermo infinito del cielo aggiunge un respiro cosmico a questa città sospesa fra vita e morte.
Nysiros
Cratere |
Toccata e fuga,
in giornata, da Tílos. Quattro scie di ricordi.
1) Stéfanos, un cratere
lunare striato di zolfo.
2) Emporio: chora
"bonsai" con pavimentazione mosaicata stile Campidoglio.
3) Il Monastero
della Madonna Spiliani, sul costone roccioso che domina il villaggio marinaro
di Mandraki: un’inquadratura da cartolina.
4) Tílos,
all’orizzonte, affiora dalla foschia come una terra fatata.
Halki
Hotel St. Nicolas
Boutique, unico vero albergo dell’isola, ricavato in un’ex fabbrica di spugne.
Da qui si gode una visione privilegiata sull’armonioso, coloratissimo,
porticciolo ad anfiteatro, patrimonio dell’umanità protetto dall’Unesco. Uno
scenario che lo sguardo e la mente potrebbero contemplare all’infinito, senza
mai stancarsi, come davanti al fuoco nel camino.
Le
chiamano “caves”. In realtà è un canyon fra gli scogli: quando lo si attraversa
a nuoto, sembra di entrare in una galleria di azzurro.
Yaloì e Aréte: luoghi di magica solitudine. Da raggiungere in barca con Lachis Paspalakis, proprietario del bar “La Piazza”, garbato e professionale, niente a che vedere col suo concorrente Alex, incivile ed esoso.
Dal castello, vista mozzafiato sulle isole sorelle: una terrazza sul mondo. E sulla sottostante Baia di Trakià.
Da Remetzo o da Babis, i migliori “little shrimps”.
Yaloì e Aréte: luoghi di magica solitudine. Da raggiungere in barca con Lachis Paspalakis, proprietario del bar “La Piazza”, garbato e professionale, niente a che vedere col suo concorrente Alex, incivile ed esoso.
Dal castello, vista mozzafiato sulle isole sorelle: una terrazza sul mondo. E sulla sottostante Baia di Trakià.
Da Remetzo o da Babis, i migliori “little shrimps”.
Creta (nord-est,
est, sud-est)
Monastero Moni Toploù |
Sitìa: unica nota
di rilievo, il piccolo Museo archeologico. Conserva pezzi interessanti, ad
esempio una vasca da bagno di epoca palaziale (1700 a.C.).
I
siti archeologici che ho visitato da queste parti (Itanòs, Palèkastro, Katò
Zàkros, Tripitì, Gournià) sorgono in
posizioni panoramiche straordinarie, sebbene si trovino purtroppo in pessimo stato di conservazione.
Riguardo
alle spiagge, ve ne sono di magnifiche. A est: Roussòlakkos, Katò Zàkros e,
soprattutto, Xerocambos. Oltre alla mitica benché troppo affollata Vài. A sud:
Diaskari e Agìa Fotìa. A nord est, nei pressi di Istron, la Golden Beach di
Voulisma.
Nuotando
a Kató Zakrós, ho rischiato la vita: intenta a inseguire un pensiero, e a
modellarlo in forma perfetta, non mi ero accorta che il vento che si era levato
improvviso mi aveva spinta al largo, ben al di fuori dalla profonda insenatura
con acque tranquille da dove ero partita. Il mare si era ingrossato di colpo e
quando mi sono voltata per meglio valutare quanto fossi distante da terra,
un’onda mi ha sommersa, ho bevuto, mi è mancato il respiro e, per un attimo,
sono stata presa dal panico. Ma mi è bastato immaginare le complicazioni legate
al rimpatrio della mia salma per ritrovare subito coraggio e attraversare il
lungo tratto che ancora mi separava da riva, sfidando la corrente contraria con
un vigore che si rinnovava a ogni bracciata.
A
Loghari, nella pianura di Kritsà, la Panagìa Kerà, chiesa bizantina del XIII
sec., con affreschi del XIV e XV: sull’albero dell’arte, le chimere religiose
si sono qui trasformate in tante gemme lucenti.
Àgios
Nikòlaos, atmosfera animata e gioiosa, bar e ristoranti sulle sponde del
piccolo lago circolare, noto come Vromolimni o Voulismeni, che fra il 1867 e il
1871 il pascià Adosidis ha provveduto a far collegare al mare mediante un
canale. Le ripide pareti di granito che racchiudono in parte il bacino
-nelle ore notturne, illuminate ad arte- creano sullo specchio d’acqua riflessi prodigiosi che sembrano allungarsi in profondità, quasi a evocare vette altissime. A completare l’atmosfera fiabesca, bianchi cigni veleggiano nel buio.
-nelle ore notturne, illuminate ad arte- creano sullo specchio d’acqua riflessi prodigiosi che sembrano allungarsi in profondità, quasi a evocare vette altissime. A completare l’atmosfera fiabesca, bianchi cigni veleggiano nel buio.
Chrissi
Cioè l’isola
dorata, sebbene il suo vero nome sia Gaidouronìsi. Sei chilometri quadri di
dune, sabbie chiare, finissime, cedri del Libano e acque di una bellezza
commovente. La si raggiunge in meno di
un'ora di navigazione da Ieràpetra, con un boat-people che scarica orde di
gitanti. Però qualche angolino più tranquillo attende i meno pigri. E se qui
avrete la fortuna di scattare una foto con la vostra mente, vi resterà impressa
per sempre.
Spinalonga
Spinalonga,
isola-fortezza, eretta nel 1589 e in mano alla Serenissima Repubblica di
Venezia fino al 1715, dal 1903 adibita a lebbrosario (uno degli ultimi in
Europa), è disabitata dal 1957.
Mi
arrampico fino al torrione e, mentre cammino lungo il suo perimetro interno,
assemblando piccoli tasselli di panorama sul Golfo di Mirabello -catturati fra
le merlature- penso che alla nostra specie è stato concesso di percepire
soltanto i fotoni che pulsano in un modesto intervallo di lunghezze d’onda:
come osservare il mondo da una feritoia.
Al
rientro dall’isola, al ristorante Vritomartes di Elounda, spuntino a base di
“cheese pie” casalinga, gustosa quanto la focaccia al formaggio di Recco, anche
se al posto del certosino viene impiegato lo Xinomizytra, un caprino locale.
Note a margine.
Propedeutico
alla morte, il viaggio itinerante: ti allena al distacco da luoghi e persone.
D’estate, in Grecia: cielo azzurro assicurato. E l’anima si sente a casa.
Non un compagno d’avventure ma resoconti di viaggio per lettori sconosciuti: emozioni in differita.
Cantare per due giorni interi Volare oh oh di Domenico Modugno: questo l'ordine semiserio che una notte mi è stato impartito in sogno. Una riprova inconscia del mio bisogno di svagarmi.
D’estate, in Grecia: cielo azzurro assicurato. E l’anima si sente a casa.
Non un compagno d’avventure ma resoconti di viaggio per lettori sconosciuti: emozioni in differita.
Cantare per due giorni interi Volare oh oh di Domenico Modugno: questo l'ordine semiserio che una notte mi è stato impartito in sogno. Una riprova inconscia del mio bisogno di svagarmi.
A tenermi
compagnia, i miei amici adorati: i libri. Non potrò scindere il ricordo di
atmosfere e paesaggi dalle suggestioni che la lettura di queste duemila pagine
mi ha regalato.
I miei ringraziamenti vanno dunque ai seguenti autori:
I miei ringraziamenti vanno dunque ai seguenti autori:
1) Al Marchese
Donatien Alphonse François De Sade per il godibilissimo “Dialogo tra un prete e un
moribondo”, terminato nel 1782, uscito per la prima volta nel 1926 e ora
contenuto in “Strenne filosofiche”, volumetto pubblicato nel luglio di
quest’anno da La Vita Felice. Interessante la prefazione di Matteo Noia: da un
lato ripercorre la vita tribolata dell’autore durante quasi trent’anni di
reclusione; dall’altro suggerisce stimolanti riflessioni sul rapporto fra
scrittura, immaginazione e realtà.
2) A Dostoevskij,
per “Umiliati e offesi”, avvincente
romanzo-feuilleton che il grande scrittore russo iniziò a concepire durante i
lavori forzati in Siberia e poi terminò nel 1861, in pochi mesi di scrittura
febbrile. Per lui non si trattava di un buon periodo. Eppure la sua ispirazione
fu tanto forte da imporsi su i debiti, le perdite al gioco, gli amori
burrascosi e le ricorrenti crisi epilettiche (fino a trenta attacchi all’anno).
E non c’è da stupirsi che i numeri della rivista Vremja (Il Tempo), sulla quale
il testo fu pubblicato a puntate, andassero a ruba. Indimenticabile il
personaggio del Principe Valkovskij, figura di diabolica ipocrisia, costruita
mediante finissimi artifizi psicologico-dialettici.
3) A Eva
Cantarella per “Ippopotami e Sirene”.
In questo saggio vengono messi a confronto due differenti modi di concepire il
viaggio nell’antichità. In Omero, più xenofobo, i popoli che Ulisse conosce
nelle sue peripezie appaiono piuttosto primitivi. E la vicenda fantastica
offre continui spunti per richiamare il lettore ai nobili doveri che l’appartenenza
alla civiltà greca impone. Erodoto, primo antropologo della storia, innamorato
dell’ignoto, risulta invece affascinato dall’incontro con altre culture,
sebbene nei suoi resoconti mescoli spesso storia e leggenda.
4) A Raj
Jayawardhana per “Cacciatori di neutrini”.
Centinaia di milioni di neutrini attraversano ogni secondo i nostri corpi. Non
derivano solo da esplosioni di supernove ma vengono prodotti anche dalla
fornace solare e nelle viscere della Terra. La loro concentrazione è tale che
per ogni atomo del cosmo esiste un miliardo di neutrini. Il fisico teorico
Boris Kajser ha addirittura affermato: “Se i neutrini non esistessero, noi non
saremmo qui.” Ecco perché può tornare utile possedere qualche informazione in
più su questi nostri misteriosi compagni di viaggio.
5) A Benedetto XVI
e Piergiorgio Odifreddi per “Caro Papa Teologo, caro matematico ateo”.
Appassionante dialogo tra fede e ragione, religione e scienza. Dal quale la
Chiesa e i suoi stessi fondamenti teologici escono con le ossa rotte.
6) A Caleb Schaef
per “I motori della gravità - L’altra
faccia dei buchi neri”. Al centro della Via Lattea - popolata da duecento
miliardi di stelle - “abita” un buco nero con una massa quattro milioni di
volte il Sole, che assolve un duplice compito: tiene sotto controllo la produzione
di stelle, evitando un eccessivo accrescimento della Galassia, e converte in
energia una grande quantità di materia. Questa, in sintesi, la nuova e
affascinante tesi cosmologica qui suggerita.
7) A Nikos Kazantzakis (nato nel 1883 a Iraklion, dove oggi riposa), per “Zorba il greco” il romanzo è ambientato a Creta, nel primo Novecento, in un’atmosfera primigenia, adamantina. Iniziato negli anni Trenta, portato a termine nel maggio ’43, il testo fu per la prima volta tradotto dal greco in italiano nel 2011 a opera di Nicola Crocetti. Con questo racconto, Kazantzakis insegna il coraggio del cuore e indica agli uomini la via per una saggezza panteistica. L’intera vicenda si configura come una sorta di ironico, audace vangelo laico che, attraverso lo strumento letterario, tratteggia una moderna filosofia di matrice ellenica ma di vocazione universale, nemica di chi sopravvaluta la ragione a scapito della gioia di vivere.
RUSSIA
ALGERIA DI VIRGOLA
Clicca sull'immagine per scaricare il reportage |
LE CASE DEL NORD
di Valentino
Pellegrini
Stoccolma. Alle
6 si entra nel fiordo di Stoccolma e c'è un bel sole, lo stupore per
le rive boscose e per le centinaia di isolotti è grandissimo,
l'acqua è calma, minuscole insenature con essenziali attracchi e una
casa in legno poco distante. Case semplici, in legno, pitturate con
colori basici e della giusta intensità, hanno la forma che
esemplifica il concetto di casa e sembrano collocate da una
mano infantile che crea un paesaggio. Dove il sole brilla di
più, dove l'insenatura è dolce e accogliente e l'acqua più
cristallina, dove un gruppo di betulle offre un ombra discreta, ecco
proprio li è il posto giusto per mettere una casetta. La nave
procede lentamente per quasi sessanta miglia, gli isolotti più
vicini passano a poche decine di metri, raramente le case sono
raggruppate e ancor più raramente il gruppo eccede la coppia, non si
vedono recinzioni. Si collocano da sé con discrezione, per non darsi
fastidio ma ben attente a non perdere il piacere di vedersi da
lontano, e di dare notizia del loro essere abitate con una festosa
bandiera e la barca ormeggiata nella caletta.
Ma
non esiste simbiosi tra natura e abitazione, nulla che possa
ricordare capanne o insediamenti agro-pastorali, la meravigliosa
natura se potesse non vorrebbe neanche le linde casette svedesi, si
adatta al misurato e dispotico volere dell'uomo che impone il suo
piacere senza altre necessità. E' bello avere una casetta su di
piccolo scoglio ma è pur sempre una futilità salutistica e le
finalità estetico-edonistiche vengono confermate dalla totale
assenza di posticci di qualsiasi dimensione e misura, niente serre in
plastica niente capanni per gli attrezzi, niente forni e
barbecue in muratura, la rimessa per la barca ha la stessa
dignità strutturale delle abitazioni.
Anche
i russi amano la campagna e d'estate vanno a vivere nella dacia che
può essere come quella di Putin, non molto diversa dalle residenze
estive dei Romanov, o molto simile nella maggior parte dei casi ad
una, piccola, rurale abitazione con orto, capanni, recinti costruiti
con materiali di recupero. Le necessità in Russia affermano se
stesse con prepotenza ed anche i grandi palazzi dalla cupole d'oro ne
portano le tracce: le grondaie non finiscono nelle fogne che
evidentemente non esistono o non possono esistere e terminano a mezzo
metro dalla superficie dei marciapiedi e nell'ultimo tratto sono
tutte acciaccate e distorte e questo vale anche per il teatro
Marijnsky o per il palazzo Jussupov.
Pietroburgo
possiede una collezione di muffe che intaccano i basamenti delle case
non meno importanti di quelle di Venezia e per entrambe la
manutenzione appare sempre enormemente inferiore alle manifeste
necessità. In Svezia e in Finlandia le case non hanno mai bisogno di
interventi di ripristino, tranne quelle in cui sono in corso, e
questo segna una differenza fondamentale che non può essere spiegata
soltanto in termini economici. Forse può ricevere qualche lume dalla
riforma protestante dopo la quale fu maggiormente chiaro per quei
popoli che i conti ciascuno li deve pagare da se. Più si va verso
Nord e più le case rispecchiano bisogni fondamentali e la necessità
di adattarsi al clima rigido dei lunghissimi inverni e si modellano
sulla base di esigenze sociali nucleari e prive di esibizionismi
cortigiani. Alle Lofoten si affiancano uniformi e utili lungo la
piccola baia simili alla piccola casa di Pietro il Grande quando
decise di stabilirsi all'estuario della Neva. Poi tutto divenne
diverso e Pietroburgo rappresenta con immediata evidenza uno dei
maggiori e giganteschi sforzi di piegare la natura ai disegni della
mente, solo gli argini granitici del fiume e la fortezza di Pietro e
Paolo rispondono alle esigenze della lotta contro gli elementi
naturali, il resto dice della volontà di piegare e mutare
l'aristocrazia russa del 1700.
Se
fosse cresciuta lentamente come primo porto e cantiere navale della
Russia avrebbe accolto i suggerimenti della natura, basamenti
granitici, muri di legno o forse di pietra o mattoni ma bando totale
per intonaci pastello, lesene e stucchi, processioni di stanze fredde
e inutili dove galoppava la tisi. Tantissimi edifici pubblici e in
particolare le chiese e moltissime case nel Nord sono costruite con
bellissimi mattoni di tonalità di colore che vanno dal rosso al
bruno, spesso sapientemente accostate.
L'argilla non deve mancare e neppure il legname per cuocerla nei
forni, il castello dei Cavalieri
Teutoni a Marlbork mi è rimasto impresso come un immane monumento
alla pazienza artigianale, credo che il primo pensiero di molti alla
sua vista vada al numero di mattoni che sono stati necessari per
costruirlo.
E'
quasi impossibile non essere stupiti dalla mescolanza di potere,
cocciutaggine, pazienza e abilità umana che esemplifica, alla
bellezza non si pensa perché del tutto accessoria.
Vengono
in mente le Piramidi anche loro oltre il bello e si pensa sempre alla
fatica e all'ingegno necessari per assemblare i blocchi di pietra
nella loro costruzione. Dal blocco al mattone l'impressione non
cambia: grande potere e grande capacità di innalzare ad esso
monumenti ciclopici, l'uomo evidentemente ha bisogno di impegnarsi in
questo modo, si supera la noia dei bisogni quotidiani, si fronteggia
la paura della morte e di svanire nel nulla.
Il
destino di un popolo si legge nelle sue case? Sembrerebbe proprio
così; dove abitano i Pietroburghesi? Le guide turistiche e gli
autisti dei pullman, i controllori delle frontiere, i custodi delle
sale dei palazzi dei Romanov verranno alla sera inghiottiti dagli
immensi edifici civili del periodo Staliniano del tutto simili a
quelli pre e post. Se non si fa parte di una colossale collettività
organizzata a Pietroburgo non si può esistere e resistere; il
rapporto tra il luogo e i suoi abitanti è stato possibile soltanto
in questa dimensione.
Anche
se ci hanno vissuto Gogol, Dostoevskij ed Esenin non si riesce
ad immaginarli nelle loro case, a zonzo per il loro quartiere e men
che meno al bar: Hemingway costretto dalla sorte a vivere a
Pietroburgo non avrebbe scritto una riga. Il passaggio drammatico e
brusco da una intellighenzia cortigiana e salottiera a quella
impegnata e devota alla politica è forse all'origine della mancanza
di negozi, caffè, locali di ritrovo. Prima nei salotti dei nobili e
nei molti grandi teatri poi solo in questi e nei luoghi di educazione
e coordinamento politico. Il centro, architettonicamente
europeizzante e aristocratico manca totalmente dei tempietti del buon
vivere borghese e questa caratteristica determina uno sconcerto che
confina con l'angoscia nei turisti che vedono materializzarsi il
bando ad ogni aspirazione a quelle differenze irrinunciabili, quanto
concrete, tra se stessi e gli altri che si realizzano nei negozi.
Fortunatamente
a Stoccolma e Helsinki negozi, ristorantini e bar non mancano.
Edifici severi classicheggianti e granitici, strade ordinate e
pulite, mercati coperti letteralmente privi dell'odore di derrate
alimentari ma finalmente un'infinità di posti dove si può comprare.
E' una liberazione dall'incubo comunista dove esistevano soltanto,
nascosti e relegati, posti di prelievo di beni di prima necessità.
Anche se non è più così, le case e le strade russe riferiscono
ancora di un mondo disciplinato e sobrio dominato dall'ideale del
bene comune che riesce ad atterrire anche il popolo della sinistra di
provenienza emiliano-romagnola. Si torna a Rostock, c'è il tempo per
una gita a Berlino in pullman. I campi sono immensi, coltivati con
cura e precisione teutonica e con grandi isole boscose che ne
interrompono la monotonia, non si vedono abitazioni rurali simili
alle nostre, ogni tanto paesi nuovi e ben costruiti, probabilmente le
nostre cascine sono superate o forse mai esistite.
Nelle
poche case isolate non si notano fienili, deposti, cortili con
macchine agricole, tutto deve ormai svolgersi con modalità e ritmi
industriali. Grandi capannoni dove vengono ricoverate e riparate le
macchine agricole, i prodotti vengono immediatamente inviati a centri
di lavorazione.
Certamente
un gran risparmio se penso al mio vicino che possiede un trattore a
cingoli per la vignetta ed un enorme trattore a ruote per un campetto
di patate e per spalare la neve in inverno per conto della Provincia.
Berlino è piena di vita e di giovani che ci vengono a studiare da
mezzo mondo, la Merkel abita in un normale alloggio, i ministeri
sembrano davvero uffici per lavorare ma forse è solo una
superficiale impressione. Mi sento piccolo, molto ridicolo ma
disperatamente pieno di voglia di sopravvivere.
PASSAGGIO IN INDIA
MYANMAR
FIORDI NORVEGESI
KENIA TANZANIA
BULGARIA VIRGOLA
HOLLA MOHALLA
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BULGARIA
KROBO
FORTE DI KANGRA
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WUDAABE AL GEREWOL
AKWASIDAE
CALGARY
BUONA PASQUA
IL PARLAMENTO EUROPEO
ARGENTINA
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INDIA
di Walter PorzioClicca qui per scaricare il reportage |
EGITTO
di Walter Porzio
BIRMANIA
di Walter Porzio
ALBANIA
di Walter PorzioLA CIQUITANIA
ARGENTINA
di Walter Porzio
L’eliminazione del colbacco
di Giovanni Bianchi
Sono tornato in Russia (Mosca e San
Pietroburgo) da dove mancavo da qualche anno. L'invito era stato fatto ancora
una volta dagli amici di una fraternità ortodossa che risponde al nome di Sretenie ("Presentazione al Tempio").
Vivaci nella fede ortodossa, ansiosi di diventare vivaci anche nel sociale. Da
qui il rapporto più che decennale con le Acli.
Sono
convinto che il grande possa talvolta essere letto a partire dal piccolo e
l'universale dal particolare, se hai la fortuna di collocarti dal punto di
vista giusto. La Russia di Putin ha migliorato il tenore di vita generale dopo
le svendite e le disattenzioni di Eltsin, troppo attento alla vodka. Inoltre il
nuovo zar ha ridato dignità geopolitica al più grande Paese del globo,
attingendo alla memoria e all'orgoglio non ancora spento dei soviet. Quasi una
reincarnazione di quello spirito imperiale e di quella volontà di potenza che
da Stalin giunse fino alla mummia di Breznev. Credo siano essenzialmente queste
le coordinate del successo elettorale dell'abile dirigente del Kgb.
Che cos'è questa Russia? Non la si intende
estendendo con ottuso continuismo il legame con quella di Stalin. Neppure la si
legge inseguendo le fortune e i fasti dei nuovi oligarchi, sguinzagliati in
mezzo mondo ad acquistare squadre di calcio, in patetica concorrenza con gli
sceicchi arabi del petrolio. Forse ci si avvicina un po' di più alla sua verità
odierna osservando i flussi del turismo di massa verso il Bel Paese, la riviera
romagnola e altrove.
Non
si governa un territorio esteso come la Russia, non lo si amministra negli
interminabili inverni senza un apparato statale pesante. Chi paga e chi
assumerebbe il numero infinito di donne e di uomini che spalano la neve e
rendono transitabili i binari liberandoli dal ghiaccio? Il business non si è
mai fruttuosamente cimentato con questi problemi collettivi.
È
a partire da queste ataviche necessità che la nuova classe e le sue oligarchie
di potere incrociano il dilagare inarrestabile del turbocapitalismo con gli
organigrammi e i tempi da pachiderma di un'antica, estesa e necessaria
burocrazia. Qual è dunque la vera sostanza sociopolitica della Russia di zar
Putin?
Anche
le sociologie dopo i fasti di Weber, Parsons, Sorokin e Wright Mills si sono
svagate perché invaghite dei propri effimeri successi, del nuovo metodo, di una
scientificità dalla corta radice destinata a danzare nel tempo breve. Dunque nessuna
pretesa sociologica o sistemica nel mio rapido sguardo, ma la voglia ostinata
di capire: quasi una sfida al bricolage della vita quotidiana, che tuttavia non
è più in grado, neppure nella Russia postsovietica, di ignorare quelle
"periferie esistenziali" che papa Francesco ha buttato negli
ingranaggi di un turbocapitalismo globale che maschera la propria incoercibile avidità nella ideologia concreta del
Pensiero Unico.
Anche
in Russia? Anche in Russia, vecchio tovarish.
Perché è sempre vero che se è rimasto indistruttibile e nostalgico l'antico
richiamo della foresta, adesso la foresta non c'è più. Per tutti. Anche in
Italia…
Mosca |
Dove va la Russia di zar Putin e del Gazprom non lo so dire. Dico solo che la
vorrei più prossima all'Europa, magari più prossima del Regno Unito di Cameron
e della sua City rapace, che tanti guai, più di Wall Street, ha procurato agli
Europei. I quali hanno avuto la dabbenaggine di nominare finalmente il loro
primo Ministro degli Esteri scegliendo per l'ufficio lady Ashton, che, come
tutti i sudditi di Sua Maestà Britannica – da destra a sinistra – crede
anzitutto nella sterlina. In piena crisi dell'euro. Come se a inseguire le
magnifiche sorti e progressive del Vecchio caro Continente
"detronizzato" (Carl Schmitt) siano rimasti soltanto i disperati
ucraini.
Ma
placo subito, anche per ragioni di spazio, gli ardori geopolitici per tornare
al mitico colbacco. Gli incerti rigori dell'inverno italiano (anche in Russia
il clima fa le bizze e stupisce) ne avevano imposto l'immagine nostalgica alla
coscienza, essa sì infreddolita. Ma sono tornato a mani vuote per lo choc di
avere trovato sulle bancarelle per turisti nella sezione souvenir dei
supermercati –gli stessi che troviamo in Italia intorno alle stazioni
ferroviarie e agli aeroporti, con gli stessi
nomi scritti in cirillico– i "nuovi" colbacchi sintetici, dai colori
incredibili, tutti con l'immancabile Stella Rossa in evidenza.
San Pietroburgo |
Quando
il business e il kitsch si danno la mano, anche una gloriosa e non
universalmente amata rivoluzione appare trasformata in patacca per rispondere
alla domanda di un turismo non sempre obnubilato dalla vodka. Ma li vedete
questi finti colbacchi color ciclamino, verde e fucsia, rigorosamente unisex, a
dispetto dell'ostinazione di zar Putin a negare l'evidenza che impone al
diritto di riconoscere universalmente che oramai i sessi principali sono due?
Tutti serialmente con la Stella Rossa, ridotta a patacca passepartout. Gli
unici a conservare un bel colbacco di pelo d'ordinanza sono i poliziotti e
qualche raro anziano renitente alle mode e al progresso. E perché allora non
piazzare sul nuovo colbacco sintetico, già che ci siamo, il Che Guevara,
Maradona o la Madonna di Medjugorie? Scherzi della nostalgia? Macché! Scherzi
del business, la cui avidità ignora le frontiere, a partire da quelle
dell'utilità e del buon gusto.
E mi rimbomba nel capo – quasi un mantra
forsennato – la previsione del Manifesto
del 1848, quando Marx ed Engels scrivevano: Tutto
ciò che è solido si dissolve nell'aria. Una profezia ripresa in sociologia
da Bauman con la fortunata metafora della "società liquida" e da
Marshall Berman nel titolo (in inglese) del più bel libro sul tema scritto a
New York nel 1986, anticipando tutti i temi della crisi globale in corso.
ALGERIA
di Walter Porzio
SLOVENIA
di Walter Porzio
DAHANU E BO - NO - NA
di Walter Porzio
QUEBEC
di Walter Porzio
ZULULAND
di Walter Porzio
OMAGGIO A "MILANO CITTA' NARRATA
di Paolo Di Stefano
di Paolo Di Stefano
Un omaggio di Paolo Di Stefano al volume
“Milano città
narrata”
A cura di Angelo
Gaccione
Meravigli Editrice
2013
Pagg. 160 € 15,00
Milano narra di sé
Testo e foto di Paolo
M. Di Stefano
Milano narra di sé
Silente
A se stessa
Spoglia d’ogni retorica
Solo specchiandosi
In quel mondo diverso
Nato
Dalla pioggia cessata appena
Non tamerici
Salmastre ed aspre
E pineti neppure
Ad ispirare il retore poeta
Solo sconnessi selciati
E pietra
E sassi di lontani torrenti
E asfalto incerto
E sosta la pioggia
E trema
Negli angusti confini
Che ruote impietose
Violano tormentose
Ed iracondi passi
Premono in fretta
Maledicenti
Nel mobile velo
Milano si disegna
E solo si offre
Al guardar degli umili
Ai quali il cielo
Ricrea
E sua dimora ne fa
Vestita a festa.
MONGOLIA
di Walter PorzioLA DONNA NEL MONDO
di Walter Porzio
KANGRA SRINAGAR
di Walter Porzio
LA RUTA MAYA
di Walter Porzio
Guerriero Maya |
Si chiama ruta maya, cioè "strada dei maya", ed è il percorso seguito da questa antica civiltà nelle vari tappe della sua espansione. In Messico, Honduras, Guatemala, Belize, Salvador, restano ancora og importanti siti archeologici che testimoniano gli antichi splendori di un popolo, per molti versi ancor sconosciuto e misterioso. Grandi templi dedicati al culto astrale ed imponenti edifici raccontano la su storia.... Clicca qui per scaricare il video di Walter Porzio. Buona visione!
SARAWAK
di Walter Porzio
Sarawak & Sabah - Il Borneo malese. Clicca qui per scaricare il video.
REPORTAGE
APPUNTI CRETESI
Viaggio solitario fra arte, cucina e natura
di Lidia Sella
Tempio votivo nella campagna di Creta |
Chi
ama la mitologia o ha avuto la fortuna di leggere "Il Minotauro" di Dürrenmatt, non dovrebbe visitare il Palazzo
di Cnosso: tutto è così fasullo che si ha l'impressione di trovarsi di fronte a
un sito ricostruito dalla "Disney"!
Peccato,
contrariamente alle informazioni ricevute dall'ufficio del turismo greco a
Milano, trovo chiusi sia Festós che Górtina: ecco un ottimo pretesto per
tornare!
In
compenso, nella vicina area archeologica di Agía Triáda, accanto ai resti di
una villa reale minoica immersa in un silenzio irreale, ho ammirato gli
affreschi del XIV secolo che decorano l'abside della cappella di Agíos
Geórgios, stupendi nonostante il pessimo stato di conservazione.
Lungo
la strada da Festòs a Mátala: terra rossa, sposa di questo cielo blu. Luce
precisa, sapiente. Vitigni vestiti d'autunno e distese di ulivi che scuotono le
loro chiome d'argento nel vento tiepido di ottobre.
Mentre
camminiamo nella realtà, non possiamo sapere ancora quale fra i paesaggi che
stiamo attraversando fungerà, domani, da scenario dei nostri sogni.
Mátala:
Sepolcri romani, scavati in un costone di roccia color ocra, sferzato da un
vento africano, a picco sul mare. Anche progettando le stanze del loro sonno
eterno gli antichi romani si preoccupavano di garantire la bellezza. Avendo
forse intuito che il messaggio in essa contenuto era tanto potente da
sopravvivere ai millenni...
Di
certo prima o poi qualcuno calpesterà le nostre tombe.
Questa
sera ho notato un uomo che portava con orgoglio uno stuzzicadenti dietro
l'orecchio.
La
notte, a Creta, il vento va a dormire.
Che
cosa "vedrei", del mondo, se non avessi occhi?
Solo
croci bianche e fiori colorati nei cimiteri greci, nessun dettaglio lugubre:
una concezione serena della morte mediata dall'Oriente?
Tempietti
ortodossi disseminati per la campagna: testimoni silenziosi di un sentimento
pagano mai sopito?
Monastero di Pre¦üveli |
Non credo in
nessuna religione. Però nel monastero di Préveli ho acceso una candela alla
vita. L'ho posta vicino alle altre, tutte infilate nella sabbia,
inconsapevolmente unite a simboleggiare un fuoco sacro. Mi sono abbandonata
alla superstizione di esprimere un desiderio impossibile, fingendo per un
attimo di credere che si sarebbe avverato. A commuovermi la magia di quella
fiamma cui avevo dato vita per capriccio e che, nella penombra del tempio, con
pazienza, avrebbe sciolto la cera per restituirla alla terra: occorre tempo per
venire alla luce e anche per tornare cenere.
Ogni
passo nel futuro ti porta nuove emozioni. E se viaggi nello spazio, oltre che
nel tempo, allora si moltiplicano.
Costa
sud di Creta, ultima propaggine d'Europa, una roccaforte affacciata sul mar
Libico: qui il sole regala languidi, lentissimi tramonti.
Le
stelle, da queste parti, giocano a nascondersi fra rocce altissime e rami di
palme: così ci appaiono solo costellazioni mutilate, quasi volessero non farsi
riconoscere.
Mi
resterà il rimpianto di non essere approdata a Gávdos, isola coricata nel
canale libico, a 26 miglia dalla costa cretese, già abitata nel neolitico, nota
col nome di Clauda in epoca romana, covo di pirati sotto la dominazione araba…
Per raggiungerla occorrono diverse ore di navigazione e in questa stagione i collegamenti
scarseggiano. La rotta più breve - 2 ore e mezza - da Hóra Sfakíon.
Culla
di civiltà, Creta, curiosamente è a forma di culla.
Padrona
di strade semi-deserte, mentre profili di paesaggi sconosciuti mi vengono
incontro, guido a velocità sostenuta, pennellando ogni curva. E sorrido
all'idea che sarebbe piacevole, con la stessa naturalezza, riuscire a dominare
l'ignoto.
Senza
la civiltà micenea, quale diversa direzione avrebbe imboccato il nostro
pensiero?
Viaggio
senza radio, né tom tom, né cd. Uno sciame di pensieri mi tiene compagnia per
qualche istante, prima di volare fuori dal finestrino abbassato. Sul sedile
accanto a me, la cartina geografica ha un'aria un po' frustrata, perché non la
consulto quasi mai: ho già presente il percorso o, al limite, chiedo
indicazioni. Come sottofondo musicale, il requiem di Tomás Luis de Victoria
(Sanchidrìan 1548 - Madrid 1611): scoperto mesi fa, poi ascoltato decine di
volte, tanto che ora provo a riprodurne a mente l'amato suono.
Penisola di Gramvousa - cappella nella fortezza veneziana |
Sono
diventata arteriosclerotica persino sul fronte onirico. Sogno forsennatamente,
ogni notte, come stanotte: trame complicate, dialoghi stimolanti, nitide
architetture. Ma poi non ricordo più nulla.
Sono
un sorvegliato speciale. Sotto stretto controllo da parte di me stessa. Distratta e
smemorata come sono, quando mi muovo da sola all'estero devo prestare
particolare attenzione a non perdere o dimenticare borsa, bagagli, documenti
d'identità, biglietti vari, fogli col programma del viaggio, contanti, carte di
credito, tablet, cellulare, macchina fotografica, occhiali da sole, l'unica chiave dell'auto a
noleggio: uno sforzo di concentrazione continuo!
Anche
a Creta ho incontrato una percentuale piuttosto elevata di greci rozzi e ottusi,
forse i diretti discendenti delle orde di Slavi, Avari e Bulgari che, fra V e
VIII secolo dopo Cristo, invasero la Grecia spazzando via le popolazioni
autoctone, disperdendo così quel prezioso patrimonio cromosomico ellenico
originario che in maniera tanto straordinaria aveva contribuito allo sviluppo
del pensiero umano.
I
greci, in genere, producono vini mediocri. Creta fa eccezione. Ho gustato un
bianco fantastico: "Vidiano" del 2012, cantina Lyrarakis. Per la
verità apprezzo anche il vino di Sámos, ricorda un passito. Già noto
nell'antichità, a Milano l'avevo trovato da Superpolo.
Spiaggia
di Préveli. Nel pomeriggio, sotto un cielo di zaffiro, ho camminato da sola,
lungo un torrentello gelido, trasparente, che si faceva strada attraverso una
foresta di palme. Ho seguito questo anonimo, inconsapevole ponte sull'Africa
fino alla sua modestissima foce. E con lui mi sono mescolata alle tiepide acque
marine.
Plataniás.
Uno yogurt al rosmarino, delizioso. Al ristorante "Kianos". Ho
domandato al proprietario che cosa significasse questa parola. Mi ha risposto:
"luce blu". Per collegamento di idee ho subito pensato al termine
Kuanós, che in greco antico veniva utilizzato per indicare il
"fiordaliso."
Alla
Penisola di Gramvoúsa, in nave. Durante la traversata capto uno scambio di
battute demenziale. Lui, italiano aitante e saccente: "Il vero nome della
città è "Split", poi italianizzato in Spalato." Lei, croata ma
altrettanto ignorante, gli risponde: "Confermo, è proprio così!"
Dal
forte veneziano, panorama di primordiale bellezza: vale l'arrampicata. Bálos,
oasi marina protetta, una laguna incantata, maldiviana. La mia anima se ne
ricorderà prima di lasciare questa Terra.