UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

NEVSKIJ PROSPEKT

ARABIA SAUDITA
di Lidia Sella
 

A cavallo tra Medioevo e modernità.

Avete presente Le Mille e una notte, quella magia, l’atmosfera fiabesca? Ebbene, scordatevi che l’Arabia Saudita, almeno nelle aree più densamente popolose, riproduca oggi un simile quadro immaginifico. Sarete anzi catapultati in una realtà alienante, poiché priva di un’autentica identità. Sconfinate distese di capannoni, centri commerciali che rigurgitano inutile paccottiglia o montagne di merce griffata svuotata di qualsiasi eleganza. Stazioni ferroviarie semideserte, tirate a lucido. Ma anonime, spettrali, inquietanti.
 

Asettici agglomerati residenziali, a testimoniare la cultura del non luogo. Schiere di giganteschi grattacieli, simboli di contemporanea ubrys, a negare ogni anelito verso la bellezza. Città spogliate insomma di qualsiasi logica urbanistica. Oltre che di un’anima.
 
 
Megalopoli tentacolari, dal traffico infernale, dove passeggiare è quasi impossibile, anche per la concentrazione elevata di biossido di carbonio nell’aria. Attraversamenti pedonali pressoché inesistenti, deviazioni e rotonde rarissime. Autisti tanto distratti da imboccare contromano una carreggiata a quattro corsie, senza nemmeno avvedersi dell’errore (esperienza da brivido, vissuta in prima persona). Perlopiù ignorati i semafori, nonostante telecamere installate ovunque e contravvenzioni salatissime. In compenso il ricorso al clacson è meno frequente e compulsivo che a Il Cairo o a Palermo.
Sulle strade extra-urbane, limiti di velocità assai ridotti. Il prezzo della benzina non supera il mezzo euro al litro. La maggior parte dei lavoratori provengono dai Paesi confinanti, India, Pakistan, Turchia, Giordania, Egitto, etc. In pochi accettano volentieri le mance. A riceverle con gratitudine sono soprattutto le donne, in genere addette alle mansioni più umili, come la pulizia delle toilette. Quasi nessuno parla inglese. Taxisti compresi. Nei ristoranti a buon mercato, ti rifilano piatti, bicchieri e posate di carta. Il coltello non lo usano quasi mai. Coprono i tavoli con orrende tovaglie di plastica trasparente. Le famiglie autoctone vengono fatte accomodare in postazioni celate da separé in vetro opaco o da spessi tendoni. Grappoli di donne, a tre, quattro per volta, si recano fuori a cena da sole, senza cavalieri.
Di norma il servizio di tavola è sconclusionato, approssimativo, di una lentezza inspiegabile, esasperante. Quando il commensale ha terminato le sue pietanze, nessuno si preoccupa di sparecchiare. La cucina araba, salvo forse per i contorni, è piuttosto povera, senza guizzi, pollo arrosto o in umido e riso bollito allo zafferano, qualche volta l’agnello, assai di rado il pesce, salvo lungo la costa. Dove mi sono deliziata con una scorpacciata di gustosissimi granchietti. Il vino non viene venduto nemmeno negli hotel internazionali. Però sembra che i ricchi sauditi dispongano di pregiate cantine ad alto tasso alcolico. Irreperibile anche la birra analcolica. Talvolta si riesce a acquistare l’acqua frizzante, Perrier o San Pellegrino, a costi proibitivi. 
Spiacevoli ricordi anche sul versante alberghiero: claustrofobiche finestre sigillate; vetri lerci; acqua piovana che dal tetto colava nella hall, dove veniva raccolta in secchi di plastica disseminati qua e là; moquette consunte, piene di macchie; una stanza da letto invasa da mosche, che ho parecchio faticato ad ammazzare, tranne quando infine si posavano su uno specchio e lì, per mia fortuna, i loro cento occhi forse si confondevano un po’; impianti ad aria calda antidiluviani, rumorosi, poco efficaci; sale da pranzo gelate; demenziale cenone di capodanno allestito all’aperto, con una temperatura al di sotto dei dieci gradi; nessuna reception equipaggiata per cambiare euro in ryhad.
Lo shopping offre più che altro stoffe, tea, caffè, spezie, profumi, cristalli, incensieri, gioielli dal gusto un po’ pacchiano.
Le turiste sono tenute a evitare gonne corte, spacchi, scollature, abiti smanicati. Il velo è richiesto tuttavia soltanto per accedere alla moschea.
Molte arabe girano a viso scoperto, le più giovani e benestanti sfoggiano un trucco pesante, labbra “a canotto”, nasi in ciclostile, volti deturpati da massicci quanto maldestri interventi di chirurgia plastica. La propensione all’eccesso si concentra dunque nell’unica parte del corpo che è dato loro esibire. Alcune sono così orripilanti che ci si domanda come mai non abbiano optato per il burqua integrale. I bimbi, in genere piuttosto bruttini, a tratti ti fulminano con sguardi demoniaci. Femminucce afflitte da un’inestetica peluria scura, sfoderano precoci baffi e basette. I marmocchi arabi spesso frignano o gridano senza ritegno. Nel disperato tentativo di richiamare l’attenzione delle madri, incuranti dei propri pargoli poiché perdute nello schermo del telefonino.
Il viaggio ci ha comunque riservato numerose mete imperdibili. Mi limito a citare le principali.
Al nord. Madain Saleh, l’antica Hegra, complesso di tombe nabatee inserite in un contesto naturale di straordinaria bellezza, con i misteriosi portali dei sepolcri che sembrano condurre direttamente nell’Aldilà.
 

I graffiti paleolitici di Jubbah, un invito a spiare nella mente dei nostri antenati, attraverso le primissime espressioni artistiche di un’umanità animata dal desiderio, proprio come noi, di eternarsi nel tempo, ed esorcizzare la morte, mediante un segno affidato alla roccia.
 

Il Maraya Concert Hall, progettato da un gruppo di architetti, fra cui l’italiano Massimo Fogliati. Si tratta di un colossale teatro con pareti a specchio, che riflettono il paesaggio circostante, catturano e moltiplicano la realtà, e la luce, proiettano l’osservatore in un percorso percettivo dal sapore sapienziale.
 

Al centro. La moschea di Medina, con il pullulare di pellegrini che giungono da ogni parte del mondo islamico, calamitati dal richiamo del sacro, in un contagioso vortice di frenesia, trepidazione e misticismo.
 

 
Nei dintorni di Riyadh, il sito Unesco Dir‘iyya: architetture dall’aspetto primitivo, benché risalgano al XIV secolo, ma dalle quali sprigiona un intrigante fascino esotico.
 

Al sud. A Geddah meritano una visita la Moschea sull’acqua, il mercato ittico e, naturalmente, la città vecchia, suggestiva selva di case di legno a graticcio, oggetto di un imponente intervento di recupero.
 

 



Riyal Alma, dalle tipiche costruzioni di sassi in stile yemenita, una accanto all’altra, alte e strette come le insule che nell’antica Roma ospitavano la plebe, persiane gialle, verdi o blu, gli interni a motivi geometrici, dipinti da mani femminili, in mille gioiosi colori: Van Gogh avrebbe apprezzato. Una breve divagazione: lungo il tragitto per raggiungere questa località, ci siamo imbattuti in numerosi clan di scimmie che si sporgevano a scrutarci dal ciglio della strada, con un’aria tra il beffardo, l’imbronciato e il sospettoso, e ci osservavano con la medesima curiosità con cui le osservavamo noi. Però erano talmente mostruose che mi venne spontaneo domandarmi: ma come potrebbe la nostra specie essere davvero germogliata da un seme di così ripugnante bruttezza? E quasi come se fosse Charles Darwin in persona a fornirmi una stravagante risposta, in quel preciso momento mi tornò in mente una frase che lo scienziato aveva appuntato nei suoi Taccuini filosofici: “Il diavolo sotto forma di babbuino è il nostro antenato.”
 




Oltre alla compagnia di alcuni amici cari, ad allietare questa mia vacanza hanno contribuito quattro piacevoli letture. Lawrence d’Arabia, biografia scritta dallo storico Franco Cardini, che indaga i retroscena della genesi del Medio Oriente. Arabia deserta, emozionante reportage d’epoca, stilato da Charles Doughty, medico, archeologo e poeta inglese che per due anni, dal 1876 al 1878, si avventurò nel deserto arabico, al seguito di una carovana di beduini. Un’impresa estenuante: soffrì la fame, la sete, il freddo, camminò per miglia e miglia a piedi nudi sulla sabbia bollente, fu bersaglio di agguati, furti e reiterate minacce di morte. Eppure, nonostante tutte queste peripezie e la sua salute cagionevole, conservò sempre lucidità, tenacia e coraggio. Con estrema oggettività e attraverso una prosa non priva di slanci lirici e sense of humor, ha riportato curiose notizie circa gli usi e i costumi locali. In diversi passi ha indugiato sull’atavica attitudine del popolo arabo alla menzogna e al tradimento, e fornito preziose indicazioni riguardo alla geografia e alla morfologia del territorio. A svagarmi nelle mie notti insonni, anche il libro Alle origini degli Arabi, saggio a firma di Romolo Loreto, archeologo e docente di archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente antico, presso l’Universita degli Studi di Napoli. In queste pagine, ho reperito una messe di interessanti informazioni. Mi limiterò a citarne alcune, spilluzzicando qua e là. “La più antica menzione scritta del termine Arabi si trova in un’iscrizione del re assiro Salmanassar III (854-824 a.C.)”.
“Il sovrano assiro Sennacherib (704-681), riferisce di aver mosso guerra contro Telkhu, regina degli Arabi”.
“Scilace di Carianda, per ordine di Dario I (522-486), circumnaviga l’Arabia dall’Indo all’Egitto”.
Il periplo del Mar Eritreo, portolano scritto da un greco intorno al 50 dopo Cristo, riferisce rotte, approdi sicuri e descrizioni di luoghi e situazioni politiche dalle coste egiziane sul Mar Rosso lungo tutta la Penisola arabica e fino all’India”.
“I Romani crearono una base nelle isole Farasān e poterono spingersi verso l’isola di Socotra, al largo delle coste Yemenite meridionali e da qui (…) proseguire verso l’India”.
“Il dromedario può arrivare a perdere liquidi fino al 30% del suo peso corporeo prima di risentirne, a differenza dell’uomo che intorno al 12% rischia la morte”. Un dromedario partorisce per la prima volta attorno al quinto o sesto anno di vita e genera un solo piccolo ogni due anni”.
Ho infine consultato una breve dispensa universitaria, dal titolo Le parole di origine araba nella lingua italiana, opera di Lorenzo Lanteri, pubblicata nel 1991. Per scoprire ad esempio che “macabro” deriva dalla lingua del Corano, dove maqbarat significa cimitero e maqbariyyum sepolcrale.  Oppure che il mehari è il dromedario da corsa. O che spinaci, melanzane e carciofi sono stati introdotti in Europa dagli Arabi. Cosi come alcuni alberi da frutta, cioè aranci, limoni, albicocchi, ribes, etc. L’autore ricorda anche che il termine assassino rimanda a hashshashūn (fumatori di hascisc), affiliati di una setta mediorientale attiva all’epoca delle Crociate, che venivano drogati dai propri capi, per essere impiegati in delitti su commissione. Lanteri ci rammenta anche che anticamente l’Iraq, centro del Califfato, intratteneva continui scambi con l’India. Da lì arrivarono le cifre, dette poi numeri arabi, e in particolare lo zero, che in arabo si dice sifrun, a ricalcare la voce sanscrita sūnya, che sta a indicare il vuoto. A proposito di numeri, nell’osservare una targa automobilistica, ho notato che i segni grafici arabi utilizzano sono un po’ diversi rispetto a quelli di cui ci serviamo oggi noi occidentali.

  
Ribelle alla regola del “dulcis in fundo”, concludo il mio reportage con una nota inquietante. Nei pressi della capitale Riyadh, sorge il Diriyah Biennale Foundation, una sorta di tempio della modernità, immenso centro di informazioni e promozione immobiliare dove, grazie a una serie di plastici, video e simulazioni, il visitatore può entrare in confidenza con The Line, o Neocom, progetto edilizio avveniristico, già in fase di costruzione, da ultimarsi entro il 2030. Si tratta di due edifici che sorgeranno l’uno di fronte all’altro, alti 500 metri e larghi 200. Correranno in parallelo, per 170 chilometri, attraverso tre diverse regioni nel sud dell’Arabia Saudita, e potranno contenere 9 milioni di persone. Una prospettiva agghiacciante, insomma, una sorta di gigantesco alveare umano, una galera collettiva che consente una perfetta omologazione e un’agevole sorveglianza, e si ispira alla prospettiva distopica della “città dei 5 minuti”: una mobilità ridottissima, per contenere al massimo le emissioni inquinanti, in un’ottica di green ed efficientamento energetico.


A Oxford, la sperimentazione sulla “città dei 15 minuti”, che prevede un numero limitato di permessi per superare i varchi che delimitano il distretto di residenza, è già stata avviata, fra le vibranti proteste degli abitanti. E sembra che tra poco il medesimo sciagurato modello liberticida di viabilità approderà anche in Italia, con ogni probabilità a Milano. L’idea di trasformare i quartieri urbani in altrettante gabbie è del World Economic Forum. Evidentemente anche il Principe saudita Mohammed Bin Salman si è piegato ai diktat dell’agenda mondialista ONU 2030. Poveri popoli, Arabi compresi, vittime perlopiù inconsapevoli dei piani criminali perseguiti, a loro danno, dai poteri forti

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LA FAVOLA BELLA CHE IERI MI ILLUSE, CHE OGGI TI ILLUDE   
(OVVERO GAZEL DI SAMARCANDA)*
di Christian Eccher

       
Samarcanda

La luce intensa del tramonto, filtrata dai minuscoli granelli di polvere sospesi a mezz’aria lungo la linea dell’orizzonte, colora di rosso il Reghistan, la piazza più famosa di Samarcanda, composta da tre madrase disposte ad angolo retto, quasi fossero le quinte di un immenso palcoscenico; il quarto lato della piazza è invece aperto e guarda verso il trafficato boulevard che collega il centro alla periferia della città; Il boulevard è sollevato di una decina di metri rispetto al piano su cui si trova il Reghistan; l’amministrazione comunale ha pensato bene di occupare il dislivello che corre fra la piazza e la strada con una gradinata su cui è possibile sedersi e ammirare le tre madrase in tutto il loro splendore. Proprio dietro al Reghistan ha inizio la via pedonale Karimov, che porta il nome del primo presidente dell’Uzbekistan, Islam Karimov, morto nel 2016. L’elegante strada prende simbolicamente avvio dalla statua gigantesca che ritrae Karimov stesso e collega il boulevard alla moschea, al mercato e ai mausolei che sorgono lungo il percorso che separa il centro cittadino dal cimitero musulmano, il quale si trova a sua volta su una collina, al di là della valle che come una ferita divide in due il centro della città. Nella valle, dove un tempo scorreva un torrente, è stata costruita un’importante via di comunicazione - una superstrada - che costeggia il cimitero e prosegue verso Tashkent. In corrispondenza della stretta dolina, la via Karimov si trasforma in un ponte moderno, pedonale, che scavalca la superstrada per Tashkent e unisce la collina brulla al centro storico. La Luna sorge e si specchia nella rocciosità riarsa del cimitero, scuro di polvere e bianco di marmo, esattamente come la superficie lunare, sasso splendente ai crateri dei poli e palude sabbiosa al Mare della Tranquillità.

Il Rinascimento timuride
I monumenti di Samarcanda risalgono al Rinascimento timuride del XVI secolo; in realtà, la città ha una storia antichissima, che data al 500 a.C. I secoli antecedenti all’islamizzazione, avvenuta nell’VIII secolo a seguito dell’invasione araba, si perdono nelle nebbie della Storia; diverse spedizioni archeologiche, soprattutto russe e francesi, hanno cercato di fare luce sul passato della città. A puntare un faro su un muro di nebbia, si sa, ciò che si ottiene è solo una forte luce riflessa che non permette di vedere cosa ci sia al di là della massa di umidità. I risultati delle ricerche sono stati deludenti e ciascuna spedizione ha messo in luce quella porzione di passato a cui teneva di più: gli occidentali hanno sottolineato lo stretto rapporto fra Samarcanda e la Grecia antica, dato che Alessandro Magno si spinse fin qui nel 329 a.C. I sovietici hanno evidenziato i legami fra l’Asia Centrale e i popoli della steppa, alcuni dei quali furono sottomessi dai russi. In Asia Centrale, così come nei Balcani e nel Caucaso, regioni di confine, il Passato si complica e assume mille volti, a tal punto da non riuscire a diventare narrazione razionale ed empirica, vale a dire Storia. Ciò che sappiamo è che Samarcanda era un ricco centro urbano che sorgeva nella valle del fiume Zeravashan; la terra alluvionale fertile forniva frutta e verdura a volontà. La catena montuosa alle spalle della città, il Karatyube, era fonte di legno, pascoli per gli armenti e alberi utili all’edilizia. Già prima di Alessandro Magno, quando Samarcanda, che all’epoca si chiamava Maracanda, era la capitale della Satrapia achemide di Sodgiana, era presente un sistema molto sviluppato di irrigazione che permetteva di estendere le aree coltivabili oltre le rive del fiume Zeravashan. Del periodo remoto e degli imperi achemide e arabo non rimangono tracce, a eccezione dei segni scavati nel terreno che ricordano la presenza di canali abbandonati e di piccole montagne di terra, denominate “Tepa”: Difficile dire a cosa servissero queste collinette, ormai quasi completamente distrutte dai bulldozer sovietici che le hanno spianate per costruire nuovi edifici; forse erano “kurgan”, i monumenti funerari tipici di l’Asia Centrale e del Caucaso. Della Samarcanda antica rimane poco perché il florido centro urbano fu raso al suolo da Genghis Khan e dai mongoli durante la loro avanzata verso occidente. Quando nel 1227 il grande condottiero, terrore dell’Eurasia, morì, il suo impero fu diviso in “Ulus”, vale a dire in regioni governate dai figli dell’imperatore. La divisione è sempre un segnale di disgregazione. Il secondogenito di Genghis, Chagatai, ricevette il territorio della Transoxiana, dove si trovava quel che restava di Samarcanda. I figli non dovrebbero mai seguire le orme dei padri: Chagatai si rivelò un sovrano debole e incapace. Della sua debolezza approfittò un giovane sconosciuto, Timur, che era rimasto ferito a una gamba e per questo era zoppo: come spesso avviene in questi casi, una caratteristica fisica che balza agli occhi diviene il segno di riconoscimento, l’essenza ultima della persona: il Nome. Non senza un pizzico di malignità, il giovane Timur fu soprannominato “Timuri-Leng”, vale a dire Timur lo zoppo; i popoli, contro cui il condottiero combatté, non capivano il significato di quel soprannome, che storpiavano e adattavano alle regole fonetiche delle proprie lingue: in Europa il nome del giovane Timur si trasformò in Tamerlano. Nel 1369, Samarcanda divenne la capitale del Regno di Timur, che, fra una guerra e l’altra, non disdegnava l’arte: fu lui a far costruire i primi monumenti di Samarcanda, seguito poi dal figlio Shah Rukh e dal nipote Ulan Beg, uno dei più grandi astronomi di tutti i tempi. Sotto la dinastia dei Timuri di, Samarcanda ed Herat, che oggi si trova in Afghanistan e che dal 1409 divenne la capitale del regno, conobbero una fioritura senza precedenti. A Samarcanda arrivarono scultori, mosaicisti da Shiraz ed esperti stuccatori dall’Azerbaigian e dall’India; da Damasco accorsero in gran numero vetrai e ceramisti. Samarcanda divenne un gioiello di colori, di mausolei dal timbro blu (il blu è il colore predominante della città), di eleganti e dinamici minareti dai mosaici multicolori e a losanghe, dalle cupole d’oro (sui cui oggi crescono discreti ciuffi d’erba verde, segno del tempo che passa e non dell’incuria delle istituzioni), delle madrase – le scuole musulmane – dalle mille stanze a ospitare gli studenti e dai mille balconi aperti al vento della steppa. Il Rinascimento finì nel 1500, quando Samarcanda fu conquistata da una tribù di nomadi di origine turca che aveva già da tempo il desiderio di diventare stanziale: gli uzbeki, che crearono una serie di regni poi inglobati nell’Emirato di Bukhara, a sua volta conquistato dai russi negli anni Venti dell’’800.

La Samarcanda odierna 



Samarcanda è oggi la seconda città dell’Uzbekistan per importanza e la terza per numero di abitanti. La capitale, Tashkent, è distante 350 km. Dell’atmosfera e della ricchezza spirituale del periodo rinascimentale è rimasto poco o niente e la Samarcanda contemporanea è una città dagli edifici sovietici e dalle periferie sovraffollate e caotiche. Il mito di Samarcanda è semplicemente una versione di quel fenomeno che Edward Said definisce “Orientalismo”: sono gli occhi degli occidentali a conferire all’Oriente quel “quid” di esotismo misto ad avventura che viene di solito attribuito alle terre situate a est della Grecia. Samarcanda accontenta i propri ospiti: il mercato del centro storico è una sinfonia di spezie e di abiti di seta, ma è artificiale come tutta la città vecchia: non ha nulla di reale, così come le moschee e i mausolei, che sono la testimonianza solo materiale di un tempo ormai passato ma che non vengono più utilizzati dagli uzbeki nella vita quotidiana. Si ha l’impressione che Samarcanda sia un parco turistico e che mostri sé stessa senza pudore come una puttana, che si trucca e si veste semplicemente come i clienti desiderano, al fine di dar corpo alle loro fantasie. Samarcanda è un teatro, con le quinte e il palcoscenico: i turisti si muovono mirabilmente lungo sentieri già marcati, proprio come i nomadi della steppa si spostavano seguendo strade e tratturi segreti, invisibili agli occhi di un profano. Ai margini della via Karimov c’è un muro, lungo il quale si apre un solo varco. A nessuno viene in mente di oltrepassare l’unica porta di quel muro di mattoni chiari. A sinistra, per chi va verso il cimitero, ci sono i monumenti, a destra la parete divisoria. Quel muro è una frontiera e costituisce il valico fra Mondo Nord e Mondo Sud, fra turisti francesi, inglese, cinesi, americani, russi e gli uzbeki che a Samarcanda vivono. A sera, al tramonto (tu che m’hai preso il cor, sarai per me il solo amor), i venditori del mercato raccolgono le merci invendute - pane, dolci, erbe odorose - e si avviano verso il muro, verso il varco. Lo oltrepassano e sono a casa. Al di qua del muro è sfarzo, è Storia raggelata in museo, è Orientalismo. Al di là è Uzbekistan. Il muro ha il compito di dividere i due mondi, è abbastanza alto da nascondere le abitazioni, da mascherare la realtà, da eliminare la vista della povertà che potrebbe risultare fastidiosa ai turisti. Un muro (anche architettonicamente) simile a quello di Samarcanda si trova a Baku, la capitale dell’Azerbaigian, lungo la strada che conduce dall’aeroporto al centro della città: gli stranieri non devono vedere i bambini seminudi che giocano a pallone, le strade non asfaltate e le porte spalancate delle case spesso senza acqua corrente ed elettricità. A Samarcanda non c’è miseria, la città vive di turismo e di servizi: nonostante ciò, lo iato fra il tenore di vita degli ospiti stranieri e quello degli uzbeki autoctoni è palpabile e il muro ha la doppia funzione di preservare il sogno da mille e una notte degli occidentali e di evitare alla popolazione locale di sentirsi inferiore nei confronti di chi viene da lontano con le tasche piene di valuta pregiata. In centro a Samarcanda, al di là della frontiera, non ci sono mausolei blu ma solo le tipiche case uzbeke, dai portoni in ferro a nascondere la corte sui lati della quale si affacciano gli usci delle varie stanze. La vita si svolge all’aperto, nel cortile si cucina, si mangia, si parla, si discute. Alcune di queste abitazioni sono lussuose, la maggior parte sono dignitose ma povere. Le strade sono in cemento, al centro c’è un canale di scolo lungo il quale defluisce l’acqua utilizzata per annaffiare o per lavare il selciato dei cortili interni. Gli automobilisti, con grande maestria, guidano evitando che le ruote cadano in uno di questi canali. Alcune strade non sono asfaltate, soprattutto lì dove le case si fanno più semplici. Dai cortili provengono belati di capre e i versi di altri animali domestici. L’immondizia fuoriesce dai cassonetti, che da giorni non sono stati svuotati. Due turisti inglesi passeggiano per le stradine al di là del muro: hanno passato incautamente il varco e non sanno dove si trovano. Un bambino si offre di accompagnarli nella Samarcanda che appartiene loro in cambio di 10.000 som, che corrispondono a un dollaro americano.



Dopo l’URSS
L’Uzbekistan ha ottenuto l’indipendenza nel 1991 e il primo presidente, Islam Karimov, ha adottato misure politiche ed economiche originali: non ha seguito, come tutti gli altri paesi dell’area ex-sovietica, i consigli del FMI e della Banca Mondiale e ha aperto l’economia ai privati ma sempre sotto la supervisione dello Stato. Se questa politica sia stata efficace o meno è materia di discussione fra gli economisti: da un lato l’Uzbekistan non ha dovuto confrontarsi con i grossi traumi sottesi alla logica neoliberista, come per esempio le privatizzazioni selvagge e il ritiro dello Stato da settori chiavi quali energia, sanità e istruzione. Dall’altro però, i quasi 2 milioni di uzbeki emigrati in Russia negli ultimi vent’anni sono un chiaro segnale che la disoccupazione ha raggiunto livelli insostenibili e che le condizioni di vita nel paese non sono fra le migliori. Karimov è morto nel 2016 e il suo successore, l’ex premier Shakvat Mirziyoyev, ha subito dato inizio a una politica di riforme in campo politico, economico e giuridico che potrebbero portare l’Uzbekistan ad assumere nel giro di pochi anni un ruolo guida in Asia Centrale. Nel febbraio del 2017, il presidente ha stilato una sorta di manifesto intitolato “La Strategia”, un documento in cui si mettono in luce i cambiamenti che il governo vorrebbe realizzare dal 2017 al 2021 (in epoca sovietica, simili pamphlet venivano chiamati “Piani quinquennali”). Per prima cosa, Mirzyoyev ha aperto le frontiere del paese, che per anni è rimasto chiuso, quasi ermetico nei confronti degli stranieri, visti come una possibile fonte di destabilizzazione delle istituzioni: non solo perché la globalizzazione neoliberista, con le sue riforme finanziarie e sociali draconiane e ingiuste impauriva Karimov, ma anche perché dai paesi vicini, in particolar modo dal Tagikistan e dall’Afghanistan, arrivavano i terroristi islamici; come se questo non bastasse, dal Kirghizistan spiravano forti venti democratici (nel 2010, dopo una sanguinosa rivoluzione, il Kirghizistan ha trasformato il proprio sistema politico in una repubblica parlamentare, la prima in Asia Centrale). Il nuovo presidente ha subito incontrato i colleghi dei paesi confinanti e ha iniziato con loro una proficua collaborazione, soprattutto con il Kazakhistan con cui sono ancora aperte questioni relativa ai confini di Stato: non bisogna dimenticare che i paesi dell’Asia Centrale sono artificiali, creati a tavolino dalle autorità sovietiche negli anni Venti per dividere popoli che fino ad allora avevano convissuto nella stessa entità statuale, il Turkestan. In Uzbekistan ci sono 5 partiti, tutti filogovernativi e filo-presidenziali: Mirzyoyev, che appartiene al Partito Liberal-Democratico, sta spronando i leader e i parlamentari a differenziarsi il più possibile fra loro e a sviluppare programmi differenti. Non è escluso che nuove organizzazioni politiche si formino in futuro, anche se difficilmente ciò accadrà in occasione delle prossime elezioni parlamentari, che si terranno a dicembre del 2019. Una di queste neonate associazioni potrebbe anche decidere di assumere un ruolo di opposizione. Sarebbe la prima volta in Uzbekistan. Certo la società non è affatto abituata a decidere in maniera autonoma: i ragazzi dell’Università, per esempio, vengono trattati come fossero ancora bambini dai loro professori, che hanno addirittura l’obbligo di far visita una volta al mese ai propri studenti fuori sede, sia a quelli che vivono nella casa dello studente sia a quelli che affittano un appartamento. Si tratta di veri e propri blitz: a sera, una o più volte all’anno, i capo-cattedra suonano il campanello, entrano in casa e controllano che gli studenti vivano in condizioni decorose e non facciano uso di droga e alcol. Nelle aule dell’ateneo di Samarcanda vigono ordine e disciplina: le studentesse sono vestite con calze di nylon, una gonna scura e una camicia bianca. Alcune portano il chador, altre no. Le ragazze appena sposate indossano vestiti multicolori a indicare la (presunta) gioia di essersi accasate. Gli studenti indossano la giacca ed è obbligatoria la cravatta. Il ritratto dell’Università che ne viene fuori è piacevole, ma nello stesso tempo nasconde l’assoluta mancanza di autonomia da parte degli studenti, che non possono neanche scegliere come vestirsi. Comportamenti ribelli, a cominciare da quelli legati all’abbigliamento e più in generale al proprio corpo, non sono ammessi e forse neanche contemplati.
Per quel che riguarda l’economia, Mirziyoyev ha stabilizzato il tasso di cambio: fino a pochi anni fa, il valore del som, la moneta nazionale, non era lasciato libero di fluttuare ma era determinato a tavolino dal Ministero delle Finanze: c’erano per cui due cambi, uno artificiale e perciò poco conveniente, quello ufficiale, e uno reale, ma illegale: come nella Jugoslavia di fine anni ’90, la valuta straniera si comprava al mercato. Mirziyoyev ha poi invitato il Parlamento ad assumere un ruolo centrale nella vita pubblica: per la prima volta i deputati hanno viaggiato per il paese, su invito dello stesso presidente, e hanno incontrato i cittadini, confrontandosi con loro.
Mirziyoyev ha anche spinto i contadini a differenziare la produzione agricola. Ancora sotto Karimov, l’Uzbekistan, uno dei principali produttori mondiali di cotone, aveva continuato a seguire piani produttivi di matrice sovietica: L’URSS, infatti, pretendeva che ciascuna repubblica producesse ciò che Mosca riteneva necessario per la propria economia. All’Uzbekistan era stato affidato il ruolo di produttore di cotone che andava a fornire le industrie tessili dell’impero. Le conseguenze ecologiche di questa scelta sono state tragiche: il cotone è una coltura che richiede ingenti quantità d’acqua, che veniva presa dai pochi fiumi che attraversano il paese. Il lago di Aral, in Uzbekistan, è quasi completamente scomparso e molte zone dell’Asia Centrale sono diventate desertiche. Il cotone è ancora uno dei principali prodotti di esportazione ma comprende solo il 9% dei prodotti agricoli esportati: Mirziyoyev, infatti, ha spinto gli agricoltori a diversificare la produzione; alle porte di Samarcanda e un po’ ovunque nella Valle di Fergana, le piante di cotone sono state estirpate per far posto a frutteti e a orti. Dal 2017, l’Uzbekistan esporta la propria frutta e verdura in 43 paesi. Il presidente ha anche facilitato la vita dei produttori di cotone: mentre fino a pochi anni fa i contadini vendevano i frutti della preziosa pianta alla ditta “Uzpakhtasanoat”, che aveva il monopolio sul commercio della fibra, adesso ciascun produttore può vendere il proprio raccolto a chi vuole. Il prezzo è quello stabilito dal mercato. In settembre, i campi di cotone si riempiono di braccianti che raccolgono i bianchi batuffoli che spuntano miracolosamente dai gambi duri e verde-scuro delle piante. Fino all’arrivo di Mirziyoyev, fra i braccianti c’erano molti bambini che lavoravano a titolo gratuito: adesso, una legge vieta severamente il lavoro minorile. Grazie al presidente, è il caso di dirlo, i fanciulli riempiono le aule scolastiche e non più i campi di cotone.


La difficoltà di cambiare
Il presidente, nel suo anelito riformista, sembra sincero. Cambiare però le abitudini decennali di un popolo non è facile. Per ora, sembra quasi impossibile debellare la corruzione, che in realtà non è altro che una fonte di guadagno necessaria e non ufficiale, per anni non solo permessa, ma anche incoraggiata dallo Stato, con il tacito avvallo di tutti i cittadini. Un poliziotto o un medico ricevono una paga media di 100 dollari al mese, insufficienti per vivere normalmente; negli anni successivi all’indipendenza succedeva spesso che per periodi più o meno lunghi le istituzioni sospendessero l’erogazione degli stipendi. In circostanze simili, i pubblici ufficiali avevano e hanno ancora oggi il permesso di chiedere tangenti agli utenti dei servizi offerti dallo Stato: chi non poteva partecipare a questo sistema economico alternativo, perché impiegato nel settore privato o perché disoccupato, sceglieva la via dell’emigrazione. Mirziyoyev ha affermato più volte di voler riportare il paese nella legalità. Ci riuscirà?



Farhod e il poliziotto
Il poliziotto che controlla i turisti all’ingresso del Reghistan propone a ognuno di coloro che chiedono informazioni su come entrare (la biglietteria non è ben visibile), di evitare l’acquisto del biglietto, che costa 40.000 som, circa 4 dollari. Per 30.000 som, sarà lui a permettere di accedere al monumento più famoso di Samarcanda. Basta stringere i 3 biglietti da mille nella propria mano, far finta di passeggiare, il poliziotto si avvicinerà fingendo di essere un vecchio amico del turista e lo saluterà con una calorosa stretta di mano. Le banconote cambieranno così rapidamente proprietario e il poliziotto farà entrare la persona attraverso un varco secondario, senza neanche passare attraverso il metal detector. “È una doppia illegalità!”, dice, con un sorriso bonario e amareggiato, Farhod, l’autista che aspetta i turisti davanti al Reghistan per portarli con il proprio taxi in giro per Samarcanda. Farhod è basso, scuro di carnagione, ha un incisivo d’oro e appartiene alla minoranza tagica che da sempre vive in Uzbekistan. “Non ci sono mai stati problemi con gli uzbeki”, sostiene. Subito dopo l’indipendenza, però, Karimov guardava con diffidenza alle componenti minoritarie perché avrebbero potuto essere la quinta colonna delle potenze straniere interessate a limitare l’autonomia dell’Uzbekistan. Con il tempo, i rapporti delle istituzioni con le etnie non uzbeke che abitano nel paese si sono normalizzati. “Solo gli iraniani, che vivono in alcuni sobborghi dell’estrema periferia, costituiscono un problema: sono sporchi e non han voglia di lavorare”, sostiene Farhod mentre con l’occhio severo segue il poliziotto che parla con due giapponesi e che nel frattempo ha intascato altri 60.000 som. Gli iraniani, che dai tempi del regno di Bukhara vivono a Samarcanda, appartengono allo strato più povero della società: sono musulmani sciiti, a differenza degli uzbeki che sono sunniti, e questo li rende invisi a tutti. Dopo aver brevemente parlato al telefonino, Farhod sale sulla propria automobile e si dirige verso la stazione ferroviaria, dove c’è il mercato russo, così chiamato perché frequentato soprattutto dai russi che ancora abitano questo quartiere. Il mercato è vivo, sporco, agitato, non come quello vicino al Reghistan, che è lindo, ordinato e splendente. Ci sono anche alcuni turisti afghani, che, in viaggio di piacere e dopo aver indossato magliette e pantaloncini corti, possono finalmente comprare carne di maiale e vodka, vietati nel loro paese. Da qui a poche ore saranno ubriachi fradici ma nessuno li frusterà, come accadrebbe se fossero a Kabul: cadranno sul marciapiede della stazione se non si sono premuniti di pagare un accompagnatore che li riporti in hotel. Farhod non si ferma a far spesa, si infila con il suo taxi in una via adiacente alla ferrovia perché deve accompagnare una famiglia russa all’aeroporto. Dal vecchio edificio, una “krusciovka”, vale a dire un condominio di 5 piani fatto costruire da Nikita Krusciov per risolvere una volta per tutte il problema abitativo nell’URSS, escono padre, madre e due bambini biondi, irrequieti. Ognuno di loro ha in mano una valigia e diverse buste ricolme di masserizie. Si trasferiscono a Mosca, per sempre. Il quartiere russo è russo ormai solo di nome. I suoi abitanti sono emigrati nella terra di Tolstoj perché le paghe sono almeno 5 volte più alte che in Uzbekistan e perché ormai a Samarcanda non si sentono più a casa, nonostante siano nati qui. Al loro posto, arrivano famiglie uzbeke che dalle campagne vogliono trasferirsi in città. Samarcanda è una città post-sovietica, con gli stessi problemi di tutti gli altri centri urbani dell’Asia Centrale. I monumenti del centro appartengono a un passato ormai remoto; il Rinascimento timuride viene venduto ai turisti ma non ha più alcun legame con la vera Samarcanda, che sprofonda nel livore del cemento, del bitume, del traffico impazzito e delle polveri sottili che soffocano l’orizzonte e smorzano, filtrandola, l’intensità della luce solare.


I dintorni di Samarcanda
È domenica, Farhod guida il proprio taxi verso il santuario di Hazrati Daut, un luogo che uzbeki e tagichi considerano sacro: secondo la leggenda, il profeta Daut (il re Davide), si sarebbe rifugiato sulle montagne alla spalle di Samarcanda, non lontane dall’attuale confine di Stato che separa Uzbekistan e Tagikistan, per fuggire alle milizie dei nemici, i fedeli dello zoroastrismo, che avrebbero voluto uccidere il messaggero che Dio aveva mandato in terra al fine di diffondere il monoteismo. Dopo essersi arrampicato sulla cima di una di queste montagne, avrebbe aperto con le proprie mani la roccia e nella grotta che ancora oggi esiste - la cui apertura ricorda un viso barbuto, secondo i credenti quello del profeta stesso - si sarebbe ritirato in preghiera. Adesso, lì dove avrebbe camminato il profeta, si estende una scalinata di due chilometri che arriva fino alla grotta. I pellegrini, fra cui ci sono anche donne anziane, si arrampicano lentamente sotto il sole cocente: l’aria è calda e secca, ogni duecento metri ci sono delle bancarelle coperte da un lenzuolo a fare ombra, in cui è possibile comprare acqua, frutta, erbe per fare il tè ed è possibile anche riposarsi: i commercianti sono affabili e chiacchierano volentieri con i credenti. A valle sono sorti alberghi, piccoli e graziosi, e si è venuto a creare spontaneamente un mercato, in cui si vende di tutto: ombrelli, radio di fabbricazione cinese, collane, matite. Su una piccola altura si trova anche una sorta di macelleria, in cui i pellegrini possono portare i propri animali che verranno uccisi in onore del profeta. La vittima sacrificale verrà poi mangiata dalla famiglia a cui apparteneva. Farhod va in pellegrinaggio con tutta la famiglia: il figlio liceale, la madre ormai anziana e in pensione, che per anni ha lavorato in un negozio, la moglie, una signora di rara bellezza, con una voce incantevole: il velo multicolore dai graziosi motivi floreali, che le copre la testa, la rende ancora più affascinante. La donna, che si chiama Karima, insegna musica e canto in una scuola privata e nel tempo libero suona il pianoforte. Aperta, comunicativa, con gli occhi leggermente a mandorla e la pelle olivastra, è di nazionalità tagica e crede profondamente nei valori dell’Islam. “In Uzbekistan, l’Islam è una religione che non ha nulla a che fare con l’estremismo - dice mentre osserva le montagne brulle e polverose all’orizzonte - anche i terroristi uzbeki che si sono macchiati di vili attentati (come quello del 2017 nella metropolitana di San Pietroburgo) vengono dalla Russia, non dalle nostre parti”. È vero: in Uzbekistan, anche grazie alla politica ventennale di Karimov che si è impegnato a far sì che la società rimanesse laica, non c’è estremismo. Sono gli emigrati, soprattutto quelli di seconda generazione, che spesso in Uzbekistan non sono mai stati, a vedere nel radicalismo religioso un mezzo per affermare la propria identità: in Russia, gli uzbeki vivono spesso ai margini della società, lavorano nell’edilizia o nel settore dei trasporti: guidano le “marshrutke”, i pullmini privati che nelle città fanno concorrenza al servizio pubblico. Guadagnano poco e sono spesso vittime di pregiudizi razziali da parte dei russi che li guardano con superiorità e sufficienza. I giovani non riescono a integrarsi e trovano rifugio nella religione, che non è una forma di consolazione ma una vera e propria identità per chi non riesce ad accettare di vivere alla frontiera, di non appartenere ormai a nessuna nazione: per essere cosmopoliti bisogna avere una solida basa culturale, una Weltanshauung planetaria. Gli uzbeki emigrati si sentono come una nave in balia delle onde e la religione li accoglie a braccia aperte: l’estremismo è il prezzo da pagare per avere l’illusione di appartenere. La famiglia di Farhod ha invece un credo laico, che riguarda la sfera personale e non quella nazionale-identitaria. Karima soffre nel vedere come in occidente l’Islam venga considerato una religione malata, crudele. È contenta che il presidente Mirzyoyev abbia aperto le frontiere ai turisti e abbia tolto l’obbligo del visto per gli europei: Karima si augura che l’Uzbekistan diventi una meta turistica e che gli occidentali si rendano conto che esiste un Islam moderato, che nulla ha a che fare con il terrorismo.
Appena uscita dalla città, l’auto di Farhod attraversa un territorio arido, prima stepposo e poi di natura desertica. Fa una sosta a Sazagan, un paese dalle case disposte lungo l’autostrada che porta a Samarcanda. Ogni abitazione è costituita da una grande corte attorno alla quale si snodano, perpendicolarmente, le stanze, ognuna delle quali ha una porta che si affaccia sul cortile. L’ingresso principale è chiuso da un portone di metallo o di legno. La differenza rispetto alle case di Samarcanda è immensa: nelle campagne, spesso non c’è il bagno ma solo una doccia improvvisata all’aperto e, per i bisogni, un buco nel terreno, in una casupola ai margini del cortile. L’energia elettrica viene erogata per due ore al giorno e non c’è acqua potabile: in molte case non arriva neppure l’acquedotto e i bambini devono andare più volte al giorno con grosse damigiane di plastica alla fonte alla periferia del paese; da queste parti, l’acqua è più preziosa del petrolio. Sui tetti delle abitazioni più ricche troneggia una cisterna, la cui funzione è quella di raccogliere e conservare le acque piovane in inverno, durante le rare precipitazioni. Sull’Asia Centrale meridionale, infatti, staziona un anticiclone che impedisce alle perturbazioni di lambire Samarcanda e l’Uzbekistan in generale. “Il presidente è venuto qui e ha promesso di portare acqua ed energia elettrica. Le condizioni di vita sono davvero difficili. La gente alleva qualche capra che fornisce il latte, il terreno è arido per essere coltivato e non c’è nessuna attività economica. I giovani sono quasi tutti emigrati in Russia”, sostiene Farhod. Chi rimane, donne anziane e bambini, sopravvive grazie alle rimesse degli emigranti che mensilmente mandano 200-300 euro a casa. Durante il periodo in cui ha governato Karimov, a causa delle restrizioni in ambito bancario e finanziario, era difficile ricevere e cambiare i soldi: possedere valuta straniera era quasi un reato, comprare dollari o euro era possibile solo al mercato nero.
Visti dall’alto, i paesi che sorgono ai piedi del Karatyube sono dislocati all’ingresso delle strette valli che solcano questo massiccio montuoso. In tempi ancestrali, in alcuni casi già nel periodo preistorico, le comunità stanziali sceglievano come propria dimora le rive di un ruscello. Fino a qualche centinaia di anni fa, una miriade di piccoli corsi d’acqua costellava le doline del Karatyube. Adesso, i torrenti sono completamente secchi. A ogni centro abitato corrisponde una macchia verde costituita da alberi e cespugli, sotto cui riposano cani, asini e cammelli. Sono gli uomini a innaffiare e mantenere in vita la vegetazione, che altrimenti a nord di Samarcanda non esisterebbe. L’essere umano, responsabile del riscaldamento globale, è l’ultimo avamposto alla desertificazione della pianura che si estende fra il fiume Zeravashan e i monti brulli del Tagikistan e dell’Afghanistan.



Volti
Il magnate israeliano di origini russe è nato a Samarcanda, ma i suoi genitori si sono trasferiti a Tel Aviv quando lui era ancora un bambino. Per decenni non è tornato nella sua città natale, ma da 5 anni a questa parte trascorre ogni fine estate in Uzbekistan, nonostante non sappia l’uzbeko e non abbia più parenti da queste parti. Affitta al prezzo di 70 euro a notte una suite di lusso in una “Guest House” del centro, una vecchia casa uzbeka ristrutturata. Le stanze per gli ospiti sono disposte lungo i quattro lati della corte, al centro della quale si trova un giardino di rose e basilico, una pianta molto amata in Uzbekistan; gli usci delle camere sono collegati l’uno all’altro da uno stretto percorso di mattonelle rosse, riparato a sua volta da una pergola attorno a cui si attorciglia la vite e da cui pendono grassi grappoli d’uva. Cosa faccia il magnate israeliano durante il giorno è un mistero. Esce dopo aver fatto colazione, verso le 11 del mattino, e torna al tramonto, in tempo per la cena, che con attenzione e cura prepara un impiegato dell’hotel: Artiom, un signore di mezza età dall’aspetto caucasico con la barba e i capelli castani dai riflessi rossastri e che assomiglia a Razman Kadirov, il presidente della Repubblica Cecena. È sempre Artiom a procurargli, tramite un’amica, la compagnia di ragazze poco più che ventenni; suonano alla porta verso le 9 di sera, mangiano e scherzano con l’israeliano e con Artiom il quale, a fine cena e quando la bottiglia di vodka è ormai vuota, si ritira discretamente in cucina. Le signorine rimangono con il magnate fino al mattino, vanno via all’alba, quando nessuno le vede con i 100 dollari a testa di compenso per le loro prestazioni. Stasera il magnate israeliano, che parla un russo elementare ma riesce a farsi capire, è in compagnia di due donne; la prima è sui trent’anni, pesantemente truccata, con uno stomaco abnorme e molliccio che fuoriesce dalla maglietta attillata a far risaltare i seni. La seconda è di statura minuta, ha gli occhi fortemente a mandorla e l’israeliano l’ha soprannominata “la giapponese”. Guarda ostinatamente il proprio smartphone e sembra non voler partecipare alla recita, alla farsa di cui il magnate è il principale attore. Scherzano, ridono, parlano come se si conoscessero da sempre. La prima delle donne ha uno sguardo vivo, acceso, invita gli altri ospiti dell’hotel, che passano in fretta davanti al tavolo apparecchiato al centro della corte, a bere un bicchiere di vino. Guarda gli uomini come prede, soggetti da cui sa di poter trarre vantaggi. Si stupisce se qualcuno di loro, non accompagnato dalla moglie o da una ragazza, si rifiuta di sedersi al tavolo. Ogni maschio è il probabile cliente di domani. Comunica la propria falsa lussuria con gli occhi; non ha bisogno di parole (La giapponese, invece, rimane chiusa in sé stessa. Il magnate israeliano la manderà via non appena finita la cena, dopo averle regalato 50 dollari; Artiom non capisce il perché di tanta generosità, in fondo la ragazza ha mangiato e non ha neppure lavorato. “Per me 50 dollari non sono niente”, dice il cliente stringendo le spalle e con uno sguardo cinico, che ostenta superiorità).
Il mattino è il momento più doloroso, perché quello più autentico. Alle sette, quando la puttana dalla pancia flaccida se ne va con i 100 dollari pattuiti, il magnate rimane solo. Va in cucina da Artiom che prepara la colazione per gli altri ospiti che presto si sveglieranno. Parla di sé, della propria infanzia in Israele e della solitudine che da sempre lo accompagna. Del matrimonio fallito dopo pochi anni di convivenza, della figlia ventenne che da anni non vuol aver nulla a che fare con il padre. E del lavoro - non è chiaro di cosa si occupi quest’uomo brizzolato, dagli occhiali con la montatura di plastica rossa, leggermente pingue e dalla camicia sempre aperta sul petto - l’unico settore in cui sia riuscito a realizzarsi. Artiom finge di ascoltarlo attentamente e abbozza consigli, mormora parole di conforto, mentre corre dal tostapane alle uova che friggono nel tegamino. Il magnate tornerà a dormire per qualche ora, stanco della notte brava e fiaccato dal primo sole del mattino che è già rovente. Si sveglierà a metà mattinata e Artiom sa che, prima di uscire, gli metterà 20 dollari nel taschino della camicia come ringraziamento per avergli organizzato l’illusione di piacere alle donne e di avere un amico con cui parlare. In questo hotel di alto livello al centro di Samarcanda, Artiom è la vera puttana.
Alla periferia meridionale di Samarcanda, c’è un sobborgo così isolato da sembrare un paese. In una casa ai margini di questo quartiere, vive il professor Rusif, docente di storia nell’ateneo della città. Ha lasciato l’appartamento che gli aveva assegnato 40 anni fa il governo sovietico e ha comprato un terreno lontano dal centro per poter finalmente edificare la propria casa. Rusif è un membro della Mahalla, che a livello amministrativo corrisponde a un comune o a una circoscrizione ma che da un punto di vista sociale e simbolico ha in Uzbekistan un valore più ampio: la Mahalla, infatti, era un’istituzione informale che, fino all’avvento dei Soviet, costituiva un’entità di governo autonomo. Costituita da un gruppo di famiglie, la Mahalla rappresentava gli interessi di questo piccolo gruppo e i suoi rappresentanti dovevano accordarsi con quelli di altre Mahalla in caso di diverbi, questioni legate ai terreni o agli armenti ma anche per l’organizzazione di matrimoni, feste ed eventi religiosi. Insomma, ancora oggi la Mahalla è l’anello di connessione fra la sfera privata e quella pubblica. Il presidente della Repubblica Mirzyoyev vorrebbe ampliare i poteri legislativi delle Mahalla a livello locale e riconoscere formalmente istituzioni semi-ufficiali.
La casa di Rusif è quasi terminata: le stanze da letto sono pronte, mancano però il bagno e la cucina. Si mangia nella corte, sotto al pergolato, dove c’è anche la cucina a gas collegata a una bombola. La doccia è stata ricavata da quella che un tempo era la mangiatoia per gli animali e il lavandino per lavarsi i denti si trova al centro del cortile, nascosto dall’erba alta più di un metro. Ai margini della corte c’è una casupola senza porta e senza   lampadina elettrica, nascosta dai rami di un fico mai potato e cresciuto selvaggiamente.   

                                                                                                                                                                                                                                                                                                     All’interno fa bella mostra di sé una turca, costituita da un buco nel terreno e da due mattoni su cui appoggiare i piedi. I bisogni si fanno così, alla luce del cellulare quando il sole cala. Rusif si vergogna di non avere un giardino curato, dice di non avere il tempo di occuparsene. In realtà, ha pensato più a sistemare la facciata per far bella figura con i vicini che non a rendere l’interno dell’abitazione confortevole. La moglie lavora a Istanbul, in Turchia, come babysitter di una famiglia uzbeka benestante. A Samarcanda ha lasciato il marito, il figlio diciannovenne, che si sposerà a giorni, e la figlia di 13 anni, Altyngulj. Non molto alta, Altyngulj ha i fianchi stretti e un corpo da bambina. Parla raramente, in uzbeko con i familiari, in russo con gli ospiti stranieri, i colleghi che il padre ha conosciuto durante i suoi soggiorni in Germania e che a volte lo raggiungono in Uzbekistan. Rusif insegna infatti Storia europea e di tanto in tanto riceve borse per studio per seguire corsi di aggiornamento in Germania.
Dato che la madre è assente, Altyngulj ha il compito di tenere in ordine la casa, di cucinare e accudire il padre e il fratello. Serve in tavola e solo raramente mangia insieme ai familiari. Di solito, dopo aver lavato i piatti, porta nella propria stanza il cibo avanzato e si rilassa davanti alla televisione. Prima di dormire, Altyngulj fa i compiti; la matematica e l’uzbeko non le danno problemi, è l’inglese a essere ostico. Rusif la aiuta, nello stanzino dai muri e dal pavimento di cemento dove ci sono solo due sedie e il televisore, quasi sempre sintonizzato su trasmissioni sportive o su Uzbekistan24, l’emittente voluta dal nuovo presidente che si occupa solo di informazione e in tutto e per tutto simile al canale gemello russo Rossia24. Finiti i compiti Altyngulj va a dormire; dopo il tramonto, la casa piomba nel silenzio più totale. Gli unici rumori sono quelli dei treni merci che si scuotono in lontananza, lungo la ferrovia Samarcanda-Tashkent, e quelli degli aerei che si allineano alla pista dell’aeroporto prima di atterrare: la casa di Rusif si trova infatti lungo il corridoio di avvicinamento e gli aeromobili scivolano lentamente verso la destinazione finale con i motori al minimo, rauchi passano sopra la città e a mano a mano che si allontanano il rombo si trasforma in un sibilo cupo. Di giorno, gli aerei non si notano, persi nel frastuono del quartiere, delle automobili di passaggio e delle voci dei passanti.


Altyngulj è leggera: cammina senza far rumore, compare e scompare nella corte senza dar fastidio. La sua presenza non si nota. Non parla quasi mai ma osserva tutto ciò che avviene intorno a lei. Gli occhi leggermente a mandorla non svelano ciò che si nasconde nell’anima. Dopo aver preparato la colazione per i familiari, la ragazzina pulisce le stanze, riordina i letti, che consistono in semplici materassi adagiati su un tappeto. Si prepara per la scuola ed esce di casa, elegante e pulita, con le scarpe scure, le calze e la camicia bianche, la giacca e le scarpe blu. Deve stare attenta a non sporcarsi, la strada in cui abita non è ancora stata asfaltata e c’è fango ovunque. La scuola si trova nel centro del quartiere, a 600 metri da casa. 600 metri di fango, pietre, capre che pascolano negli spazi non ancora edificati, cani pastori che le corrono incontro, la annusano e lei deve evitare che, festosi, manifestino la loro gioia con salti arditi e le zampe anteriori sulla camicia pulita. Incredibilmente, Altyngulj torna a casa linda, come quando era uscita. Si cambia e continua con le faccende domestiche lì dove le aveva lasciate al mattino. Impossibile sapere a cosa pensi mentre cucina, stira le camicie del padre e lava le giacche del fratello. È una donna e sa che non deve far trapelare le proprie emozioni. Sogna, forse, a sera, quando è sola nel letto, nel silenzio della propria stanza in cui rimbalza il rombo discreto dei reattori del boeing 737 in arrivo da Istanbul, dove lavora la madre. Sogna il proprio matrimonio, così importante da queste parti, o forse sogna i grattacieli di quei telefilm americani che ama tanto e che guarda su Youtube. Un mondo rutilante, luminoso, senza fango, dove persino il rumore degli aerei in atterraggio si armonizza con il paesaggio circostante e diventa musica, e la fusoliera colorata dai finestrini in fila si riflette nei vetri scuri dei palazzi, per un istante, prima che scompaia all’improvviso, così com’era apparsa.
            
*Il Gazel è un canto improvvisato tipico turco. 

***
KARAGANDA
di Christian Eccher

 Luoghi



Da poco è sorto il sole sulla steppa; la luce rossa dell’astro restituisce colori e spessori a un paesaggio per molte ore inghiottito dal buio notturno. Alla fermata dell’autobus nel quartiere “Stepnoi 2”, una vera e propria isola collegata al resto della città da una comoda superstrada a quattro corsie, si assiepano ragazze dagli occhi a mandorla con la cartella sulle spalle, signore attempate e uomini dalla postura eretta e orgogliosa. Gli autobus, nonostante passino frequentemente, sono pieni; è l’ora di punta e tutti si dirigono verso la parte centrale di Karaganda, la quarta città più popolosa del Kazakistan, situata a circa 200 km a sud-est della capitale Astana.
Alle spalle della pensilina, costituita da una panca di legno e da una tettoia in lamiera a riparare dalla pioggia e dal vento chi attende l’autobus, c’è solo un fosso di scolo delle acque piovane lungo il quale si dilunga anche il condotto del teleriscaldamento, che porta l’acqua calda dalla centrale termica situata a pochi chilometri dal quartiere “Stepnoi 2” fino alle case del centro. 


D’estate, il sistema di riscaldamento viene sottoposto a revisione e ristrutturazione e a chi non sia munito di un boiler elettrico non rimane a disposizione che l’acqua fredda. Al di là delle grosse tubature si estende la steppa, interrotta da un filare di alberi lungo la linea ferroviaria che porta da Astana ad Almati; visti dagli alti palazzi di “Stepnoi 2” i treni, che passano a intervalli regolari, procedono lenti e senza rumore e sembrano essere giocattoli in miniatura. Sono invece convogli estremamente lunghi, composti alle volte da decine di vagoni. I treni merci trasportano carbone, petrolio grezzo, a volte minerali preziosi ma anche sabbia e materiale da costruzione. Il Kazakistan è una terra estremamente ricca di materie prime e, nonostante il calo del prezzo del petrolio, l’economia del paese si regge quasi esclusivamente sull’esportazione di minerali, liquidi e solidi. Il presidente Nazarbayev, che è a capo del paese dal crollo dell’URSS, non ha utilizzato gli ingenti proventi delle esportazioni per creare altri tipi di industrie che non fossero legate all’estrazione e alla lavorazione delle materie prime. Il Kazakistan, come l’Azerbaigian, la Russia e persino la Norvegia, è stato così colpito dal virus della “malattia olandese”, che ha quasi completamente distrutto il mercato agricolo per colpa di un meccanismo tanto semplice quanto spietato: Astana vende le proprie materie prime in dollari, che si accumulano nelle casse dello Stato. Più dollari ci sono, più la valuta locale - in questo caso il Tenge - si rinforza sul mercato internazionale. 


Quando il contadino vende i proprio prodotti all’estero, questi risultano estremamente cari, proprio perché il Tenge è una moneta che vale molto. L’acquirente va allora a cercare gli stessi prodotti altrove, dove sono più economici. La “malattia olandese” ha rovinato i produttori di mele di Almaty, città a sud del Kazakistan: il nome stesso della città, che in kazako vuol dire “Il padre delle mele”, indica che un tempo la produzione di pomi era fiorente. Le mele di Almaty erano grandi e succose e sembra che la mela in generale sia nata proprio nella pianura del Centro-Asia che si estende ai piedi della catena montuosa del Tien-Shan. Almati contribuiva a fornire di frutta l’Unione Sovietica ma dagli anni Novanta in poi i produttori agricoli sono miseramente falliti. La Russia ha preferito approvvigionare il proprio mercato con mele di provenienza serba e polacca, proprio perché le mele di Almaty, colpite dal “virus olandese”, erano diventate estremamente care. L’unico rimedio a questo tipo di problemi economici è rappresentato dalle istituzioni statali che, se forti, democratiche e legittime, permettono di redistribuire nei periodi di crisi la ricchezza accumulata negli anni. Non è il caso del Kazakistan, governato da una classe dirigente estremamente corrotta, che non ha fatto quasi nulla per aiutare i produttori agricoli e le fasce più deboli della società. Va detto, però, che al contrario di ciò che accade in Azerbaigian, il Kazakistan dispone di un fondo statale voluto da Nazarbayev con l’intento di mitigare le conseguenze di eventuali crisi economiche.


Al di là della ferrovia, la steppa prende il sopravvento. All’orizzonte è visibile una vecchia fabbrica dismessa, simile a molte altre disseminate su tutto l’immenso territorio kazako: dopo il crollo dell’URSS, a seguito delle privatizzazioni selvagge, numerose industrie sono state vendute per pochi spiccioli a uomini d’affari senza scrupoli e vicini agli ambiente della politica i quali, anziché modernizzare la produzione, hanno preferito vendere i macchinari e guadagnare più soldi possibile in un arco di tempo molto limitato. A dominare il paesaggio e a chiudere l’orizzonte verso nord è un’altura dalla forma allungata e gentile, tipica degli altopiani centro-asiatici. A sud, alle spalle di Almati, la placca araba preme incessantemente sullo zoccolo eurasiatico e dà vita alla movimentata catena montuosa del Tien-Shan, che si trova fra Kirghizistan e Cina occidentale. La parte settentrionale del Kazakistan risente limitatamente della gigantesca collisione fra continenti e ospita colline dolci, che i millenni di erosione atmosferica hanno quasi completamente cancellato. Nel corso di questi eventi geologici, la terra si è piegata in mille piccoli rilievi, come una coperta o una tovaglia che viene lentamente spinta a una estremità dalla mano di un bambino. Il tessuto non si sposta ma si inarca. Un processo analogo si è avuto nel nord del Kazakistan e in Siberia: la terra è scivolata su altra terra e ha fagocitato la vegetazione morta e tutto ciò che c’era sulla superficie terrestre, aiutata in questo dai successici processi sedimentari e alluvionali, legati allo scorrere dei fiumi e allo scioglimento dei ghiacciai; nelle profondità del pianeta, la materia biologica si è trasformata in idrocarburi, vale a dire in materiale fossile: in petrolio e carbone.


Il rilievo che sovrasta Karaganda è un retaggio di epoche remote. Sulla sua sommità svetta uno snello traliccio, diafano, ancorato al suolo come un agave sullo scoglio, incredibilmente resistente al vento forte e all’acqua piovana che a volte lo colpisce con inaudita violenza. È un radiofaro, che al posto di fasci di luce trasmette onde elettromagnetiche le quali indirizzano gli aerei ad alta quota verso la rotta Astana-Almati e aiutano i velivoli in fase di atterraggio ad allinearsi alla pista del non lontano aeroporto di Karaganda.
Al di là della collina fanno capolino le ciminiere del complesso siderurgico di Temirtau, una città a trenta chilometri da Karaganda. Quella di Temirtau è un’acciaieria di tipo primario integrato: ricava l’acciaio dalle materie prime e non lo ricicla da rottami, come nel caso dei complessi siderurgici di tipo secondario. Per produrre il calore necessario a ottenere l’acciaio, che è una lega di ferro e carbonio, si inseriscono nell’altoforno minerali ferrosi e carbon coke. Grazie a questo processo si ottiene la ghisa liquida, che viene affinata in convertitori e speciali forni elettrici. Con un getto di ossigeno, poi, si riduce la percentuale di carbonio al fine di ottenere un acciaio resistente e di ottima qualità. Questo processo causa anche l’emissione nell’atmosfera di gas e particelle notevolmente inquinanti, come nel caso dell’Ilva di Taranto, la cui acciaieria è simile a quella di Temirtau. I fumi di condensazione, residui del processo che trasforma i minerali grezzi in ghisa fusa, si stagliano verso il cielo e, nei periodi di bassa pressione, quando le perturbazioni conquistano il nord del Kazakistan, si fondono con le nuvole, a formare una cortina bianca e grigia che taglia l’orizzonte come una ghigliottina. Temirtau è una delle città più inquinate del paese. Nell’aria sono presenti, fra le tante sostanze, polveri sottili, anidride solforosa, benzene, diossido di azoto. Nelle giornate grigie, quando non è più possibile distinguere dove finisca il fumo che esce dalle ciminiere collegate all’altoforno e comincino le nubi, le particelle solide inquinanti si uniscono alle molecole di acqua e, non appena raggiunto un peso sufficiente, cadono al suolo sotto forma di pioggia o di fiocchi di neve.


L’erba che a primavera cresce nella steppa si imbeve degli umori liquidi di cui è intrisa la terra. Le sostanze inquinanti come rame, potassio e manganese contenute nel terreno passano così dall’erba e dai fiori agli esseri animali: alle mucche e ai cavalli e poi agli uomini che bevono il loro latte e mangiano la loro carne. Nessuno si è mai preoccupato di studiare le conseguenze dell’inquinamento sui cittadini di Temirtau e di Karaganda, i quali considerano gli effetti collaterali legati all’acciaieria un male necessario. La neve è spesso nera, sporca le mani e i volti dei bambini che costruiscono pupazzi e che si fanno trainare dai genitori su slitte di legno lungo le vie invernali della città. I rilevamenti ambientali condotti dagli organi governativi segnalano un livello di inquinamento nella norma, ma è chiaro che i dati sono falsi e non rispecchiano la realtà, come dimostrato dalle analisi condotte autonomamente da alcune ONG straniere. L’acciaieria di Temirtau è stata fondata nel 1950 e ha determinato i destini della città che fino a quel momento era poco più di un villaggio. Dopo il crollo dell’URSS, il complesso siderurgico è caduto in una profonda depressione, da cui è uscito soltanto dopo che il governo ha deciso di venderlo alla Arcelormittal, un multinazionale con sede in Lussenburgo. Temirtau produce acciaio e laminati che vengono smerciati in tutto il mondo. Per gli operai, però, le cose sono cambiate e molti di loro rimpiangono la gestione statale e criticano il piano di privatizzazioni governativo. La logica del profitto, infatti, ha reso i lavoratori ingranaggi di un meccanismo a volte spietato, che ha causato più volte il ferimento e la morte del personale addetto agli altiforni: solo negli ultimi anni, infatti, la Arcelormittal ha prestato una maggiore attenzione alle misure di sicurezza. In più, gli operai non si sentono parte di una grande famiglia, come ai tempi della gestione statale, ma vittime in balia dell’economia di mercato. 


I sindacati che dovrebbero rappresentarli non sono indipendenti, dato che sono diretti da parlamentari e da uomini vicini al Governo di Astana, i quali hanno contatti diretti e amichevoli con i dirigenti della Arcelormittal. La paga media dei lavoratori dell’acciaieria è di circa 144.000 tenge, vale a dire 350 euro: uno stipendio paragonabile a quello di un docente universitario, ma i compiti di chi passa la giornata vicino a un altoforno sono molto più duri e usuranti di quelli inerenti alla ricerca o all’insegnamento. Molti operai si sono licenziati, hanno preferito cambiare mestiere o emigrare in Russia piuttosto che far parte di un’azienda che non sentono più come propria. Come ben evidenzia Tommaso Trevisani nel film documentario intitolato “Temirtau”, la città non ruota più soltanto intorno alla sua fabbrica, dove fino al crollo dell’URSS era impiegata l’intera popolazione. Temirtau somiglia ormai a tutti gli altri centri urbani kazaki e ha perso la propria peculiarità, che era fondata sull’orgoglio dei suoi cittadini di lavorare nell’acciaieria.
Dalle ciminiere di Temirtau si vede solo la steppa, che si estende a dismisura ed è quasi completamente deserta, inframmezzata solo da villaggi polverosi costellati di abitazioni dai tetti in lamiera. I paesi della steppa, dal nord al sud del Kazakistan, cominciano e finiscono all’improvviso; le case si stringono l’una all’altra, quasi avessero paura di ritrovarsi sole nel bel mezzo dell’oceano d’erba che si estende dalla Puszta ungherese fino alla Mongolia e poi a Vladivostok, dove il manto erboso si getta inaspettatamente in mare, senza neppure diventare sabbia.


In realtà, come ha giustamente osservato l’archeologo Gian Luca Bonora, fino al II millennio a.C. la steppa non esisteva: l’intero territorio del nord del Kazakistan era ricoperto da betulle, pioppi e abeti. A modificare il paesaggio è stato l’uomo, che aveva necessità di creare spazio per i propri armenti e per fondere il rame. Da quanto hanno finora rivelato gli studi archeologici, la metallurgia sarebbe nata proprio fra il Centro Asia e l’attuale Iran, per questioni puramente estetiche: gli esseri umani, infatti, non avevano bisogno di oggetti metallici, li desideravano al fine di adornare il proprio corpo ed essere più belli degli altri. Ogni comunità, infatti, cercava di essere più originale delle altre. La società pastorale-agricola del Centro Asia ha dato vita alla moda, molto prima che questa prendesse piede in Europa. Nel Mesolitico e nel Protoneolitico, vale a dire intorno a 6000 anni prima della nascita di Cristo, venivano usati metalli che potevano essere trovati in natura e a cui si poteva dare la forma voluta grazie alla loro malleabilità: malachite e azzurrite, minerali di rame della famiglia dei carbonati, si trasformavano facilmente in collane e orecchini. La prima testimonianza di uso del fuoco per fondere il rame risale al 8200-7500 a.C. presso Cayöm-Tepesi, nella Turchia orientale. Da quel momento in poi, la pirotecnologia si diffonde in tutto il Caucaso e l’Asia Centrale, anche se si tratta probabilmente di scoperte casuali, avvenute in tempi diversi in seno a ogni singola comunità. Ognuna di esse sceglieva ciò che più le garbava: alcune non utilizzarono mai i metalli che comunque non potevano non conoscere, dati i contatti con le popolazioni limitrofe; preferivano continuare a utilizzare ossa di animali e pietre scolpite e lavorate al posto del rame. La stessa cosa avvenne per la scrittura: non tutte le società primitive adottarono un sistema di segni per iscritto, anche quando questi si era già ampliamente diffuso. Il mondo non era ancora globalizzato e le singole collettività sceglievano come organizzarsi. La proto-città di Altyn-Depe, per esempio, che sorgeva nell’attuale Turkmenistan, non lontano dal mar Caspio, si estendeva su un’area molto grande, era adornata di edifici eleganti e di pregiate sculture eppure non conosceva la scrittura: non aveva una burocrazia e per questo viene definita proto-città. I suoi abitanti utilizzavano però oggetti di metallo (siamo in piena Età del Bronzo, III e II millennio a.C.), d’argento e persino d’oro. Gli archeologi hanno ritrovato fra la terra e nelle tombe monili e figure strane: dato che Altyn-Depe non ci ha lasciato testimonianze scritte, non sappiamo a cosa servissero e che cosa rappresentassero. Gli ultimi cittadini ad andarsene e ad abbandonare per sempre la città, nel 1600 a.C., portarono con loro i segreti e i misteri di questo centro urbano: i loro discendenti si assimileranno ad altre civiltà e dimenticarono le antiche tradizioni e forse anche la propria origine. In Kazakistan, l’età del bronzo ha lasciato segni indelebili. 


Ci sono zone della steppa completamente trivellate; doline e avvallamenti si susseguono per chilometri, come sulle colline alle spalle di Trieste. Non si tratta però di fenomeni carsici ma di antiche miniere, che il tempo, la terra e i fenomeni atmosferici hanno contribuito a riempire. In alcune di esse ci sono ossa di animali, migliaia. Non è chiaro a cosa servissero: forse all’interno delle cave in disuso venivano buttate le carcasse degli animali morti che erano serviti per trainare i carri carichi di rame. Forse si tratta dei resti dei pasti dei minatori: le popolazioni nomadi compravano il metallo in cambio di animali. O forse si trattava di vittime sacrificali, esseri viventi donati agli dei per ingraziarsi i loro favori. Certo è che il grasso degli animali era una fonte di energia combustibile, necessaria ad accendere il fuoco e ad aumentare la temperatura nella fornace. Fu la civiltà di Andronov, che si sviluppò a est degli Urali, ad accrescere drammaticamente la produzione di metallo e la quantità di armenti che pascolavano le terre del Centro-Asia, con la conseguenza che i boschi dell’Asia Centrale divennero in pochi decenni steppa. Nelle epoche successive, la metallurgia si perfezionò e raggiunse livelli altissimi: nel sito archeologico di Issyk-Kurgan, che risale al VII-VI secolo a.C. e che si trova nel sud-est del Kazakistan, è stato rinvenuto un “uomo d’oro”, vale a dire una sorta di armatura che ricopriva il corpo senza vita di un nobile. L’oro, finemente lavorato, è impreziosito con pietre rare e costose: si tratta del primo esempio di “stile policromo” che in Europa e in Italia prenderà piede solo nel I secolo a.C. Astana finanzia con ingenti contributi le ricerche archeologiche non perché interessata a riscoprire il lontano passato del Kazakistan, ma nella speranza di trovare i metalli preziosi sparsi nella steppa, che è rimasta immobile nei secoli, aliena ai grandi mutamenti sismici che hanno investito e mutato il volto dell’Asia Centrale meridionale. La terra nel nord del Kazakistan è sempre uguale a sé stessa; a cambiare  molto rapidamente è l’aria. Già a fine agosto, dopo la canicola che toglie il fiato ad animali e uomini, quando la rabbia del sole giaguaro si placa e allenta la morsa dei raggi sull’erba ormai morta e ingiallita, si alza un vento freddo, proveniente dalla Siberia, che va a riempire le basse pressioni che al termine dell’estate si formano nell’immensa pianura asiatica. L’assenza di rilievi significativi permette al vento di infiltrarsi ovunque e di soffiare rabido, per giorni e giorni, a volte per settimane, sulla steppa. L’erba e i rari alberi perdono l’equilibrio e si piegano al suolo, i pastori si mantengono a stento in piedi e le città scompaiono nella tempesta di aria, di polvere e in inverno di neve che acceca gli occhi dei rari passanti. La gente si chiude in casa, e anche le finestre degli alti edifici del quartiere “Stepnoi 2” si chiudono. Il Buran però continua a battere ai vetri, insistente, e riesce a penetrare negli appartamenti attraverso gli infissi non sufficientemente isolati, le condutture dell’aria e talvolta persino quelle dell’acqua.



 Volti

Aizada
Aizada guarda attraverso una finestra del nuovo appartamento in cui abita da 6 mesi con i genitori, a “Stepnoi 2” (Rimanere negli occhi di quelli che continuano nella tristezza dei passanti quotidiani e nella maturazione dei campi di grano sarà il tuo destino).
Il Buran inclina le acacie all’orizzonte e la loro chioma ancora verde si piega vorticosamente verso terra; un piccolo bosco sulla destra nasconde la ferrovia e il lungo treno merci che silenzioso viaggia in direzione di Almati. Le automobili sfrecciano indifferenti al vento lungo la magistrale che collega “Stepnoi 2” al centro di Karaganda. Domani si torna a scuola. Aizada frequenta la sesta classe della scuola primaria, che in Kazakistan, così come in Russia, fonde i cinque anni che corrispondono alla scuola elementare italiana con il triennio di quella media. Gli occhi neri e a mandorla di Aizada si riflettono sul vetro rigato da rare gocce di pioggia, che il rabido ventare del Buran porta chissà da dove e frantuma in minuscole particelle di dimensioni variabili che si dispongono ordinatamente in fila, come le automobili sotto casa che attendono il verde ferme al semaforo. Aizada ha rifatto i letti, pulito la gabbia in cui il gatto trascorre molte ore della giornata, spolverato e passato con cura l’aspirapolvere in tutte le camere. Il fratello più piccolo, che ha soltanto un anno, si è addormentato sul divano accanto alla sorella minore Aigulj, la quale guarda i cartoni animati russi. A casa si parla soprattutto kazaco, ma Aigulj, che ha solo 5 anni, non si sente sicura e anche con i genitori preferisce comunicare in russo. 
Il Kazakistan è un paese bilingue e soprattutto nel nord - dove i russi in alcune zone costituiscono anche l’80% della popolazione - la lingua di Pushkin è ampliamente diffusa. Nel sud del paese, invece, in particolar modo nei paesi e nei villaggi, il kazako è l’unico idioma di cui ci si serva. Aizada esce raramente, e quando lo fa è per andare a scuola, che si trova vicino a casa, a poche centinaia di metri rispetto alla strada, dalla parte opposta, oltre i cassonetti dell’immondizia e il parcheggio, che alla prima pioggia si trasforma in un acquitrino. Il freddo invernale e il caldo estivo polverizzano l’asfalto della città e lasciano il posto a buche e irregolarità nel terreno; l’acqua piovana si infila nei pori del catrame e del cemento e quando ghiaccia, già nelle notti di fine settembre, contribuisce a spezzare il selciato. L’amministrazione comunale e quella statale non si preoccupano troppo delle difficoltà dei cittadini che ogni giorno devono attraversare il parcheggio, e tanto meno dei disabili in carrozzina che sono praticamente condannati alla clausura nei propri appartamenti. La famiglia in Kazakistan ha un ruolo fondamentale, non solo per questioni legate alla tradizione, ma anche perché sostituisce sotto molti aspetti lo Stato. Se muore qualcuno, sono i parenti ad aiutare la o il consorte del defunto con donazioni e aiuti per pagare il funerale. Spesso i figli vengono cresciuti dai nonni, dato che i genitori devono lavorare. Aizada sarebbe dovuta andare appena nata dai nonni e crescere nel villaggio in cui questi abitano, nel centro del Kazakistan. Il padre e la madre, però, hanno preferito fare sacrifici e tenere non solo Aizada, ma anche gli altri figli con loro. Adesso che Aizada è grande, ha lei il compito di guardare i fratelli quando i genitori sono al lavoro. Deve anche riscaldare la cena quando torna da scuola, se la madre ha avuto il tempo di cucinare la mattina presto. Altrimenti deve improvvisare qualcosa, è fondamentale che il padre, una volta tornato dal lavoro, trovi la tavola imbandita. Aizada sa che deve essere un’ottima donna di casa, se vuol trovare marito. Il suo più grande desiderio è quello di iscriversi in un liceo di Astana, la capitale; solo così potrà avere un’istruzione e trovare un buon lavoro. C’è poco tempo per giocare, e forse non ne ha neanche più voglia. I suoi occhi scuri celano una maturità precoce. Il corpo da bambina rivela già le forme di una donna, anche se i seni sono ancora acerbi, appaiono sotto forma di piccoli rigonfiamenti sotto la maglietta. Lo sguardo, però, è già maturo. I movimenti delle mani e della braccia sono ancora infantili. A scatti, brevi e nervosi. Aizada parla con le amiche attraverso Instagram, la rete sociale più diffusa in Kazakistan; si confidano i segreti più intimi, gli amori che soprattutto a quell’età, a dodici anni, squassano il cuore senza investire consapevolmente il corpo. Finita la conversazione, cerca la cioccolata nel frigo o guarda con la sorella i cartoni animati. Al mattino, si veste con la divisa della scuola che portano tutti gli allievi kazaki: le bambine indossano una gonna a quadri, sotto di essa i collant bianchi; la camicia rosso scuro fa capolino sotto la giacchetta nera. Fra i capelli c’è un fiocco bianco, che conferisce un tocco di eleganza. I bambini sono vestiti allo stesso modo, solo che al posto della gonna portano i pantaloni e non hanno il fiocco sulla testa. Aizada esce di casa dopo aver attentamente chiuso nel cassetto il diario segreto, a cui confida i suoi amori e le sue pene. Torna nel pomeriggio, indossa gli abiti di casa e comincia a lavorare. La madre è uscita poco prima, insegna disegno in una scuola elementare, ha lezione prevalentemente in tarda mattinata. Il padre lavora all’Università. Aizada deve fare i compiti e nello stesso tempo badare alla casa e ai fratelli. La sera la famiglia si riunisce intorno al desco; Aizada versa il tè al babbo, serve in tavola, aiuta poi a lavare i piatti. La conversazione fra i membri della famiglia è pacata e corretta, ognuno ha il suo ruolo e i figli danno del Voi ai genitori, che sono severi al punto giusto. Aygulj aiuta Aizada, che a sua volta prende ordini dalla madre. L’ultimogenito mangia come può, ma già da solo. 
È il maschio, ha più diritti e libertà rispetto alle sorelle ma non c’è spazio per i capricci. Aizada, d’altro canto, ha già la sua stanza, perché è più grande e ha più responsabilità rispetto ai fratelli. La madre è stanca e affida alla figlia maggiore il compito di lavare i piatti. Va a preparare il piccolo per la notte per poi coricarsi a fianco del marito sul materasso appoggiato a terra: non c’è stato ancora tempo di comprare il letto matrimoniale, forse non ci sono neanche i soldi.


Roza
Quando sono nate Aizada e Aygulj, Roza viveva con il marito in una casa dello studente alla periferia nord di Karaganda. Il loro monolocale era nell’ultimo dei quattro alti edifici in stile socialista che costituiscono la residenza universitaria; oltre la cancellata che delimita il campus non c’è più nulla, comincia muta e ostinata la steppa. A pochi metri dalla casa di Roza, proprio all’inizio della steppa, si staglia una collina artificiale, che ricorda un antico kurgan, vale a dire un monumento funerario coperto di terra tipico di tutti i popoli preistorici dell’Asia Centrale e del Caucao. Si tratta in realtà di una pista di discesa per gli amanti degli sport invernali, dato che Karaganda è per molti mesi all’anno coperta di neve.
Per Roza e il suo sposo non è stato facile vivere per anni in una singola stanza. Per la famiglia, però, si fa ogni tipo di sacrificio. Quando ha conosciuto Erkinbek, Roza era ancora una studentessa. Il futuro marito, invece, era un dottorando in scienze politiche di origine kirghisa. Soldi per comprare una casa non ce n’erano: Erkinbek proviene da una famiglia povera di un villaggio vicino a Bishkek. I genitori di Roza vivevano invece in un paese del centro del Kazakistan, lavoravano la terra e non avrebbero potuto in alcun modo aiutare la figlia. Ci sono alcune fotografie che ritraggono Roza nel giorno del matrimonio: magra, lo sguardo dolce ma sereno, il corpo longilineo. A causa delle gravidanze è ingrassata leggermente ai fianchi; anche il viso è più tondo, mentre la vitalità degli occhi è sempre quella di un tempo. Le labbra sono rimaste uguali; piccole rughe assediano gli angoli della bocca. Roza sorride raramente; quando però accenna un sorriso, il viso si apre, come la terra riarsa d’estate accoglie la pioggia ristoratrice, ed è allora che gli occhi neri brillano vividi, e sembrano suonare come cascate d’acqua d’alta montagna.
Erkinbek si è iscritto agli studi di dottorato per non perdere il diritto alla casa dello studente e l’unica possibilità di avere un tetto sopra la propria testa. Successivamente è diventato assistente e, anche se la carriera accademica non lo ha mai particolarmente attirato, fa il proprio lavoro con estrema passione. Dopo anni, Roza ed Erkinbek sono riusciti a comprare un appartamento nel quartiere “Stepnoi 2”. Nel frattempo è nato anche l’ultimo figlio, una maschio finalmente. A Erkinbek dà fastidio che il bambino giochi con le bambole delle sorelle, per questo vorrebbe da Roza un altro maschietto. Le ragazze si sposeranno e se ne andranno, apparteranno a un’altra famiglia. I ragazzi invece resteranno legati per sempre alla famiglia di origine e hanno anche il dovere di assistere i genitori in caso di bisogno.
Roza lavora ogni giorno nella scuola elementare dove insegna educazione artistica. Al ritorno a casa, la attendono altri compiti. Oltre a riordinare e a spolverare, aiutata in questo da Aizada, deve anche cucire grandi losanghe di stoffa che, una volta unite, formeranno una scritta pubblicitaria, di quelle le cui estremità si appendono ai lampioni a entrambi i lati della strada. Le auto passano veloci sotto di loro ma i conducenti fanno in tempo a leggere il messaggio, solitamente un invito a comprare un determinato prodotto. Erkinbek si occupa della stampa su stoffa e su carta grazie alla speciale apparecchiatura comprata di seconda mano a Bishkek, la capitale del Kirghizistan. I soldi che Roza ed Erkinbek otterranno grazie a questo secondo lavoro, serviranno per comprare uno scaldabagno. 
Da giugno a ottobre nelle case di Karaganda manca l’acqua calda per gli inevitabili lavori annuali di ristrutturazione della rete del teleriscaldamento, che rifornisce gran parte dei condomini della città. 
Il riscaldamento degli ambienti è invece affidato alle caldaie a carbone installate nelle cantine dei palazzi. L’inquinamento dell’aria nelle giornate fredde ma assolate d’inverno, quando l’anticiclone siberiano garantisce un livello di pressione atmosferica alta, raggiunge livelli elevati e indubbiamente pericolosi per la salute delle persone, soprattutto se si considera che Karaganda si trova a pochi chilometri dalle acciaierie di Temirtau.


Dopo aver cenato, cucito per alcune ore, servito il tè della sera che la famiglia beve riunita intorno al tavolo di cucina, Roza controlla i compiti di Aygulj, prepara il pranzo per l’indomani, pulisce il bagno mentre Erkinbek guarda la televisione sul divano. Nauseato dalla politica e dai canali televisivi di Stato, Erkinbek preferisce le trasmissioni delle stazioni internazionali, soprattutto quelle del National Geografic. Ciò che a Erkinbek dà fastidio è la corruzione che domina ogni aspetto della vita pubblica del paese. È uno dei pochi professori che non accetta contributi monetari agli esami da parte degli studenti. È deluso anche dal sistema universitario: le verifiche si fanno al computer, non c’è alcun tipo di contatto fra professore e studente. Questo metodo, che in Kazakistan viene considerato all’avanguardia, è stato messo a punto per evitare la corruzione: in realtà è un palliativo, che non risolve il problema alla radice. Bisognerebbe invece aumentare gli stipendi dei docenti, in maniera tale da non costringerli a ricorrere a mezzi illegali per poter arrivare alla fine del mese.
Stasera Roza esce. Erkinbek non è molto d’accordo, preferirebbe che la moglie rimanesse a casa, ma Tamara, antica compagna di studi, ha invitato lei e Aizada a bere un tè in centro. Raramente accade, ma gli occhi di Roza stasera brillano di felicità. Finalmente uno strappo alla monotonia dei passanti quotidiani, finalmente gente nuova e, per una sera, si possono dimenticare i doveri familiari. Aizada e Roza escono di casa, scavalcano come gazzelle le pozzanghere che separano l’ingresso al condominio dal marciapiede. Attraversano la strada e aspettano con ansia l’autobus, mentre si riparano dal Buran che proprio stasera ha cominciato a soffiare senza sosta. L’aria è cinerina, promette neve. Neve in settembre, e a casa non c’è ancora l’acqua calda. Fa nulla, il tè che berranno con Tamara sarà sicuramente caldo. Salgono sull’autobus, una corsa sulla strada che congiunge “Stepnoi 2” alla città, poi il mezzo rallenta, c’è traffico, ci sono i semafori. Sono in anticipo, scendono un po’ prima della loro fermata per poter passeggiate e riappacificarsi con il vento che da tanto non soffiava e per accogliere l’inverno in arrivo. Camminano in fretta, leggere, quasi sulle punte, come ballerine, sull’asfalto della città. Dietro di loro, brillano le luci che costellano il tubolare del ripetitore delle telecomunicazioni: di notte sembra bello per via dell’illuminazione, di giorno è solo un ammasso di ferraglia arrugginita su cui sono posizionati dei circolari per la trasmissione in alta e bassa frequenza. Ci sono altri simili tralicci disseminati nella steppa lungo i più di 1000 km che separano Astana e Karaganda da un alto e Almati dall’altro: le tre città sono unite grazie alle scariche elettromagnetiche dei segnali televisivi e radiofonici che i ripetitori si scambiano di continuo, in una staffetta ininterrotta. Comunicazioni governative, segnalazioni poliziesche, film sovietici e reality show vengono vomitati sotto forma di onde di luce non visibili agli occhi umani dall’alto di questa antenna arrugginita. Madre e figlia camminano indifferenti, a dar loro fastidio sono le gocce d’acqua fredda che di tanto in tanto colpiscono le loro fronti e i loro occhi a mandorla, le uniche parti del corpo a non essere coperte. Ai lati dei marciapiedi fioriscono come margherite in un prato di primavere i centri commerciali, piccoli e grandi, che ospitano marche e negozi occidentali: Prada, Armani, Carpisa. Non c’è molto altro a Karaganda. L’ideologia neoliberista si è insinuata persino nei vecchi edifici socialisti, indifferente ai nomi delle vie che li ospitano e che richiamano eroi kazaki che si sono opposti all’occupante nazista e le cui sembianze sono spesso raggelate in statue monumentali disseminate ovunque per la città.
 Nella piazza centrale, sorge l’edificio di una nota azienda di telefonia mobile. Sul selciato davanti al teatro nazionale delle lampadine sapientemente disposte disegnano il profilo di una iurta, la casa-tenda tradizionale kazaka. Il popolo della steppa, infatti, è stato nomade fino agli Venti del secolo scorso, quando i vertici dell’URSS decisero di industrializzare l’Asia Centrale. 
I kazaki si adattarono facilmente alla vita sedentaria, dato che quella nomade era comunque molto dura e a livello economico rendeva sempre meno (alla periferia di Karaganda, fra i campi erbosi che separano i palazzi nuovi in costruzione, un ragazzo guida verso la steppa una mandria di cavalli, l’animale più pregiato in Asia Centrale. Provengono da un allevamento nelle vicinanze, hanno diritto ad addentrarsi anche in città, e i poliziotti che stazionano praticamente lungo ogni strada, li guardano indifferenti e sornioni).
La felicità è merce rara da queste parti, lo sa bene Roza e lo sa anche Aizada, nonostante sia molto giovane. Camminano per mano, nascondendo il sorriso sotto le sciarpe multicolori che il vento maltratta facendone volare le estremità come fossero banderuole.


Tamara
Tamara getta sguardi brevi e frettolosi attorno a sé; aspetta le amiche davanti al centro commerciale e il vento la accerchia da ogni lato: arriva da nord, rimbalza sulle facciate degli edifici e la coglie alle spalle, in un assedio sfibrante.
Tamara ha 40 anni, è separata dal marito e ha un figlio di 6 anni. Taciturna, decisa, concreta, non ama parlare di sé e raramente sorride. Insegna psicologia dello sviluppo all’Università di Karaganda. Viene da una famiglia umile e ha trascorso l’infanzia nella cittadina di Aktas, che dista poco più di 5 km da Karaganda. La piazza principale con al centro la statua di Lenin, che negli anni Novanta è stata spostata in periferia ma non gettata nel cimitero del marmo, la scuola vicino a casa, sulla destra della piazza principale, il viale dove d’estate, di domenica, i giovani andavano avanti e indietro. Tutto qui. Il padre di Tamara era un minatore che si calava ogni giorno nelle profondità della terra a cavar carbone. Chilogrammi, quintali, tonnellate di carbone, la cui polvere si depositava sulla giacca e sulla pelle. Tamara ricorda ancora il corpo del genitore, stroncato da un infarto a 50 anni; disteso sul letto, sembrava dormisse. Le mani e le unghie erano tinte di nero, non era bastata la pietà della moglie, che per ore aveva dolcemente lavato il cadavere, a render loro il colore naturale. Un lavoro ingrato quello del minatore, ricompensato con la pensione a 40 anni. Vent’anni trascorsi nelle budella del pianeta sono sufficienti al riscatto di qualsiasi essere umano; sono una pena infernale che conduce a morte precoce. Ora le cose sono cambiate, ora, in epoca neoliberista, si muore ugualmente come in passato ma si lavora fino a 60 anni. Lo esige la produzione, lo esige il mercato, lo esigono le multinazionali a cui lo Stato ha venduto la maggior parte delle miniere. Per questo Aktas è un cittadina fantasma: i giovani non vogliono ripercorrere le orme dei padri e vanno in città, studiano e se possono scappano all’estero. In miniera, però, mai più.
Tamara torna quasi ogni fine settimana nella sua cittadina natale, dove vive ancora la madre. Il figlio esce, va in piazza a giocare a pallone con i pochi bambini che ancora vivono qui. Sono per lo più di nazionalità kazaka, mentre la famiglia di Tamara è russa, ma da secoli vive da queste parti. Non ci sono attriti etnici, anche se potrebbero cominciare con la morte del presidente a vita Nazarbayev, che ha ormai 78 anni. La Russia potrebbe pretendere i territori del nord del Kazakistan, abitati da russi, come ha fatto per l’Ossezia del nord e per l’Abkhazia nel Caucaso. Tamara e sua madre si augurano che Nazarbayev stia pensando alla propria successione: c’è il rischio che il Kazakistan finisca come la Jugoslavia dopo la morte di Tito, anche perché i russi e i kazaki appartengono a due confessioni religiose diverse: i primi sono cristiani ortodossi, i secondi musulmani. Il paese è assolutamente laico, ma non è escluso che politici scaltri possano ricorrere alle differenze di credo per coprire interessi economici, esattamente come è accaduto in Bosnia 25 anni fa. Per ora, però, il figlio di Tamara può giocare tranquillo con gli altri ragazzini, nessuno - o quasi - guarda alla nazionalità.


Tamara è diventata madre molto presto, come spesso avviene in Asia Centrale. Il compagno è scomparso nel nulla dopo la nascita del figlio. La donna si è ritrovata sola e ha optato per un metodo di educazione dei bambini che è diventato molto comune in Kazakistan negli ultimi tempi. Negli anni Novanta, quando il sistema sovietico è esploso, sono scomparse quasi completamente le garanzie sociali statali nei confronti delle giovani madri: sovvenzioni, asili nido, periodi di maternità pagata. Le madri sono allora ricorse all’aiuto di ragazze di paese, desiderose di vivere in città perché appena iscritte all’Università o perché stanche della vita di provincia. Il fenomeno ha assunto una connotazione di massa, a tal punto che è stato anche studiato dai sociologici dell’Università di Karaganda; la studiosa Tatjana Aleksandrovna Revnushnika l’ha chiamato “sistema della ragazza-aiutante della donna”. Tamara ha ospitato in casa sua una studentessa proveniente da un villaggio dove vive una sua zia. Il rapporto con la nuova arrivata si è rivelato sin da subito burrascoso; la ragazza, appena giunta da un luogo sperduto della steppa, si è ritrovata catapultata nel mondo di Tamara, la quale in Kazakistan appartiene sicuramente alla classe media: possiede infatti un appartamento, un’automobile e lavora all’Università. La professoressa pagava alla sua aiutante gli studi più le spese per le uscite serali, ma la ragazza se n’è approfittata, forse per ingenuità, forse per odio nei confronti di chi, a suoi occhi, sembrava essere ricco. Le notti brave in giro per Karaganda si ripetevano quasi ogni sera, la ragazza tornava spesso a casa ubriaca e non poteva badare al bambino durante il giorno. La famiglia al villaggio ha preso le sue difese, minacciando denunce e ritorsioni contro Tamara, non per eccessivo amore nei confronti della figlia, quanto piuttosto perché l’idea di ritrovarsela di nuovo a carico era causa di ansie e preoccupazioni: nei villaggi i nuclei familiari sono numerosi e non è facile arrivare alla fine del mese. Una figlia-aiutante in città è la soluzione più indolore per risolvere ogni difficoltà economica. Alla fine, Tamara è riuscita a sbarazzarsi della giovane e a trovare altre soluzioni.
Stasera il bambino è con la baby-sitter e le tre donne possono sedersi al caffè e chiacchierare amabilmente. Sui loro volti c’è soddisfazione, si sentono nuovamente ragazze, libere dai troppi impegni che le assillano quotidianamente; anche Aizada torna a essere quello che è, una bambina, e ci rimane male quando vede che il cameriere si è dimenticato di spruzzare la panna sulla cioccolata calda che ha ordinato.

***
RUSSIA: APPUNTI DI UN VIAGGIO
di Oliviero Arzuffi


Oliviero Arzuffi

[7-14 maggio 2018. Foto dell'Autore, archivio "Odissea"]

Primo giorno
Partenza


L'autore del reportage e San Basilio alle sue spalle

Notte fonda: le due. Il trillo soffocato della sveglia e una manata a scuotere Marcella, per assicurarmi che non stia ancora nel mondo dei sogni. Poi una rapida sciacquata al viso, un ultimo controllo alla valigia e via di corsa verso Torre De’ Roveri. Con i compagni di avventura, saliamo mezzo assonnati sul pullman per Malpensa. Destinazione finale: San Pietroburgo, via Zurigo. La Russia. Confesso che non ero molto convinto di questo viaggio, che invece Marcella sognava da tempo per via dell’Ermitage, con quei suoi tesori d’arte ramazzati da ogni parte dell’Europa e dei quali tutti dicono un gran bene.
Non mi sono mai piaciuti i Paesi freddi, e in questa sterminata nazione grande poco meno di un continente è risaputo che il gelo la fa da padrone per la maggior parte dell’anno. E poi, il popolo russo non mi ha mai entusiasmato per via della sua indole bellicosa e imprevedibile, e per il suo nazionalismo a volte così infantile e così ostentato. La Grande Madre Russia ha sempre richiamato alla mia memoria storie di terribili invasioni, feroci oppressioni e infinita miseria. Goti che scendono dal nord, slavi che invadono da ovest o sciamano da sud. Torme di mongoli e tartari che assaltano dall’oriente con la loro “Orda d’Oro”. Variaghi, meglio conosciuti come vichinghi, che si infiltrano dai paesi scandinavi dando una prima forma statuale a quel coacervo di popolazioni grazie alla dinastia dei Rjurik. Da un selvaggio miscuglio di popoli ad una nazione in poco tempo, consolidata ed estesa a livello imperiale dai Romanov nei secoli successivi. 
E per non farsi mancare niente, l’oppressione dell’autocrazia zarista e la spietata dittatura comunista, così ben descritte e denunciate dai grandi scrittori russi o tradotte in musica dagli altrettanto grandi compositori di questo Paese.  Ma ormai stavo accovacciato sull’aereo e sonnecchiavo tra un capitoletto ed una altro della mia inseparabile guida verde del Turing Club Italiano, risalente addirittura al 1980 e scritta in piena guerra fredda, con la Russia trasformata in Unione Sovietica. Guida vecchia, ma quanto mai ricca di informazioni storiche ed artistiche.

Arrivo
Sant'Isacco

Arriviamo a San Pietroburgo puntuali alle 13,15 e la nostra accompagnatrice Amata, che adottiamo subito come una figlia, ci presenta la guida locale: una donna ancora giovane, di media statura, bionda di capelli, occhi cerulei, gentile nei modi e una voce leggermente metallica. Si chiama Natalia e ci accompagna per una prima breve visita della città, spiegandoci l’origine di San Pietroburgo e illustrandoci i monumenti che l’hanno resa famosa nel mondo. Infiliamo l’ampia strada chiamata Prospettiva Nevskij, che dalla periferia ci porta al centro della città. Cinque chilometri dritti come la traiettoria di un proiettile, durante i quali possiamo ricostruire a ritroso la storia di San Pietroburgo, dalle costruzioni moderne del circondario a quelle più antiche del centro storico.
La prima fermata è in piazza Sant’Isacco, davanti alla statua equestre di Nicola I e alla cattedrale. La grande chiesa a croce greca, con il cupolone d’oro accompagnato da quattro cupolette dorate più piccole e contornata sulle quattro facciate da grandiosi timpani sorretti da gigantesche colonne di granito rosso, è ora ridotta a museo. Nel 1928, ci informa la guida, la chiesa è stata adibita a centro di propaganda antireligiosa da parte Stalin: un ex seminarista diventato capo supremo dell’Unione Sovietica, per la sua grande capacità organizzativa, l’estrema ferocia e l’implacabile determinazione. Stalin, l’uomo d’acciaio, nato Josif Vissariònovic Dzugasvili in Georgia, aveva fatto la Rivoluzione d’Ottobre con Lenin e Trockij proprio tra queste piazze e questi palazzi. Dopo la morte del primo, aveva scalato tutti i gradini del potere bolscevico, eliminando senza pietà gli avversari politici fino ad instaurare una dittatura personale fatta passare per l’alba del nuovo mondo comunista, popolato di uomini nuovi liberi ed uguali, tranne evidentemente il segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Il potere assoluto in mano al partito unico è durato quasi settant’anni nel Novecento e ha fatto decine di milioni di morti durante i piani quinquennali nelle colossali fabbriche appena avviate, nelle sterminate e incolte pianure del sud del Paese durante le riforme agrarie staliniane, nei numerosi Gulag disseminati nella gelida tundra siberiana nel tentativo di sradicare ogni forma di opposizione al regime. Poco oltre, intravediamo dai finestrini del pullman il palazzo neoclassico dell’Ammiragliato, con il suo torrione centrale e la guglia dorata, e scorgiamo l’estesa piazza del Palazzo d’Inverno.
Ci fermiamo alla punta dell’isola Vassilevskij, dove si innalzano due rosse colonne rostrate come nell’antico foro romano, a memoria delle vittorie navali dell’Ammiragliato e a ricordarci con Ivan III che è la Russia la terza Roma, e che le altre nazioni sono solo illegittime pretendenti. Ammiriamo davanti a noi la grande Neva con le sue torbide acque, a testimonianza dell’origine paludosa di questa stupenda città, costruita da Pietro il Grande in pochi anni con il sudore e il sangue di una moltitudini di schiavi chiamati servi della gleba,  con l’apporto di una turba di tecnici arruolati nei più importanti Paesi europei e con l’ingegno di architetti di origine italiana, quali il Rastrelli, il Rossi e il nostro Giacomo Quarenghi, tanto per citarne qualcuno. Sulla destra di quel largo fiume vediamo distendersi il maestoso Palazzo d’Inverno con le lunghe propaggini dei suoi Ermitage. Sulla nostra sinistra, si staglia la fortezza dei santi Pietro e Paolo con il suo alto e aguzzo pinnacolo.
Arriviamo al Parklane Resort, un hotel nuovo di zecca, posto tra un parco pubblico e un grandioso luna park. Si cena con sobrietà. Poi qualcuno si avventura nei viali del parco, perché il buio tarda a venire e la mattina è il sole alle cinque che ti sveglia.

Secondo giorno
La fortezza dei santi Pietro e Paolo





La fortezza dei santi Pietro e Paolo ci attende alle prime ore del giorno. Costruita da Pietro il Grande nel 1703 è stato il primo nucleo della città. Eretta per contenere l’invasione delle armate svedesi e come sbocco sul Baltico ci si presenta davanti solenne con i suoi poderosi bastioni a stella, ma soprattutto con la facciata-campanile della sua cattedrale, la cui sottile cuspide arriva a 122 metri d’altezza. Sulla soglia della cattedrale dei santi Pietro e Paolo ci sembra di entrare in una chiesa barocca italiana: è infatti stata costruita dal nostro Trezzini nei primi decenni del XVIII secolo. La cattedrale a pianta basilicale è piena di stucchi e grandiosi lampadari che incombono dall’alto sopra le nostre teste. A richiamarci l’arte italiana c’è anche un pulpito,  inusuale per le chiese russe, ma il presbiterio, reso invisibile da una possente iconostasi che separa lo spazio riservato al celebrante da quello dei fedeli, ci ricorda che siamo in terra ortodossa. Mi soffermo a pensare al senso di questa separazione tra clero e laici che l’iconostasi mi rappresenta qui fisicamente. Le tombe dei Romanov, che la guida cita per nome uno per uno e che giacciono disseminati sul pavimento di tutta la cattedrale, sembra confermare questa mia prima impressione riproducendo visivamente qui la tripartizione del mondo medioevale in nobili, clero, servi della gleba. Tuttavia c’è qualcosa di più profondo in questa separazione che si ripete in tutte i luoghi di culto dell’ortodossia. Qualcosa che mi rimanda ad una certa immagine di Dio che noi occidentali abbiamo un po’ perso, e non saprei dire se in bene o in male. O meglio, forse un po’ in bene e un po’ in male.
Dio è Padre, come ci ricorda costantemente il vangelo, ma è anche il “Totalmente Altro” da noi. Vive in una dimensione che è inaccessibile per noi mortali, “abita” anche in uno spazio “sacro”. Mi vengono istintivamente in mente quelle prime parole che Dio rivolse a Mosè sul Sinai: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!”. E le altre, ancora più misteriose, quando Mosè chiede a Dio di rivelargli la sua identità, la sua essenza mediante la richiesta del Suo nome. La risposta di Dio è sconcertante, perché in realtà è una non risposta: “Egò eimi”. “Io sono”. Cioè, non chiedermi ciò che non potresti mai capire, perché la creatura non potrebbe mai comprendere il creatore, come la parte non può contenere il tutto.
Noi occidentali spesso riduciamo Dio a nostra immagine e somiglianza, facendolo a nostra misura, rischiando così di renderlo un idolo, trasformarlo in  un’idea o ridurlo solamente ad un nome. Ogni tanto Egli si rivela a noi, come quando viene aperta la porta centrale dell’iconostasi, quella chiamata santa o “regale”, e il pope si rende presente ai fedeli per poi riportare le loro preghiere e le loro vite nello spazio misterioso dietro l’ iconostasi, dove vige il nudo canto della Parola e il gesto della liturgia ridotta a simbolo, a pura invocazione, perché l’uomo non potrà mai comprendere la completezza di ciò che sta celebrando. E’ vero: Dio si è rivelato in pienezza in Gesù di Nazareth, nel Kyrios, il Signore. Ma è tutta la Rivelazione questa o solamente l’essenziale di essa in funzione della nostra salvezza? C’è dell’altro e dell’oltre, indicibile e non rappresentabile?

San Nicola dei Marinai



La voce della guida mi strappa bruscamente da questi miei ragionamenti barocchi, per uscire dalla calca dei visitatori, gettare uno sguardo allo strano monumento a Pietro I nel giardino e dirigerci al pullman, che ci aspetta per portarci alla chiesa di San Nicola dei Marinai. Altra chiesa dalle cupole a cipolla, altra robusta iconostasi piena di figure dell’antico e del nuovo testamento, con sopra all’architrave l’immancabile crocifisso. La guida ci dice che, se vogliamo sapere a chi è dedicata la chiesa dobbiamo guardare la seconda figura a destra della porta dell’iconostasi. Poi, osservo dipinti su legno sparsi nei diversi vani della chiesa e un’icona dolcissima con la Madonna e il bambin Gesù che si toccano guancia a guancia. Mi soffermo a guardarla e mi chiedo come mai in tutte le chiese ortodosse torni sempre quest’immagine, con il bambino però in diverse posizioni. Ce lo spiega la guida: la Madonna con in braccio il bambino e che lo indica con la mano è la Madonna “Odighitria”, ovvero la Madonna che, segnalandoci con la mano il bambino, ci indica la via da seguire. La Madonna della tenerezza, quella guancia a guancia, viene chiamata “Eleusia”, ovvero la mamma che ci protegge. La Madonna che viene rappresentata seduta, con in braccio il bambino in posa regale,  è invece la Madonna “Kyriotissa” o regina, venerata come madre di Dio. Alcune volte quest’ultima viene rappresentata anche come l’orante con le braccia alzate o in piedi, con il bambino dipinto sul petto, o con la mano destra protesa in alto quasi a segnalarci il cielo, ed è chiamata perciò la Madonna  del segno.
Guardando l’icona della Madre della tenerezza, non riesco a fare a meno di pensare a quanto sia diversa la nostra devozione mariana, sopraffatti in questi ultimi secoli dalle più svariate e pittoresche apparizioni della Madonna. Apparizioni alcune forse vere, le più chiaramente fasulle, piene come sono di profezie minacciose per il futuro del mondo, di generici e ripetitivi richiami alla preghiera, di insulsi predicozzi senza solidi riferimenti biblici, quando non contrastanti con le stesse Scritture. E in onore di esse, quanti riti così simili alle processioni pagane in onore dell’antica Cibele, la Grande Madre, dea della fecondità. Per non parlare dell’ossessivo richiamo ad una dannazione infernale che sembra una burla al cospetto dei raffinatissimi inferni che noi umani abbiamo saputo creare qui sulla terra.
Contemplando quei due volti così teneri, mi viene la nostalgia di un culto mariano così essenziale e così aderente alla più antica tradizione cristiana, quando Maria era vissuta semplicemente come madre del Salvatore e, per riflesso, madre di tutti noi  destinatari della sua salvezza. Quella Maria molto terrena che, secondo antiche tradizioni orientali, aveva seguito l’apostolo Giovanni ad Efeso e, tornata a Gerusalemme, era morta attorno agli anni quaranta del I secolo, forse in concomitanza con il primo concilio della nascente Chiesa.
Dopo aver osservato altre icone di santi e patriarchi, usciamo per recarci alla chiesa della Risurrezione, o del Salvatore sul sangue versato: “la chiesa più fotografata del mondo”, ci tiene a precisare la guida con la sua enfasi tipicamente russa.
Quando arriviamo davanti a quel luogo di culto mi rendo conto del perché di questo interesse da parte dei turisti. L’edificio, in stile russo-bizantino e costruito a fine Ottocento, è un miscuglio di stili e di colori, di mosaici e di piastrelle di ogni tipo. Ogni cupola è diversa dalle altre sia per la forma che per i colori usati. L’insieme manca di ogni simmetria e di proporzione cosi che, girandogli attorno, lo spettatore perde ogni riferimento architettonico, ogni senso di armonia. L’insieme ti dà l’impressione di essere a Disneyland ed è di un gusto alquanto kitsch. Dentro ci sono molti mosaici, ma per fortuna non entriamo, per via della lunga fila alla biglietteria. Con il cattivo gusto imperante, capisco il perché di tanto interesse da parte dei turisti, forse un po’ meno da parte della popolazione locale.

La Madonna di Kazan



L’ultima chiesa che visitiamo oggi è la cattedrale della Madonna di Kazan. La chiesa custodisce l’icona miracolosa della Madonna, databile alla fine del XVI secolo, che, secondo la tradizione, sarebbe apparsa all’esercito di Ivan IV il Terribile durante l’assedio della città di Kazan. Il complesso si ispira alla Basilica del Vaticano, con il tentativo di riprodurre, sia pure su scala ridotta, il colonnato berniniano e la cupola michelangiolesca. Anche dentro il tentativo di imitazione è evidente: imponenti colonne, grandi quadri, pesanti lampadari che pendono dall’alto e un soffitto cesellato a rosoni. Davanti all’immancabile iconostasi, più bassa del solito per la verità, c’è la riproduzione dell’icona miracolosa, incorniciata con lamine d’oro. Davanti all’immagine, una lunga processione di fedeli che si avvicinano al quadro e lo baciano, per poi ripulirlo con molta compostezza e devozione, mostrando il nostro bisogno di “carnalità” anche nelle manifestazioni di fede.
L’autista ci aspetta fuori dalla cattedrale con impazienza per portarci in tempo al battello che ci porterà a vedere San Pietroburgo dall’acqua.

Navigando  sulla Neva.


L'incrociatore "Aurora"

Il canale è basso rispetto al piano stradale e non esistono attualmente abbattimenti delle barriere architettoniche in Russia. Settant’anni di propaganda egualitaria per la creazione di un’umanità nuova, rispettosa di tutti, pare non siano stati sufficienti a colmare la prima e più elementare diversità: la presenza di persone svantaggiate e non deambulabili. Angelo è in carrozzella, e la discesa al battello sembra perciò impresa impossibile. Non ci sono scivoli di sorta né passaggi alternativi né montacarichi. Un gruppetto di noi, i più forti e i più volenterosi, afferrano allora la carrozzina con Angelo seduto come su un trono e lo portano di peso sulla poppa, davanti al  boccaporto della barca affittata per la nostra gita in barca. Anch’io tento di fare qualcosa per ovviare a quell’inconveniente, ma la mia anca “bionica” me lo impedisce. Da quel momento Angelo diventa, senza volerlo, il centro di aggregazione di tutto il gruppo, confermando così la tradizione che vede la solidarietà sempre quale motore primo di ogni forma di creativa civiltà e di fraterne relazioni. Quella carrozzella, sempre presente in qualunque luogo ci fosse il gruppo, indipendentemente delle difficoltà logistiche incontrate, è diventata il simbolo stesso di questa gita. Persino Marcella, acciaccata ad una gamba, per visitare molti dei luoghi, si è aggrappata a quella carrozzella per farsi trainare e risentire meno il dolore.  Solidarietà chiama solidarietà: è la legge stessa della vita! San Pietroburgo vista dai canali e dalla Neva è stupenda. Palazzi che si affacciano monumentali, sempre diversi e riccamente decorati, sulle sponde. Ponti bassi, che ti costringono a tenerti al centro dell’imbarcazione per non prendere capocciate, ti fanno sentire a Venezia. Alcuni di questi sono cesellati con ferro battuto dorato, altri presidiati da statue di marmo o di bronzo, come il ponte Anitchkov. Costeggiamo il castello Michailovskij, dove lo zar Paolo I, figlio di Caterina la Grande, rifugiatosi proprio in quel castello per proteggersi dalle congiure, venne strozzato con una sciarpa proprio dai congiurati lì convenuti con un inganno. Quando si dice della sorte beffarda!
Poi scorgiamo giardini che verdeggiano oltre le cancellate e il Campo di Marte che si intravede con le sue patrie memorie.
Entriamo nel canale che attraversa l’Ermitage piccolo, sotto un ponte simile al veneziano Ponte dei Sospiri, per sfociare poi nella grande Neva. Sembra di stare in mezzo ad un lago con tutt’attorno il Palazzo d’Inverno, l’Ermitage, le Colonne rostrate, i bastioni della fortezza dei santi Pietro e Paolo e gli immancabili ponti che si aprono di notte per il passaggio delle navi. Il piccolo traghetto si dirige ad est verso l’interno, fino a arrivare ad un canale dove è attraccato l’incrociatore Aurora, protagonista della Rivoluzione d’Ottobre. Ci avviciniamo a questo pezzo di storia mondiale, ora diventato museo galleggiante, e l’emozione mi prende il cuore. Rivisito con la memoria i filmati dell’epoca e rivedo proprio questa lunga nave d’acciaio con i tre giganteschi fumaioli, orgoglio tecnologico dell’epoca, fermo sulla Neva e accostato al Palazzo d’Inverno, con i cannoni puntati sul Palazzo, in quel momento sede del governo provvisorio di Kerenskij. Un colpo a salve del cannone sulla prua, che ora vedo sempre meglio con l’avvicinarsi del traghetto all’incrociatore, dà il segnale di via alla rivoluzione comunista della Russia, con enormi conseguenze sulla storia del mondo. I marinai di questa nave da guerra sono stati tra i primi assalitori del simbolo del potere zarista, e questi cannoni hanno dissuaso i difensori da ogni resistenza contro i rivoltosi e dato inizio alla divisione dell’umanità in due blocchi contrapposti per quasi un secolo. Correva l’anno 1917, nel venticinquesimo giorno di ottobre, secondo il calendario russo, 8 novembre per il calendario moderno. Ecco l’origine della mia emozione, davanti a questa nave. Con un lento giro a fianco dell’Aurora, che non mi stanco di guardare, il battello ci riporta alla banchina di partenza. Si torna all’hotel, stanchi ma alquanto soddisfatti. Una piccola riunione serale per un confronto fraterno su ciò che abbiamo vissuto durante la giornata chiude questo secondo giorno.                             

Terzo giorno
Peterhof





La giornata inizia con la visita al palazzo Peterhof, la residenza estiva di Pietro il Grande, adagiato sulla sponda sud del golfo di Finlandia. La Versailles russa, come la chiamavano. Infatti, per la maestosità dell’architettura, lo sfarzo delle decorazioni, la raffinatezza degli interni, la vastità dei giardini e la spettacolarità delle fontane il Palazzo di Pietro I non ha nulla da invidiare alla reggia di Luigi XIV. Il complesso monumentale è composto dal palazzo centrale e da due padiglioni laterali, contenenti una cappella e la sala delle aquile, connesse al corpo centrale da due decorate gallerie. Entriamo e ci inoltriamo in una serie infinita di saloni, uno più fastoso dell’altro, addobbati nello stile tipico del barocco russo, troppo pesante per i miei gusti.
Pilastri luccicanti per la doratura, soffitti coperti con vaste tele raffiguranti paesaggi, cieli aperti, cascate o scene mitologiche. Ancora: scintillio di gioielli riflessi da innumerevoli specchi, grandiose vetrate che si affacciano sui giardini, porte e battenti dorati che rendono lo spazio ancora più ampio ti fanno perdere in un mondo fantastico e ti danno l’impressione di vivere fuori dalla realtà. Probabilmente era proprio questo l’effetto voluto dall’architetto Rastrelli e aiutanti: distrarre lo zar dal mondo reale, distoglierlo dalla vista della miseria che imperversava ovunque in quel suo sconfinato regno, soprattutto nelle minuscole isbe, che raggruppavano intere famiglie di contadini sopra un’unica stufa e tra i cittadini ristretti nelle città maleodoranti del sud della Russia.
Il contrasto non potrebbe essere più stridente tra questo lusso sfacciato ed esibito, approntato per banchetti opulenti, balli senza freno, sfilate solenni, divertimenti senza fine, e le catapecchie della periferia di San Pietroburgo, che Caterina II, quasi quarant’anni dopo, nascondeva dietro improvvisate facciate di palazzi immaginari fatte di legno, per non vederle mentre passava in carrozza. Una miseria che nei centri minori della Russia costringeva la popolazione nel fango e nella sporcizia per dieci mesi all’anno, con la fame che non poche volte spingeva gli abitanti a mangiare i topi.


Peterhof (interno)

Qui ogni cosa luccica. Oltre alle statue dorate delle magnifiche fontane, Pietro il Grande avrebbe indorato persino l’acqua e l’erba dei giardini se fosse stato possibile. Dopo la sala dei ritratti, la camera da letto dello zar, gli studi cinesi usciamo nel parco tra giardini che si affacciano sul Baltico, trapuntati da cascatelle artificiali, zampillanti fontane, statue mitologiche. Poi arriviamo al viale delle fontane e al canale marittimo che collega la Cascata Grande con il mare aperto. Un prodigio idraulico del tempo, che porta l’acqua dalle alture di Ropsa, situate a qualche chilometro di distanza, a questa artificiale cascata, tra lo scintillio dorato riflesso nelle splendide declinanti fontane.
  
Tzarskoje Selo



Dopo il palazzo del re, il palazzo della regina: Tzarskoje Selo. Costruito anche questo dal Rastrelli per Elisabetta Petrovna, seconda figlia di Pietro I e nuova imperatrice della Grande Madre Russia nata proprio in questo luogo, è posto a sud-ovest di Pietroburgo. Impressiona subito la facciata lunga 310 metri. Colonne, losanghe, ampie finestre, lesene e trabeazioni di color bianco e blu, si alternano in un armonico movimento che anima l’intera facciata e sono impreziositi da stucchi dorati. Difficile immaginare uno sfarzo maggiore, un barocco più barocco di questo: stile rococò appunto. Dentro, sembra non esserci limiti al lusso. È persino difficile descriverlo nella sua magnificenza e raffinatezza. Quel che più impressiona il visitatore è la grande sala dei ricevimenti con la grandi finestre sui giardini e la pareti interamente indorate. Poi, in sequenza, il salotto blu ricoperto di legni pregiati, le grandiose stufe di ceramica azzurra e bianca, la galleria di quadri dell’epoca e lo studio con le pareti interamente coperte di pannelli a mosaico di varie specie di ambra. Nel parco: giardini fioriti, una galleria con una scala monumentale decorata con le statue di Ercole e Flora e un intero lago, al centro del quale si intravede una piccola isola con sopra un padiglione dove la zarina si raccoglieva per ascoltare la musica senza essere disturbata. Ci avviciniamo anche noi al laghetto ed entriamo nell’edificio bianco e blu che lo costeggia per ascoltare tre cantori che eseguono brani “a cappella”, per illustraci l’acustica del luogo. Ci incamminiamo verso l’uscita. Guardo per l’ultima volta quello sfarzo che riflette assai bene l’animo di Elisabetta di Russia “che non si è mai fatta mancare nulla nel lusso e nei piaceri”, come ci ricorda la nostra guida, ma che è stata anche una capace donna di potere, a somiglianza del padre.


La Sala d'Ambra

Tornati in città passiamo per piazza Pietro I per vedere Il cavaliere di bronzo, la statua di Pietro il Grande a cavallo, incoronato di alloro e come strombettante su un alto blocco di granito. Una statua fatta erigere dal Caterina II in onore al fondatore dell’impero russo e diventata il simbolo stesso di San Pietroburgo. Poi una visita veloce alla cattedrale della Trasfigurazione, un po’ meno pesante delle precedenti negli addobbi e il ritorno in albergo.
Qualcuno chiede di uscire per godersi i fuochi d’artificio in occasione della festa della vittoria sul nazismo, celebrata proprio in questo giorno con una grandiosa parata militare sia a San Pietroburgo che a Mosca. Una festività nazionale per la liberazione qui molto sentita e partecipata dalla popolazione. Altri vorrebbero vedere i ponti aprirsi di notte per lasciar passare le imbarcazioni e le navi da carico sulla Neva, ma gli orari di apertura sono giudicati impossibili e domani mattina presto ci aspetta la visita al Palazzo d’Inverno, all’Ermitage e, subito dopo il pranzo, la stazione ferroviaria, destinazione Mosca.

Quarto giorno         
Ermitage   



Sveglia presto: ci aspetta il Palazzo d’Inverno con il suo Ermitage. La vasta piazza antistante la reggia ci accoglie con l’alta colonna di Alessandro a mo’ di obelisco al centro, fatta di un unico monolito in granito rosa. Entriamo in fila nel Palazzo d’Inverno dopo i consueti e ossessivi controlli al metal detector. Il Palazzo si rivela degna residenza degli imperatori russi, per la grandiosità monumentale dell’aristocrazia zarista. Alla sua costruzione, oltre al Rastrelli, ha collaborato anche il bergamasco Giacomo Quarenghi. L’enorme complesso, costituito dalla casa reale e dal più grande museo del mondo, è stato costruito in diversi periodi storici e si compone di diversi  stabili contigui, comprendenti la residenza della  corte imperiale, il Piccolo Ermitage, il Vecchio Ermitage e il Nuovo Ermitage.  
Attraversiamo, come inizio della visita, le sale di rappresentanza della casa reale, con la sala del trono al centro dell’attenzione, sempre caratterizzate dallo sfarzoso stile barocco che abbiamo conosciuto nella regge estive degli zar, per poi inoltrarci, attraverso gallerie affrescate ridondanti di stucchi, nell’Ermitage vero e proprio.
Questo museo l’ha tenacemente voluto Caterina II, una sovrana “illuminata” che ha contrassegnato indubbiamente la storia della Russia e dell’Europa. Caterina, che i due padri dell’illuminismo Voltaire e Diderot, da lei mantenuti fino alla morte, hanno soprannominato “la Grande”, perché, secondo loro,  aveva riscattato con un buon governo il suo primo omicidio, quello del marito. Caterina: una riformatrice rimasta però a metà strada, peggiorando così la situazione dei contadini rendendoli di fatto schiavi dei grandi latifondisti dell’epoca e non modificando in alcun modo la concezione autocratica del potere zarista. Donna energica, molto intelligente e di non comune cultura era appassionata d’arte. Curiosa come pochi altri nel suo tempo e alquanto dissoluta nelle faccende di carne e di cuore, aveva desiderato e fatto costruire quel museo per goderselo come una collezione privata. Aveva perciò comprato intere collezioni di quadri da tutto il continente sistemandole prima nel piccolo Ermitage, fatto erigere proprio per questo, per poi ingrandirlo con il Vecchio Ermitage, quando il numero delle opere d’arte aumentava di numero e a dismisura. Con l’accumularsi dei ritrovamenti archeologici provenienti dalla Russia meridionale e l’acquisto di nuove collezioni, la zar Nicola I dovette costruire il Nuovo Ermitage,  aprendolo ai visitatori stranieri.


Interno dell'Ermitage
Con l’avvento dell’Unione Sovietica tutte le collezioni private in Russia vennero sequestrate dallo Stato, dichiarate bene nazionale e trasferite tutte all’Ermitage, che diventò così il museo russo per eccellenza. Dobbiamo riconoscere che questa drastica e discutibile scelta ha fatto in modo che le opere d’arte in esso esposte venissero custodite con particolare cura e severità, salvandole per il bene dell’intera umanità.            
Procediamo spediti verso alcune sale già precedentemente individuate per visitare le opere più importanti presenti nel museo. Attraversiamo scaloni e sale ricche di quadri, sculture e oggetti di ogni tipo e di ogni epoca, ma senza soffermarci. Abbiamo appena il tempo di vedere la Sala di Malachite e poi la Sala dei Concerti. Sostiamo solo per osservare, nella magnifica Sala del Padiglione, il celebre “Orologio del pavone”, che in realtà è un automa, perché, una volta caricato il meccanismo, tutte le figurine si mettono in moto: funghi che si muovono, gabbia che si gira, campanelli che suonano, una civetta che apre e chiude gli occhi, un pavone che distende le ali, fa la ruota e scuote la tesa, e un gallo che fa chicchirichì, come ci informa la guida. Dal soffitto della lussureggiante sala sostenuto da colonne corinzie pendono giganteschi lampadari e, ai lati, stazionano quattro fontane. Al centro, un mosaico romano autentico. Dalle finestre si può anche ammirare il giardino pensile costruito sul tetto del Piccolo Ermitage. Poi proseguiamo attraverso la galleria detta delle “Logge di Raffaello”, costruita dal nostro Quarenghi sul modello di quelle del Vaticano, sempre su commissione della goduriosa Caterina.   
Arriviamo nel settore della pinacoteca dedicato interamente alla collezione Rembrandt e ci soffermiamo davanti al grande quadro del Figliol Prodigo. Amata ci fa notare che il padre è raffigurato cieco, quasi a significare che Dio non vuol neanche vedere i nostri peccati, e che la sue mani sono di diverso genere: una maschile e una femminile, per indicarci che Dio è padre e madre insieme. Un’assoluta novità per quel tempo, quando l’immagine del Dio maschilista, con la lunga barba bianca e il triangolo sopra la testa, non era minimamente pensabile che potesse essere messa in discussione. Il figliol prodigo è inginocchiato tra le braccia del padre, con i piedi e gli zoccolacci sporchi, per sottolineare lo stato di estrema miseria materiale e morale in cui è precipitato il giovane ribelle. La composizione mi richiama subito alla mente il Padre Misericordioso di Arcabas della Pèta, che sicuramente proprio a questo quadro si è ispirato. Le altre figure che sono sullo sfondo, o a lato, dei protagonisti della scena sembrano solo personaggi di contorno e si perdono sullo sfondo scuro o si mostrano alquanto perplessi per l’atteggiamento misericordioso del padre. Uno sguardo “televisivo” anche alle altre opere di Rembrandt, poi di corsa a vedere i capolavori più preziosi del museo: la Madonna Litta e la Madonna Benois di Leonardo, la Madonna del Connestabile e la Sacra Famiglia di Raffaello. Riusciamo però solo scorgerle di traverso, a causa della calca dei visitatori, e proseguiamo lesti per ammirare la piccola statua del Giovane accovacciato di Michelangelo e, subito dopo, lo stupendo dipinto del Suonatore di Liuto del Caravaggio. Ci spostiamo infine nella lunga sala interamente dedicata all’eteree sculture del Canova. Le Tre Grazie, Amore e Psiche, e Apollo, chi non li conosce? Sono capolavori universali! Un ultimo sguardo alla Maddalena del Tiziano, una sosta davanti alla Venezia del Canaletto, una spiata al ritratto di una giovane del Veronese, un’occhiata ad alcune tele del Velasquez e di Zubaràn, poi di corsa verso l’uscita.
Solo un’ora e mezza per tanta cuccagna e neanche il tempo di assaggiarla. Quasi un attimo di estasi per lustrarci gli occhi. Manca completamente alla visita la parte archeologica, etnografica e i tesori della ceramica. Ci vorrebbero almeno tre giorni per gustare questo paradiso dell’arte, della cultura e dell’archeologia. Mi riprometto perciò di ritornare a San Pietroburgo, ma solo per rivedere l’Ermitage e per guardare il suo teatro, altro tesoro che non abbiamo potuto visitare.

In viaggio per Mosca



La stazione ferroviaria ci accoglie con i suoi defatiganti controlli al metal detector. Il delirio di controllo dell’ex Unione Sovietica sembra essere rimasto nel DNA di questo popolo e dei suoi governanti. Il viaggio su un treno ad alta velocità verso Mosca mi mostra il lato meno conosciuto ma più autentico della Russia, quello che sta al di fuori delle due grandi città. Ai lati dei binari, scorre velocemente una sequenza infinita di piante, come una frenetica processione verde che si ripete sempre uguale a se stessa, interrotta di tanto in tanto da acquitrini o corsi d’acqua o piccoli laghi. La vastità del piatto paesaggio non mi dà punti di riferimento e provo un senso di sperdimento. Abituato ai panorami delle nostre montagne, con i borghi aggrappati ai declivi o accovacciati nelle convalli, e con le chiesette appollaiate pittorescamente sulle sommità che mi rassicurano del dove e del “chi sono”, mi sento sopraffatto da questa spazialità senza confini e mi sento smarrito. Di tanto in tanto, scorgo isbe di legno o ruderi abbandonati soffocati dalla vegetazione e immersi in una luminosità squillante che mai non varia e fissa i colori in un unico cromatismo appiattendo ogni cosa. Sopra di noi, un cielo immenso che ti opprime e ti schiaccia e ti fa sentire un niente.
Civiltà orizzontale la Russia, dove il cielo può sembrare troppo distante e chiuso per essere raggiunto e la terra invece così vicina e concreta da essere tentati di farne il visibile e attuale paradiso dell’uomo, tanto da illuderci di stare al centro del creato, ma sempre in basso, e di poter infrangere ogni limite per la realizzazione dei nostri sogni. Ha qualcosa a che fare questa sensazione di mancanza di confini con l’utopia comunista della creazione dell’uomo nuovo e di un nuovo mondo, da conseguire cancellando il passato e disprezzando ogni diversità? Forse. 
Di certo l’assenza di “rughe montuose” che ponga argini a questo spaziare senza misura può indurre la volontà a varcare ogni limite, mentre l’oppressione del cielo produce nell’anima il ripiegamento sbigottito verso il profondo, generando quell’atteggiamento di supina e tarda sopportazione dell’avversa fortuna e delle umani sorti caratteristica della popolazione di questo Paese. È l’ambivalenza dell’animo russo, così ben descritta da Tolstoj, Cechov, Dostoevskij: aggredire ciclopicamente il cielo per impadronirsene o sprofondare intimisticamente nel “sottosuolo” per subirlo passivamente. Anche la religiosità russa così introversa non sfugge a questa dicotomia, che traduce concretamente nella fissità del rito, nell’accentuazione del nascondimento, nella paura del cambiamento, ma anche nella sua volontà di universalità e di pretesa di diventare il paradigma per ogni altra confessione cristiana con il suo richiamo ad un’immutabile tradizione.
Per fortuna Amata, sedendomi accanto dopo aver scalzato Bruno dal suo legittimo posto, mi distoglie da queste elucubrazioni mentali per restituirmi sanamente al “qui ed ora”. Mi racconta la nascita del movimento di Russia Cristiana e del suo evolversi dopo la morte di padre Romano Scalfi, che avevo avuto modo di conoscere occasionalmente a Seriate negli anni settanta, senza per altro approfondire la sua conoscenza e la sua ricerca.
Quest’ “Associazione pubblica di fedeli”, come recita il diritto canonico che così l’ha  istituzionalizzata, è stata fondata nel lontano 1957 per far conoscere in Occidente le ricchezze della tradizione spirituale, culturale e liturgica dell'ortodossia russa e per favorire il dialogo ecumenico, ma anche per ricordare a noi occidentali i martiri dell’ateismo di stato nell’Unione Sovietica. Qualche numero, anche solamente approssimativo, perché gli storici fanno ancora fatica a computare la dimensione esatta della tragedia, per darci l’idea della dimensione dello sterminio che i fratelli ortodossi e delle altre confessioni cristiane hanno subito a motivo di questo tentativo di creare un’umanità nuova cancellando ogni dimensione religiosa, ogni forma di spiritualità in nome di un sapere scientifico onnisciente e di un potere politico onnipotente.
Durante il periodo sovietico che va dal 1917 al 1989, data della caduta del muro di Berlino, si stima infatti che siano stati uccisi quasi venti milioni di cittadini, moltissimi dei quali cristiani e condannati proprio solo per questo. Uomini eliminati mediante fucilazioni o fatti morire di stenti o internati nei gulag siberiani per il lavoro coatto e la “rieducazione” ai valori della nuova società socialista. Sono stati assassinati circa 150 mila preti e 250 vescovi tra ortodossi, cattolici e protestanti. Soppressi quasi tutti i conventi e i beni dei patriarcati confiscati. Rase al suolo o trasformate in museo la quasi totalità delle chiese e chiusi tutti i seminari. Un’ecatombe spesso passata sotto silenzio e nell’indifferenza generale, perché, come accade ancora oggi con il terrorismo islamista, le vittime per la fede non fanno mai notizia o sono considerate “vittime minori”, non degne di particolare attenzione e di commiserazione sui mezzi di comunicazione di massa. Un pregiudizio assai strano che non ho mai francamente capito. Aggiungiamo che in quel periodo del Novecento in Italia avevamo la presenza del maggiore partito comunista dell’occidente che non consentiva di sollevare questo problema. Chi ci provava veniva bollato come un “reazionario” e una persona sicuramente in mala fede. Confesso che anche noi, che abbiamo vissuto in prima linea l’utopia del sessantotto, questa tragedia l’abbiamo colpevolmente ignorata o ingenuamente snobbata.   
Amata ci tiene a dirmi che questa esperienza di Russia Cristiana lei l’ha vissuta fin da piccola e che le ha dato molto sul piano della crescita spirituale e su quello culturale.
Arriviamo per sera nella capitale. Ci accoglie la nuova guida, che ci sollecita in modo imperativo a salire sul pullman per portarci all’Hotel Holiday Inn Lesnaya, nel centro di Mosca. Ilena, la nuova guida, è minuta, occhi chiari, parlantina fluente e non poche volte sovrabbondante, ma mostra grande preparazione. A tratti riesce anche ad essere spiritosa, con battute salaci e osservazioni ironiche sulla vita moscovita e sulla storia della Russia.
È anche molto disponibile a fornirci risposte dirette e veritiere sul momento politico che i russi stanno attraversando e non tergiversa sul passato recente del suo Paese. L’impressione è di trovarmi di fronte ad una donna non comune. Dopo aver imboccato larghe strade dominate dall’imponente torre della TV che ci guarda dai suoi 533 metri d’altezza e contenente sulla sommità tre ristoranti girevoli, l’affollato hotel ci accoglie per un’abbondante cena e ci disperde sui suoi undici piani, con ascensori che con fatica riusciamo a padroneggiare e che ci creano non pochi e divertenti inghippi.

Quinto giorno      
Sergiev Posad



Ci alziamo presto per recarci a Sergiev Posad dominato dal Monastero della Trinità di san Sergio di Radonez. Le poderose mura di forma trapezoidale che circondano il monastero con le dieci torri che presidiano il luogo, lo fanno sembrare più ad una fortezza che ad un luogo di culto. Le caratteristiche guglie a cipolla dorate e verdastre che vediamo elevarsi come una selva al di sopra dei possenti bastioni ci dicono della ricchezza, vastità e monumentalità del monastero. I portali che si aprono sotto imponenti torri con copertura a cupola ci accolgono con affreschi che narrano la vita del santo. San Sergio è forse il santo più venerato in Russia, perché ha dato origine alla vita monastica ortodossa quale noi la conosciamo. E’, per certi aspetti, un po’ il corrispettivo ortodosso del nostro san Benedetto, ma, per altri, è più simile a san Francesco. Quegli affreschi narrano la vita del santo con i suoi miracoli, i suoi monaci e il suo dialogare con un orso, un po’ come la vita e i fioretti di san Francesco narrati dalla pittura di Giotto. Sappiamo che il santo fondò, nel XIV secolo, oltre alla casa madre della Trinità che stiamo visitando, circa 400 monasteri in tutta la Russia e che si rifiutò per umiltà di diventare metropolita dell’intera Russia. Pur vivendo una vita ascetica, Sergio prese parte alla vita politica del suo Paese per sedare una rivolta nella capitale Novgorod e per scacciare dalla Russia i tartari dell’Orda d’Oro. Glorificato nel 1452, ora lì riposa, in una piccola chiesa del grande monastero a lui dedicata, molto frequentata da composti pellegrini, veneranti devoti e da curiosi turisti. Anche noi la visitiamo, dopo aver visto la chiesa della Trinità, e quel che mi attira di più in quella sorta di cenotafio è la presenza, sul sarcofago di san Sergio, di una rozza bara di legno massiccio che il santo teneva sempre presso di sé, a ricordare a se stesso che la morte è sempre certa ma la sua ora imprevedibile, e che quindi è necessario essere sempre preparati al trapasso dalla vita mortale alla vita eterna. La bara come una memoria per la gioia del ricongiungimento con il nostro Padre celeste, ma anche un richiamo alla responsabilità per ciò che facciamo.



La prima visita del complesso, ricco di edifici di varia natura e dalle fattezze un po’ arabe e un po’ gotiche, è dedicata alla chiesa della Trinità, che si erge con una sola cupola su altissimo tamburo quadrato. Dentro, per la verità, mi sembra una grande sala di ricevimento con lampadari luccicanti che scendono da un soffitto affrescato e con la ricca iconostasi decorata dal discepolo Rublev con 42 icone. Un capolavoro assoluto di arte russa. Sulla parete, di fronte all’iconostasi, si può ammirare l’affresco del Giudizio Universale e, nell’atrio, dipinti raffiguranti  scene della Genesi. Dietro al campanile che si erge alto e a gradoni, notiamo un bellissimo tempietto ottagonale di eleganti forme barocche, costruito per racchiudere la famosa icona della “Odighitrìa”, la Madonna Regina.
Attraversata la spianata, ci rechiamo nell’edificio più grande: la chiesa dell’Assunzione, o della Dormizione come la chiamano gli ortodossi, che non l’hanno significativamente  mai tradotta in dogma di fede. La cattedrale è alta e le pareti interamente affrescate e culminanti con cinque cupole. Anche qui domina una sontuosa iconostasi del XVII secolo.
A mezzogiorno circa usciamo dal complesso con la sua selva di cupole e guglie dorate per pranzare in un ristorante poco distante, poi facciamo ritorno a Mosca.

San Basilio



Arriviamo al centro della città di circa 15 milioni di abitanti attraverso le ampie strade a più corsie e soffermandoci quel tanto che basta per ammirare il monumento ai conquistatori dello spazio che si innalza fino a 100 metri, come una freccia di acciaio e titanio scagliata contro il cielo e culminante con una scultura a forma di razzo, a magnificare le imprese spaziali dell’URRS.
Altre superstrade, altri palazzi di diversi periodi storici. Poi un ponte, ed ecco che  ci si para danti ai nostri occhi la cattedrale di San Basilio, o dell’Intercessione, che si staglia imponente all’ingresso della famosa Piazza Rossa, affiancata dall’altrettanto celeberrimo Cremlino. Costruita su ordine di Ivan IV il Terribile come ringraziamento della sua vittoria sui tartari, è una fantasiosa chiesa a forma di croce greca dentro un quadrato. E’ certamente uno dei massimi capolavori dell’architettura russa. Persino Stalin l’ha preservata dalla programmata distruzione. Alla vista è sconcertante per la forma delle cupole: una a pigna e l’altra a cipolla, una affusolata e l’altra ritorta. Coperture policrome le ricoprono, una diversa dall’altra per colore e forma. Incredibile è il gusto pittorico che caratterizza l’intero complesso. Al centro, si erge la torre a forma di pigna sormontata da una piramide e da una cupoletta dorata con la solita forma a cipolla, con in cima una svettante croce. Il colore prevalente del complesso è il rosso, interrotto però dal bianco delle lesene, delle trabeazioni e delle decorazioni.                   
La guida non ha prenotato l’entrata, così, mentre gli altri del gruppo visitano la Piazza Rossa e i grandi magazzini del GUM, mi infilo con Marcella zoppicante all’interno. La chiesa è ora un museo, e il gioco mutevole delle prospettive nei bassi corridoi a cunicolo che congiungono le nove cappelle ti fa sentire come dentro un labirinto. Adornata con le immancabili iconostasi e ritratti di santi e madonne su legno, e con cappelle decorate che esternamente vediamo come torrioni, crea un ambiente fatto di luce soffusa che invita al raccoglimento. L’architettura complessiva è sobria ed essenziale. A tratti sembra di stare nei meandri dei nostri castelli del trentino o nelle cripte di qualche chiesa romanica.
Arriviamo al centro della torre centrale, nella grande cappella che si eleva vertiginosa verso l’alto, con a fianco un’ iconostasi tutta verticale. Udiamo un canto meraviglioso a più voci di cinque cantori che tornea verso la copertura piramidale di quell’altissima torre. Dopo la fine del canto cerchiamo l’uscita in un’affannosa ricerca delle scale. Faticosa la discesa per la gamba di Marcella, ma alla fine ci ritroviamo sulla Piazza Rossa davanti al Patibolo, luogo delle esecuzioni durante il dominio zarista..

La Piazza Rossa e il  mausoleo di Lenin


La Piazza Rossa

La piazza è degna della sua fama. Rosso san Basilio, rosse le possenti mura turrite del Cremlino, anche se, al loro nascere, erano bianche ci ricorda la guida, rosso il museo storico che chiude la piazza a nord, rosso è la torre dell’arsenale che affianca il museo e rossiccia è anche la piccola chiesa di Santa Sofia rattrappita in un angolo. Solo il GUM, che si dilunga su tutta la parte destra della Piazza Rossa, è di color panna. Il selciato è di un grigio che tende stranamente al carminio, forse per un riflesso di luce. Intravedo, accostato alle mura e sotto il torrione centrale, il mausoleo di Lenin.
È un blocco di granito rosso a forma di piramide quadrata e tronca, con alti gradoni della medesima fattura e sormontato da un colonnato di granito. Sul primo di quei gradoni si affacciavano le autorità sovietiche per salutare la popolazione durante la parata militare, simbolo della potenza militare dell’URSS. Davanti a quel mausoleo, durante gli anni del regime, c’era sempre un’ interminabile fila di devoti visitatori provenienti da tutto il mondo, per rendere omaggio al padre della Rivoluzione per antonomasia, all’uomo che aveva cambiato il mondo, al nuovo salvatore dell’umanità. Ora quel mausoleo è quasi interamente coperto dai tubolari che hanno sorretto una copertura, per nasconderlo alla vista durante la grande e famosa parata militare dei due giorni precedenti. Mi vengono istintivamente in mente quel detto del Qoèlet: “O vanità immensa: tutto è vanità… non c’è ricordo degli antichi e non ci sarà pure dei posteri presso coloro che verranno dopo di loro”.


Il Mausoleo di Lenin

Torno presso gli amici ritornati dall’ispezione al GUM o dal girovagare nei dintorni della piazza. Informo Claudio del mausoleo e lui si precipita a fotografarlo. Con Battista facciamo dei commenti sulla precarietà della fama umana e sull’illusione dell’immortalità della memoria. Ricordiamo insieme la sapienza del salmo 44:. “ L’uomo è come un soffio, i suoi giorni come ombra che svanisce” E le amare considerazioni del salmo 102. “Come l'erba sono i giorni dell'uomo, come il fiore del campo, così egli fiorisce. Lo investe il vento e più non esiste e il suo posto non lo riconosce”. Poi con il salmo 49 meditiamo sul fatto che ”muoiono i sapienti e i potenti, anche se erano grandi e famosi e a città hanno dato il loro nome. Eppure l’uomo non comprende… che il suo  sfarzo non scenderà dietro di lui”.
Una celebrità come Lenin dimenticato in un mausoleo da nascondere e in procinto di essere rimosso da quel fastoso e solenne mausoleo e tumulato con gli altri eroi della Grande Rivoluzione nelle mura del Cremlino, non appena il nazionalismo putiniamo avrà fatto piazza pulita dei comunisti ancora presenti sulla scena moscovita.
L’uomo, come l’erba del campo...”: proprio così!

La statua riciclata



Poi scendiamo tutti insieme per recarci in pullman in piazza Puskin e per fermarci sul ponte degli innamorati che scavalca un canale della Moscova, trapuntato dai getti delle fontane. Si intravede in lontananza una delle più grandi statue del mondo fatta interamente in bronzo. Raffigura Pietro il Grande ritto sulla tolda della più alta delle tre caravelle sovrapposte che fanno da basamento alla vertiginosa scultura, a simboleggiare la potenza marinara della Russia. In verità la statua era stata commissionata dagli americani nel 1992 per glorificare Cristoforo Colombo, ma poiché il monumento non era piaciuto ai committenti, lo scultore l’ha venduta al sindaco della capitale dedicandola a Pietro I, non prima però di aver sostituito la testa di Cristoforo Colombo con quella dello zar Pietro. Quel sindaco aveva motivato l’acquisto con la notoria passione dello zar per la navigazione e per la marina. Il tutto, un vero, colossale riciclaggio. Qualcuno ritiene quella statua essere la più brutta del mondo, tanto che Ilena, che l’arte la conosce bene, se ne guarda bene di farcela vedere da vicino, nonostante che la statua, con i suoi 94 metri di altezza, incomba sul panorama circostante. Un’intelaiatura metallica con appesi innumerevoli lucchetti fa da ingresso al ponte e un grande cuore fatto di fiori ci attende alla termine. Nel bel mezzo di quel cuore in fiore,  una passerella con panchina per le classiche fotografie di coppia.
Al ritorno passiamo davanti al palazzo della Lubjanka, il luogo più temuto della Russia. Anche Ilena ce lo indica, ma solo di passaggio e con non poco disagio. E’ infatti la sede dei servizi segreti, sovietici prima, oggi della nazione Russa. Ma la sostanza rimane. In quel palazzo di mattoni gialli, squadrato e dalle fattezze vagamente classicheggianti, con un orologio sulla sommità della facciata quasi ad indicare che, per chi vi entra, il tempo di vita è contato, si sono consumati crimini inauditi. Sede della CEKA durante la Rivoluzione d’Ottobre, diventa il cuore pulsante dell’Unione Sovietica come KGB, mentre oggi ospita il temuto FSB di Putin, che proprio lì ha affinato il suo sistema di potere.
La Lubjanka è stato luogo di torture, di interrogatori senza speranza e di detenzione dura, in attesa di essere inviati nei Gulag. Non c’è crimine di Stato che non sia stato concepito e organizzato in quel palazzo. Posto su un sito leggermente più elevato del resto della città, i moscoviti dicono ancora oggi, con amaro sarcasmo, che “è il palazzo più alto di Mosca, perché da lì si vede direttamente la Siberia”. Nessuno di noi ha voglia di chiedere ulteriori informazioni alla guida, perché tutti sanno che l’inferno non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Stanchi della giornata, torniamo all’hotel tra strette vie in subbuglio, per i lavori di risistemazione in vista dei mondiali di calcio.   

Sesto giorno
La galleria Tretyakov




La giornata inizia con un buon caffè espresso all’italiana, miracolosamente scovato da Claudio nei pressi della galleria Tretyakov. La facciata della più importante pinacoteca moscovita è di uno stile imprecisato, caratteristico dei rifacimenti ottocenteschi. E ottocentesca è anche la data di fondazione da parte di due industriali moscoviti appassionati d’arte di nome Michailovic e Tretjakov. Dentro, 50 sale espongono decine di migliaia di pezzi, compresi quelli custoditi nei sotterranei per la riserva. C’è di tutto: dal Medioevo alle avanguardie del Novecento, comprendendo anche le opere del realismo socialista.
Ci soffermiamo come prima tappa davanti all’icona della Trinità di Andrej Rublev, proveniente dal grande monastero che abbiamo visitato il giorno prima. Un capolavoro assoluto. Amata ci fa notare la struttura compositiva dell’icona e il suo significato simbolico, perché, presso gli ortodossi, a differenza della nostra arte sacra, l’icona non è tanto una raffigurazione pittorica di un evento, ma un vero e proprio discorso teologico. 


La Trinità di Rublev

L’icona come “sacramento” che mette in comunicazione diretta con ciò che rappresenta. Quindi, Amata ci spiega che i tre angeli raffigurati simboleggiano la Trinità. Al centro è il Figlio, con la veste di colore  rosso e blu, a significare la sua duplice natura, umana e divina. Quest’angelo-Figlio di Dio indica con la mano destra un calice, posto sopra una sorte di altare di pietra, anch’esso a forma di calice, come l’intera composizione delle tre figure che si configura proprio a calice. E il calice è la trasfigurazione simbolica dell’ “Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo”, in sacrificio redentivo per tutta l’umanità. Gesù infatti è morto e risorto per tutti noi umani e per l’intera creazione. A destra del Figlio, vediamo il Padre, vestito di rosa. Questo colore indica, come l’aurora, la sua immutabilità, il suo essere senza principio e senza fine, l’ “Alfa e l’Omega”, l’Eterno. A sinistra del  Figlio, appare la figura leggermente concava dello Spirito Santo, vestito di verde e di blu, a significare il “fiume di acqua viva” che promana dall’amore del Padre e del Figlio. Una circolarità perfetta nell’amore che gli sguardi reciproci sottolineano, rendendo una sola realtà le tre persone della Trinità.. 
L’ispirazione della Trinità è venuta al grande Rublev leggendo il libro della Genesi, quando Dio appare ad Abramo sotto forma di tre visitatori, per comunicargli la nascita di Isacco e contemporaneamente la distruzione di Sodoma e Gomorra, perché società violente e negatrici dell’obbligo dell’ospitalità verso lo straniero e il diverso, dovere sacro nell’antichità.   
La composizione pittorica è datata all’incirca verso il 1422/27, quando i Tartari stavano devastando la Russia ammucchiando cadaveri dovunque, soprattutto fuori dalle porte delle città conquistate e sotto le mura dei monasteri, quando non riuscivano a depredarli. In quell’ordalia omicida e predatoria era sembrato che Iddio stesso avesse abbandonato l’uomo, tanto che anche l’inquieto monaco Rublev, amico di san Sergio, abbandonò il pennello in preda alla disperazione. Ma, si narra, che dal monastero della Trinità di Sergeiv Posad gli arriva una voce che gli dice di scavare sotto le macerie del suo monastero e tra il fango che lorda ogni cosa. Rublev obbedisce alla voce e, scavando, trova un’icona raffigurante il volto del Crocifisso. Il monaco comprende allora che, se anche il Figlio di Dio si trova lì in mezzo al fango, nessun uomo può essere privato dell’amore di Dio, presente anche dove la morte la fa da padrona. Il monaco pittore riprende allora con coraggio il pennello e, raccogliendo l’eredità spirituale del maestro Sergio da poco morto, compone questa icona sulla Trinità, al cui centro sta proprio il Figlio, per continuare a testimoniare la fede nel Risorto per tutti gli uomini e per l’intera storia umana.
Non sappiamo quanto di vero ci sia in questa tradizione e quanto di leggendario, ma l’opera è indiscutibilmente straordinaria, a significare quel particolare e drammatico momento della vita di Rublev e della popolazione russa.


Lezione all'interno della Galleria

Un’altra annotazione di Amata sul dipinto mi fa riflettere: il punto focale della prospettiva è inverso rispetto a quello che troviamo sulle nostre tele. Ed  è sottolineato dal basamento dei piccoli troni sui quali stanno seduti i due angeli ai lati. La prospettiva non va così dal centro del quadro all’osservatore, ma dallo spettatore al centro del quadro, dove troneggia la coppa dell’Agnello Immolato, quasi a guidare il fedele verso il mistero centrale della fede cristiana. Un bel capovolgimento di prospettiva, per chi, come me, è abituato a pensare la Trinità secondo lo schema iniziato dal Masaccio nella Trinità di Santa Maria Novella a Firenze e continuamente ripetuto nell’arte occidentale, che vede Dio, dipinto come un vecchio con la barba bianca, lo Spirito Santo a forma di colomba che svolazza sopra la testa del Figlio Crocifisso con il tutto che promana dal centro del quadro all’osservatore. La Trinità del Masaccio si impone, quella di Rublev raccoglie e indirizza. Molto interessante questo rovesciamento di prospettiva.
Ci volgiamo poi a contemplare l’icona della trasfigurazione, anch’essa del medesimo autore. Anche qui, colori brillanti e grande potenza espressiva, con il Cristo trasfigurato immerso in una grande luce, con ai lati Mosè ed Elia. Sotto, i tre discepoli prediletti ritratti come sgomenti e quasi oppressi da questa luce così sfolgorante e insostenibile, tanto da essere dipinti ripiegati, e due addirittura a testa in giù.
Visitiamo le numerose sale della pinacoteca per ammirare quadri di autori russi che non conoscevo e che mi affascinano per la loro precisione quasi calligrafica nel ritrarre paesaggi, descrivere persone, rappresentare ricostruzioni storiche che esaltano personaggi della storia russa o dipingono trasfigurazioni mitologiche di eventi patriottici. Nelle sale vediamo molte scolaresche, con l’insegnante che fa sedere per terra i bambini e spiega loro, con pazienza e con amore, le glorie dell’arte patria. È una  scena che si ripete in modo commovente per tutta la durata della visita e ci dà l’idea dell’amore di questa popolazione per l’arte e per la loro storia collettiva. Ci soffermiamo poi a guardare il capolavoro ottocentesco di Ivan Kramskoy intitolato: Ritratto di una donna sconosciuta, “la Monna Lisa della Russia”, ci tiene a sottolineare Ilena,  e l’altro suo capolavoro: la Notte al chiaro di luna, molto suggestivo per la capacità di rendere in pittura il chiarore lunare.
Vediamo di passaggio l’enorme tela raffigurante la vita di Cristo di Ivanov, poi passiamo ai capolavori di Surjkov: “La Boiara Morozova” e “Ivan il Terribile con il figlio assassinato”, che la guida ci commenta con molta competenza. Attraversiamo la sala dei “pittori ambulanti” preimpressionisti, che saranno imitati e copiati dal realismo socialista in funzione celebrativa. L’autore che Ilena ama di più, e si dilunga a spiegarcelo per farcelo gustare appieno, è Isaak Levitan, con i suoi stupendi paesaggi che sembrano fissare i sentimenti sulla tela ed evocare stati d’animo nell’osservatore attraverso il sapiente uso dei colori e degli scorci di paesaggi. Su un quadro in particolare si sofferma per spiegarcelo. Il titolo dell’opera è già un programma: “Eterna Pace”. In effetti, la raffigurazione nella tela di un lago con al centro una piccola isoletta e, sulla riva inferiore dello specchi d’acqua, una chiesetta immersa in una luminosità quasi crepuscolare riflessa nel lago da un cielo nuvoloso che non riesce a nascondere il tramonto, rende bene il senso di quiete quasi metafisica che domina tutta la composizione. 
Poi uno sguardo molto sommario ad un autore che anticipa il cubismo mediante il  colore disteso a spatola e con figure umane geometricamente accennate, e ci incamminiamo verso l’uscita. Pensavo che la visita fosse conclusa, Amata invece mi ricorda che “non si può non vedere la Theotokos di Vladimir”, e ci guida  nel settore della galleria appositamente a lei dedicato, situato dentro una piccola chiesa dominata da una grande iconostasi.

 La Theotokos di Vladimir



La Vladimirskaya, come la chiamano i russi, è l’icona della Madre di Dio della tenerezza. Gli esperti la inquadrano nello stile della madonne Eleusie. È l’icona più riprodotta in Russia ed è sicuramente la più famosa nel mondo. L’abbiamo infatti ritrovata in copia in quasi tutti i luoghi di culto ortodossi. L’originale ora è proprio  davanti ai nostri occhi, racchiusa dentro una grande teca di legno rosato dagli intarsi orientaleggianti e protetta da un pesante lastra di vetro antiproiettile. La leggenda la fa risalire addirittura a San Luca. In realtà è un’icona databile alla fine del XII secolo e di ignoto autore. Il luogo di provenienza è Costantinopoli, e lì è rimasta fino a quando il patriarca bizantino Crisoberge la diede in dono a Jurij Dolgorukij, gran principe di Kiev, prima capitale della Russia. Ma il figlio di costui la trasportò successivamente a Vladimir, seconda capitale della Russia, per ospitarla nella grande cattedrale della Dormizione, costruita proprio per accoglierla.    
Solo  nel 1395 approdò a Mosca, perché Vladimir era stata assediata e messa a ferro e a fuoco dalle truppe di Tamerlano, così che le autorità religiose decisero in fretta e furia di farla trasferire nella più sicura Mosca. Per custodire questa icona venne persino costruito il monastero di Sretensky. E’ storia che lo zar Basilio I di Russia passò una notte intera in preghiera e in pianto davanti a quest’immagine nel monastero che la ospitava, e il giorno successivo l’esercito mongolo si ritirò dall’assedio di Mosca. I moscoviti perciò se ne guardarono bene di riportare l’icona a Vladimir e la collocarono nella cattedrale della Dormizione, dentro le mura del Cremlino. Anche negli assalti dei tartari del 1451 e del 1480, quest’icona ebbe un ruolo da protagonista, perché, dopo che venne portata in processione attorno alle mura di Mosca, i tartari si ritirarono sconfitti. L’ultimo di questi prodigi attribuiti alla Vladimirskaya avvenne nel dicembre del 1941, quando le orde naziste erano arrivate vicine alla capitale e avevano riservato a Mosca e ai suoi abitanti una fine atroce: sommergere la capitale dell’URSS con tutti i suoi abitanti deviando il corso della Moscova e di altri fiumi limitrofi, Volga compreso. L’ateo Stalin fece rimuovere la Theotokos dal museo dove era stata relegata da Lenin, in coerenza con la proibizione di ogni forma di culto religioso, considerato pervicace superstizione da estirpare ad ogni costo, la fece imbarcare su di un aereo e la fece svolazzare per tre volte sulla città. Alcuni giorni dopo i tedeschi iniziarono la rovinosa ritirata e la Russia fu salva.
Si sussurra che, dopo questo “miracolo”, Stalin si fosse fatto meno feroce e un po’ più dubbioso della religione come oppio dei popoli e molto meno sollecito a firmare esecuzioni capitali o deportazioni nei campi di lavoro. Forse qualche paura in più o qualche dubbio stava erodendo la sua paranoica ferocia Alla luce di questi fatti storici, certamente ampliati dalla tradizione, non c’è da stupirsi che quest’icona sia diventata l’emblema stessa della Russia e, come tale, fatta oggetto di immensa devozione popolare. 
Mi soffermo a contemplare quel dolcissimo abbraccio della madre con il figlio e lo sguardo tenero ma penetrante di questa Madonna della tenerezza. Poi la guida ci richiama al pullman per proseguire il viaggio.

La cattedrale di Cristo Salvatore



Arriviamo alla cattedrale di Cristo Salvatore, sede del Patriarcato di Mosca, una sorta di Vaticano Ortodosso. Dopo l’attraversamento di un ponte si erge davanti ai nostri occhi una grande cattedrale a pianta greca sul modello di Santa Sofia a Costantinopoli. Il tempio, iniziato sotto lo zar Alessandro I nel 1812 in ringraziamento a Cristo Salvatore  per lo scampato pericolo napoleonico. venne completato solo nel 1860. Dopo la morte di Lenin il sito su cui sorgeva la cattedrale venne destinato alla costruzione del Palazzo dei Soviet, che doveva elevarsi a gradoni per oltre 300 metri d’altezza, con in cima una gigantesca statua di Lenin alta 100metri. Stalin fece radere al suolo la chiesa nel 1931 per realizzare questo grandioso progetto architettonico e insieme propagandistico, anche con l’intento di cancellare dalla memoria collettiva ogni riferimento religioso che potesse ostacolare l’avvento delle “magnifiche sorti e progressive” del socialismo mondiale di cui il Palazzo dei Soviet doveva costituire il cuore e il simbolo stesso. Ma i fondi per una simile impresa non si trovavano, e la voragine creata dagli esplosivi per la demolizione dell’edificio sacro venne usata come discarica fino a quando Krusciov non la trasformò nella più grande piscina aperta del mondo. La ricostruzione della cattedrale, identica a quella precedente, iniziò solo dopo il collasso dell’Unione Sovietica e venne terminata nel 2000.
L’interno di Cristo Salvatore è maestoso e di un’ampiezza che toglie il fiato. Una grandiosa cupola michelangiolesca rende ancora più smisurata la volumetria del tempio. Il susseguirsi di marmi policromi sulle pareti e sul pavimento, alternati a statue bronzee e a grandi affreschi rappresentanti santi o scene del Vecchio e Nuovo Testamento, rendono sfarzoso il tutto e poco “ortodosso” quello spazio sacro. Nel luogo dell’iconostasi si erge un’intera cappella sulla cui cuspide si innalza una croce e, sull’entrata di questa  piccola chiesa nella chiesa, si intravede un’iconostasi vera e propria con quattro icone, devotamente baciate dai fedeli.Ci soffermiamo per un po’ ad ammirare lo splendore della più grande chiesa dell’ortodossia, poi usciamo sul grande piazzale contornato da piccole cappelle e che dà sul ponte pedonale, dal quale si può ammirare da vicino il grande complesso del Cremlino. Poi un pranzo frugale e veloce, per raggiungere in tempo la prossima meta.      
      
Il Monastero delle Vergini



Arriviamo dopo pranzo al Monastero delle Vergini, Novodevicij in russo. Fondato nel 1524 per celebrare la presa di Smolensk, è il più grande complesso sacro di Mosca dopo il Cremlino. Le torri bianche e rosse che vediamo, una quadrata e una rotonda che raccordano le alte mura di mattoni, ci accolgono in un grande complesso  formato da chiese e da altri edifici che hanno segnato profondamente la storia della Russia.  Sotto le sue mura infatti sono stati sconfitti i Tartari di Crimea e i lituani. Boris Godunov venne lì incoronato zar di tutte le Russie nel 1598. In quella prigione-convento vennero relegate la reggente Sofia dal fratello Pietro I e Eudossia, la prima moglie del medesimo zar. Napoleone desistette dalla distruzione dell’intero complesso grazie alle suppliche delle monache e affascinato dalla preziosissima iconostasi della chiesa principale di N. Signora di Smolensk e della “Odighitrìa” in essa custodita.
Prima di entrare nel complesso, mi reco su una piazzetta che si affaccia sulla Moscova e ci fra intravedere lontani gli altissimi grattacieli del nuovo centro finanziario e industriale moscovita. Durante il breve giro tra le diverse chiese, Ilena ci fa notare la presenza di una luna sotto una croce dorata che svetta su una cupola verde, naturalmente a cipolla. L’interpretazione di questo simbolo è molteplice, quella che gode di maggior credibilità è il riferimento all’Apocalisse, della “donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi”, ma niente di sicuro. Entriamo nella Trapeznaja, o chiesa refettorio, e nella cappella della Trasfigurazione, che è considerata il gioiello del barocco russo. Nulla di nuovo, rispetto a ciò che abbiamo visto altrove. Poi visitiamo il piccolo museo che è stato anche la prigione della reggente Sofia, dalle cui finestre la terrorizzata prigioniera era costretta a vedere ogni giorno pendere dalla forca i suoi fidati Strelzi, complici nella congiura contro il fratellastro Pietro il Grande. Fuori ci aspetta il cimitero, dove riposano il fior fiore dell’arte e della scienza russa degli ultimi due secoli, ma è tardi e l’ingresso è ormai impossibile.

L’ Università Lomonosov



Proseguiamo in pullman per recarci sulla Collina dei Passeri, davanti alla gigantesca Università Lomonosov di Mosca, che con i suoi  32 piani e la cuspide di 240 metri domina l’intero paesaggio circostante e si fa vedere anche da lontano. Sfioriamo  un’ala della città universitaria  moscovita e proseguiamo lungo i giardini molto curati che si dilungano fino al piazzale. Scendiamo per una sosta di dieci minuti. Il piazzale, gremito di turisti, è diventato punto di ritrovo dei motociclisti moscoviti. Confesso che lo spettacolo che si intravede dal poggio non mi sembra un granché. Sotto si può vedere lo stadio, lontano la city moscovita con i suoi altissimi e variegati grattacieli, a distanza più ravvicinata la Moscova con i suoi meandri. Non riesco ad individuare  il Cremlino, troppo lontano o forse per un mio deficit di vista. Inconsciamente lo confronto con Piazzale Michelangelo a Firenze, ma il paragone non regge e questo mi impedisce di gustarne la bellezza.
Un ultimo sguardo alla svettante Università, con i suoi torrioni e le sue ali in stile tipico del realismo sovietico, che si ripete nelle famose Sette Sorelle sparse in diverse località della capitale e vanto dell’architettura del tempo, poi via verso l’hotel. Ci aspetta infatti la visita notturna di Mosca.

Mosca di notte



Si parte alle 21 esatte e ci rechiamo subito nella zona del Cremlino, dopo una brevissima sosta davanti alla Duma illuminata a giorno. Entriamo nella Piazza Rossa attraverso la duplice porta a fianco del Museo Storico, non dopo esserci soffermati a guardare prima la statua a cavallo del generale Zucov che schiaccia un drago sotto gli zoccoli, simbolo delle armate naziste, poi a toccare con le suole delle scarpe il Punto Zero, dal quale si dipartono le maggiori strade che portano ai quattro angoli dell’immenso Paese.
La Piazza Rossa è ancora più impressionante di notte con i suoi quasi 700 metri di lunghezza e i 130 di larghezza. A destra, si ergono sulle mura illuminate a giorno le alte torri del nostro Pietro Antonio Solari, costruttore anche di Piazza Castello a Milano.
In cima a quelle vertiginose cuspidi brillano le stelle rosse di rubino sintetico che ruotano su dei supporti girevoli al soffiare del vento. Sotto la Torre Senatskaja si intravede il mausoleo di Lenin che si confonde con il colore delle mura di cinta. 
A sinistra il GUM contornato di luminarie che lo fa assomigliare più ad un luna park che ad un monumento degno di questo nome. In fondo alla piazza, svetta San Basilio,  che le luci artificiali fan sembrare ancora più fantasmagorico nelle sue forme e nei suoi colori. Nella strada a fianco è parcheggiata una limousine per qualche prezzolata avventura notturna dei turisti. Un tocco di volgarità che stride fortemente con la solennità e la bellezza del luogo. Risaliamo sul pullman che ci porta attraverso le vie principali della città con i maggiori monumenti sapientemente illuminati da appositi fari. Rivediamo il bianco della cattedrale di Cristo Salvatore, il dorato degli alberelli illuminati nei viali attorno al Cremlino, il verde del Palazzo Sojuzov, il giallo della Lubjanka, il  rosato del Teatro Bolsoj,  il blu di piazza Puskin, il color panna della Biblioteca di Stato, infine: il rosso del Parco della Vittoria.

Il Parco della Vittoria



Questo Parco, che contiene luoghi di culto di diverse religioni, è di straordinario impatto emotivo. Disteso sulla collina Poklonnaja, è un memoriale di recente costruzione in onore della vittoria della guerra patriottica del 1941-1945 sulla Germania nazista.
Scesi dal pullman ci incamminiamo per dei viali semibui che ci portano al cospetto di un enorme obelisco triangolare alto quasi 150 metri, sormontato da statue bronzee e da una Nike alata, simbolo della vittoria contro la barbarie hitleriana. Dietro l’obelisco, che si innalza al centro di una grande piazza circolare, intravediamo il palazzo del Museo della grande guerra patriottica a forma di semicerchio, con al centro una bassa cupola, anch’esso illuminato di un rosso carminio. Davanti a noi, si distendono ampie vasche con fontane che sprizzano acqua rossastra, culminanti, in fondo, con un grande arco di trionfo. Sui viali laterali, riusciamo a scorgere colonne anch’esse rosse sorrette da alti basamenti con una sorta di capitello a forma di bandiere al vento. È buio, e riusciamo solamente a intravedere le forme dei monumenti che ci circondano, ma il colore dominante tutto il parco è il rosso fuoco.
Ma sono le fontane che sprizzano acqua color sangue che impressionano. Sono 1418, tante quanti i giorni della follia dell’invasione nazista, che ha causato alla sola Russia non meno di 30 milioni di morti. Davanti a questo spettacolo, non riesco a non pensare alla follia umana, che trova nella guerra la sua espressione più tremenda ed eclatante. Mi passano davanti agli occhi della memoria le imperiali legioni romane con i massacri di intere popolazioni, le montagne di teschi erette da Gengis Khan davanti alle città conquistate e distrutte, le carrettate dei condannati alla ghigliottina durante la Rivoluzione Francese in nome della libertà, uguaglianza e fraternità universale, i massacri della prima e seconda guerra mondiale con i bombardamenti indiscriminati delle città. E poi ancora: le camere a gas, i forni crematori, gli stermini di massa. Più vicini a noi: il mostruoso fungo atomico, le pulizie etniche dell’ex Jugoslavia, i massacri tribali in Africa, le morti per fame e per le enormi ingiustizie sociali,  le vittime del terrorismo islamista.  Quando rileggo la storia umana, vedo che gronda sangue per una malvagità insensata. Sembriamo dei pazzi che si divertono a distruggere ciò che continuamente costruiamo e costruiamo al solo scopo di distruggerlo, in una circolarità perversa di infinita stupidità. La distruzione e la violenza sembrano per l’animale umano quasi una condanna ineluttabile, un giogo imposto da un oscuro destino, una coazione a ripetere. Forse dobbiamo riflettere un po’ meno superficialmente quando parliamo di peccato, salvezza e redenzione. Davanti a questo fiume di sangue ci rendiamo conto da che cosa il Risorto ci vuole salvare. Ma la liberazione da questo “peccato del mondo” non riusciamo a procuracela da noi. Riconosciamolo con verità: non ce la facciamo da soli. L’ultimo titanico tentativo di liberaci con le nostre sole forze da questa sorte di costrizione alla guerra, dal desiderio irrefrenabile al dominio, dalla insaziabile avidità e dalla pervicace volontà di oppressione è stato sperimentato proprio qui, ed è fallito miseramente, producendo altra violenza, altre ingiustizie, altre oppressioni. Pur con tutte le buone intenzioni degli inizi, il paradiso bolscevico è lastricato di cadaveri degli uccisi in massa.
Mi convinco sempre più che la salvezza da queste miserie ci sarà data come un dono dal cielo, secondo la promessa del libro dell’Apocalisse, che noi troppo poco conosciamo e che è stato troppo spesso travisato. Un libro difficile certamente e da interpretare in chiave simbolica e con finalità pedagogiche, non in senso letterale, altrimenti andremmo fuori strada come spesso è avvenuto. Ecco come questo libro della consolazione descrive per noi, che rimaniamo sgomenti di fronte all’enigma del male, il futuro ultimo del mondo:  “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono. Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio con loro”. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate. E colui che sedeva sul trono disse: “Ecco io faccio nuove tutte le cose…a colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita.”
La nuova umanità e il nuovo futuro ci saranno dati gratuitamente dall’alto. La fine che ci attende è la vita piena ed eterna, non la distruzione dell’umanità. La buona notizia del Vangelo è tutta qui condensata. .A noi attenderla con fiducia dal Padre, invocandolo con l’antica formula aramaica del “Maranà-thà”, “vieni, Signore Gesù” e ponendo qui ed ora dei segni anticipatori di questo mondo rinnovato nell’amore per sempre.
Ritorniamo stanchi per l’intensa giornata all’hotel, passando per gli alti grattacieli della Mosca più recente che tralucono nella notte.
                        
Settimo giorno

Tolstoj

Ci alziamo presto. È domenica e ci rechiamo in una saletta dell’hotel per celebrare l’eucarestia prima della partenza per le nuove visite. Il rito è quello caratteristico della comunità Nazareth, fatto soprattutto di segni, ma che non tutti i partecipanti conoscono e che tende a rendere comprensibile, visibile e palpabile quel mistero che il pope celebra solitario dietro l’iconostasi.  L’incarnazione si fa cena fraterna e il Totalmente Altro si rende visibile nei gesti, negli sguardi, nelle parole, nell’esperienza quotidiana dei presenti colmando quella distanza che sentiamo come infinita. L’Arcano si fa pane e vino, e noi diventiamo così popolo fraterno.
 Il Vangelo del giorno ci narra di come i discepoli di Gesù hanno vissuto e interpretato la sua risurrezione dai morti. Don Emilio ci invita a riflettere su quell’esperienza centrale per la nostra fede e ci invita  ad esprimere il nostro modo di riviverla oggi, immersi nella nostra contemporaneità così complessa. Poi le parole della consacrazione, i gesti della fraternità  e l’invito finale a vivere in pienezza il nuovo giorno. E si parte per le nuove escursioni.

La metropolitana



Scendiamo con le scale mobili nella metropolitana fino ad una profondità di quasi cento metri. Perché questo prodigio della tecnologia sovietica ha dovuto fare i conti con il sottosuolo di Mosca che è in realtà un acquitrino. Del resto, il significato etimologico di Mosca è proprio “città dell’acqua”.
La metropolitana si estende a mo’ di ragnatela per tutta l’estensione della città, con linee che vanno, a raggiera, dal centro all’estrema periferia, e si intersecano con altre linee che, in forma di cerchi concentrici, collegano tutti i quartieri della capitale. Ci si può muovere senza automezzi in città e in periferia, solo che, a giudicare dall’intenso traffico che intasa le strade, sembra che i moscoviti non se ne siano ancora accorti.
Le due stazioni che visitiamo ci offrono uno spettacolo a dir poco inconsueto. Mosaici dappertutto, a magnificare il nuovo ordine del mondo comunista. Marmi intarsiati come pavimento. Preziosi lampadari a goccia o a diversa foggia che pendono da soffitti affrescati o mosaicati, invece di semplici  lampadari a soffitto o funzionali plafoniere come da noi. Uno sfarzo celebrativo che è costata la vita a migliaia di condannati ai lavori forzati e che ha creato il culto stakanovista per il lavoro finalizzato alla creazione della nuova società. Guardiamo, ammiriamo e ci stupiamo. Poi saliamo sulla metropolitana per due fermate e risaliamo in superficie  
Una sosta su una laterale di via Tserskaya per lo shopping previsto per ogni viaggio organizzato. Niente di particolare, se non gli alti prezzi dei souvenir. Entriamo in uno di questi negozi e scopriamo che l’immagine di Putin spunta dappertutto. Orologi, coperchi di cofanetti, foto ricordo ed altri riportano una fotografia del presidente russo. Al primo piano c’è addirittura una riproduzione a grandezza naturale di Putin per eventuali fotografie ricordo. Il culto della personalità in Russia evidentemente non è mai morto.
Un pranzo veloce e via per la visita più importante: il Cremlino.

Il Cremlino



Entriamo nella cittadella fortificata, perché questo è il significato del termine Cremlino, dalla torre Kutafja: un rivellino rotondo di pietra bianca del XIV secolo che conduce, attraverso un ponte, all’imponente torre Troickaja, la più alta delle torri del Cremlino e che dà l’accesso vero e proprio al complesso monumentale. Il detto russo che “al di sopra di Mosca c’è il Cremlino, al di sopra del Cremlino non c’è che il cielo”, rende bene l’imponenza di questa città nella città, che si sviluppa a forma triangolare per oltre due chilometri, racchiusa da mura merlate alte più di dieci metri e armate da venti torri che si innalzano incoronate da coperture piramidali. Cinque di esse sono sormontate da una girevole stella rossa. Dentro, palazzi grandiosi in stili diversi, cattedrali solenni, piazze di foggia italiana e giardini.
La prima notizia del Cremlino è anche la prima notizia su Mosca. Infatti si narra che la città sia nata dall’incontro tra due principi rivali sul colle Borovickij, nell’angolo sud-occidentale dell’attuale complesso, per stipulare accordi di pace. Nel 1156, Jurij, il gran principe di Vladimir, fece costruire in quel luogo una fortezza in legno, che venne però distrutta dai tartari un secolo dopo. Sotto il gran-principe Dimitri III Donsksoj, nel 1367 le mura venero innalzate in pietra e Mosca, identificata con il Cremlino, assunse l’appellativo, durato a lungo, di “città di pietra bianca”. Distrutto anche questo nucleo di città fortificata in pietra da parte del Khan tartaro Tokhatmish, il Cremlino venne ricostruita nelle forme e strutture attuali da Ivan III il Grande alla fine del XV secolo. Questo primo vero e proprio zar chiamò diversi architetti italiani per l’impresa, quali il Fioravanti, il Solari, il Ruffo, l’Aloisio ed altri architetti di minor fama, che usarono maestranze russe per la costruzione di quella che diventò la sede del principato di Mosca. Questi architetti italiani venivano chiamati dai moscoviti “Frjazin” e lo stile che ne derivò nella costruzione della nuova città è universalmente noto come stile “frjazskij”: un misto tra il primo Rinascimento italiano e alcuni stilemi bizantini. La sorte di Mosca come capitale di tutte le Russie fu alterna. Infatti la capitale venne più volte spostata a San Pietroburgo, per riprendersi questo ruolo centrale dopo la Rivoluzione d’Ottobre nel 1918. Da quel momento fino ad oggi il Cremlino è diventata la sede del governo russo, pur nell’alternanza dei regimi politici, e Mosca l’indiscussa capitale della Russia. Entrati dalla Torre della Trinità, ci troviamo davanti al modernissimo Palazzo dei Congressi che non visitiamo. A sinistra si stende il lungo palazzo classicheggiante dell’Arsenale. Poco più avanti, sempre a sinistra, si staglia il triangolare e neoclassico ex Senato coperto da una bassa cupola, oggi luogo di lavoro e di governo del presidente russo e che si intravede anche dalla Piazza Rossa. Più avanti ancora si possono scorgere i ben curati giardini all’italiana.    


Tra questa parte sinistra del Cremlino e la parte destra, quella più antica che stiamo per visitare, si stende una grande spazio vuoto, asfaltato e con linee di parcheggio ben definite. Ilena ci raccomanda di non inoltrarci in alcun modo in quest’area, che è riservatissima e controllata oltre ogni immaginazione, essendo limitrofa al cuore del potere russo. Ci avviciniamo, stando sempre sul marciapiedi a destra dell’entrata, a quello che la guida dice di essere “il cannone più grande del mondo”, o, come lo chiamano qui, lo “zar dei cannoni”. E in effetti è una bombarda del 1586 di dimensioni gigantesche: oltre cinque metri di altezza, con l’affusto dai rilievi bronzei sospeso su colossali ruote, per sparare palle di cannone di due tonnellate. Dalle ultime analisi effettuate su questo colossale obice sembra che questo cannone abbia veramente sparato.
Dal cannone passiamo alla piazza della cattedrali. Magnifico esempio di piazza italiana in stile veneziano. A sinistra si innalza, su tre piani e così rastremato da sembrare un minareto terrazzato, il Campanile di Ivan il Grande con annessa chiesa. Ai suoi piedi, la “più grande campana del mondo” ci dice con la solita enfasi Ilena. Che sia la più grande di tutte, non saprei, che sia enorme è lì da vedere. La “campana dello zar”, come la chiamano i moscoviti,  è alta oltre sei metri e larga altrettanto, con  216 tonnellate di peso. Non ha mai suonato, perché si è rotta durante la fusione. Infatti appare squarciata su un lato, mentre il battacchio sembra una trave di bronzo infilata in una buca sotto la bocca della singolare campana. Tutt’attorno alla bianca piazza, una selva di cupole dorate delle cinque chiese che si affacciano su quell’ampio spiazzo, che ha visto i momenti più solenni, ma anche quelli più drammatici, della storia russa. Davanti a noi la cattedrale dell’Arcangelo Michele e la cattedrale dell’Annunciazione. Alla nostra destra, la cattedrale dell’Assunzione e la chiesa della Deportazione della Veste della Vergine con la sua selva di piccolissime cupolette d’oro. Dietro di noi, la cattedrale dei Dodici Apostoli. Visitiamo per prima la Cattedrale dell’Assunzione che è una sorta di cubo di pietra bianca, pieno di affreschi, tra cui il grande “Giudizio Finale”, sorretto da quattro grandi pilastri anch’essi affrescati. La cattedrale dell’Assunzione è il luogo più sacro di Mosca. In essa infatti venivano incoronati gli zar e si conservano ancora il trono di Ivan IV il Terribile e i troni della zarina e del metropolita. L’iconostasi mostra al  centro la celebre icona di San Giorgio, capolavoro della scuola di Novgorod. La cattedrale dell’Arcangelo Michele è invece molto più sobria, più italiana. 


Il Palazzo del Governo
all'interno del Cremlino

E’ infatti il capolavoro dell’architetto veneto Lamberti da Montagnana e conserva, dentro la gigantesca iconostasi dorata, la preziosissima icona dell’Arcangelo Michele di Rublev. Dopo il solito giro all’interno del tempio, usciamo e, dalla candida piazza, raggiungiamo i giardini fioriti, sotto un sole che splende alto, per incamminarci lungo la fiancata del Grande Palazzo del Cremlino, inaccessibile al pubblico e luogo di rappresentanza del governo russo.
Entriamo invece nel museo, installato nell’antico Palazzo dell’Armeria e collocato presso l’uscita della Torre Borovickaja, attraverso uno scalone che con fatica Angelo supera con la sua carrozzina, grazie all’ascensore e alla presenza di Claudio, sempre al suo fianco come un fedele custode.



Siamo molto stanchi e le cose da vedere sono tante, troppe. Attraversiamo le diverse sale con lo sguardo un po’ trasognato. Chi si concentra sulle armi e sulle armature, soprattutto sullo stupendo Saadak, una guaina di faretra tempestata di rubini, diamanti, smeraldi, zaffiri e quant’altro. Chi contempla a bocca aperta i troni e i gioielli della Corona, con l’incredibile sfilata delle corone degli zar, tempestate di pietre preziose e sempre più sontuose col passare delle generazioni reali. Chi si attarda ad ammirare pezzi importanti di arte russa, che trova nel “Globo d’Oro” dello zar Aleksej Michajlovic il pezzo più celebrato. Anche qui si sprecano oro, diamanti, rubini, zaffiri e smalti, come su altri manufatti di incredibile fattura, come un evangelario letteralmente tempestato di diamanti. C’è anche in mostra il più grande smeraldo del mondo, che qualcuno osserva, e la corona di Caterina la grande con i suoi 4936 diamanti che la ricoprono, che quasi nessuno di noi degna di uno sguardo. Tutto qui è esagerato, come sempre, in Russia. Anche lo stupore.
Poi scendiamo a vedere le carrozze di gala degli zar, una diversa dall’altra.  Spicca, su tutte le carrozze riccamente intarsiate e addobbate, quella della zarina Elisabetta Petrovna: un arzigogolo di intarsi di legno e oro, che la fanno sembrare addirittura irreale, stupefacente alla vista. Usciamo stremati da quella galleria dell’eccesso, per rivedere un’ultima volta, vicino ai giardini di Alessandro, la statua bronzea, ovviamente smisurata, di Vladimir I il Santo, con il crocione innalzato al cielo dalle sue stesse le mani. L’uomo che, nel 988, ha fatto convertire al cristianesimo bizantino questo sconfinato Paese. E ritorniamo in albergo esausti, per prepararci alla partenza.
                                                  
Ottavo giorno
Il ritorno


Dostoevskij

Dopo i  “sette giorni della ricreazione russa” di noi pellegrini, si riparte.  
Per arrivare all’aeroporto di Mosca occorre attraversare la periferia sud della città. Ed  è una sequenza infinita di palazzoni di venti o trenta piani, uno uguale all’altro, senza terrazze di sorta. È l’architettura “funzionale” ereditata dall’URRS, dove il principio di uguaglianza veniva tradotto anche in piccoli appartamenti, ricavati in questi alveari di cemento e forniti gratis dallo Stato alle famiglie, indipendentemente dal numero degli occupanti, e dove il riscaldamento, per un Paese che scende anche sotto i meno trenta gradi d’inverno, era centralizzato. Tutti gli abitanti di questa enorme città erano in balia dell’arbitrio della burocrazia sovietica. Poi, al crollo del regime, qualcuno più furbo e più disonesto degli altri, ha fatto incetta di questi appartamenti arricchendosi senza remore, ma soprattutto senza misura, come di dovere in Russia. L’uscita da questo infinito Paese è defatigante. Salutiamo e ringraziamo Ilena per la sua professionalità e la sua compagnia. La donna si mostra commossa per il nostro affetto e la nostra ammirazione, ma deve scappare, perché l’attende un altro gruppo da accompagnare. I mondiali di calcio sono vicini e, durante quel mese di passione sportiva, i gruppi turistici vengono drasticamente ridotti di numero per lasciar posto ai più paganti tifosi provenienti da ogni parte del globo.
Mi sorbisco ben due radiografie per accertare che la mia protesi all’anca destra sia vera durante i ripetuti chek-in, nonostante il certificato medico italiano regolarmente esibito lo dichiari esplicitamente. La credibilità della sanità italiana sembra davvero molto bassa in Russia. Poi la partenza per Malpensa, via Vienna. All’aeroporto di Vienna altro chek-in ed altre palpate di accertamento. Poi, volo per l’Italia: finalmente!
Mentre sorvoliamo le Alpi, non posso fare a meno di ripensare all’esperienza vissuta.   
Un gruppo di circa trentacinque persone, la maggior parte delle quali gravitante attorno alla comunità Nazareth, si sono trovate a vivere un’esperienza comune in  terra straniera, guidate da una ragazza che fa parte di un’altra comunità, ma che si è aperta e confrontata con la nostra esperienza di fede e di vita. Persone vissute a contatto quotidiano e che hanno visto le medesime cose, hanno sentito le stesse parole, hanno camminato insieme e insieme hanno mangiato e bevuto. Gli sguardi si sono spesso incrociati: a tavola, per strada, sul pullman. Molte si si sono anche confessate alcune vicende della loro vita. Altre hanno scherzato su quanto visto e sentito. Altre ancora hanno riso o si sono stupite per i costumi di un altro popolo. La difficoltà della lingua ha certamente reso ancora più coeso il gruppo e l’ha misurato su un’altra dimensione non solo linguistica. E poi la presenza della carrozzella di Angelo, con le sue inevitabili “montagne russe” per superare le  barriere architettoniche che qui imperversano, ha richiamato tutti noi al dovere della solidarietà e sperimentato l’efficacia dell’aiuto reciproco.
Mi sembra che sia questa la fraternità di cui sentiamo tutti il bisogno e della quale tanto parliamo. È in questo incrocio di sguardi, nello scambio di parole quotidiane o di divertenti battute di spirito. È nel leggero tocco del nostro sgomitare per  sistemarci sul pullman o per sentire la presenza dell’altro che la fraternità trova casa e si alimenta.
Credo che, oltre all’indubbio arricchimento culturale per ciò che abbiamo visto, sono proprio questi elementari gesti e nel semplice “stare davanti all’altro”, che ci fanno crescere sul piano esistenziale e ci aprono ad una dimensione che va ben oltre a ciò che immediatamente percepiamo come realtà. Forse il senso più profondo di questo nostro viaggiare insieme sta proprio qui, in questa apertura del cuore. Forse.                  
[Villa D’Almè: 23 luglio 2018]

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UNA SETTIMANA A NEW YORK
di Jacopo Gardella

Veduta di New York

Tornato da un breve soggiorno a New York mi sento fare la ormai scontata domanda: che cosa ti è piaciuto di più di quella unica e particolare città?
Rispondo che è una città che presenta luci ed ombre: luci se si pensa a come è abitata; ombre se si guarda a come è costruita. Affascinante e quasi inebriante è il modo di vivere; deludente e quasi irritante è il modo di costruire. New York è una città vivace, intensa, frenetica, ricca di opportunità e di risorse; ma stancante. Una città per giovani, non per persone anziane; un posto adatto a chi è in ascesa, non per chi è in pensione. La folla nelle strade, gli acquirenti nei negozi, il pubblico nei luoghi di divertimento e di spettacolo sono attivi e presenti, e agiscono senza interruzione, senza sosta, senza tregua, dando una sensazione di attività instancabile. Il traffico nelle strade è continuo, spesso caotico, continuamente arrestato da ingorghi e da lunghe attese ai semafori e negli incroci principali; ciò è indice di una vitalità ininterrotta, di una operosità incessante, ma è anche segno che una città imponente ed autorevole come è la capitale economica e finanziaria dell’America non sa risolvere il problema del traffico in modo razionale: diminuendo, per esempio, le vetture private ed aumentando i mezzi di trasporto pubblici sia in superficie che in sottosuolo.
Occorre perciò riconoscere che oltre alle luci, al di là degli aspetti luminosi ed insieme al lato brillante della città, esistono anche le ombre, i risvolti oscuri, il volto triste e squallido, e tutto ciò appare nello spettacolo della edilizia più recente: la città costruita negli ultimi anni è lussuosa ma non elegante, opulenta ma banale, spettacolare ma sciatta e scadente; gli edifici più recenti sono privi di ogni qualità estetica; le ultime architetture sono brutte, dozzinali, ordinarie. Il volto nuovo della città non è degno della sua fama; e neppure è paragonabile al passato della sua storia edilizia; un passato che vanta capolavori come l’Empire State Building, il grattacielo che per anni è stato il più alto del mondo; oppure come il Chrisler Building, il grattacielo dalla sommità più bizzarra e fantasiosa di ogni altro modello analogo; oppure come il Rockfeller Center, il nucleo urbano fra i meglio studiati e più accoglienti della intera città.

Empire State Building

L’ultimo sviluppo edilizio della città sembra dominato da due fattori impellenti ed incalzanti: la massima fretta e il minimo gusto. Costruire, costruire, costruire; non importa come e con quale risultato finale, purché si proceda velocemente. Enormi casermoni, massicci volumi, colossali blocchi edilizi si alternano a stravaganti grattacieli dalle forme più inaspettate e sorprendenti. Grossi edifici per appartamenti, all’interno dei quali ci si sente schiacciati come dentro ad un alveare, si susseguono e si alternano a vertiginose torri per uffici, proiettate verso l’alto, in una gara esasperata di chi vuole essere ogni volta il più elevato.
E’ questo il triste esempio della nuova moda architettonica che da New York si è ormai diffusa in tutto il mondo ed è dilagata con maggiore virulenza nei paesi che una volta erano considerati sottosviluppati nei continenti che appartenevano al terzo mondo.
E’ sufficiente esaminare un solo campione di questa vuota architettura per comprendere la qualità scadente di tutte le altre: il Nuovo Museo innalzato recentemente nel quartiere di Bowery.
L’edificio del Museo Nuovo (New Museum) progettato dallo studio giapponese SAANA è un gioco di equilibri acrobatici ed inquietanti. Ogni piano è un cubo di cemento che esce a sbalzo di qualche metro rispetto al piano (o meglio al cubo) che gli sta sotto: gli sbalzi che sporgono ora su un lato e ora su un altro, ora in avanti ed ora indietro, danno la impressione di una torre che sia sul punto di disfarsi e di crollare. Lo scopo a cui tende il progettista è soltanto quello di sbalordire, di lasciare esterrefatti, di sorprendere. La funzionalità e la buona utilizzazione dell’edificio sono pesantemente ridotte perché la parte centrale di ogni piano è occupata da un voluminoso nucleo rigido di cemento reso necessario per contrastare il ribaltamento dei successivi sbalzi che essendo tutti dissimmetrici non si controbilanciano reciprocamente. Il risultato è riprovevole perché la superficie libera per la esposizione delle opere è alquanto ridotta e non proporzionata né al volume considerevole né al costo altissimo dell’edificio.
Eppure queste vuote ed insulse architetture sorte negli ultimi anni a New York hanno contagiato molti paesi, e tra i paesi va inclusa anche l’Italia, ed hanno ormai rinunciato ai requisiti di razionalità, di misura, di armonia che distinguevano l’architettura del passato. Sono edifici che denotano una preoccupante perdita di gusto e di buon senso; e vogliono essere una vera e propria sfida alla correttezza ed alla saggezza costruttiva, accontentandosi di essere  pure e semplici esercitazioni di acrobazia statica e di stravaganza compositiva.

New Trade Center

Forse la frenesia che invade la popolazione cittadina è anche la conseguenza di una architettura così poco cordiale, poco accogliente, poco umana. Gli spazi esterni realizzati di recente sono scostanti, inospitali, respingenti. Il più infelice di questi spazi è il celebratissimo World Trade Center (Centro del commercio mondiale) ultimato da pochissimo tempo sul luogo in cui è avvenuta la tragedia delle torri gemelle crollate in seguito al micidiale attentato dell’anno 2001. Un luogo di tragedia, che avrebbe dovuto essere votato al raccoglimento e pensato per suscitare un ricordo doloroso e per favorire un momento di riflessione. E’ diventato invece un punto di transito intenso ed affannato, uno spazio incapace di offrire una atmosfera di serietà ed invitare ad un momento di silenzio e di meditazione; una specie di luna park dove due enormi gelide e nude vasche quadrate di cemento, piene d’acqua, ricordano non tanto – come dovrebbero – il vuoto creato nel terreno dal crollo dei due grattacieli, quanto il bacino industriale di una centrale idroelettrica oppure le vasche per anfibi di un giardino zoologico. Completa questa atmosfera così poco sacra, così stridentemente profana, la nuova stazione della linea metropolitana progettata dell’ing. Calatrava e simile ad un mostruoso uccello preistorico pronto ad agitare le ali come se stesse per alzarsi in volo ma con il rischio di andare a sbattere contro il vicino grattacielo.
Per conferire ad un luogo così denso di emozioni l’atmosfera grave e solenne che dovrebbe meritare bisognava isolarlo e difenderlo dalla agitazione rumorosa della folla e separarlo dall’intenso traffico circostante. Il terreno occupato dai due grattacieli crollati doveva essere recintato e chiuso da una quadriportico continuo sulla cui faccia interna esporre i nomi delle più di duemila persone morte per colpa dei terroristi. Con un solo sguardo e senza ulteriori aggiunte si sarebbe avuta una visione contemporanea dell’intero numero delle vittime e si sarebbe percepita la immensa dimensione della tragedia.
I mediocri e poco sensibili progettisti del World Trade Center hanno commesso un errore imperdonabile; hanno avuto la insensata idea di scrivere i nomi delle vittime sulle facce esterne dei due parapetti che delimitano le due vasche quadrate e così facendo hanno suddiviso e scritto la intera serie dei nomi su otto pareti distinte rendendoli impossibili da guardare e da leggere contemporaneamente; ed hanno inevitabilmente impedito una percezione completa ed unitaria dell’impressionante quantità di persone morte.


High Line

Celebrata, osannata, elogiata come straordinario esempio di percorso ricreativo immerso nel verde è la “High-Line”, la strada alta, ossia la linea ferroviaria sopraelevata lungo il fiume Hudson. Oggi essa, non più in uso, è stata trasformata in una lunga passeggiata botanica sulla quale tuttavia il verde è scarso e malamente distribuito, mentre purtroppo sono molti i punti panoramici poco attraenti e ben visibili dalla alta quota su cui la passeggiata si snoda: tetti malconci di vecchie catapecchie, terrazzi polverosi di povere abitazioni, disordinate antenne di impianti televisivi, arrugginiti depositi di acqua potabile, enormi cassoni di climatizzatori domestici; queste sono le tristi vedute sugli immediati dintorni urbani squallidi e desolati. I progettisti evidentemente non hanno studiato l’Architettura dei Giardini e la loro Storia; ed ignorano l'esistenza del giardino all’italiana. Se la passeggiata, ad imitazione dei viali tracciati con perfezione geometrica nei giardini rinascimentali, fosse stata chiusa entro due alte siepi di verde si sarebbe impedita la vista  sui desolati dintorni e si sarebbe creato un viale perfettamente delimitato lungo i due lati da schermi di verde, un corridoio incorniciato tra due fitte barriere di cespugli, una strada interamente tracciata in mezzo alla vegetazione. Soltanto di tanto in tanto, là dove il panorama lo suggeriva, le siepi di verde sarebbero state interrotte e avrebbero consentito una veduta o sul fiume Hudson o su qualche significativo scorcio urbano.
Peccato avere perso questa unica e rara occasione di intervento sul paesaggio; peccato avere trasformato il lungo itinerario sopraelevato in una banale successione di aiuole, di praticelli, di piccoli e smilzi alberelli più adatti al giardino di una villetta che non a quella che avrebbe potuto essere (ma non lo è stata) una suggestiva passeggiata urbana, un tunnel di verde a cielo aperto, un viale continuo chiuso fra due barriere di fitta vegetazione.

Nuovo Museo Whitney

Le considerazioni sulla “High-Line” (la strada alta) inducono a fare una critica alla recentissima nuova sede del Museo Whitney progettata da Renzo Piano. Il museo è adiacente al termine della passeggiata sopraelevata; la sua posizione avrebbe offerto una brillante combinazione ed una perfetta integrazione tra edificio e percorso verde: quale conclusione più nobile e più dignitosa per quello stesso percorso di quanto non sarebbe stato l'ingresso principale al nuovo Museo? E quale viale di accesso al nuovo museo più autorevole e più maestoso di quanto non sarebbe risultato il lungo percorso alberato? Si sarebbe arrivati al Museo percorrendo un sontuoso cammino nel verde come una volta si arrivava alle ville nobiliari percorrendo un lungo viale di alberi secolari.
La felice ed unica occasione è stata miseramente sprecata. L’ingresso principale al Museo Whitney è stato aperto su una malinconica via secondaria, in una zona di desolata periferia dove vecchie e malconce case fanno da stridente contrasto con la facciata del Museo luccicante di alluminio e di vetro. Sarebbe questa la grande capacità progettale di un nostro architetto di fama internazionale?

Chrisler Building

La palese incapacità che dimostrano gli architetti contemporanei nel progettare spazi pubblici ed ambienti all’aria aperta delude ed amareggia se paragonata alla attenzione ed alla sagacia con cui gli urbanisti del passato disegnavano le diverse parti della città.
La accogliente, dignitosa ed allegra Washington Square (Piazza aperta in onore di George Washington) è collocata alla fine meridionale della Fifth Avenue (la Quinta Strada): così la strada più importante di tutta New York si conclude con uno spazio dignitoso e grandioso; una conclusione resa ancora più monumentale dalla presenza dell’Arco eretto in onore del Primo Presidente degli Stati Uniti.
Nelle realizzazioni del passato i diversi elementi urbanistici trovano una ben calcolata corrispondenza, ottengono un reciproco arricchimento, si articolano in una logica successione di spazi e di percorsi.
Se la progettazione di Washington Square risale alla fine del XVIII secolo l’intervento del Rockfeller Center (il centro Rockfeller) è stato realizzato all’inizio del XX secolo. Entrambi sono ottimi esempi di progettazione urbanistica. Il notissimo grattacielo del Centro Rockfeller è preceduto da una piccola e raccolta piazza ben definita in tutti i suoi quattro lati ed animata tutto l’anno da vivaci ed esperti pattinatori: la piazza a sua volta si apre su di una tranquilla via pedonale ben delimitata lungo entrambi i lati da due file di edifici simili; infine la via pedonale termina e sbocca sulla Fifth Avenue, la più nota arteria della città. Agli angoli in cui questa via pedonale si immette nella arteria principale due blocchi edilizi simmetrici e contrapposti segnalano a chi percorre la Avenue la presenza del Centro ed indicano l'inizio del percorso pedonale che conduce alla piazzetta più interna e raggiunge l'imponente ingresso dell'altissimo grattacielo. I due blocchi edilizi sono simili a due robusti bastioni posti ai lati della porta di una antica cittadella. Il Rockfeller Center infatti può considerarsi il centro di una moderna cittadella e per questo è stato chiamato Center (centro) con termine più che appropriato. Anche in questo caso, come nella Washington Square, vi è una successione pensata e attentamente calcolata di ambienti urbani strettamente collegati e tra loro complementari. Tutti gli spazi urbani hanno una reciproca corrispondenza progettata con attenzione; presentano tra di loro una successione logica e funzionale; posseggono la facoltà di esaltarsi e di potenziarsi l’un l’altro e di far risaltare i diversi edifici da cui sono circondati.
New Museun  of Contemporary Art

In contrasto con i due esempi urbani citati sopra la povertà degli edifici moderni risalta tra l’altro anche dalla mancata attenzione data oggi a tre precisi dettagli costruttivi considerati cruciali in ogni buon edificio; l’architetto Ernesto N. Rogers li faceva notare ai suoi allievi e ne metteva in evidenza la determinante importanza architettonica. Il basamento, ossia il contatto tra edificio e terreno; la copertura, ossia il contatto fra edificio e cielo; lo spigolo ossia il contatto fra una facciata dell'edificio e la facciata adiacente; i tre dettagli elencati qui sopra sono tutti parti di un edificio che ogni buon architetto è consapevole di non poter trascurare. Nelle costruzioni antiche questi tre importanti dettagli erano messi in risalto e trattati con particolare enfasi; nelle costruzioni moderne gli stessi dettagli sono considerati di nessuna importanza e sono trattati senza attenzione e senza cura. Basamento, cornice, spigoli sono diventati parti dell’edificio prive di importanza non più messe in evidenza ma trascurate e lasciate prive di qualsiasi qualità architettonica. Finita ogni gerarchia compositiva, annullata ogni differenziazione fra i vari elementi che compongono l’edificio, spento ogni interesse per il particolare costruttivo, l’architettura moderna, sia americana che cosmopolita, è sprofondata nella insignificante banalità dell’International Style.

Traffico a New York

Una sorpresa negativa della città è l’ingorgo costante del traffico. Non era così in passato quando mi ero trovato qui per l’ultima volta. Adesso il traffico veicolare non è soltanto intenso ed incessante, come non lo ricordavo anni fa, è diventato anche lento e stagnante: ad ogni semaforo, ad ogni incrocio, ad ogni strettoia si formano lunghe ed immobili code, si creano confusi ed inestricabili grovigli di autovetture. Ne risentono ovviamente anche i mezzi pubblici: autobus e taxi rimangono anche loro imbottigliati dentro all’ingorgo del traffico e proseguono a passo d’uomo. Nei tempi passati bastava sporgersi dal bordo del marciapiede ed agitare una mano e subito uno dei molti taxi di passaggio si fermava e caricava chi lo aveva chiamato. Oggi i taxi passano velocemente davanti a chi li richiede ma proseguono senza fermarsi, o perché sono già occupati oppure perché sono diretti verso destinazioni lontane, quando non sono anche loro chiusi nella morsa inesorabile dei continui ingorghi. Per percorrere tratti di strada anche non molto lunghi occorre calcolare più del doppio del tempo impiegato in passato. Gli spostamenti sono diventati lenti, problematici, non affidabili. Occorre muoversi in grande anticipo; prevedere una lunga durata delle corse che conducono da un punto all’altro della città.


Whashigton Square

Perché questo innegabile peggioramento? Come mai una città moderna come la capitale finanziaria dell’America non riesce ad organizzare un servizio di trasporti cittadini sicuro ed efficiente? La risposta non è difficile. In una economia interamente basata sul libero mercato, sulla iniziativa privata, sullo scarso e malvisto intervento  della Autorità Pubblica, è inevitabile che si creino delle disfunzioni, dei gravi scompensi, delle pesanti inefficienze. Quando il servizio pubblico è ridotto e tenuto volutamente scarso il trasporto privato prende necessariamente il sopravvento. L’automobile personale diventa il solo mezzo di trasporto attendibile e sicuro. E’ successo tuttavia un fenomeno non previsto, un fatto non calcolato con sufficiente lungimiranza: si sono moltiplicati i veicoli privati; è aumentato il numero di persone che usano la propria auto in città; è cresciuta la quantità complessiva di spostamenti. Le strade cittadine sono diventate insufficienti ad accogliere l’ingigantito flusso di veicoli. Oggi questo flusso è già entrato in crisi, domani diventerà insostenibile. Come tutte le grandi metropoli anche New York dovrà adattarsi a potenziare il trasporto pubblico; e a contenere, ridurre, dimezzare il mezzo privato. Lo sfrenato ed incontrollato liberismo porta al caos ed alla paralisi; e punisce proprio coloro che lo sostengono fanaticamente. L’America, capitale della libertà economica e della libera iniziativa privata, langue e si paralizza per eccesso di un incontrollato individualismo e per difetto di un sano e dosato dirigismo di iniziativa pubblica.

Taxi nel caos di New York

Voglio terminare queste impressioni di viaggio con una nota positiva; anzi con due avvenimenti incoraggianti e stimolanti: l’asta di oggetti d’arte organizzata dalla Fondazione Rockfeller e la festa campestre nella fattoria biologica sempre di proprietà della stessa Fondazione.
L’asta è stata un esempio di perfetta ed efficiente organizzazione logistica; il personale di guardia in elegante divisa agiva con la educazione e la gentilezza propria di un ospitale padrone di casa; il servizio di informazioni dava la propria assistenza con premura e cortesia; la disposizione dell’immensa raccolta di oggetti esposti e messi in vendita seguiva un ordine chiaro, comprensibile, facilmente individuabile.
Comparivano mobili, ceramiche, dipinti, gioielli, soprammobili; tutti pezzi di grande valore artistico e di elevato pregio economico.
La quantità e qualità degli oggetti, esposti con precisione e grande attenzione, offrivano uno spettacolo di lusso, a volte di sfarzo, sempre di grande gusto. Ricompariva l'America del periodo d’oro coincidente con la rapida crescita avvenuta fra le due guerre mondiali; una America di grandi fortune e di enormi ricchezze spesso amministrate con intelligenza e con sincera passione per la cultura. Una America oggi scomparsa e non più apprezzata né rimpianta come invece ancora meriterebbe. Vittima anch’essa di un’epoca frenetica e congestionata che ha perso l’interesse per il passato, ha dimenticato il valore dei ricordi, ha cancellato l’amore per la Storia.


Rockefeller Center

A visita ultimata, con gli occhi ancora abbagliati dalla ricchezza dei beni esposti, sorge una domanda: perché mettere all'asta tutta questa straordinaria raccolta? Perché condannare ad essere diviso e smembrato un patrimonio così' unico, un bene così prezioso raccolto con fatica da persone colte ed intelligenti? Perché dissolvere ed annullare la magnifica fatica affrontata con pazienza, con coraggio e con sacrifici dalla famiglia Rockefeller?
Lo scopo della vendita è nobile ed elevato: raccogliere una consistente cifra da destinare ad opere di beneficienza o ad attività produttive indirizzate a scopi didattici e culturali. Tuttavia il contributo finanziario da devolvere ad iniziative assistenziali ed educative avrebbe potuto essere ricavato in altro modo e con altre procedure: creando ad esempio un museo (e sarebbe stato un museo straordinario!) e raccogliendo gli introiti derivati dalla vendita dei biglietti e dal prestito delle opere richieste da altri musei per mostre temporanee. E’ probabile che questa procedura non avrebbe ottenuto la medesima ed enorme disponibilità finanziaria che verrà sicuramente assicurare da una vendita all'asta ma avrebbe avuto il vantaggio culturale di salvaguardare un bene artistico unico ed inimitabile; e avrebbe avuto il merito di mettere a disposizione di studiosi, di ricercatori, di amanti della Storia e della opere d'Arte una fonte di studio che si presenta riunita, catalogata, ed ordinata; e costituisce un patrimonio di ricchezza eccezionale.

La statua della Libertà

La festa campestre è stata uno spettacolo altrettanto affascinante ma del tutto opposto a quello dell’Asta. Entrambe manifestazioni promosse dalla benemerita Fondazione Rockefeller ma l’una di grande impronta aristocratica, l’altra di vivace tono popolare.
La festa campestre era stata organizzata dalla Azienda Agricola della Fondazione: una vasta tenuta di produzione agricola e di allevamento ovino improntata alla massima attenzione per la natura ed al massimo rispetto per la crescita di prodotti agricoli coltivati e fatti maturare senza additivi chimici perché mantenuti in condizioni rigorosamente naturali. La festa era aperta a famiglie americane provenienti da dintorni più o meno immediati e da città poste a breve distanza: famiglie di giovani coppie con bambini piccoli; scolaresche giocose ed allegre; gruppi di amici in grande confidenza e visibilmente affiatati. Si era di fronte ad uno spaccato significativo di una America minore, serena e distesa; di una società medio-borghese, semplice e sana; di una popolazione dai modi gentili e corretti che per la maggior parte vive nelle province limitrofe.
Nella ben conservata sede della fattoria, costruita in stile inglese ad imitazione di un falso ma dignitoso gusto neo-medioevale, si svolgeva un allegro banchetto all’aperto, funzionante ad orario continuo; si compravano cibi preparati su cucine da campo; si consumavano portate su piatti di carta stando seduti a rustici tavoli di legno. Il punto culminante della festa si è avuto quando l’improvvisa irruzione di una banda musicale ha elettrizzato tutti i presenti e scatenato l’entusiasmo dei numerosi e vivaci bambini. Una banda, apparentemente improvvisata ma in realtà esperta ed abile, la quale ha iniziato una musica vivacissima, ritmata, stimolante che presto ha contaminato tutti i presenti ed ha trasmesso ai più giovani il desiderio di battere il tempo e di muoversi a ritmo cadenzato. Accompagnavano i suonatori tre giovanissime danzatrici vestite con comici costumi folkloristici o militari ed impegnate in una danza sfrenata, scatenata, incontrollata, quasi da ragazze invasate. Le tre bravissime ballerine si divincolavano, ruotavano su se stesse, si proiettavano in avanti ed indietro con grande abilità mimica e trasmettevano una gioiosa eccitazione a quanti le vedevano. Grazie a questa generosa e gratuita esibizione l’America ha mostrato un volto sereno e dinamico, vivace e sano; un volto che lascia sperare in un paese così ricco di contrasti e pieno di sorprese.

Veduta newyorkese

Giunto al termine del resoconto di questo bel viaggio ripeto la stessa risposta data alla domanda iniziale: cosa mi è piaciuto di più dell’America? Rispondo che mi sono piaciute le luci ma che mi hanno sconcertato le ombre. Mi hanno affascinato molte testimonianze del passato me mi hanno deluse alcune manifestazioni realizzate di recente. Tutto ciò tuttavia non deve indurre a conclusioni pessimiste. 
Chi rimpiange il passato non è un vecchio nostalgico rimasto arretrato e ormai superato dai tempi; al contrario chi ha nostalgia della tradizione è un osservatore attento e partecipe del mondo presente ed è capace di giudicare la Storia con occhio consapevole e cosciente. È un lucido testimone della generale decadenza che dilaga nel nostro tempo, ma è anche il fiducioso sostenitore di un avvenire ricco di promesse.
“Elogiare il passato non significa condannare il presente, ma soltanto aiutare quest’ultimo a riacquistare la qualità dei tempi antichi. Fare una seria critica significa avviare una sana bonifica”.


 COMMENTO ALLE FOTOGRAFIE

EMPIRE STATE BUILDING (anno 1930-1931)
L’articolazione dei corpi che compongono il volume del grattacielo ed il loro progressive degradare verso l’alto che si conclude con una altissima antenna rendono questo edificio un esempio ammirevole dei composizione architettonica.

CHRISLER BUINDING (anno 1928-1930)
La sommità di questo grattacielo è una esplosione di fantasia decorativa; un esempio di come si deve valorizzare la cuspide conclusiva delle costruzioni quando sono visibili da lontano.

ROCKFELLER CENTER (anno 1930-1939)
Veduta del Centro Rockfeller visto dalla Quinta Strada (5th Avenue): due corpi uguali e simmetrici allineati lungo la importante arteria cittadina inquadrano il percorso pedonale diretto alla piazza che si apre davanti all’ingresso dell’altissimo grattacielo. 
Il Centro Rockfeller è un vero e proprio complesso urbano, articolato in più spazi pubblici connessi tra loro e disposti secondo un disegno attentamente studiato.

WASHINGTON SQUARE (anno 1971)
La piazza è interamente circondata da eleganti e sobri edifici alti 5 piani fuori terra; costruiti in mattoni secondo lo stile architettonico georgiano essi si ripetono a ritmo costante lungo il perimetro della piazza. Nel centro della piazza è scavata una vasca d’acqua circolare; in asse con la vasca si eleva un arco commemorativo eretto in onore del Primo Presidente degli Stati Uniti; in asse con l’arco e alle sue spalle inizia la lunghissima 5th Avenue (quinta strada).
Gli spazi urbani sono progettati con attenzione e collegati gli uni agli altri in modo organico e razionale.

NEW TRADE CENTER 
(Nuovo Centro Commerciale) (anno 2016), ing. Santiago Calatrava
Il Nuovo Centro dovrebbe ricordare la tragedia dei due grattacieli colpiti e crollati a causa di uno spettacolare ed efferato attentato terroristico. In realtà nel nuovo centro non vi è nulla né di solenne né di raccolto né di austero: niente che aiuti a ricordare la sciagura. La nuova spettacolare stazione della linea ferroviaria sotterranea, progettata dall’ing. Santiago Calatrava, ha la forma di un enorme volatile che sta per sollevarsi da terra. L’invadenza profana dell’edificio dimostra la incapacità del progettista di comprendere la solennità del luogo e di rispettarne la atmosfera che dovrebbe essere di meditazione e di raccoglimento.

NUOVO MUSEO WHITNEY (anno 2015), arch. Renzo Piano
Il Museo si presenta eccessivamente articolato e complesso senza una logica successione dei vari corpi che sono accostati male e poco correlati. L’ingresso principale al Museo si apre su di una strada secondaria di periferia e risulta difficile da trovare: grave errore di progettazione urbanistica!

HIGH-LINE (passeggiata chiamata "linea alta") (anno 2009-2014)
La passeggiata High-line, molto elogiata ma anche molto criticabile, è stata realizzata sul tracciato della abolita ferrovia sopraelevata che corre lungo il lato ovest di Manhattan. La vista che dalla altezza della passeggiata si apre sui dintorni è squallida e desolante: coperture disordinate e sporche, terrazzi deserti ed abbandonati, facciate scrostate di modesti edifici popolari. Possibile che i giardinieri-progettisti del percorso non abbiano pensato di nascondere le vedute mortificanti elevando fitte barriere di alti cespugli?

NEW MUSEUM OF CONTEMPORARY ART (Nuovo Museo) (anno 2007), studio di architettura SAANA  
Il Nuovo Museo è stato eretto nel popolare quartiere della Bowery allo scopo di risanarlo e renderne più civile la vita degli abitanti. L’edificio è una gratuita e costosa acrobazia di volumi disassati. La stravagante composizione ha avuto grande successo presso il pubblico ma resta priva di qualsiasi valore culturale.

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TABULA RASA (alla Arvo Pårt)
di Christian Eccher


Reportage geopoetico dal Kirghizistan

All’Ippopotamo
Ludus

Aynagulj cammina a passi veloci sul marciapiede del Boulevard Chui, l’arteria principale di Bishkek – la capitale del Kirghizistan – che attraversa la città da ovest verso est. Dal centro commerciale ZUM all’agenzia di stampa russa Sputnik ci sono circa due chilometri. Ainagulj guarda a terra, raramente alza gli occhi scuri e pungenti verso i passanti. Le pupille sono nere, dello stesso colore del piccole nevo che le decora la cornea sinistra e la rende ancor più affascinante. Sette anni fa, lavorava come giornalista per il quotidiano in lingua kirghisa “Zhany Agim”, che nel frattempo è purtroppo fallito. Sin da bambina, Aynagulj sognava di fare politica ed era entrata in Parlamento come portaborse subito la Rivoluzione del 2010, quando il popolo aveva letteralmente cacciato il presidente Kurmanbek Bakyev e il Kirghizistan era diventato il primo paese con un assetto democratico nel Centro-Asia. L’allora presidente della Repubblica, Roza Otunbayeva, aveva garantito una transizione pacifica verso il parlamentarismo e nel 2011, alle prime elezioni presidenziali libere, era arrivato alla carica presidenziale Almazbek Atambayev, del partito democratico, che ha governato fino all’ottobre scorso.


Il 24 novembre ha preso il suo posto il neo-eletto Sooronbai Zheenbekov, da tutti considerato un uomo di Atambayev. Le elezioni si sono svolte in un clima sereno e senza brogli. Un vero successo per la democrazia, almeno a livello formale. La situazione è in realtà molto complessa, e la storia di Aynagulj dimostra che a livello sostanziale la democrazia kirghisa si è svuotata di contenuti. Già da adolescente, Aynagulj era un membro di Ata-Meken, il partito socialista, guidato da Omurbek Tekebayev, coraggioso uomo di opposizione, carismatico e intelligente. Dopo la Rivoluzione del 2010 era stata nominata assistente di Zhoomart Saparbayev, un giovane ventissettenne che era il simbolo della rinata vita politica kirghisa: preparato, deciso, pronto a sacrificarsi per il bene del proprio paese. Dopo 7 anni, Zhoomart non è più in Parlamento perché ha deciso di ritirasi dalla scena pubblica. Tekebayev è dall’aprile scorso in carcere, con l’accusa di aver intascato una tangente da parte di un magnate russo; in realtà, l’imputazione fa acqua da tutte le parti e non è un segreto che Atambayev, l’ex presidente, si sia voluto liberare di uno scomodo uomo d’opposizione, l’unico forse rimasto nel Parlamento.


Anche molti giornalisti sono stati costretti a lasciare il paese o a cambiare mestiere: è il caso di Amalia Benlyan, ex direttrice del più importante quotidiano della capitale, il “Vecernyi Bishkek”, che ha subito diverse pressioni dai vertici dello Stato e che per questo si è dimessa. Ora è impiegata in una banca come addetta alle pubbliche relazioni. Non rimpiange il giornalismo e non intende più occuparsi di politica e di media. Esattamente come Aynagulj, che se ha deciso di continuare a lavorare come free-lance per l’agenzia russa “Sputnik”, ha comunque preferito lasciare il Parlamento e il partito per ritirarsi a vita privata. “Che delusione la politica. – dice Aynagulj – Sin da bambina sognavo di entrare in Parlamento. Adesso ho una visione diversa della vita. Mi dedico alla famiglia e alle attività che più mi piacciono. Vado spesso a trovare le mie sorelle che lavorano a Dubai. Forse un giorno mi trasferirò anch’io. La gente si aspettava che dopo la rivoluzione del 2010 ci sarebbero stati grossi cambiamenti. 


In realtà non è successo assolutamente nulla, è tutto come prima”. In effetti, il parlamentarismo kirghiso si è perso in giochi politici di coalizione che sembrano aver perso di vista i bisogni reali della gente che vive in condizioni difficili: la paga media a Bishkek si aggira intorno ai 300 euro al mese, ma un giovane, anche laureato, non ne guadagna più di 100. A fare le veci dello Stato sono le famiglie, i cui membri si aiutano a vicenda, soprattutto economicamente. L’istituzione familiare in Kirghizistan è un vero e proprio “Grande Altro”, per usare un termine dello psicanalista Lacan, vale a dire un valore assoluto, che assume una valenza sacra, quasi religiosa. Molto più di una semplice ideologia, come dimostrano le numerose commedie che affollano i cinema di Bishkek: tutte a lieto fine, con coppie che si uniscono in matrimonio e prolificano il più possibile. I giovani si sposano presto, a vent’anni, ancora sentimentalmente immaturi e il tasso di divorzi, almeno a Bishkek, è altissimo. La globalizzazione neoliberista, con la sua Weltanschauung basata sul godimento personale, entra in collisione con le più antiche tradizioni e genera una forte confusione fra coloro che non hanno i mezzi culturali per capire le dinamiche del mondo contemporaneo. La democrazia non sa dare risposte alle contraddizioni del tempo presente e la conseguenza più evidente, e anche  più pericolosa, è l’islamizzazione di una società che fino a 7 anni fa era fra le più laiche dell’Asia Centrale. A Bishkek ci sono molte donne con lo chador;  nel giro di pochissimo tempo le moschee sono cresciute come funghi, fino a cambiare lo skyline della capitale. Il vuoto culturale che la democrazia non è stata in grado di riempire, viene colmato dai missionari sauditi che offrono un approdo sicuro ai giovani che schizofrenicamente vivono spauriti le dinamiche globali e allo stesso tempo guardano alle tradizioni secolari ereditate dai propri avi come all’unico possibile ricetto. Gli imam non lesinano aiuti economici ai più poveri e bisognosi.


Chi non condivide il pessimismo strisciante che si respira a Bishkek è Roza Otunbayeva, l’ex presidente ad interim, molto amata dai kirghizi. Elegante, gentile e decisa, siede in un caffè del centro e parla volentieri della situazione nel suo paese: “La democrazia non si costruisce in sette anni, ci vuole molto più tempo, e ci vuole lo sforzo di tutti. I kirghizi vorrebbero tutto e subito. La rivoluzione del 2010 è stata un punto di partenza, non di arrivo”. Anche la collega e amica di Aynagulj, Saltanat, sostiene che in realtà le cose lentamente migliorano rispetto al passato: “Nei paesi di montagna, soprattutto vicino al lago di Issyk-Kulj, nascono piccole e medie aziende, che si occupano di pastorizia, agricoltura e turismo. Alcune sopravvivono, altre falliscono in breve tempo. Fa nulla. L’importante è che la gente abbia capito che non è più necessario aspettare che lo Stato indichi una direzione da seguire, come ai tempi del Comunismo. Il popolo comincia a capire di avere il destino nelle proprie mani”. Saltanat ha un viso da bambina, uno sguardo attento a cui sembra non sfuggire nulla. Cammina veloce mentre va al lavoro. La sua voce melodiosa non riesce però a coprire i rumori del traffico che attanaglia i boulevard di Bishkek. Colonne di automobili rimangono per ore ferme agli incroci. Le marshrutke, i piccoli furgoncini che fanno concorrenza al servizio pubblico, si infilano in ogni spazio libero pur di guadagnare qualche metro e qualche secondo. Gli incidenti sono un fenomeno quotidiano nella capitale del Kirghizistan. L’aria è irrespirabile e lo smog cancella i contorni delle montagne che cingono a sud la capitale. Alte 5000 metri, scompaiono e si dissolvono nel frastuono assordante delle vie di Bishkek.

Silentium

Aselj ha 28 anni. È sposata da un anno. Con un compagno di scuola, conosciuto alle elementari. In realtà, nella sua vita c’era già da tempo un tedesco, conosciuto durante gli studi universitari di laurea specialistica a Erfurt, in Turingia, molto tempo prima. Esattamente 7 anni fa, ai tempi della Rivoluzione kirghisa. Aselj, che è ingegnere, non ha avuto la forza di opporsi alle decisioni dei genitori, che di stranieri non ne hanno voluto sapere e hanno scelto per lei un ragazzo del paese, un musulmano. Di Rotfront, esattamente come loro, una località fondata – ironia del destino – dai tedeschi del Volga subito dopo la Seconda guerra mondiale, quando Stalin, in preda a chissà quale delle sue mille paranoie, diede l’ordine di trasferire intere etnie dalla Russia europea all’Asia centrale. Rotfront è un villaggio di frontiera, affossato nella pianura che guarda al Kazakistan e che si trasforma in steppa a pochi chilometri dal confine. Aselj ha accettato la decisione dei genitori come si trattasse del Destino (Era, sai, la speranza e promessa, quella; ma l’ape da’ suoi bugni uscita, pasceva già l’illusione)


Nonostante il lungo periodo trascorso all’estero, ha annullato la propria personalità, si è affidata ciecamente ai valori assoluti che regolano la vita delle piccole comunità kirghise e che sono minate dalla spersonalizzazione portata dalla mondializzazione, che non è sempre un male da esacrare e condannare. Il problema è insito nelle dinamiche contraddittorie che il neoliberismo associato alla globalizzazione nasconde in sé: spazza via le antiche strutture sociali e lascia il vuoto di un’ideologia basata esclusivamente su un falso piacere. Per questo Aselj è schizofrenica: è in continuo contatto con i suoi amici in Germania tramite il proprio smartphone, guarda i film di Hollywood ma non ha il coraggio di uscire dalla gabbia in cui l’hanno costretta i genitori. Il Kirghizistan non è l’Afghanistan e la donna ha comunque la possibilità di scegliere il proprio uomo e di opporsi alle decisioni della famiglia. Aselj non ce l’ha fatta. Forse è proprio quella gabbia a sembrarle un rifugio dalle insidie di un mondo che la tenta ma che è in qualche modo a lei estraneo. Quell’universo rappresentato dal ragazzo tedesco, che quando sbarcò per la prima volta in Kirghizistan, all’aeroporto di Manas ancora occupato dagli Ercules panciuti dell’aeronautica militare americana pieni di bare d’Afghanistan, sembrava un marziano, con i sandali, gli occhiali e la pella troppo chiara (Non li ricordi più, dunque, i mattini meravigliosi?). Neanche Roza Otunbayeva, incontrata per caso in un caffè della capitale, è riuscita a convincere Aselj a lasciare il paese e a terminare gli studi di ingegneria all’estero. Il Kirghizistan contemporaneo ha più bisogno di gente preparata che non di mogli silenziose e ubbidienti


La sera prima della propria cerimonia nuziale, Aselj ha ricevuto una telefonata. Un conoscente di infanzia, dopo aver saputo per caso del matrimonio imminente, dato che la stessa Aselj non aveva voluto rendere nota la notizia per paura che le amiche la criticassero, le aveva proposto un giro in macchina. Così, tanto per parlare. L’ha aspettata sotto l’appartamento che la famiglia di Aselj ha comprato a Bishkek. Una volta che la ragazza è entrata in auto, lui ha bloccato le portiere ed è partito a tutta velocità verso la periferia della città. Le strade della capitale sono a sera vuote, non c’è traffico (Una nube, una pioggia...; a poco a poco tornò l’inverno; e noi sentimmo, chiusi per lunghi giorni, brontolare il fuoco). L’amico ha imboccato la strada a due corsie che va verso est, verso le montagne del Tien-Shan, e ha guidato senza parlare per lunghe, interminabili ore. I fari hanno bucato la notte della pianura kirghisa, condannata dalla Storia all’assenza di industrie che la illuminino almeno lungo la Strada magistrale. Solo le stelle e i fanali posti lungo il reticolato di ferro che delimita il confine con il Kazakistan regalano agli occhi un labile appiglio, la salvezza dalla paranoia e dal nichilismo. Fino al grande incrocio della pianura: A sinistra si va a Rotfront e poi si può proseguire verso Almaty e Astana, a destra si va verso il lago di Issyk-Kulj. Aselj, contro la propria volontà, è andata a destra, la notte prima del suo matrimonio. 


È un’antica usanza kirghiza quella del rapimento delle ragazze da parte dei loro pretendenti: i genitori hanno 24 ore per andare a riprendere la figlia a casa dell’innamorato, se non lo fanno la fanciulla si deve obbligatoriamente sposare. Il Parlamento ha vietato questa usanza dopo che qualche tempo fa una giovane donna si era impiccata pur di non andare in sposa a un uomo che le faceva ribrezzo e che l’aveva portata via con la forza dal villaggio in cui abitava e dove stava semplicememente passeggiando con le amiche (Sparvero i bianchi e rossi alberi, infusi dentro il nebbione; per il cielo smorto era un assiduo sibilo di fusi). La politica non può però cancellare con un colpo di spugna le abitudini radicate da millenni nella mentalità maschile. La strada per Issyk-Kulj passa attraverso una stretta gola, chiusa ai lati da aride e aguzze montagne, alte fino a 3000 metri. Lì l’automobile si è fermata per fare rifornimento: Aselj è riuscita a scappare, si è precipitata sulla Magistrale e ha fermato una vettura che procedeva in direzione Bishkek; l’autista, un signore anziano, si è impietosito, ha invitato Aselj a salire e la ragazza è tornata finalmente a casa verso 6 del mattino. 


Alle 7 sono arrivati i genitori, l’hanno portata a Rotfront, dove l’hanno vestita, agghindata, come una scimmia allo zoo, per poter poi celebrare il matrimonio. Alla presenza di 400 persone, per lo più sconosciute alla stessa Aselj e a suo marito (Stava senza timore e senza festa, e senza inverni e senza primavere, quella; cui non avrebbe la tempesta tolto che foglie, nate per cadere). Solo a tarda sera, quando il padre e la madre se ne sono andati e hanno lasciato la figlia nella casa dei suoceri, Aselj si è resa conto di essersi sposata per davvero. Il marito l’aspettava nel letto, e in quel preciso momento, la tristezza ha invaso il suo animo e il suo corpo (dove le branche pari a filigrane? Tutti petali a terra. E su l’aurora noi calpestammo le memorie vane ognuna con la sua lagrima ancora)...


C’è una foto, un selfie, che ritrae Aselj con i capelli corti; una pettinatura moderna, con la frangia obliqua, irregolare, quasi a coprire l’occhio destro. Lo sguardo pieno di odio e di disprezzo. È stato questo l’unico atto di ribellione nella vita di Aselj: cambiare pettinatura subito dopo il proprio matrimonio. Già dopo pochi giorni ha però deciso di accettare il suo destino. Adesso lavora in una banca e durante il fine settimana va dai suoceri a servire: cucina, lava, stira. Fa quello che una brava moglie deve fare. La domenica pomeriggio apparecchia la tavola per il pranzo, mentre la TV trasmette le immagini di New York, di Trump che stringe la mano a Putin, di una surreale e poco credibile Pyongyang che lancia missili come comete a solcare i cieli del mar del Giappone.


Il lago di Issyk-Kulj cambia colore più volte al giorno. È grigio, poi azzurro e se soffia il vento dalle montagne, che tanto somiglia alla bora istriana, si colora di blu. È profondo 600 metri. Le spiagge sono deserte, la sabbia è levigata dalle onde chiare e cristalline che si infrangono sulla battigia. Intorno i monti, quelli descritti con estrema maestria da Cingiz Aitmatov nei suoi romanzi. Il lago è deserto, non ci sono turisti in questa stagione. Sulla sponda nord, a metà strada fra Balykchy e Karakol, c’è una città dalle case con il cortile e in mezzo un baldacchino dal tappeto rosso: d’estate, i kirghisi si accomodano sul tappeto e mangiano intorno a un tavolo basso, senza sedie, con la schiena appoggiata al cuscino e le gambe distese. Ci sono gli edifici diroccati delle aziende agricole fallite dopo il crollo dell’URSS e sulla spiaggia lacustre spuntoni di ferro, pontili arrugginiti e vecchie panche che guardano verso il largo. Questa città si chiama Cholpon-Ata. Al mattino, i bambini vanno a scuola disciplinati e composti: i maschietti hanno la giacchetta e spesso la cravatta, le femminucce un fiocco bianco sulla testa a raccogliere i capelli. Anche le figlie di Aigulj, una signora che abita non lontano dalla riva del lago, escono dalla loro casa bassa in cemento armato; imboccano la strada non asfaltata che le separa dal centro urbano e poi percorrono a piedi un pezzo di Magistrale, stando attente alle automobili che sfrecciano in direzione Bishkek. 



La mamma si è tanto raccomandata di non correre e di attraversare solo sulle strisce. Tengono in mano una mela per la merenda, spesso ne comprano un’altra per pochi Som dalla signora che le vende proprio davanti alla scuola, per racimolare qualche soldo dato che la pensione sociale garantita dallo Stato è infima. Vanno verso l’edificio scolastico: si tengono per mano e camminano lentamente. Parlano a bassa voce in russo e in kirghiso, mischiano le due lingue, come spesso avviene in Kirghizistan. Il vento che spira da ovest, arriva dal Caspio e dall’Uzbekistan, e dopo aver spazzato la steppa, le cupole di samarcanda e gli edifici grigi di Tashkent, attraversa la pianura e acquista velocità nella gola che all’improvviso si apre al lago, nasconde e copre le loro parole, le intreccia, le confonde e le porta lontano lontano, verso la Cina, la Corea del Nord, fino in Giappone e poi sugli Stati Uniti, intorno intorno al mondo, in un infinito girotondo (E piovve e piovve. Il sole (onde mai sorto?) brillò di nuovo al suon delle campane; tutto era verde, verde era quell’orto).

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I corpi nascosti dei giapponesi
di Claudio Zanini

Questo articolo segue e conclude le mie “Impressioni giapponesi” 
scritte e pubblicate su ODISSEA circa un mese fa in questa rubrica.  


 Ammirando le eleganti attrici del Nō, le hostess degli ostelli riokan, oppure le commesse seriali dei grandi magazzini, mi vagava per la mente il pensiero di quanto i loro corpi, avvolti da raffinati kimono o abbigliati in impeccabili divise, possano suscitare l’impressione di involucri che proteggano dall’esterno; mentre, dell’interno non lascino filtrare che esigui segnali codificati (come l’ideogramma, una scrittura non personale, oggettiva).
Estrapolando, immagino dei corpi nudi, indifesi nonostante il machismo di certi atteggiamenti virili. Corpi glabri e quasi diafani, rivestiti dall’ombra pudica di cui scrive Tanizaki; il quale, tra l’altro, parla del corpo d’una donna tradizionale come una gruccia che sostiene l’abito, lo scheletro sottile della marionetta del teatro bunraku. Oggi la realtà è senz’altro diversa ma, al fondo rimane, nel viaggiatore tale sensazione.
Notavo, più sopra, come la spoglia esterna rivesta grande importanza, citando la sontuosa confezione dei pacchetti dono o la forma dello haiku. Infatti, il costume, il trucco, l’atteggiamento formalizzato (in cui sono trattenuti impulsi e sentimenti), esprimono, con cortesia ed estremo ritegno: la forma, l’ideogramma comune a tutti. Meglio una condivisione collettiva e condivisa, poiché l’intimità dev’essere custodita inviolata. Un’intimità fragile da proteggere. Essa è come il vuoto dei templi; nello spazio centrale del “sacro” racchiuso nella penombra di pareti sottili, ma invalicabili. Uno spazio vibrante nella costante attesa (mai esaudita) d’essere riempito.


Torniamo, come per chiudere un cerchio, ai templi. Rivedo, nella memoria, i gesti minimi all’interno d’essi. Quasi i due vuoti (quello centrale dell’edificio e quello intimo del fedele) avessero una corrispondenza effimera e misteriosa. Risento, nella recita corale dei sutra, come il significato si vada via via dileguando nella ripetizione, per far posto a un vuoto colmo di segrete e inesprimibili risonanze. Quel vuoto mentale che si raggiunge nell’assorta meditazione, in cui è sospesa ogni attività dei sensi. Stato in cui si può conseguire l’esperienza di liberarsi dall’Io ed essere all’unisono col mondo, oppure un assoluto (assurdo e inumano, direi) annullamento del sé. Annullamento, si badi bene, non in senso figurato, poiché, con raccapriccio, ho saputo che sono esistiti in Giappone dei monaci asceti che si facevano seppellire vivi, in postura meditativa, entro una sorta di bara ricoperta di terra da cui affiorava una canna di bambù che assicurava una minima areazione. Fino al sopraggiungere della morte. Si attendevano mille giorni, quindi si riesumava il corpo e, se questo si fosse mummificato, lo si esibiva alla pubblica devozione. Tale pratica fu definitivamente vietata dal governo Meiji nel 1879. 


Questo concetto di vuoto, o meglio, quest’esperienza, dunque, che costantemente si ripresenta nel mondo giapponese, mi richiama alla memoria il nostro atteggiamento nei confronti del sacro e del rapporto del corpo con esso. Noi, rispetto ai giapponesi, abbiamo con il trascendente un coinvolgimento corporeo diretto, spesso passionale, in cui dolore e gioia, si esprimono nei riti e nelle pratiche sostanziate da tali sentimenti. La ritualità in Giappone è astratta, come depurata dal sentimentalismo che spesso rende grottesche certe nostre manifestazioni. 
Il corpo, i gesti, la maschera, il costume hanno un preciso significato nel codice, sono segni (tuttavia, non dimentichiamo che il segno rivela spesso ciò che vuole dissimulare, malgrado l’astrazione); come accade nella cerimonia del tè, esplicito esempio di formalizzazione.
 Il corpo ha un peso ineludibile nella nostra esperienza religiosa, nonostante (oppure grazie a esso) il dualismo nei confronti dell’anima, lascito della tradizione. Basta pensare ai tormenti -spesso sadicamente descritti- dei santi martiri di cui la “bestia” corporale è vittima. Oppure alla continua lotta che il cattolicesimo ha ingaggiato nei confronti del corpo, mortificandolo, arginando i suoi impulsi, censurando i suoi desideri, negandolo ma avendolo sempre e ineludibilmente presente. Il corpo è opaco involucro che contiene il pieno dell’anima; carne impura ma anche altare e ricettacolo dello spirito; materia corrotta e contingente ma vivificata da un principio d’eterno. La carne negletta trionferà alla fine dei tempi.
In Giappone non c’è la fine dei tempi. La vita, le cose, la natura sono fugaci come l’effimero fiorire dei ciliegi in aprile, celebrato con una grande festa. Tutto trascorre. Oltre c’è il vuoto della cui presenza si ha cognizione e stupefatta attesa, ma di cui tutto si ignora. L’anima si ritrae in tale constatazione, naufraga nell’infinito respiro dell’universo.


Osservando i dipinti giapponesi notavo come, nella rappresentazione tradizionale, i corpi soprattutto femminili siano pallidi, esangui; privi di plasticità e volume (la pesantezza) che l’ombra conferisce alla pittura occidentale (strano che l’ombra, cui Tanizaki dedica il titolo d’un libro, non figuri nell’iconografia giapponese della figura umana). Dicevo che i corpi appaiono come schiacciati sul supporto di carta in cui sono raffigurati. L’abbigliamento sontuoso che li riveste li rende simili a splendidi fiori la cui voluttuosa bellezza dissimula il richiamo sessuale. È qui che si gioca la dimensione erotica, spostandola all’involucro.
Il corpo è anemico, pare non vi scorra il sangue. La sua epidermide depurata d’ogni impurità mostra forme semplificate che si intravedono tra le pieghe della stoffa (si allude forse al vuoto?). Nei dipinti esplicitamente erotici di Kitagawa Utamaro, ciò che l’abbigliamento svela, come oltre un sipario aperto, è invece l’esibizione degli organi sessuali (soprattutto quelli maschili) ritratti con enfasi eccessiva. Su di essi, infatti si deve focalizzare lo sguardo. Loro è l’imperio della scena. Cerco di spiegarmi. I visi (tanto stilizzati quanto i sessi sono minuziosamente particolareggiati), sono privi d’espressione alcuna. Non lasciano trasparire passione né gioia. L’introspezione psicologica è inconcepibile. Gli occhi sono fessure, le bocche s’avvicinano quasi timorose, a labbra chiuse tra cui fa capolino una linguetta rossa ma timida. I sentimenti, dal rapporto amoroso (o meglio dalla sua dimensione sessuale), sono accuratamente espunti. La rappresentazione mostra con dovizia l’apparato scenografico lussuoso, ricco di colore, in cui avviene la brutale (tale, sovente pare, a mio avviso) meccanica dell’atto. Dunque, i moti dell’anima e del cuore non si devono esprimere (sono vaghi e personali, temono un’invasiva messa a nudo), mentre gli impulsi primari (collettivi) e l’implicito dominio maschile, impongono la cruda messa in scena.
Il palcoscenico di tale rappresentazione richiede un breve sguardo sullo spazio nella pittura giapponese. In Occidente, dal Rinascimento in poi, la scoperta e la teorizzazione della prospettiva centrale (in particolare) pone al centro del mondo l’uomo. Suo è l’occhio che osserva e sua la capacità di misurare (quindi possedere) l’intero spazio che guarda. La struttura spaziale della pittura tradizionale giapponese (e orientale) è assonometrica. Vale a dire che le linee di costruzione di cose e oggetti nello spazio sono parallele; non tendono, quindi, verso un punto di fuga che unifica lo spazio e corrisponde all’occhio dell’osservatore. Bensì gli scorrono al fianco situandolo fuori scena. La realtà dell’accadere gli passa accanto senza coinvolgerlo, senza che egli possa misurarla, quindi possederla, sia emotivamente sia fattualmente. La scena dipinta rivela la propria essenza nel gioco astratto e combinatorio delle infinite forme. Nulla d’individuale e psicologico; tutto nella progressiva identificazione dell’universo, nella sua enumerazione, al fine d’aderire all’istante prima che dilegui. Qui, l’uomo è immerso nella natura. Effimera, quest’ultima è pervasa dal vuoto di brume, orizzonti sfumati, luci soffuse in cui l’io si perde e naufraga. Minima particella coinvolta nel divenire del suo vasto respiro, il sé s’annulla; senza poterla modificare. La può, tuttavia, mimare. Ecco, dunque, la ricostruzione di perfetti giardini, l’ossessione fotografica delle comitive turistiche giapponesi nei confronti del reale (in occidente, tutto fotografavano). E, oggi infine, la ricerca frenetica della robotica antropomorfa.  


D’accordo, il vuoto è dominante. Puro e silente. Tuttavia, un fascino segreto traspare dai volti degli attori del teatro Kabuki. Dipinti di bianco, respingono la luce; impenetrabili a essa e agli sguardi dello spettatore, trattengono ogni espressività. Sono come dei fogli bianchi in attesa della scrittura (Barthes). Gli occhi bui, piccoli e allungati e le labbra scarlatte (un tempo le donne si annerivano i denti e usavano un rossetto bluastro e iridescente) rilevano tale candore gessoso dei visi. Le pupille evocano segni quasi impercettibili, il gesto è quello elegante delle mani, delle dita che ruotano ventagli. Irrompe un mimo dall’incarnato naturale, che si muove frenetico come nei film muti d’una volta. Giocando con il suo ombrello, suscita ilarità. Mima la vita, come la buffa figurina d’una stampa di Hokusai.

Vorrei ribadire che questo breve scritto nasce da impressioni e immagini del tutto soggettive suscitate da un viaggio in Giappone. Un breve scritto che non pretende l’esaustività. Il Giappone è un paese infinitamente più ricco e complesso di quanto ha colpito la mia sensibilità e ha sollecitato codeste riflessioni che, tuttavia rimaste nella memoria, mi hanno svelato rilevanti aspetti della sua realtà.


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Impressioni giapponesi
di Claudio Zanini


Lo scrittore giapponese YunichiroTanizaki, in Libro d’ombra, osservava con mesto disappunto (già nel 1933) l’inarrestabile ed eccessivo progresso dell’illuminazione elettrica nelle città giapponesi: sparivano l’intimità e il mistero della penombra, quello spazio segreto in cui forme e oggetti sono evocati dal lume d’una candela. Oggi Tanizaki inorridirebbe percorrendo il quartiere di Giza a Tokyo, rutilante di luci, colori, insegne e schermi abbaglianti.
Anche noi siamo rimasti colpiti dal bombardamento d’immagini e suoni che ben riassume la vita frenetica e pulsante della sconfinata Tokyo: una delle prime e immediate impressioni giapponesi (frettolose e forse superficiali, ma intense) di un breve soggiorno d’appena due settimane. Nel corso d’un viaggio faticosissimo lungo il quale abbiamo preso un centinaio di mezzi: treni, metrò, autobus, battelli; camminato una quindicina di chilometri il giorno, il Giappone si è presentato ai nostri occhi come un paese alieno, percorso da estreme contraddizioni e molto diverso da come l’avevamo immaginato. Meglio non farsi delle idee prima d’intraprendere un viaggio o, come dice un amico, i paesi esotici sarebbe preferibile conoscerli dai libri di fotografia (ben sapendo che trasmettono un immaginario inesistente). Una rapida e caotica modernizzazione, iniziata dalla seconda metà dell’800 con la dinastia Meiji, quindi drammaticamente continuata dopo la tragedia di Hiroshima e Nagasaki (1945) e la conseguente sconfitta militare (traumatico fu l’annuncio della resa senza condizioni da parte dell’imperatore Hirohito (che, nell’occasione, rinunciava alla sua origine divina), causa di molti suicidi), hanno segnato indelebilmente il suo paesaggio e la sua anima, suscitando nel viaggiatore l’impressione che, ancora oggi, costantemente emergano, immedicabili, i segni e le ferite della guerra.


Il Giappone sembra un paese privo di storia; quasi che, senza soluzione di continuità, al medioevo feudale degli shogun sia improvvisamente succeduta, una modernità senz’anima oggi dominata da una potente oligarchia finanziaria. Il vecchio viene sistematicamente distrutto (esemplare la vicenda del famoso Hotel Imperial di F.Loyd Wright a Tokyo che, edificato nel 1922, venne demolito nel 1969 per costruire un nuovo albergo). Questo nuovo (a parte certi quartieri d’architettura contemporanea d’eccellente qualità di Tokyo, di Kyoto e forse altrove) è il prodotto d’una speculazione selvaggia e disumanizzante. Persone come robot, inquadrate, efficienti, sciamanti in un flusso continuo; sui treni e metropolitane dormono o digitano sul cellulare (alto è il numero dei suicidi causati dallo stress del superlavoro: mi sono spesso chiesto se in Giappone esista e si pratichi la psicoanalisi). Tecnologia sopraffina, non c’è una carta in terra, i treni spaccano il secondo; loro sono puliti, gentili ma impenetrabili; nei grandi magazzini, accompagnano il visitatore sorrisi gelidi, cortesi inchini delle commesse simili a tante geishe seriali. Soltanto alcuni giovani chiedono, vogliono sapere, dialogano; ma il Giappone è un paese di vecchi. Vittima d’un inarrestabile spopolamento, ha uno dei più alti tassi di suicidi giovanili. Certo, belli i bambini e i ragazzi che girano con le divise della loro scuola, dalle quali, tuttavia si percepiscono i diversi livelli sociali. La scuola superiore e l’università costano molto, sono rigide e competitive; l’oligarchia deve perpetuare il proprio potere e selezionare un’efficiente e fedele classe dirigente. Siamo in un paese gerarchizzato, di scarsissima mobilità sociale, dove ciascuno deve stare al proprio posto.


Suscitano un fascino strano i templi buddisti e scintoisti, ricostruiti dopo incendi, terremoti, distruzioni belliche, e altri rimessi a nuovo recentemente a seguito d’una concezione transitoria ed effimera della vita e delle cose (come il fugace fiorire dei ciliegi in primavera) oppure quasi s’intendesse rimuovere il passato, cancellarlo con una mano di belletto? (il Kinkaku-ji, il Padiglione d’oro di Kyoto, di cui scrive Yukio Mishima nell’omonimo romanzo, è stato bruciato da un monaco nel 1950 e ricostruito dopo cinque anni. A proposito di Mishima, dopo questo viaggio, nel corso del quale mi sono rimaste inspiegate molte cose, credo tuttavia, d’aver intuito le motivazioni della sua tragica fine. Non volendo sopravvivere alla brutale modernizzazione e alla decadenza dei valori della tradizione, di cui noi oggi vediamo le nefaste conseguenze, nel 1970 a 45 anni, si sottopose pubblicamente al suicidio d’onore (seppuku). Noi, all’epoca, frettolosamente lo tacciammo di nazionalismo fascista.)
Alla bellezza dei templi corrisponde l’infittirsi caotico del tessuto urbano. Sul velocissimo “treno proiettile” Shinkansen, nei 900 chilometri percorsi da Tokyo a Hiroshima in quattro ore, abbiamo visto scorrere ai nostri fianchi una squallida periferia urbana interrotta da esigui campi a risaia. Un susseguirsi di case minime, tristi e precarie o degli enormi condomini anonimi, avulsi da un qualsiasi organizzazione dello spazio urbano, mezzo disabitati, che si mangiano lo spazio l’uno all’altro, come i fitti arbusti delle foreste di bambù. Al fascino astratto e geometrico dei giardini di pietra zen, agli spazi silenziosi dei monasteri isolati, al sacro magicamente evocato da certi santuari (vedi Koyasan, dove siamo stati ospiti) immersi in foreste di sequoie secolari, del tutto estranei, tuttavia, e lontani dal caotico indaffararsi delle persone, si contrappongono le luci fredde delle frenetiche stazioni ferroviarie e metropolitane, il gracchiare ininterrotto degli altoparlanti; luoghi come gli onnipresenti mercatini di cianfrusaglie, oppure come Ginza, il quartiere del lusso di Tokyo, che ha l’aspetto d’un enorme cimitero in cui i mausolei funebri sono gli smisurati palazzi delle grandi case di moda: Gucci, Louis Vuitton, Versace, Paul Smith, Armani, Cartier… in un’estrema celebrazione del consumismo. E poi, in un altro quartiere, entro altrettanti grattacieli, le sedi delle multinazionali dell’elettronica, della tecnologia soft robotics, della ricerca proiettata verso un futuro che mette i brividi.  
Simboli d’una modernità alienante che certo sgomenterebbe Tanizaki, hanno stordito e turbato anche noi contemporanei. Comprendiamo e condividiamo, dunque, la nostalgia di spazi scuri, indefinibili, dove lo sguardo si prolunga nel silenzio dell’ombra e il tempo pare si sia fermato (ombre e luci diffuse, che noi ritroviamo nella massima parte dei centri storici e architetture delle città europee). Forse, oggi in Giappone, quest’ombra satura di mistero si rintraccia ancora, relegata all’interno dei templi e dei monasteri. Tale suggestione di spazi indefinibili, come in assorta attesa di qualcosa che li riempia, richiama il concetto, o meglio, l’esperienza del vuoto.



Provo a chiarire meglio. Il centro dei templi, che avvolge e definisce lo spazio del sacro (sacro è una definizione nostra e impropria che, tuttavia, penso possa rendere l’idea), in realtà è involucro del vuoto. Il vuoto qui non significa, come in Occidente, assenza, bensì esperienza indeterminata ma intensa e potente, in un rimando costante che non si esaurisce perché sfugge alla nostra percezione.
Mi azzardo a dare una spiegazione intuitiva: per noi il vaso è il recipiente, l’interno è vuoto. Qui il vaso è il vuoto che l’involucro avvolge. La forma del vaso senza vuoto non sussisterebbe.
Ho trovato traccia di quest’ombra e di questo vuoto nella foresteria del monastero di Koyasan; sebbene provvisto di tutte le comodità contemporanee, il vuoto delle stanze decorate dalle delicate pitture sulle pareti sottili, l’opalescenza della luce filtrata dalla carta delle finestre, la penombra dei corridoi dove s’aprono vani segreti, suscitano una sottile e strana emozione.
Un’allusione al vuoto, che forse chiarisce con semplicità il concetto (spero non banalizzandolo), si scopre nei pacchetti giapponesi; dove l’incarto, la confezione d’accurata e geometrica raffinatezza prevale sull’oggetto avvolto, anzi “è l’involucro (a essere) consacrato come cosa preziosa, sebbene gratuita; (…) è (quasi) la scatola il vero oggetto del regalo, non già ciò che contiene” (Roland Barthes, L’impero dei segni, 1970), mentre il contenuto ha scarsa importanza; anzi potrebbe, paradossalmente, non esistere. Il vuoto, in effetti, sarebbe il perfetto contenuto del pacchetto.


Proseguendo sull’onda del medesimo pensiero, si può affermare che l’haiku (breve componimento poetico), respingendo ogni interpretazione e senso, indica null’altro che il vuoto. Infatti, la sua forma è l’involucro, il suo contenuto (anche questa è definizione purtroppo fuorviante e inadeguata) il puro vuoto. Lo spiega bene il poeta e monaco zen Basho (1644/1694):
Come è ammirevole / colui che non pensa / “la vita è effimera” / vedendo un lampo”.
Un altro esempio. L’esperienza del vuoto pervade i magnifici e perturbanti giardini zen. Dalla superfice geometrica di ghiaia mossa appena da leggere modulazioni, simili a piccole onde incurvate, le rocce emergenti perdono peso, si smaterializzano, assumono senso in quanto circondate e affioranti da quella sorta di mare di pietra: guardando mi è balenata la sensazione che si trattasse dell’oceano dell’essere (strana e improvvisa risonanza che, tuttavia, non saprei spiegare) e, nello stesso istante d’un vuoto che si percepisce denso d’energia. Un vuoto di cui le increspature appena percettibili sulla ghiaia definiscono la presenza; le rocce che ne affiorano sono segni perentori, richiamano la macchia nera di china dell’ideogramma sul bianco della carta. Anche quest’ultima, la carta, è un vuoto che attende la scrittura e da essa è indissolubile. Mi auguro che questi esempi incrociati siano riusciti a suscitare una almeno vaga approssimazione dell’idea giapponese del vuoto.
La carta giapponese è morbida, “simile al manto della prima neve” (Tanizaki) e l’ideogramma dipinto sembra succhiare energia dal suo spazio bianco e vuoto, concentrarla nel segno nero d’inchiostro di china, corposo e risoluto.


Sotto l’occhio vigile e benevolo d’un elegante monaco in kimono bianco, abbiamo fatto prove di calligrafia. I risultati discutibili hanno suscitato alcune considerazioni.
Il pennello, tenuto perpendicolare al foglio bianco e guidato dall’avambraccio, produce, scorrendo senza staccarsi dalla carta, segni decisi o morbidi, sottili o più larghi, Qui, pittura e scrittura coincidono. Il segno s’impone, ma il vuoto dello spazio invaso lo preme tentando di forzarne i margini. È una lotta tra opposti. Bianco e nero.
La nostra scrittura corsiva occidentale pare, piuttosto, incidere il supporto cartaceo oppure, in certi casi, sovrapporsi a esso; sovente ha la forma del grafico d’una qualche funzione corporea (cardiogramma, encefalogramma, ecc). Decifrandolo, i grafologi possono intuire la personalità di chi scrive. Dall’analisi dell’ideogramma giapponese (e cinese) credo si possano ben ricavare le minime variazioni del suo significato, ma nulla sullo scrivente. Il corsivo occidentale è soggettivo, quindi funzionale alla scrittura automatica, che ritengo impossibile in Giappone, poiché il significante possiede un’oggettività inattaccabile. 
Sono molto belli ed eleganti i kimono che ogni giorno trovavamo nella stanza dell’albergo, ma problematiche le microstanze (in Giappone lo spazio va sfruttato al massimo) in cui eravamo ospiti.
Variopinto come una tavolozza di colori e di sapori molteplici, è il sushi, preparato davanti ai tuoi occhi. Assai meno gradevole (per il nostro gusto) il tofu; sebbene la zuppa di miso venga servita in raffinate ciotole di lacca. Curiose (per noi) le hashi, bacchette con cui si porta il cibo alla bocca. Non sono affilate e pungenti come le nostre posate. Non tagliano, stringono il cibo morbidamente, quasi con delicatezza; esigono eleganza e destrezza manuale; e, all’inizio, infinita pazienza.   

   
Superbo il torii (portale) rosso, segno potente, sorgente dall’acqua della baia dell’isola di Miyajima e affascinante il santuario di Itsukushima, anch’esso di legno purpureo, sospeso su palafitte. Enigmatico il grande Budda bronzeo di Kamakura, gli occhi chini sul proprio ombelico, chiuso nella sua imperturbabilità; d’intorno, lo sciame di turisti lo mitraglia con migliaia di scatti fotografici.
Un fascino segreto traspare dai volti delle attrici del teatro nō. Dipinti di bianco, respingono la luce; impenetrabili a essa e agli sguardi dello spettatore, trattengono ogni espressività. Sono come dei fogli bianchi in attesa della scrittura (Barthes). Gli occhi bui, piccoli e allungati e le labbra scarlatte (un tempo erano blu) rilevano tale candore gessoso. Le pupille evocano segni quasi impercettibili, il gesto è quello elegante delle mani, delle dita che ruotano ventagli. Irrompe un mimo dall’incarnato naturale, che si muove frenetico come nei film muti d’una volta. Giocando con il suo ombrello, suscita ilarità, come la buffa figurina d’una stampa di Hokusai.


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L'ALTRA RUSSIA
di Christian Eccher

(TRITTICO SIBERIANO)
ALL’INCROCIO FRA I MONDI: DRUŽININO.

A Chingiz Aitmatov, poeta della steppa

Casa a Irkutsk

I treni da Mosca e per Mosca arrivano sempre in orario a Družinino, un luogo che è non è un paese e non è una città, ma soltanto un importantissimo snodo ferroviario che unisce l’oriente all’occidente, l’Europa all’Asia. Tutti convogli a lunga percorrenza delle Ferrovie Russe che percorrono la Transiberiana si fermano qui, in questa piccola località degli Urali meridionali; fanno una pausa più o meno lunga, i macchinisti scendono dalle locomotive, lasciano il posto ai colleghi e si riposano per qualche ora nei locali del Dopolavoro ferroviario prima di riprendere il viaggio in direzione opposta e tornare nei luoghi da cui erano partiti. Sui binari una decina di treni aspetta che si apra il segnale per poter proseguire verso gli scambi del sezionamento e riprendere la corsa verso est o verso ovest lungo la linea della Transiberiana (Поезда в етих краях шли с востока на запад и с запада на восток...). Visti dal sovrappasso che congiunge l’edificio centrale all’altra estremità della stazione e che permette di attraversare i binari senza correre rischi, i treni sembrano bestie mansuete che riposano in fila; i locomotori ronzano sordi, la maggior parte di loro traina un numero indefinito di vagoni merci, piatti e aperti, ricolmi di carbone, nero fino all’orizzonte, che si estende oltre i segnali di ingresso alla stazione e gli scambi del sezionamento. Un mare in tempesta, scuro e torbido, è quello che sembra agitarsi sui binari di Družinino; onde nere la cui cresta si alza al centro per poi abbassarsi improvvisamente in corrispondenza delle pareti rosse e basse dei singoli vagoni, vicino ai respingenti che ancora combaciano l’uno all’altro a causa della brusca e stridente frenata a cui il treno è stato costretto dopo essere entrato in stazione: dato il notevole peso del carico trasportato, le ruote di acciaio, quasi fossero ipnotizzate, tendono a perpetuare il movimento in avanti a cui il locomotore, dopo il dolente strappo iniziale, le ha costrette per chilometri (O carro vuoto sul binario morto!). Quando dalla locomotiva arriva ai vagoni il segnale di frenata tramite un getto di aria compressa, le pastiglie di ferro del freno vanno a toccare la ruota, che emette un gemito freddo e stridente, quasi si ribellasse al comando ricevuto. L’asse che unisce le due ruote continua a girare, ma in maniera sempre più lenta, finché non si ferma di colpo. È questo il momento in cui il carbone si scuote e qualche pezzo rotola giù, fino a sbattere con un tonfo metallico sulla parete del vagone. I passeggeri dei treni a lunga percorrenza già fermi si svegliano di soprassalto nelle loro cuccette, guardano storditi attraverso i finestrini la luce scialba dell’alba e il verde delle betulle che per il poeta Sergej Aleksandrovich Yesenin simboleggiano il corpo e magro e slanciato delle ragazze russe. Il vento dell’ovest agita drammaticamente le foglie degli alberi e dei cespugli che crescono lungo la massicciata e getta qualche grassa goccia di pioggia sui volti dei viaggiatori che escono dal vagone per fumare una sigaretta o per comprare qualcosa da mangiare nell’unico negozio in riva alla ferrovia. I treni passeggeri si arrestano sui binari più esterni, dalla parte opposta dell’edificio bianco della stazione, lì dove comincia il centro abitato, una serie di case basse con le paraboliche sopra il tetto a captare i segnali televisivi dai satelliti artificiali in orbita, con i giardini in cui ruzzolano cani e galline e con le strade non asfaltate, impolverate d’estate e fangose d’inverno. 

Druzinino
A Družinino vivono principalmente le famiglie di coloro che si occupano del traffico ferroviario e della manutenzione del tratto uralico della Transiberiana; è grazie a questi uomini coraggiosi che le merci e i passeggeri possono muoversi liberamente da est verso ovest e da ovest verso est. Vicino alle scale del sovrappasso di trova l’unico negozio della stazione: all’interno, un’anziana signora dalle rughe del volto marcate e dai movimenti lenti e posati vende uova sode, peperoni, piroshki (focacce fritte ripiene di patate o di cavolo), bevande fredde e pomodori dalla buccia liscia e traslucida, troppo rossa per essere naturale. Gli scaffali sulle pareti sono quasi vuoti. I passeggeri dei treni in sosta fanno la fila per comprare acqua e dolciumi. C’è tempo prima di riprendere il viaggio; qualcuno si avvia verso l’edificio della stazione ferroviaria, in cerca di una doccia o di un bar che offra tè e caffè. Oltrepassato il cavalcavia pedonale, costituito da un basamento di cemento ormai sgretolato dal clima rigido degli inverni russi e dalle estati che a queste latitudini sono comunque torride, ci si trova davanti a un portone in legno, che si apre con estrema facilità, nonostante sia massiccio e molto grande. La biglietteria è completamente vuota; nessuno prende il treno a Družinino. Le persone che abitano in paese si spostano solo quando hanno qualche commissione incombente altrove; in poche ore si arriva a Jekaterinburg, la capitale della regione degli Urali. Per raggiungere Mosca ci vogliono invece 24 ore. Gli impiegati, vestiti con le eleganti divise delle ferrovie russe, una delle aziende con più impiegati al mondo, parlano sottovoce, perché l’eco non faccia rimbombare le loro voci nell’androne spoglio e alto, come la navata di una cattedrale. La stazione di Družinino assomiglia a un tempio poco visitato dai fedeli. Nella sala d’aspetto, adiacente alla biglietteria, un uomo dorme su una panchina di ferro, sdraiato su un fianco, con le ginocchia sul petto e la giacca appoggiata sulle spalle a mo’ di coperta. Sotto la panchina c’è una bottiglia di vodka semivuota. Forse si tratta di uno dei rari passeggeri che ha perso il treno, o forse è soltanto un abitante del luogo che smaltisce la sbornia della sera precedente. Attraverso delle scale di marmo, pulite e scintillanti come se fossero quelle di un ospedale, si accede al piano superiore, dove ci sono le docce e la toilette, chiuse al pubblico, gli uffici del capostazione e quelli dello smistamento. Una vera e propria torre di controllo, il cuore e la mente di Družinino.

Druzinino

All’incrocio fra i mondi non ci sono né ospedali né scuole, ma c’è solo un pugno di uomini coraggiosi che dirige il passaggio dei treni da oriente a occidente e da occidente a oriente. Поезда в етих краях шли с востока на запад и с запада на восток...
(In Kazakistan c'è uno snodo ferroviario di primaria importanza, Boralni – in russo – o Burani – in lingua kazaka. Si trova nel mezzo dell’immenso mare stepposo che comincia in Ungheria, nella “puszta” magiara del poeta Petöfi (solo tu, caro “aist”, piangesti accanto al corpo del poeta ucciso!), e finisce a Vladivostok, lì dove l’erba lascia improvvisamente il posto al Mar del Giappone. Il passaggio dei treni da ovest verso est e da est verso ovest è da tre decenni automatizzato. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, e fino agli Settanta, due uomini, Edigey e Kazangap, lavoravano nella piccola stazione di snodo insieme a una decina di colleghi: il loro compito era quello di riparare i binari, aprire e chiudere i segnali di ingresso e di uscita, spalare la neve quando era necessario. Si erano trasferiti nella steppa dal lago di Aral, il quale adesso non esiste più, dato che l’Uzbekistan, al fine di irrigare le proprie piantagioni di cotone, ha bloccato con dighe selvagge l’acqua degli affluenti del bacino d’acqua, grande a tal punto che i Kazachi lo chiamavano mare. A inizi anni Cinquanta, a Edigey e Kazangap si unì Abutalip Kuttybajev, un maestro elementare allontanato dalla scuola di Astana dove lavorava prima della guerra per il solo fatto di essere di etnia tedesca e di aver combattuto al fianco dei partigiani di Tito in Jugoslavia. Nel ’48 Tito aveva rotto i rapporti con Stalin e si era rifiutato di ricevere direttive da Mosca; per questa ragione, Stalin il paranoico guardava con diffidenza tutti coloro che avevano combattuto a fianco del Maresciallo. Una notte di primavera del 1952, Abutalip fu deportato in un campo di concentramento per dissidenti. Morì in condizioni mai chiarite nell’aprile del ‘53, un mese dopo la morte di Stalin. A Boralni-Burani rimase ancora per qualche anno la moglie di Abutalip, a cui non mancò mai la solidarietà delle poche famiglie dei lavoratori dello snodo; le donne si occupava dei bambini, senza privilegiare i proprio figli a scapito di quelli altrui; si prendevano anche cura dell’orto e degli animali domestici, mentre i mariti lavoravano lungo la massicciata. Per questa gente, la linea ferroviaria era come il meridiano di Greenwich: il mondo si divideva in due parti, quella sinistra e quella destra rispetto alla strada ferrata. Nel villaggio non c’erano né acqua potabile – che veniva portata su un vagone cisterna da Almaty – né energia elettrica. Il bene più prezioso a Boralni-Burani erano i cammelli, che pascolavano liberamente nella steppa. Lo stesso Edigej aveva un cammello, sano e forte, e con quell’animale accompagnò Kazangap fino al cimitero di Ana-Bejt, dopo che l’amico morì in una notte di settembre, a fine anni Sessanta. Ad Ana-Bejt riposano adesso anche Edigej e sua moglie. A Boralni-Buran oggi non abita più nessuno. Dal treno in corsa è ancora visibile quel che resta delle case in terra battuta in cui abitavano coloro che si occupavano dello snodo ferroviario prima dell’avvento dell’automazione. I figli di Edigej e dei suoi collaboratori si sono trasferiti all’estero o ad Almaty. I cammelli continuano a pascolare indiffenti nella steppa. Ogni volta che passa un treno, la terra di Ana-Bejt, che non è lontana dalla ferrovia che unisce la Russia, il sud del kazakistan e le città secche del lago di Aral, si scuote e sussulta per far credere a Edigej e a Kazangap, lì sotto terra, che il mondo sia ancora uguale a quello di 50 anni fa).

Druzinino

SIBERIA
Ad Aleksandr Gorodnizkyi e a tutti i bardi della Steppa siberiana

Siberia orientale

Evgenija Vladimirovna guarda con orgoglio le piante di pomodori che crescono a grappoli nell’orto della sua “dacia” – la casa in campagna in cui i russi di città sono soliti trascorrere le proprie vacanze – alla periferia di Tomsk. Da alcuni anni a questa parte, a causa dei cambiamenti climatici, in Siberia sono comparsi verdure e ortaggi che fino a un decennio fa potevano essere solamente importati dai paesi caldi. Ormai in tutta la Russia, l’estate comincia già a maggio, con un mese di anticipo rispetto alla norma, e finisce a settembre; le temperature massime a luglio e ad agosto sfiorano e spesso superano i 30 gradi e permettono agli abitanti dei villaggi che si trovano lungo la linea della Transiberiana di coltivare prodotti che da queste parti sono indubbiamente esotici. Evgenija, professoressa di russo presso il Politecnico di Tomsk, è una delle poche persone a essere preoccupata da questi improvvisi mutamenti: “Piantare e poi raccogliere i pomodori è senz’altro una soddisfazione, ma forse era meglio continuare a comprarli al mercato”, dice con un’espressione del viso accorata, che, nonostante un abbozzo di sorriso, non riesce a nascondere un profondo turbamento. “Nel nord della Siberia, nella penisola dello Yamal, oltre il Circolo Polare Artico, le temperature elevate hanno causato epidemie fra persone e animali”. Evgenija ha purtroppo ragione: lo scioglimento del permafrost, il terreno gelato che è una caratteristica peculiare della Siberia del nord, ha liberato un batterio del ceppo dell’antrace che era imprigionato nel ghiaccio da migliaia di anni. I corpi degli essere umani e degli altri animali non hanno le difese immunitarie adatte a fronteggiare questa invasione batterica, che nel luglio scorso ha abbattuto numerosissime renne e ha colpito in maniera grave 3 esponenti della tribù nomade Nenet. I cambiamenti climatici colpiscono soprattutto le zone continentali del nostro pianeta; proprio in Siberia è cominciato il processo che potrebbe portare la specie umana all’estinzione. Con lo scioglimento del permafrost si potrebbero liberare enormi quantità di metano e di anidride carbonica che potrebbero a loro volta cambiare la composizione chimica dell’atmosfera terrestre. Non è possibile stabilire quanto gas sia attualmente trattenuto dai ghiacci. I danni dello scioglimento del permafrost sono però già visibili: a Jakutsk, capoluogo della Socha-Jakutsia, e a Irkutsk, vicino al lago Bajkal, le fondamenta delle case appoggiavano su uno strato solido di terriccio e rocce ghiacciati; negli ultimi dieci anni, con l’aumento delle temperature, il ghiaccio si è sciolto, il suolo si è ammorbidito e ha cambiato densità, deformandosi: alcune case sono così letteralmente sprofondate nel terreno. Il paesaggio in Siberia diventa a poco a poco apocalittico e surreale: abitazioni il cui primo piano è completamente coperto di terra, case e stalle inclinate, come se fossero state colpite da un terremoto di forte intensità; voragini che si aprono qua e là, inghiottono boschi e sputano fuori fiamme e gas volatili.
A Tomsk e nel sud della Siberia, però, i cambiamenti climatici non sono così drammatici come nel nord della regione. Per la verità, Nord e Sud, Est e Oves sono in Siberia concetti vaghi, dato che questa immensa regione non ha frontiere ben definite. Dal punto di vista geografico, tutto il territorio che va dagli Urali al Mar del Giappone e dal confine kazaco al Mare del Nord è Siberia. Politicamente, invece, il Distretto Federale Siberiano comprende soltanto la parte centrale della regione, fino al lago Bajkal. A livello geologico, la maggior parte del suolo siberiano è un “trappo”, ovvero una gigantesca colata vulcanica risalente a circa 250.000 anni fa, quando una delle più potenti eruzioni mai avvenute sulla Terra coprì la superficie dell’allora Siberia e le sue paludi, che si sono di conseguenza trasformate in un mare nero, sotterraneo, di carbone. La successiva deriva dei continenti ha risparmiato la Siberia, che è rimasta come incastrata fra le diverse zolle della crosta continentale: i monti Altai, la penisola Kamchatka e gli Urali sono le frontiere geologiche della Siberia, i luoghi che con le loro montagne accartocciate testimoniano il gigantesco scontro fra le placche tettoniche, in parte ancora in corso. Gli storici invece cominciarono a parlare di Siberia soltanto dopo l’avvento di Ivan il terribile, nel XVI secolo. Prima di allora, al di là degli Urali si estendeva uno spazio sconfinato in cui vivevano antiche popolazioni, oggi quasi completamente dimenticate, nonostante alcune di esse siano sopravvissute e si oppongano con ogni mezzo alla russificazione delle proprie usanze e, soprattutto, al tentativo da parte di Mosca di imporre loro il russo come lingua ufficiale. Gli Aleuti della Kamchatka, i Keti di Krasnoiarsk sono solo alcune di queste etnie, che vivono di allevamento e in condizioni di grave povertà. La Siberia è caduta spesso nelle mani di grandi imperi, come quello mongolo e cinese, ma non fu mai colonizzata. I nuovi arrivati si limitavano a creare avamposti militari. Durante il Medioevo, per gli europei la Siberia non era altro che un territorio di transito, attraverso il quale passavano mercanti e carovane che univano la Cina, l’attuale estremo oriente russo con Bisanzio e l’Europa intera. Trasportavano sale, legno e la allora ricercatissima pelliccia di ermellino. Durante il XVI secolo, Ivan il Terribile decise di conquistare il territorio a est degli Urali e di centralizzare la Russia al fine di concentrare tutto il potere nelle proprie mani. San Pietroburgo sarebbe stato il centro dell’impero, a cui tutte le altre regioni si sarebbero dovute sottomettere. Venivano così gettate le basi che avrebbero costituito l’infrastruttura del potere della Russia degli zar prima e di quella sovietica poi. L’esercito guidato da Jermak Timofejevich riuscì a imporsi sulle numerose etnie e tribù che abitavano la Siberia: i Tatari, che almeno nominalmente controllavano la regione, furono sgominati. Le altre popolazioni, che fino ad allora avevano vissuto liberamente lì dove c’erano le risorse naturali fondamentali, vale a dire l’acqua e il legno, furono soggiogate, ma non del tutto. I tatari erano e restavano musulmani, i mongoli buddisti, molte tribù animiste, nonostante il cristianesimo fosse la religione ufficiale in Russia: non a caso, una delle prime preoccupazioni di Ivan il Terribile fu quella di porre sotto il proprio controllo i vertici della Chiesa ortodossa. Al fine di colonizzare davvero e in toto la Siberia erano necessari ancora molto tempo e molti sforzi ed era soprattutto fondamentale creare una rete di istituzioni: San Pietroburgo cominciò a spedire oltre gli Urali soldati, vescovi e preti; il rapporto dei colonizzatori nei confronti della Siberia era però molto problematico. Quando nel XVIII secolo – a colonizzazione quasi terminata! – Katerina II decise di mandare 90 preti a Tobolsk, città della Regione di Tjumen, ne arrivarono solo 9. Gli altri si diedero alla macchia: le loro mogli (la Chiesa ortodossa permette il matrimonio per i ministri di Dio) non ne volevano sapere di lasciare la Russia europea per ritrovarsi in mezzo a uomini selvaggi che per giunta vivano in condizioni climatiche proibitive.

Siberia orientale

Le prime città russe in Siberia presero il nome di “ostrog” (“ostro” significa appuntito): erano infatti circondate da palizzate in legno con le punte affilate rivolte verso il cielo. Queste fortificazioni ospitavano e difendevano dai pericoli esterni i mercanti, gli artigiani e i soldati: questi ultimi costituivano la grande maggioranza degli abitanti. A mano a mano che la Siberia veniva colonizzata, cresceva anche la popolazione, che gli “Ostrog” non erano più in grado di ospitare. Nacquero così le prime grandi, moderne città, come Omsk, Tomsk, Krasnojarsk e Novosibirsk. Sin dai tempi di Ivan il Terribile, oltre ai colonizzatori, gli zar spedivano in Siberia i criminali e i propri nemici politici. Si trattava di una sorta di esilio dorato: coloro che erano stati condannati non potevano tornare nella Russia europea ma avevano la possibilità di vivere liberamente oltre gli Urali. Molti di loro insegnavano nelle scuole, a sera frequentavano le osterie e leggevano i libri dei principali filosofi occidentali che gli amici spedivano loro da San Pietroburgo o da Mosca. La Siberia era uno spazio di libertà, in cui circolavano le più pericolose idee in campo politico e sociale. Ciò non disturbava affatto gli zar, i quali, chiusi nel Palazzo d’Inverno, si sentivano protetti delle migliaia di chilometri che li distanziavano dalla Siberia. Le cose cambiarono con Nikola II, all’inizio del XIX secolo, dopo la rivoluzione decabrista. I decabristi avrebbero voluto assassinare l’imperatore e dar vita a una società moderna, senza servi della gleba, decentralizzata e repubblicana (Не всегда для свободы победа нужна, ей нужнее парой пораженье). Quando il tentativo di colpo di Stato fu sventato, i decabristi furono mandati in Siberia; da allora, però i prigionieri, politici e non, furono rinchiusi negli “Ostrog”, rimasti vuoti a causa del trasferimento dei cittadini nelle nuove città. Da grande territorio militare, la Siberia si trasformò in un’enorme prigione. Ciò comportò la creazione di una rete infrastrutturale fatta di guardie carcerarie, infermieri, medici, cuochi; nuova gente arrivò dalle città della Russia dell’ovest per lavorare negli “ostrog”. Certo è che i condannati non insegnavano più nelle scuole e non frequentavano più i caffè come nei tre secoli precedenti; uscivano soltanto per lavorare: cominciava l’industrializzazione della Russia zarista, si aprivano miniere e nel 1892 venne intrapresa la costruzione della grande ferrovia transiberiana. I detenuti fornivano manodopera a costo zero. (Dal finestrino del treno, il Capitano degli Oceani e della Steppa mostrava a tutti, con orgoglio, il monumento ai decabristi, nella piccola stazione al di là degli Urali, al di qua dello Yenissei. Una lastra in marmo tagliata in verticale, sghemba, con i nomi di coloro che furono mandati in Siberia e che non fecero mai più ritorno. Ma il loro spirito di libertà aleggia ancora nei territori pianeggianti che vanno dalla Mongolia alla Kamchatka; quello stesso anelito di libertà che spinse il Capitano a lasciare il continente in cui era cresciuto e a spingersi fino a Vladivostok, e poi oltre, per mare, sulle navi mercantili che rigano gli oceani in tondo, fino ad abbracciare l’intera circonferenza terrestre.
Cantiamo piano; sentiamo a stento noi stessi. Un tozzo di pane, Iulia, per l’inverno che ci aspetta e per la primavera che non aspetteremo).
Nel XIX secolo, la colonizzazione della Siberia da parte della Russia giunse a buon fine, ma non del tutto. C’è ancora oggi una scollatura fra Mosca e le città siberiane; fra le élite intellettuali e politiche di Mosca e San Pietroburgo da un lato e quelle di Novosibirsk e Tomsk dall’altro non c’è mai sovrapposizione completa. Perché? Per capire la sottilissima divergenza fra il centro dell’impero e la sua periferia, divergenza che spesso passa inosservata agli analisti occidentali, dobbiamo tornare a Katerina II, la Grande. Ivan il Terribile e i suoi successori avevano governato per mezzo del terrore; non avevano certo il popolo dalla propria parte. Katerina fu la prima a capire che non avrebbe potuto garantire a lungo il trono alla famiglia regnante se non avesse creato un consenso intorno alle scelte politiche degli zar. Erano necessari quelli che Gramsci chiamava “intellettuali organici”, vale a dire persone influenti che si riconoscessero nella Weltanschauung (Ideologia, visione del mondo) della classe al potere e che facessero da cinghia di trasmissione, da intermediari fra il vertice e la base della società: il loro compito sarebbe stato quello di diffondere anche ai ceti più infimi i valori di coloro che erano al vertice. Quegli stessi valori sarebbero così diventati dominanti. Per Gramsci, intellettuali sono tutti coloro che hanno a cuore le sorti della società e non solo scrittori, pittori e insegnanti. Al giorno d’oggi, gli intellettuali organici lavorano per lo più in televisione. Fino all’avvento della società di massa, gli artisti e i rappresentanti del clero erano coloro che creavano miti e ideologie per tutta la società (la poesia vino di servi; la serviva Vassilissa, ai tavoli, nelle cantine di Tomsk). Nella Russia del XVIII secolo cominciarono a ruotare intorno alla figura di Katerina i cosiddetti “dvoriani”, vale a dire funzionari, scrittori, scienziati, mercanti che frequentavano la corte del Palazzo d’Inverno (“dvor” in russo vuol dire cortile, anche nel senso più ampio di corte) e a cui la zarina regalava, in cambio della loro fedeltà, terre e titoli. In Russia prendeva vita per la prima volta nella storia un’intellighenzia a cui era affidato il compito di conferire prestigio ed egemonia alla classe dominante. Gli zar successivi però non furono illuminati come Katerina e molti “dvoriani” si trovavano spesso in contrasto con la famiglia regnante, e per questo finivano in Siberia, in carcere. Il sistema messo a punto da Katerina, inoltre, funzionava perfettamente fino agli Urali; al di là del confine fra Europa e Asia, però, non era possibile controllare così bene il popolo. La terra era troppo povera per essere regalata ai “dvoriani” locali. Allora come oggi, la Siberia e il Lontano Oriente russo avevano e hanno altre esigenze rispetto a Mosca e a San Pietroburgo. In più, già da secoli il potere esiliava in Siberia i propri nemici: certe idee sovversive, legate a ideali democratici e repubblicani, si erano davvero diffuse, anche fra i ceti più bassi della popolazione. Come portare, se non definitivamente, almeno efficacemente a termine il processo di colonizzazione? Semplice: bastava sostituire i “dvoriani” con i “cinovniki”, vale a dire con i burocrati. Se non era possibile controllare il territorio grazie alle ideologie dominanti (in Siberia nessun concetto è assoluto, da queste parti anche nozioni come “Dio” e “patria” sono relative), si potevano usare montagne di carta e di timbri. A ogni azione che il cittadino, o meglio, il suddito compiva, seguivano o precedevano decine di documenti, che attestavano, registravano, schedavano, descrivevano, controllavano. Alla lunga, questo sistema sfibrante (che funziona ancora oggi, senza il timbro in Russia non sei e non sarai mai nessuno) ha portato i suoi frutti, soprattutto durante gli anni staliniani durante i quali alla burocrazia si associò nuovamente il terrore, come ai tempi di Ivan il Terribile. Né i “cinovniki” né il comunismo sono riusciti però a piegare del tutto quello spirito libertario e rivoluzionario che ancora oggi si respira in Siberia e che, anche sotto il pugno di ferro di Vladimir Vladimirovich Putin, i cittadini esternano con la loro pungente ironia e la loro fortissima energia vitale. Ciò che è rimasto dei tempi antichi, l’eredità dei decabristi e di tutti coloro che erano stati esiliati, è una tendenza alla critica, all’analisi profonda della realtà che ci circonda, e non solo da parte degli intellettuali, ma di quasi tutto il popolo. Cosa non da poco nel mondo attuale, dove le ideologie dominanti (soprattutto quelle neoliberiste) si impongono ovunque con estrema facilità.

Siberia occidentale

 (I campi di cereali ingialliscono lentamente e si piegano al vento dell’ovest, che muove anche la chioma delicata e nobile delle betulle. I pini prendono a poco a poco il sopravvento sulle coltivazioni; è lì che inizia la taiga, il bosco che copre le latitudini intermedie della Siberia per poi lasciare spazio alla tundra, dalle erbe basse e dai licheni che crescono sulla terra e sul permafrost. All’estremo nord, oltre il Circolo Polare Artico, c’è una città, Norilsk, in cui d’inverno il termometro raggiunge i meno 40 gradi centigradi e che rimane isolata dal resto del mondo per alcuni mesi. È un centro nato alla fine degli anni Trenta e vive dell’estrazione del petrolio e del gas. Dopo il crollo dell’URSS, Norilsk subì un calo demografico notevole. Negli ultimi anni, oltre agli ingegneri di Lukoil e di Gasprom che accettano di trasferirsi nel nord della Siberia in cambio di paghe molto alte e di un appartamento a Mosca, a Norilsk sono arrivati anche gli immigrati dalle ex Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale: giovani tagichi, kirghisi e uzbeki hanno aperto bar e ristoranti, negozi di frutta e verdura, rivendite di abbigliamento. Norilsk conosce così una rinascita senza precedenti, che fa di questa città dura e isolata un luogo vivibile, dove alcune famiglie moscovite, arrivate per motivi di lavoro, decidono di rimanere per sempre.
Da Strezhevoj, invece, un centro di 40.000 abitanti che si trova nel sud della Siberia, vicino a Tomsk, è in corso un vero e proprio esodo. Anche Strezhevoj è una città del petrolio, esattamente come Norilsk. Le riserve stanno però finendo e il crollo del prezzo dell’oro nero ne ha reso troppo costosa l’estrazione. Non c’è più lavoro e molte famiglie scelgono di emigrare. Cosa fare delle nuove generazioni, che a Strezhevoj sono nate e si sentono a casa? Come far rivivere una città destinata tristemente a scomparire? Sono questi i nuovi problemi della Siberia, a cui il Cremlino sta cercando di trovare una risposta).
Nel parco comunale di Tomsk, il professor Vladimir Vladimirovich Maksimov passeggia insieme alla sua splendida consorte, una donna kirghisa emigrata in Siberia, e alla sua figlioletta di 4 anni, che curiosa tocca tutto ciò che si trova davanti a lei e si nasconde vergognosa nell’abbraccio della madre quando gli estranei le rivolgono la parola. Magro, con la barba ispida e i capelli grigi, Vladimir Vladimirovich insegna Scienze Siberiane al Politecnico di Tomsk. Sorride sincero e dice che c’è solo una certezza quando si pone la questione sui rapporti fra la Siberia e il resto della Russia: “Non potrà mai esistere una Russia forte senza una Siberia forte. Il cuore e il motore economico della Federazione sono qui, in questa regione infinita, insensata e ribelle”.


TOMSK
Ad Anna Stepanovna Politkovskaya

Steppa vicino ad Omsk

Nel sud della Siberia scorre il Tom, un fiume poco profondo il cui letto è in determinati punti largo alcune centinaia di metri: le immense pianure russe permettono ai corsi d’acqua di estendersi a dismisura e di scorrere in maniera lenta e regolare. I marinai di pianura siberiani sanno che non è impossibile guadare questi fiumi a piedi: basta spostarsi da un banco di sabbia all’altro ed evitare di cadere nelle numerose buche che l’acqua torbida e sporca di terra nasconde. Quando soffia il vento, la superficie del Tom si copre di spuma bianca; l’aria cede la propria energia all’acqua, la quale prima si increspa e poi si arcua in onde minute e giocose che si vanno a infrangere sulle rive melmose, fra canneti, rane immobili ma guardinghe e fili d’erba tremanti. Sulla riva destra del Tom si trova Tomsk, una città che prende il nome dal fiume su cui sorge e che è stata capoluogo della Siberia fino al 1925, quando Novosibirsk le strappò il primato di centro più importante della regione. La città si presenta all’improvviso a chi arrivi dagli Urali: dopo aver attraversato Novosibirsk, la strada statale che va verso nord scorre per circa 200 km fra campi di cereali e boschi di betulle e, oltrepassato il ponte sul Tom, le automobili si ritrovano nel centro di Tomsk. Non ci sono periferie, palazzi di epoca sovietica, officine, ferrovie ad annunciare il centro abitato, che, senza pudore, si apre ai turisti, ai camionisti che hanno viaggiato per giorni e che avrebbero voluto sistemarsi, pettinarsi e indossare una maglia pulita prima di entrare in città. È troppo tardi: Tomsk coglie i propri ospiti di sorpresa. A destra della strada statale, che in città si trasforma in un largo boulevard, si estende il “Lagerni Sad”, il parco comunale nel quale, durante l’estate, i giovani corrono con le cuffie alle orecchie, le madri spingono carrozzine con i bambini ben coperti perché non prendano freddo e gli scoiattoli si affacciano dai tronchi esili degli alberi in attesa che qualcuno dei passanti getti loro del cibo. Al centro del parco c’è il monumento ai caduti in guerra e tutt’intorno un bosco di betulle. Il “Lagerni Sad” segue il corso del fiume Tom e costeggia la collina su cui si trova anche la città. A ovest, il parco confina con la via Nahima che è sempre molto trafficata; a est, invece, digrada all’improvviso verso il fiume, con pendii che per la loro ripidità ricordano le scarpate alpine: si tratta di rarissime (da queste parti) rocce marine; ciò che rimane di un passato lontano completamente cancellato dalla millenaria erosione del suolo. Nel paleozoico, infatti, quest’area della Russia centrale era coperta dalle acque dell’oceano, che si sono ritirate già nel mesozoico, a causa dei processi orogenetici in corso nella zona degli Altai e che crearono delle alture anche nella Siberia meridionale, simili a quelle che oggi caratterizzano le zone europee prealpine della Germania. Tutto quello che resta di quel lontano periodo e di quelle montagne sono i pendii del Lagerni Sad, all’interno dei quali sono rimasti imprigionati gli scheletri di animali marini estinti, ora pietrificati in fossili che ogni tanto gli archeologi portano alla luce. La città, però, non ha conosciuto questi drammatici cambiamenti geologici, che risalgono a epoche in cui l’essere umano non era ancora comparso sulla terra. Tomsk è stata fondata nel 1604; per il pianeta, 400 anni sono un come un battito di cuore per l’homo sapiens; il tempo scorre in maniera differente, per le pietre, per gli uomini e per gli altri animali. Meglio che la mente non si addentri nei cuniculi del tempo, meglio vivere l’illusione del presente, che sembra immobile, come l’acqua del Tom vista dall’alto. Meglio abbandonarsi e seguire il flusso di auto e di pedoni del boulevard Lenin, l’importante arteria che collega il “Lagerni Sad” alla periferia nord della città. Il boulevard è lungo 7 km e segue il corso del Tom che, dopo aver piegato verso est per costeggiare con un’ansa larga e ariosa il Lagerni Sad, vira verso sud. I rari filobus e la miriade di furgoni privati che sostituiscono il quasi inesistente trasporto pubblico percorrono per interno il boulevard e passano davanti al Politecnico, all’edificio in stile neoclassico dell’Università Statale, alla piazza Novosaborskaia con il suo parco e la sua elegante fontana, alle Poste centrali, al Teatro, alla Filarmonica che si trova accanto al Municipio di cemento e di vetro. Più giù, le case si fanno anonime, bianche e basse, e si confondono con il cielo incolore per via dell’umidità estiva che smorza tinte e odori in una soffocante omogeneità acquosa. Una quinta monotona e circolare sembra chiudere la città all’orizzonte e separarla impietosamente dal resto del mondo; il cielo è immobile, metafisico, mentre nel boulevard Lenin il moto di auto e pedoni sembra essere perpetuo. La giunta comunale ha intenzione di spostare le principali attività economiche e commerciali nel boulevard Frunze, che costituisce il decumano di Tomsk, mentre il boulevard Lenin ne è il cardo; l’arteria attualmente più trafficata della città diventerebbe così una piacevole passeggiata, incassata fra il fiume e i monumenti storici che la delimitano. A sinistra del boulevard Lenin, lungo il fiume, si trova il quartiere tataro: i Tatari, l’ultima popolazione musulmana al di là degli Urali a opporre una strenua resistenza alla colonizzazione della Russia cominciata ai tempi di Ivan il Terribile, vivono a Tomsk da secoli e si riuniscono nella loro moschea. La convivenza con i russi ortodossi è sempre stata pacifica.
A destra del boulevard ci sono edifici nuovi in costruzione, dietro i quali si estende il nucleo storico di Tomsk; qui è possibile imbattersi nelle case in legno più antiche dell’intera Siberia. Alcune abitazioni sono sobrie, costruite con semplici travi portanti e assi; altre invece sono estremamente complesse, con architravi arricchiti di fregi, lunette, capitelli intagliati, che per eleganza ricordano i palazzi romani dal bugnato in pietra. Le case dei polacchi – una delle molte etnie presenti in Siberia, arrivati durante gli anni in cui Stalin era al potere e disperdeva i nemici del popolo su tutto il territorio dell’URSS – sono particolari: hanno infatti una sorta di torre svettante che le fa somigliare a un castello.
In una via parallela al boulevard si snodano le rotaie del tram, costituito da un solo vagone, rosso, che trema e si scuote al passaggio. Se guardati nella loro infinita lunghezza, i binari sembrano non essere paralleli, ma spostarsi continuamente a destra e a sinistra. In realtà, si tratta di un’illusione ottica: la ferrovia urbana, infatti, è composta da singoli pezzi di una decina di metri ciascuno che non sono posizionati alle stessa altezza: il suolo della Siberia, che si gela e scongela a seconda della stagione, costringe le rotaie a innalzamenti e abbassamenti continui. La conseguenza è che il tram non ha un’andatura regolare e obbliga i passeggeri a reggersi ai sostegni di ferro in ogni momento della corsa e ad aspettare con ansia la fermata successiva, come fosse un’isola di tranquillità nel mare in tempesta siberiano. Il tram in sosta ricorda una barca spinta sulla sabbia nella sua raggelata e improvvisa immobilità. Dopo la chiusura delle porte, un ronzio sordo annuncia la partenza; il vagone-nave di ferro torna a scuotere le persone, gli oggetti, persino le lampade rettangolari al neon che non siano bene avvitate al tettuccio. Uno dei due capolinea del tram si trova alla periferia nord di Tomsk, al Bazar, un quartiere abitato prevalentemente da immigrati centro-asiatici, che sono l’anima del grande mercato che si trova proprio in questa zona. Kirgisi, Uzbeki e soprattutto Tagichi vivono nelle vecchie case in legno che costeggiano la via Bol’saia e si occupano di commercio: importano frutta e verdura dalla propria terra per venderle qui, nella gelida e poco fertile Siberia. La via Bol’saia è larga, senza marciapiedi, al centro ci sono le rotaie incassate nella sede stradale e non è affatto facile salire sul tram. Non ci sono pensiline, banchine, neppure un cartello sospeso alla linea elettrica o appeso a un palo di sostegno a segna(la)re le fermate collocate a distanza regolare l’una dall’altra. Durante l’estate, la polvere copre con un fastidioso e incerto manto marrone i bordi della via; il vento alza all’improvviso lingue di sabbia, che investono passanti e ciclisti, i quali inutilmente cercano di proteggere gli occhi. I granelli minuscoli di terra, i cristalli quasi invisibili dell’antico suolo siberiano ormai nebulizzato, si insinuano nelle palpebre e irritano la cornea, che brucia e lacrima a lungo. L’asfalto è cosparso di buche che gli acquazzoni estivi riempiono di acqua piovana. D’inverno, invece, il suolo si ghiaccia e la polvere rimane immobile, prigioniera della terra fredda, dura e pesante. Eppure, la via Bol’shaia ha una bellezza affascinante: le chiome degli alberi coprono a ombrello la strada, la stringono in un abbraccio verde, protettivo e rassicurante. Alcuni kirghisi, con indosso cappelli di feltro finemente ricamati, siedono davanti alla propria casa, bevono il tè, parlano e ridono ad alta voce. Alla fermata del tram cinque donne rom, magre, dai capelli neri, consapevoli e fiere della propria bellezza, stanche di aspettare fermano con un gesto della mano rapido e deciso un taxi di passaggio. Una ragazza molto giovane è appoggiata con la schiena al muro della piccola rivenditoria in cui lavora: fuma svogliata una sigaretta e mostra ai passanti la piramide verde e striata dei cocomeri che si trova davanti ai tre scalini di accesso al negozio.
Dall’altra parte della città, all’altro capolinea del tram, il fascino del Bazar si perde nei palazzi di epoca socialista e nei giganteschi ingorghi automobilistici che rendono Tomsk indistinguibile da tutte le altre città dell’impero sovietico. La stazione ferroviaria Tomsk I è un edificio giallo, il cui interno è quasi deserto. Tomsk non si trova lungo la linea transiberiana e il traffico è soprattutto merci: il legno, il petrolio e il carbone che vengono dal nord della Siberia passano di qua; i convogli si fermano per qualche secondo al segnale di ingresso e poi proseguono verso Novosibirsk. Da lì continuano il proprio viaggio alla volta di Mosca o del Lontano Oriente Russo. L’edicola di Tomsk I è l’unica in tutta la città a offrire agli acquirenti il giornale indipendente “Novaya Gazeta”, in cui lavorava Anna Politkovskaya, uccisa 10 anni fa davanti al suo appartamento nella capitale russa. A Tomsk si respira aria di libertà, come d’altra parte nel resto della Siberia. Tomsk è una città studentesca, forse è troppo pericoloso diffondere “Novaya Gazeta” da queste parti, o forse il problema è semplicemente legato alla cattiva distribuzione: “Novaya Gazeta” è un giornale a tiratura limitata e non riesce a coprire completamente il territorio nazionale. A Tomsk si trova anche la più grande clinica psichiatrica della Siberia. La pazzia è contagiosa; meglio isolare i malati e persino i troppo sani di mente lontano dalla grande via di comunicazione della Transiberiana. Il sindaco di Tomsk Ivan Kljajn appartiene al partito del Presidente Vladimir Vladimirovich Putin ed è anche il proprietario della birreria “Tomskoe pivo”, che rifornisce di birra, acqua e bibite gassate l’intera Siberia. La famiglia Kljajn ha acquistato dallo Stato l’azienda subito dopo il crollo dell’URSS e l’ha gestita in maniera esemplare, salvandola dall’infame destino a cui sono andate incontro molte altre fabbriche dell’impero sovietico: vendute ai privati per pochi spiccioli, sono state spesso oggetto di sciagurate operazioni finanziarie o di svendite di macchinari che le hanno portate al fallimento e poi alla chiusura. La birreria si trova vicino al quartiere tataro e dà lavoro a decine di persone. Tomsk, il suo primo cittadino e la giunta comunale hanno anche saputo reagire alla deindustrializzazione seguita alla crisi degli anni Novanta. Hanno deciso infatti di investire nell’istruzione e nella ricerca scientifica, facendo della città un centro universitario di primaria importanza. Tutte le Università di Tomsk sono di qualità eccellente; nel momento in cui la Siberia è in recessione per via delle sanzioni imposte a Mosca dall’Occidente e a causa del calo del prezzo del petrolio, questo centro di 400.000 abitanti si difende egregiamente offrendo a centinaia di giovani – non solo russi, ma anche cinesi, coreani e centro-asiatici – la prospettiva di acquisire competenze e saperi di ogni genere, sia teorici sia pratici. Come ovunque nel mondo, anche a Tomsk le Università vengono in parte finanziate da ditte private, in particolare da Lukoil e Gasprom, i giganti russi del petrolio. Nell’atrio del Politecnico, alcuni studenti bevono un caffè nei bicchieri di plastica marrone di un distributore automatico e si chiedono se la dipendenza economica degli istituti di ricerca dai privati non metta in discussione il pensiero critico, che dovrebbe essere appannaggio di tutti coloro che lavorano e studiano all’Università, indipendentemente dal fatto che si tratti di Facoltà scientifiche e umanistiche.
Già a ottobre a Tomsk cade la prima neve. A causa dei cambiamenti climatici, anche in Siberia fa sempre più caldo. Ma quando, dopo le arsure estive, la città si sveglia di bianco, il rumore del boulevard Lenin si attenua improvvisamente, gli odori si spengono, l’aria ritrova purezza  e trasparenza. La terra e le rocce del “Lagerni Sad” si ammorbidiscono, scompaiono sotto la coltre candida e leggera e dimenticano tutti gli anni, i secoli, i millenni della loro troppo lunga esistenza.
(Tomsk, Novi Sad – estate 2016, inverno 2017) 

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Castro, scorre musica a fiumi tra mille luci colorate
Iniziano le vacanze nel Salento dei due mari
di Carmen Mancarella

Carmen in rosso e giornalisti

Si accendono mille luci colorate, il cielo si veste di fuochi d’artificio, scorre musica a fiumi. Con la Festa in onore della Madonna dell’Annunziata a Castro iniziano le vacanze nel Salento dei due mari. Ci sarà da ballare tutte le sere la pizzica nelle piazze, bere buon vino, degustare prodotti tipici e divertirsi nella magica primavera - estate 2017.
Ad aprire le danze è Castro sul Mar Adriatico.
Il 23, 24 e 25 aprile di ogni anno ricorre la grande Festa che inaugura la lunga serie di eventi di tradizione nel Salento. Ce ne saranno uno per ogni week end di primavera e poi addirittura uno ogni sera d’estate. E si avrà solamente l’imbarazzo della scelta, non sapendo dove andare prima per ballare e condividere con la gente del posto la gioia di vivere. All’inaugurazione delle vacanze 2017 hanno partecipato giornalisti esperti di eventi, moda e turismo provenienti da India, Germania, Francia e Italia ospiti del Comune di Castro grazie al bando ospitalità della Regione Puglia nell’ambito dei POR FESR-FSE 2014-2020, Asse VI, Azione 6.8.

Castro sfilata storica

A Castro la Festa inizia nel pomeriggio del 24 con la sfilata storica: gli abitanti indossano abiti medioevali e fanno fare ai visitatori un salto nel tempo, quando la città era una contea e il conte con i nobili e i cortigiani festeggiavano la Madonna deponendo ai suoi piedi un cesto di fiori.
Subito dopo avviene la degustazione de “lu pisce a sarsa”. Si tratta di vope (in dialetto ope) fritte cosparse di aceto e mollica di pane. Era il piatto tipico dei pescatori i quali conservavano il pesce azzurro nell’aceto per non farlo andare a male. E oggi questa gustosa pietanza viene offerta gratuitamente agli ospiti. E’ considerata la variante della scapece gallipolina, dove il pesce piccolo viene fritto e lasciato macerare nell’aceto e colorato con lo zafferano.
All’imbrunire si accendono le mille luci colorate delle luminarie, impalcature di legno che, con i loro ghirigori, si ispirano al barocco leccese. Le ditte del Salento sono uniche in Italia tant’è che vengono chiamate anche all’estero per decorare i centri commerciali e le grandi vie delle capitali europee e del mondo come Parigi, Hong Konk e Tokyo.
Il cielo si colora di fuochi d’artificio e la banda intona i grandi capolavori della musica lirica italiana. Quest’anno variante in swing con Conturband, una banda di giovanissimi originaria di Turi che propone i grandi classici della musica internazionale e pizzica con i giovani di Castro. Intanto cresce l’attesa per i fuochi d’artificio: si sfidano ben quattro ditte per ottenere l’ambito premio e avere anche l’onore di ritornare a Castro. Lo spettacolo dura due ore: dalle 21 alle 23 ed è bello assistervi e commentare con la gente del posto.


Castro passeggiata panoramica

Al mattino si celebra un rito religioso molto intenso: la processione in onore della Madonna dell’Annunziata che attraversa tutte le vie del paese! Il sindaco consegna le chiavi della città alla Madonna e anche durante la processione, in pieno giorno, vengono sparati fuochi d’artificio in segno di festa.  La statua della Madonna con l’Angelo, restaurata di recente, è essa stessa un capolavoro. Venne realizzata dal grande maestro della cartapesta leccese Maccagnino  nell’800 e viene conservata nella chiesa madre assieme ad altri capolavori dell’arte sacra, in cartapesta, come la Statua della Madonna Addolorata e del Cristo Risorto, firmato dall’altro grande maestro della cartapesta leccese Manzo.
Ma Castro è bella da vivere tutto l'anno. Ogni anno la città richiama migliaia di turisti grazie alla Grotta Zinzulusa e al fascino del suo centro storico, entrambi visitabili con guida grazie al biglietto unico (8 euro) che permette l’ingresso in grotta (sia via mare che via terra) e al rinnovato Museo Archeologico dove si può ammirare l’imponente busto della Dea Minerva, cui era dedicato il tempio.
La Grotta Zinzulusa deve il suo nome ai pescatori: vedendo da lontano le stalattiti che pendevano dal soffitto come tanti stracci, i pescatori la soprannominarono la Zinzulusa (dal dialetto zinzuli che vuol dire stracci). Le stalattiti e le stalagmiti assumono le forme più fantasiose: la torre  di Pisa, il Duomo… ancora adesso vivono in grotta specie di cui si ha traccia sin dalla preistoria, i gamberi ciechi!

Grotta Zinsulusa

Salendo poi per il centro storico si attraversa la piazza, dove sono visibili i resti, le colonne e gli affreschi dell’antica chiesa bizantina, sulle cui rovine è sorta poi l’attuale chiesa madre, sede per un certo periodo anche del Vescovado. Ma è appena dietro l’angolo che Castro sfodera ancora un altro gioiello: le rovine del tempio della Dea Minerva che dominava la città e le imponenti mura messapiche che si possono ancora oggi ammirare. A scoprirle assieme al busto della Dea Minerva l’equipe guidata dal professore Francesco D’Andria.
“Castro”, dice il professore “era un grande emporio commerciale, proteso sul Mediterraneo, una città molto famosa nel Mondo Antico, tanto che Virgilio nel III libro dell’Eneide la cita, facendovi approdare l’eroe Troiano, Enea, che avrebbe dato i natali a ROMA. L’imponente statua della Dea Minerva è stata trovata sepolta in un cassettone di pietra tra le rovine del tempio, un tempio molto imponente a giudicare anche dalle decorazioni in pietra leccese che sono state trovate”.
IN OTTOBRE LA DEA MINERVA DI CASTRO IN MOSTRA NELL’ARA PACIS A ROMA. “La Statua e le decorazioni del tempio saranno in mostra in autunno nell’Ara Pacis”, annuncia il sindaco, Alfonso Capraro. “Sarà l’occasione per far conoscere ancora di più la nostra bella Castro che attrae ogni anno sempre più turisti. L’anno scorso abbiamo registrato un aumento del 7,7 per cento. Puntiamo non solo sul turismo balneare, grazie al nostro splendido mare, dove sventola ormai da anni la Bandiera Blu, ma anche sul turismo culturale avendo arricchito l’offerta con l’apertura del museo archeologico nel castello, proprio nel cuore del centro storico”.



Castro giornalisti in posa davanti al busto di Minerva



Imperdibile è la visita al museo archeologico per ammirare la Statua della Dea Minerva e  la romantica passeggiata lungo le mura del castello dove lo sguardo si perde tra gli ulivi e l’orizzonte.
ROCA VECCHIA. Per conoscere sempre più a fondo le storie dei popoli che abitavano e abitano sulle sponde del Mediterraneo, non può mancare una visita all’area archeologica di Roca Vecchia, definita la Micene del Salento. Era un villaggio abitato dall’Età del Bronzo fino all’alto Medioevo, al centro di numerosi scambi commerciali e culturali. Lo stanno rivelando gli scavi condotti dall’Università del Salento da diversi anni, avviati dal professore Cosimo Pagliara e oggi condotti da un’equipe di giovani archeologi. “Roca era un importante approdo per le genti che solcavano il Canale d’Otranto, dove i locali convivevano con gli abitanti provenienti da Mykonos”, spiega l’archeologo Nico Scarano.
Il sito è aperto tutti i giorni dal lunedì al venerdì e dalle 8 alle 16.30 per visite guidate gratuite come ha annunciato l’assessore al turismo del Comune di Melendugno, Anna Elisa Prete che aggiunge: “Il Comune di Melendugno si è posizionato al terzo posto per aumento dei flussi turistici in tutta la Regione Puglia. Vogliamo mantenere questo trend positivo migliorando sempre di più la qualità dell’offerta turistica”.


Grotta Poesia

A pochi passi dal sito archeologico si trova la Grotta della Poesia piccola: era un Santuario dove i naviganti del Canale d’Otranto scrivevano le loro preghiere in ben tre lingue: il greco, il latino e il messapico. Invocavano il dio Tutor latino, Thaotor greco, Thator messapico perché li conducesse sani e salvi sull’altra sponda del mare.
La Grotta della Poesia piccola (non visitabile) è collegata via mare alla Grotta della Poesia grande, dove avvengono ogni estate spettacolari tuffi. I lettori e i giornalisti del National Gepgraphic l’hanno definita tra le dieci piscine naturali più belle al mondo! E un hotel lì di fronte è diventato un caso studiato da google: in una stessa settimana sono arrivati turisti provenienti da 80 nazionalità diverse!
Ma se a Roca la costa si caratterizza per le scogliere, le Marine di Melendugno sono famose anche per le morbide e bianche spiagge che vanno da Torre Specchia con San Basilio a San Foca (le Fontanelle e Li Marangi) fino a Torre dell’Orso, una delle baie più belle al mondo, racchiusa da due falesie e con una pineta che le fa da chioma. Definite dall’Associazione pedriati italiani a Misura di Bambino, sulle spiagge sventola Bandiera Blu del Fondo sociale europeo per lo sviluppo e per l’ambiente e Bandiera Gialla di Legambiente.


area archeologica
A Torre Sant’Andrea la Natura si è divertita a giocare con gli scogli. Ecco i magnifici faraglioni: lu Pepe a forma di Arco e l’Italia a forma di Stivale mentre la Sfinge protegge con il suo sguardo i piccolo villaggio dei pescatori.
Di giorno un tuffo nelle spettacolari acque di Castro e di Melendugno, la sera a ballare la pizzica nelle piazze o ad ascoltare la banda tra mille luci colorate.
Salento, una vacanza indimenticabile.


Castro luminarie e fuochi
Mura messapiche


Processione


Veduta panoramica
 
Giornalisti in posa


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PAVIA: SAN PIETRO IN CIEL D’ORO
di Fabio Greggio

San Pietro in Ciel d'Oro

Esiste una chiesa a Pavia che rappresenta il destino di Pavia: San Pietro in Ciel d'Oro, menzionata da Dante nella Divina Commedia (Paradiso, X) e da Petrarca (lettera a Boccaccio, 1365). La chiesa pavese è ben nota: in essa Boccaccio ambienta un episodio della penultima novella del Decameron. Un gioiello che da sola farebbe la fortuna di una città. Vi sono sepolti Sant'Agostino e San Severino Boezio. Se ciò non bastasse accanto ai Santi anche i principi vi trovarono sepoltura, da Re Liutprando a Galeazzo II Visconti e al figlio Gian Galeazzo. Ed essa, come Pavia, racchiude in se la Storia importante che ha segnato parte del mondo allora conosciuto, ma, inspiegabilmente come Pavia, caduta nell'oblio e nell'indifferenza di tutti, primi fra tutti i Pavesi di cui i più ignorano chi sia sepolto in questa chiesa così appartata e senza campanile, distrutto da Napoleone che la sconsacrò e la ridusse a bivacco e a magazzino, dopo averla depredata. È probabile che la chiesa sia stata fondata, nella zona extraurbana del cimitero romano, a poca distanza di tempo dal martirio di Severino Boezio (525), le cui spoglie vi dovettero essere traslate assai presto. Di certo sappiamo che esisteva nel 604 a Pavia una basilica di San Pietro apostolo, citata da Paolo Diacono, ma non ne conosciamo le forme né l'ubicazione precisa. Tra il 723 e il 725 il re longobardo Liutprando rinnovò la basilica, detta allora «in cielo aureo» forse per un soffitto ligneo dorato o per un mosaico absidale a fondo oro, e vi collocò con tutti gli onori, in una cassetta d'argento, il corpo di Sant'Agostino, che aveva fatto trasportare dalla Sardegna a Pavia capitale del regno. Lo affidò alle cure di una comunità monastica benedettina, istituita in San Pietro in Ciel d'Oro, dove lo stesso re ebbe poi la propria sepoltura (oggi ricordata da un'epigrafe nel pilastro sud-occidentale che regge la cupola). A sua volta Carlo Magno diede impulso a una scuola di studi superiori ospitata nel monastero, nella quale nell' 825 quasi certamente insegnò il monaco irlandese Dungallo. Si trattava di una scuola di grammatica e di retorica ad altissimo livello: vi si conservavano e copiavano codici antichi, primo nucleo della biblioteca che fiorì per secoli presso il monastero (in età moderna saccheggiata fino alla completa dispersione). Papi e imperatori concessero donazioni e privilegi che tra l' VIII e il XIV secolo ne fecero uno dei più potenti e significativi centri culturali e religiosi del Medioevo europeo. Vi furono ospitati importanti personaggi come San Maiolo e l'imperatore Enrico II. 


La chiesa altomedioevale fu totalmente ricostruita tra XI e XII secolo, con una lunga fase costruttiva da ancorare al 1132, data della consacrazione celebrata in occasione del passaggio di Papa Innocenzo II. Intanto la città si era allargata e la nuova cinta muraria (fine XII secolo) aveva abbracciato anche il sedime di San Pietro in Ciel d'Oro, che rimaneva tuttavia in un'area (la cittadella) separata dal nucleo urbano più antico. Nel 1221 i Canonici Regolari subentrarono ai Benedettini e nel secolo successivo (1327) anche gli Agostiniani Eremitani costruirono il loro convento a sud della basilica. Da allora le due comunità religiose si affiancarono nell'officiatura della chiesa. Con le soppressioni dei due conventi (1785) incominciò il declino e molti capolavori andarono dispersi o distrutti. Napoleone nel 1803 destinò a palestra e scuola di artiglieria le strutture conventuali a nord e mise in vendita la chiesa stessa, che divenne magazzino di combustibili e foraggi per le truppe. Un primo salvataggio fu eseguito dal vescovo Luigi Tosi che riuscì a ottenere per qualche tempo l'ex convento lateranense per il Seminario Vescovile (dal 1829 al 1859) e salvò la chiesa dalla demolizione. Nel 1859 però il Ministero della Guerra si riappropriò del convento per farne un ospedale militare. La trascuratezza provocò il crollo della navata destra e nel 1877 crollarono le volte addossate alla facciata. Furono distrutti quasi totalmente anche i chiostri meridionali. Finalmente nel 1884 si avviò il restauro della chiesa, inizialmente mirante alla ricostruzione delle parti crollate, soprattutto col fattivo apporto della Società per la Conservazione dei Monumenti dell'Arte Cristiana in Pavia; nel 1894, grazie allo stanziamento che Luca Beltrami ottenne dal Ministero, l'architetto Angelo Savoldi provvide alla ricostruzione della cripta. La riapertura al culto avvenne nel 1896 e dal 1900 una comunità di Agostiniani è tornata a officiare la basilica e abita strutture conventuali nuovamente costruite sulla sua destra, mentre l'edificio tardo barocco del monastero dei Canonici lateranensi sulla sinistra è affidato ai Carabinieri.


L'arca di Sant'Agostino
Opera di grandissima importanza religiosa, storica e artistica, il monumento funebre di impianto rettangolare a tre ordini ha come precedente l'arca di San Pietro Martire in Sant'Eustorgio a Milano. Fu progettata forse già prima del 1350 ed eseguita in buona parte da un gruppo di scultori lombardi della seconda metà del XIV secolo, maestri campionesi influenzati dal pisano Giovanni di Balduccio. Concepita per essere collocata al centro della sacrestia meridionale (non più esistente), con la possibilità di circolarvi intorno, fu smontata e rimontata più volte, trasferita in Duomo, e infine ricollocata nella chiesa nel 1900. Nel basamento, datato 1362, i riquadri con Apostoli e Santi sono divisi dalle figure allegoriche delle Virtù teologali, cardinali e monastiche. Al di sopra la cella, aperta da otto archi, lascia intravedere la figura del Santo disteso circondato da sei diaconi che sollevano il lenzuolo funebre. Nella volta il Cristo benedicente accoglie l'anima di Agostino nella gloria degli angeli e dei santi, nel momento del trapasso, rappresentato come rinascita gloriosa alla vita eterna. Nel terzo livello, otto riquadri e dieci formelle triangolari presentano scene della vita, dei miracoli e traslazione delle spoglie. Il racconto inizia sul lato frontale, da sinistra:


1. Agostino assiste a una predica di Ambrogio;
2. Conversa con Simpliciano, poi mentre medita sotto un albero gli appare l'angelo che lo invita a leggere;
3. Riceve da Ambrogio, l'abito del neo battezzato insieme a suo figlio Adeodato, alla presenza di Monica. Sul lato corto di sinistra: Agostino in cattedra tra Milano e Roma, le due città dove tenne il suo insegnamento.
Nel lato lungo posteriore, da sinistra:
1. I funerali della madre Monica a Ostia;
2. Agostino presenta la Regola;
3. Vescovo catechizza e battezza un gruppo di giovinetti.
Sul lato corto, da destra:
1. Traslazione del corpo di Sant'Agostino dalla Sardegna (avvenuta nel 724);
2. Arrivo a Pavia e solenne entrata nella chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro.
Nelle formelle triangolari di coronamento, a partire da sinistra, con la stessa sequenza:
1. Agostino libera un carcerato;
2. lo conduce alla sua casa;
3. Libera un'indemoniata.


Sul fianco destro:
1. Apparizione a quelli che, andando a Roma per essere guariti, sono avvisati la notte di visitare a Pavia la sua chiesa (miracolo di Cava Manara);
2. Vengono risanati (è rappresentata la chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro).
Si concentrano così sul lato destro, cioè dalla parte della testa del Santo, le quattro formelle con gli episodi pavesi. Sul lato lungo posteriore:
1. Preghiera e conversione di un eretico;
2. Conversione di eretici (raffigurati con i piedi di pollo);
3. Agostino muore a Ippona.
Sul lato sinistro:
1. Guarigione del cavaliere di Ippona a cui doveva essere amputata una gamba;
2. Un gruppo di persone davanti a una chiesa (forse pellegrini che vanno alla tomba del Santo).



La cripta
Distrutta nel Settecento, la cripta fu ricostruita alla fine del XIX secolo seguendo l'impronta di quella antica. È stato ricostruito anche il pozzo dal quale sgorgava acqua di prodigiose virtù. I capitelli sono stati realizzati dai restauratori ottocenteschi in stile bizantino-ravennate, come il piccolo sarcofago con le reliquie di Boezio. Nella cripta erano nascoste, in un riempimento di muro dietro l'altare, le spoglie di Sant'Agostino, racchiuse in un'urna argentea, con crocette funebri longobarde in lamina d'oro. Rinvenute nel 1695, sono ora conservate nell'altare maggiore. Agostino, nato a Tagaste in Numidia nel 354 e morto nel 430 a Ippona, di cui era vescovo, fu docente prima a Cartagine, poi a Roma e quindi a Milano dove si convertì ascoltando sant'Ambrogio. Tornato in Africa dopo la conversione affiancò all'attività pastorale un'intensa attività culturale producendo una serie di opere di grande rilievo nella storia del pensiero filosofico e religioso dell'Europa fino ancora ai giorni nostri. Anicio Manlio Torquato Severino Boezio, senatore e filosofo, fu fatto imprigionare da Teodorico a Pavia, dove scrisse il De consolatione philosophiae, e dove morì nel 525.  
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LA MAGICA INCANTATA PAVIA
di Fabio Greggio


A Pavia c'è una targa su un muro che ricorda dove visse Ugo Foscolo. Trecento metri prima un'altra ricorda la casa di Ada Negri, a 5 minuti dalla piccola fabbrica che fu della famiglia Einstein e ancora si ricorda Albert che in bicicletta andava sulle rive del Ticino. Più su abitava Alessandro Volta, vicino alla casa di Cardano. E in una piazzetta ombrosa chiamata "della Rosa”, abitava Giosuè Carducci.
Scendendo verso il fiume la basilica di San Michele dove venivano incoronati i Re di un regno che si estendeva fino a Benevento e dove fu incoronato Federico Barbarossa e Liutprando fra i te deum dei cori e i bassorilievi di sirene e grifoni, draghi e arabeschi che ornano la facciata da mille anni esatti.
Appena fuori le mura la chiesetta costruita da Carlo Magno a Santa Sofia per battezzare la figlia Adelaide, e verso nord, ad un soffio dalle mura esterne, la cascina Repentina dove il re francese Francesco I, sconfitto nel 1525, si rifugiò chiedendo cibo e la contadina mise insieme brodo uova e formaggio inventando la famosa zuppa pavese portandone poi la ricetta a corte e diffondendola nel mondo come “Soupe a la pavoise".
Tornando in centro trovi la cattedrale con i resti di San Siro, patrono di Pavia, la città di San Severino Boezio sulla cui tomba fu costruita la Basilica di San Pietro in Ciel D'oro, altra chiesa più a nord all'interno della quale sono sepolti Sant'Agostino, una delle figure più importanti per la religione cristiana, e Re Liutprando.

San Michele Maggiore

Non c'è più il palazzo imperiale di Teodorico dove visse Alboino e Teodolinda, Rotari e Liutprando e quel Ariperto II che rubò tutto il tesoro di palazzo e affogò in Ticino con il peso di tutto l'oro, e nemmeno la statua equestre in faccia alla cattedrale, forse anticamente meccanica come usava a Bisanzio, ma possiamo supporre la piazza dove venne emanato l'Editto di Rotari... e poi ancora la casa di Spallanzani... la cripta di Sant'Eusebio... il naviglio progettato da Leonardo che visse in città diverso tempo all'Osteria del Saracino.
E a proposito di Regisole... Leonardo passò molto tempo a disegnare diverse versioni del cavallo del Regisole per progettare quello promesso a Ludovico il Moro e quindi non ispirandosi come dice la storia al Marco Aurelio, ma alla statua pavese difronte al Duomo..."che come più di ogni altra statua di cavallo, sembra dotata di movimento".


E poi c'è un'altra targa più antica che ricorda l'entrata in Pavia, dopo tre anni di assedio, del re longobardo Alboino, che cadde da cavallo nel 572 d.C., e quando inferocito promise razzie, il suo cavallo si rialzò e un panettiere pavese donò lui un dolce a forma di colomba, ed essendo Pasqua, la colomba divenne il dolce simbolo di pace e della Pasqua in tutto il mondo.
E che dire di Francesco Petrarca di casa vicino alla piazza che oggi porta il suo nome, in vari momenti in quella città che ormai si chiamava Pavia dal 1353 al 1361 allorché scrisse in venti epistole, contenute nel Regesto, tutto il suo amore per Pavia facendola conoscere a tutto il mondo allora conosciuto, amore dichiarato anche all'amico Giovanni Boccaccio in una meravigliosa lettera sulla città, scritta in latino. Petrarca a Pavia perse il nipotino di due anni, sepolto in una chiesa nel centro vicino alla tomba di San Zeno. Della chiesa di San Zeno restano alcuni ruderi in piazza Guicciardi. E alla fine ti accorgi che Pavia non è la classica città di provincia, forse nemmeno di provincia, ma un'antica capitale, una metropoli mancata, un concentrato sconosciuto di Storia, di quella che ha cambiato le cose, gli uomini, i tempi.

Chiesa del carmine
Una città con 25 mila studenti universitari su nemmeno 100mila abitanti dove hanno studiato o insegnato nomi illustri di oggi e di ieri come Rubbia, Pannella, Vecchioni, Goldoni, Foscolo, Volta, Forlanini, Golgi, Galvani, Goldoni e molti altri... Nobel e inventori, scienziati e letterati, che forse passavano frettolosi davanti all'ingresso dell'Università in Strada Nuova, dove di fronte c'è l'antica pasticceria Vigoni che inventò la Torta Paradiso e Torta Margherita.
Bella da morire, misteriosa e antica, una nobile dama che ritrosa, non si lascia scoprire, ma si dà poco alla volta fra quei vicoli nebbiosi che sanno di legno bruciato nei camini e antiche pietre in cotto rosso come le 100 torri altissime da far vergognare Bologna. Pavia discretamente nobile, inspiegabilmente dimenticata, colta e dotta, romantica e ingiustamente ignorata, che ha regalato pagine di storia immortali, che ha visto gli uomini che hanno cambiato la storia, con il suo dialetto ricco di suoni francesi e tedeschi, quasi un milanese con i primi soffi di emiliano, la sua storia è quella di una grande città concentrata in strette mura e un borgo aldilà di quell’ amato fiume che a Pavia è detto "Canàl", quasi fosse fatto da loro, tanto è pavese il Ticino. Tanto bella che basta un po' di pioggia per diventare così magica che, se fai due foto a caso fra i vicoli dal selciato di sassi lucido, lei ti regala immagini irripetibili, lei che fu prima una delle capitali del Regno Ostrogoto con Teodorico e poi per 200 anni la capitale del Regno Longobardo e quindi di quasi tutta la penisola. Lei, che se ci passi una sera d'inverno con la nebbia nei vicoli, scopri che è una delle città più fiabesche e misteriose d'Italia, e non te la dimentichi più, proprio come una bellissima donna..


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IN GIRO PER VERONA
di Lisa Albertini

Lisa Albertini ci porta magnificamente a spasso per la sua splendida città.




Proprio ieri l’altro passai in auto vicino al fiume tra il Parco Naturale dell’Adige e gli ultimi due ponti cittadini, quelli oltre la zona universitaria. Con sorpresa, vidi alcune centinaia di bianchi gabbiani in fila sull’argine. Non saprei perché così tanti, ordinati e ben disposti a guardare verso il centro, anziché l’acqua. Sembravano sfidare il traffico, l’andirivieni degli uffici, attratti dai giardini sotto le mura poco distanti dalle ultime Porte. In una seria intenzione di essere cittadini veronesi anch’essi, residenti dentro l’ansa dell’Adige che contiene, da secoli e millenni, il centro storico. Fu allora, che decisi come condurre in visita a Verona la coppia di amici toscani che attendevo e avevano poco tempo a disposizione. Non è facile, in una città come questa: passeggiando oltrepassi un ponte con i cavalli in bronzo o un altro con i merli, esci in una piazza medievale o rinascimentale, sali su uno scalino vecchio di secoli, scendi nel vallo sotto le mura, entri nel volto di un palazzo o nel chiostro di un’abbazia e scopri molte difformità, scarse similitudini, particolari inattesi un po’ dovunque, che non facilmente ti indirizzano a un’epoca o a uno stile. Nemmeno, però, riesci a giustificare quella sensazione di armonia nella disposizione di forme o colori e d’accoglienza d’ambiente, che provi al primo sguardo. E ancor più si conferma, spaziando con la vista verso i colli circostanti ricchi di verde, posti naturalmente a fare da cornice. Pensai allora di svolgere assieme agli amici un percorso seguendo l’ansa dell’Adige, per il quale cercare riferimenti in secoli di cui non vi è un ricordo vivo, ma si affacciano in noi dalla memoria d’altri, occhieggiando scorci  in cui immaginare i Veronesi d’altro tempo di cui qua e là ancora s’intuisce, silenziosa, la presenza.  


Fermi sul marciapiede del Ponte Pietra, su cui ci siamo incontrati, nel guardare verso il Colle S. Pietro  possiamo raffigurarci  alla sua sommità i Veronesi primissimi dei quali la Storia parla, accampati sul Colle nel Neolitico e poi nell’età del bronzo e del ferro. Cui fecero seguito i primi fondatori del vero nucleo cittadino nell’ansa dell’Adige, l’urbs, che si consideravano protetti, salvo le esondazioni, dalla presenza del fiume, del quale utilizzavano acqua, forza della corrente e difese naturali. Ancora non vi era il Ponte Pietra, costruito nell’anno, il 49 a.C. in cui a Verona venne data da Cesare cittadinanza romana, attribuendole un agrum di 3.700 km. quadrati e definendola municipium, con il nome di Res Publica Veronensium. Nel divenire nodo strategico di collegamento tra Roma e il Nord Europa la città ebbe ricchezza e, in riconoscimento della sua importanza, la costruzione di Terme e del Teatro Romano: sito sotto al Colle, allora si estendeva sino al fiume, mentre adesso in frammezzo  vi si trova una strada e l’argine, costruito dopo l’alluvione del 1882, che alzò il fiume di ben cinque metri oltre l’usuale livello.



Scendiamo dunque dal Ponte e ci avviamo per il lungadige a destra, passando davanti al Teatro. Rimaniamo subito nell’incanto della fila di antiche case colorate, vicine a sorreggersi l’un l’altra dalla sponda opposta e proseguiamo oltre, in direzione del Ponte Nuovo. Lo sguardo ci spazia a sinistra verso l’abitato di Veronetta, fatto di edifici antichissimi signorili e popolari, con insospettabili giardini nascosti, chiostri, scalette, strade e vicoli che segnavano, intorno a Via Interrato dell’acqua morta, anche l’Isolo, reale isolotto racchiuso tra il fiume e una sua diramazione con canali e ponticelli, strategicamente interrato dopo la grande alluvione. Allora animato da attività artigianali di lavorazione dei bachi da seta, legname in arrivo sui barconi dal Trentino, pelli da conciare, oltreché da andirivieni di barche per la gente ospitava un vero traffico, che in buona parte sfruttava la corrente del fiume da Nord a Sud con cui, specie a partire dal X secolo d.C. si animavano pure le pale dei mulini natanti, che immaginiamo lungo il corso dell’Adige, in movimento a gruppi di due o tre. 



Dell’antico borgo ricordo agli amici le botteghe artigiane, presenti sino a buona parte del 1900: dal materassaio (stramassàr), allo stagnino (parolòto), all’impagliatore di sedie (caregàr) e così via, che sin dai tempi più remoti lo costellavano, fra casette dai laboratori a piano terra e palazzi nobiliari ricchi di affreschi e stucchi. Vicino, covi nascosti di delinquenza e osterie, tra miagolii di gatti in amore e squittio di topi, nelle cantine a volta ricche di salumi e vino, tra le urla di pescivendolo (pèssee), straccivendolo (strassarioloo) o arrotino (el molèta).


Sono, quelli, ambienti d’un medioevo lontano, cui Verona rimase sempre fedele. La città sperimentò invasioni barbariche, quindi il passaggio da paganesimo a cristianesimo con la costruzione di chiese e basiliche, piccoli e grandi gioielli come S. Zeno dai dodici apostoli in piedi sulla balaustra, S. Stefano dalle ricche sinopie, e altre. Ebbe poi il dominio di re Teodorico, artefice di nuove mura e torri, di Bizantini e Longobardi, di Carlo Magno e discendenti, sino ad approdare, dopo la lotta tra famiglie guelfe e ghibelline durante la nascita dei Comuni, alla lunga Signoria Scaligera dal 1259 al 1387. Epoca che vide una rinascita culturale e artistica. E assieme l’ampia produzione prima di lana, poi di seta. I traffici via Adige proseguirono per secoli, valutati nel milleseicento con più di 70.000 colli di merci in transito! Il medesimo secolo, sia pure segnato dalla grande peste del 1630, portò le opere dell’architetto Sammicheli, le varie Accademie e una cultura a dimensione europea. Tradizione che si rinnovò sino ad oggi, ampliandosi in aree universitarie, tra cui la recente Provianda, grande panificio che in guerra nutriva centomila soldati al fronte divenuto ora, con larghe volte e muri in pietra, inedita sede universitaria, o in Istituti di Ricerca, Biblioteche, Gallerie d’Arte, Teatri, Conservatori di musica, e quant’altro fa di Verona un’Urbs in continua, dinamica relazione di rinnovamento con altre Città e Stati.
Abbandoniamo ora l’immagine di Veronetta, ricordando che fu dominata a fine del millesettecento dagli Austriaci, e c’inoltriamo, attraversando il successivo Ponte Navi, verso il Centro Storico racchiuso nell’ansa dell’Adige, dominato alla stessa epoca dai Francesi. La curiosa suddivisione della città tra due popoli con diverse lingue e costumi lasciò nel tempo, con fertili e vivaci discordanze tracce nei cittadini.



Alla fine del Ponte ci si apre davanti la vista della gotica basilica di S. Fermo, e a destra un continuum coincidente con il Cardo romano che dalle vie Leoni e poi Cappello, arriva a Piazza Erbe. La piazza, con la sua Domus Mercatorum vicino agli edifici ebraici stretti e alti del Ghetto, ha da parte opposta le case Mazzanti affrescate nel 1500 all’esterno, così come centinaia di case in città, all’epoca urbs picta in un tripudio di scene colorate; sullo sfondo il sognante palazzo Maffei, davanti Madonna Verona e tra banchi e ombrelloni il ricordo delle donne in lunghi abiti colorati e scialli, nei quadri di Angelo Dall’Oca Bianca.
Camminando ora sul lungadige parallelamente al Cardo, guardando il corso del fiume ci sembra di risalirne la corrente, di fatto in continua discesa. Proseguiamo, e da una breve scalinata scendiamo in via Sottoriva bassa e parallela al fiume, con portici antichi sede di vecchie osterie rivisitate, di fronte a botteghe antiquarie. Ancora avanti S. Anastasia, con all’ingresso i due gobbi marmorei a sorreggere le acquasantiere e sullo sfondo  lo straordinario dipinto ‘San Giorgio e il drago’ del Pisanello. Continuiamo oltre, sino al Ponte Pietra e lo attraversiamo girando, questa volta, a sinistra. 



Percorriamo il lungadige di S. Giorgio e i successivi, in fila, sino a raggiungere il Ponte di Castelvecchio. Potremmo da lì rientrare nel Centro Storico e proseguire sino alla passeggiata delle Regaste in riva al fiume verso il borgo di S. Zeno. Rimango invece lì in principio, e conduco gli amici a scendere la scalinata a lato verso il fiume, in uno scorcio indimenticabile: il ponte che rispecchia nell’acqua bassa i suoi riflessi rossastri con merli e torrette, tra voli di gabbiani e ondine di schiuma bianca, vicino a uno slargo di graniglia sassosa e canne di fiume, ad arricchire il greto.
Alle nostre spalle la Verona di oggi: da piccolo mondo antico addensato solamente tra le anse, si è espansa in uno assai più esteso, dai quartieri limitrofi con edifici liberty e giardini ai successivi e ai borghi periferici inglobati. Città nei secoli contesa tra chi la abitava e chi la voleva a tutti i costi governare, trovandosi in posizione strategica tra Nord e Sud, Est e Ovest, messa in ginocchio da terremoti, peste, alluvioni e bombardamenti, fu sempre ricostruita a nuova vita. Detta in altre regioni ‘città della musica’, ospita di continuo concerti e opere liriche, specie in Arena, anfiteatro romano del secolo I a.C., che ancora si conserva in Bra con gradinata per oltre ventimila persone. Offre d’estate drammi di W. Shakespeare al Teatro Romano e commedie nei chiostri di antichi palazzi; da Piazza Bra, nelle notti di plenilunio, il cielo con le stelle spiegato dagli astronomi. Fa assistere ogni anno al dibatto interreligioso tra rappresentanti di diverse confessioni, da Ebrei a Musulmani, da Cattolici ad Evangelici, senza spunti d’ intolleranza e offre amichevole spazio d’accoglienza a ospiti appena giunti, limitrofi o extraeuropei, non dicendo loro tutto di sé al primo istante, ma aspettando che si adeguino all’andamento generale peraltro diviso, come un tempo tra Guelfi e Ghibellini, tra destre e sinistre, a tutt’oggi ineliminabili.


Abbiamo percorso i lungadige, ora non più luoghi d’attracco per chiatte o barconi, ma di passeggio ombreggiati dalle fronde dei tigli dal profumo intenso a primavera. Il flusso d’acqua del fiume, che anima l’abitato dentro e fuori le sue anse assorbe, come un tempo, la foschia invernale e rispecchia gli incendi dei tramonti estivi; della città registra umori, entusiasmi e dissapori, le storie di chi vi abita e di chi passa; le fa scorrere di continuo e le placa, accogliendone in un’unica scia date, censo, colore per poi farle passare tra vecchie case, vicoli, piazzette e scale. Né accenna a fermarsi.

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REPORTAGE DI CHRISTIAN ECCHER
QUADRI DALL’ARMENIA (Sinfonia concertata)
PRELUDIO: Tbilisi, alle pendici del Monte Santo
                                 

Yerevan Piazza della Repubblica

Lungo la riva destra del fiume Mtkvari, la città vecchia di Tbilisi biancheggia aggrappata al Monte Santo, sul quale troneggiano la grande ruota panoramica e il traliccio delle telecomunicazioni. Vista dagli aeroplani che incessantemente sorvolano il Caucaso e che collegano l’Occidente all’Asia, la città vecchia appare come una lastra di marmo bianca rigata da solchi neri e sottili. Quei solchi sono in realtà strade lunghe e strette dove persino la luce si insinua a fatica; sui marciapiedi anziane signore passeggiano curve appoggiandosi al bastone con una busta della spesa inverosimilmente ricolma appesa al braccio sinistro; giovani con gli occhiali da sole si affrettano non si sa dove; coppie di fidanzati passeggiano tenendosi per mano; furgoni carichi di merci arrancano in salita e sfiorano pericolosamente i passanti con gli specchietti retrovisori. In uno di quei vicoli (dalla via Rustaveli, l’arteria principale della città vecchia che scorre parallela al fiume, bisogna svoltare improvvisamente a sinistra dopo aver superato il Teatro dell’Opera e arrampicarsi di qualche metro per poi imboccare con prontezza la prima strada a destra), Lima gestiva il proprio negozio, che si chiamava semplicemente “Market”. Lima è armena, la sua famiglia vive da sempre in Georgia. A Tbilisi è a casa. Nella sua bottega era possibile trovare di tutto: uova fresche, affettati, lampadine, bevande, oggetti per la casa. Magra e gentile, i capelli neri e lunghi raccolti da un fermaglio e lasciati cadere sulle spalle, Lima amava intrattenersi con gli avventori e li accompagnava fin sull’uscio una volta terminati gli acquisti. Dopo 30 anni, è stata costretta a chiudere l’attività: anche i clienti più fedeli hanno optato per i grandi centri commerciali che sorgono ovunque alla periferia della città e che hanno lo stesso aspetto, a Tbilisi come a Bishkek, a Novosibirsk come a Tomsk e a New York. Lima non ha né annunciato né pubblicizzato la chiusura. Una mattina di giugno, una qualsiasi, con l’estate alle porte e gli abitanti di Tbilisi che si svegliano con i capelli già bagnati di sudore per via dell’aria calda e umida che ristagna nella valle, la saracinesca del “Market” è rimasta abbassata. Coraggiosa e decisa, Lima ha venduto il locale, ha lasciato la città e nessuno sa dove sia. “Lima non è più qui”, urlano alcune bambine a chi si avvicini al negozio, mentre saltellano sui contorni irregolari di una “campana” disegnata sul marciapiede con un gessetto colorato. Si arrestano un istante, con in mano il sasso da gettare sull’asfalto, per guardare in faccia coloro che ancora non sanno che il negozio rimarrà chiuso per sempre. Lima ha capito che, pur essendo riuscita a sopravvivere al crollo dell’URSS e al caos economico e politico che negli anni Novanta ha investito la Georgia, non si sarebbe potuta opporre alla forza omologatrice e distruttrice della globalizzazione neoliberista. I grandi consorzi internazionali sono arrivati anche nel Caucaso e hanno ormai quasi completamente soffocato le rivendite al dettaglio.

Yerevan periferia Sud

Il negozio di Lima è adesso in fase di ristrutturazione. Il nuovo padrone lo rinnova e spera presto di affittarlo. In un angolo del locale, Lima aveva il suo ufficio, dove spesso trascorreva anche la notte: una stanzetta ordinata, con i libri di contabilità, il computer, il crocefisso appeso alla parete. Ora è completamente vuota. Sul muro di fronte alla porta di ingresso sono rimasti soltanto l’ombra polverosa lasciata dal crocefisso, che probabilmente Lima ha voluto portare con sé, e un’icona della Madonna che piange inconsolabile sul corpo del figlio morto.

(Le finestre del palazzo di fronte spandono il riverbero del sole sui muri scrostati dell’edificio che a pian terreno ospitava il “Market”. Un muratore siede con le gambe piegate, come un pappagallo sul trespolo, su un mattone, proprio davanti al negozio. Fuma e centellina il caffè appoggiando appena le labbra al bordo della tazzina, quasi abbia paura di romperla. “Sì, certo, Lima, non è più qui, non si sa, non si sa dove sia... Il suo negozio? Va al primo che lo vuole”. Il caldo scioglie l’asfalto. Anche il palazzo signorile all’inizio della via è in ristrutturazione, c’è solo la facciata, come una scenografia a teatro; al di là delle finestre si intravvedono il blu del cielo e il bianco dei cumulonembi di condensazione sui monti del nord; sono le nubi che annunciano il meriggio. Il muratore fuma felice e incredulo di avere davanti a sé un uomo di “besa”, venuto dalla pianura del Danubio per far fede alla parola data molti anni prima in quel negozio della Città Vecchia).

Per le strade di Yerevan

PRIMO MOVIMENTO: romantico e un poco solenne (come il primo atto di “Anush”)
La strada che collega Tbilisi all’Armenia ha solo due corsie. È percorsa da camion mastodontici, ricchi fuoristrada, vecchie e piccole “Lade” con il portapacchi coperto da teli di plastica i cui orli vibrano gioiosamente al vento, e dalle marshrutke, furgoni adibiti al trasporto dei passeggeri. Un solo treno al giorno va da Batumi, sulla costa del Mar Nero, a Yerevan, via Tbilisi, passando per la Colchide, la pianura in cui gli argonauti cercarono il vello d’oro e che oggi viene attraversata in fretta dai turisti diretti in Turchia o a Kutaisi, la città che ha aperto il proprio aeroporto alle compagnie aeree europee a basso costo. La Georgia guarda sempre più a occidente e sembra voler dimenticare il proprio passato sovietico. Gli autobus pubblici sono quasi inesistenti; chi non è dotato di un mezzo proprio e voglia raggiungere la capitale armena si deve affidare alle marshrutke o ai taxi. Un sistema che dà lavoro a decine di persone, soprattutto a coloro che erano impiegati in aziende statali sovietiche, privatizzate dopo il crollo dell’URSS e fallite nel giro di pochi anni. L’altipiano che separa Tbilisi dalla frontiera è martoriato dal sole: la forte luce invade l’intera volta celeste e schiaccia l’erba al suolo, per giorni, fino a farla ingiallire a poi morire. Già agli inizi di luglio, i prati verdi si trasformano in un’enorme spianata di sabbia marrone, su cui si aprono qua e là le chiome di piccoli e coraggiosi alberi. Sono per lo più acacie, le cui foglie sono verdi e impassibili, indifferenti al caldo che soffoca il Caucaso. Lungo la strada, semplici casupole di cemento ospitano rivendite di frutta e verdura; impossibile scorgere l’interno di questi negozi che vivono del traffico frontaliero: lenzuola bianche o tende nascondono l’uscio per difendere commercianti e avventori dal caldo e dalle mosche. A un certo punto, l’altipiano lascia il posto a colline dalle cime aspre e appuntite, che mimano montagne d’alta quota. La strada piega improvvisamente verso ovest e la frontiera si annuncia dietro a un’altura su cui svetta un traliccio con in cima un grappolo di ripetitori circolari e antenne di trasmissione rivolti verso Tbilisi. Le marshrutke si incolonnano indisciplinate al posto di blocco, cercano di superarsi a vicenda per arrivare prima ai controlli. I passeggeri scendono e si incamminano verso l’edificio bianco e lungo dove si trova la frontiera. Oltrepassato il confine, bisogna percorrere un centinaio di metri a piedi e superare il ponte sul fiume Debed, lungo il quale si attorciglia la ferrovia a un binario che si ostina a rimanere in territorio georgiano ancora per qualche chilometro prima di incontrare un cavalcavia e superare lo stretto corso d’acqua verde, che scorre veloce verso la piana del Mtkvari. Dal confine si intravvede già l’Armenia, mentre la Georgia rimane chiusa, invisibile al di là dell’altura su cui svettano i ripetitori. L’edificio della dogana, oltre il prefabbricato in lega metallica in cui alloggia la polizia di frontiera, è in tufo rossastro, a indicare l’ingresso in una terra di vulcani ormai spenti, di magma innocuo perché da secoli raffreddato, ma anche di terremoti improvvisi e violenti.

Armenia del Sud, composizione geologica

Superato Bagartashen, un paese che si trova a ridosso del confine, il paesaggio cambia radicalmente. La strada percorre un tratto lungo la valle del Debed per poi arrampicarsi, fra continui tornanti, sulle alture dell’Armenia settentrionale. La vegetazione è fitta a valle e si fa più rada a mano a mano che si sale. I querceti e i faggeti lasciano il posto ai pini caucasici, che ornano i pendii a mezza costa; sotto la fascia dei pigneti domina il verde confuso della vegetazione tipica delle quote più basse; al di sopra si estendono i piani alpini ricoperti di erbe e licheni che trasformano le montagne in calvi giganti. Ai lati della strada, negli spiazzi polverosi fra la carreggiata e lo strapiombo, dove spesso gli automobilisti si fermano per riposare, compaiono bancarelle improvvisate dietro alle quali siedono anziani signori o adolescenti. Vendono frutta, verdura, acqua, pannocchie di granoturco appena abbrustolite. Fra le piramidi di cocomeri striati di bianco fanno capolino le teste abbronzate di bambini ubriachi di sole. Immobili, seduti per terra o su un mattone appoggiato sull’asfalto, guardano indifferenti e con gli occhi socchiusi le auto sfrecciare. Nessuno sembra accorgersi che l’immobilità a cui il meriggio costringe la natura è solo apparente. Nelle viscere della terra, la placca tettonica europea continua a scontrarsi e a essere sommersa da quella iraniana, in un processo lento e inarrestabile che dura ormai da 25 milioni di anni. Le rocce si contorcono come serpenti arrabbiati, scivolano l’una sull’altra, si distendono fino all’inverosimile per poi rompersi di schianto, rilasciando calore ed energia a scuotere come un panno di bucato l’intera penisola caucasica. Le due placche cominciarono a scontrarsi nel Cenozoico; nello stesso periodo anche l’Africa iniziò a muoversi verso nord, verso l’Europa. Contemporaneamente al Caucaso, anche in Europa la terra si increspò e formò i primi corrugamenti alpini. I movimenti tettonici dell’Eurasia condannarono l’antico Oceano Tetide alla scomparsa; chiuso in una morsa mortale, l’antico mare si restrinse fino a diventare un golfo all’interno del Mediterraneo, destinato a sua volta a sparire fra pochi milioni di anni, quando la penisola italiana scivolerà su quella balcanica. Il grande Oceano di un tempo era stato già dai marinai della Serenissima declassato a “Golfo di Venezia”, anche se i geografi delle epoche successive gli hanno restituito la dignità di mare, mare Adriatico, dal nome di Adria, una città scomparsa, di cui non si sono mai trovati i resti. Nel Caucaso, come in Italia e nei Balcani, la Grande Catastrofe sembra lontanissima; forse arriverà quando l’umanità non esisterà già più, in un tempo altro, mitico, in cui il passato si ricongiungerà al presente, chiudendo il Tempo in una circolarità letale, che annullerà anche lo spazio e ridurrà l’esistente a un unico punto nero nel vuoto del nulla. In ogni caso, i venditori ambulanti sanno che non vale la pena occuparsi di simili questioni e sembrano essere impensieriti esclusivamente dal fatto che solo raramente gli automobilisti sostano per rifornirsi di viveri. Le marshrutke invece non possono permettersi il lusso di fermarsi, e il viaggio verso Yerevan continua, fra sorpassi e bruschi abbrivi.

Armenia del Sud

(I paesaggi del nord dell’Armenia non sono cambiati molto da come li aveva rappresentati il pittore Stepanos Nersissian a metà ’800. Le ragazze dei paesi e delle contrade sprofondati nelle vallate non vanno più alla fonte per prendere l’acqua, ma la natura è rimasta selvaggia come un tempo. In uno di questi villaggi nacque anche il poeta armeno romantico Hovhannes Tumanyan, che creò la sua opera principale, “Anush”, nel 1892. Il poema è scritto nella variante orientale della lingua armena, che è anche l’idioma ufficiale dell’attuale Repubblica Armena. La variante occidentale era invece parlata nei territori dell’ovest, nell’ex impero ottomano, ed è oggi la lingua della diaspora. Le due varianti si discostano a tal punto da far pensare che si tratti di due lingue diverse. Il compositore Armen Tigranyan musicò il testo di Tumanyan e nacque così il primo melodramma armeno. Era il 1912, il paese viveva, in ambito culturale, il proprio risorgimento nazionale. La musica di Tigranian accosta motivi popolari armeni a quelli tipici del romanticismo russo, soprattutto di Pietr Ilich Chajkovski. A Vienna, il compositore Gustav Mahler -colui che fece letteralmente esplodere la tradizione classica europea e aprì le porte a una nuova era in campo musicale- riposava già da un anno nel cimitero di Grinzig insieme alla figlia Maria “Putzi”, morta nel 1907. L’Armenia arrivava in ritardo rispetto all’Europa, ma ciò non vuol dire che l’arte di questa piccola nazione sia meno interessante di quella occidentale. Nella musica di Tigranyan, inoltre, non mancano echi wagneriani, a testimoniare che il nuovo aveva comunque fatto breccia anche nel Caucaso. Le ragioni del Risorgimento culturale tardivo armeno vanno ricercate nelle complicatissime vicende storiche del paese: alla fine del XIV secolo, gli armeni avevano perduto per sempre il proprio impero -che nei tempi antichi si estendeva dall’attuale Turchia orientale fino al Mar Caspio- a causa delle continue e snervanti invasioni dei Turchi, dei Persiani e dei Mammalucchi siro-egiziani. Soltanto nel XIX secolo gli armeni dell’est si sono ritrovati sotto un’entità statuale stabile. Nel 1813, infatti, passarono sotto il dominio degli zar russi, insieme alla Georgia. Furono gli armeni e i georgiani stessi a chiedere protezione ai russi affinché li difendessero dalle continue scorribande dei persiani, popolo musulmano. A unire russi, armeni e georgiani era la religione, il cristianesimo ortodosso. Gli zar garantirono quella tranquillità politica necessaria allo sviluppo di una coscienza e di un’arte davvero nazionali. Gli armeni dell’ovest, invece, erano già da secoli sotto il giogo dell’impero ottomano. Fino al 1991, anno in cui fu proclamata l’indipendenza, non è esistito un vero e proprio stato armeno, a eccezione della breve parentesi costituita dalla Prima Repubblica, nata nel 1918 e spazzata via dai Bolscevichi due anni più tardi. Nell’attuale Repubblica Armena il russo è ancora molto diffuso, anche se i giovani tendono ad abbandonare l’idioma di Tolstoj per concentrarsi sull’inglese, una lingua molto prestigiosa non solo perché parlata ovunque, ma anche perché veicola ideologie e modelli di vita occidentali. I rapporti fra Yerevan e Mosca sono rimasti comunque ottimi, e non sono come quelli che solitamente intercorrono fra uno Stato colonizzato e quello colonizzatore. Non si può parlare di vera e propria dominazione da parte dei russi in Armenia: piuttosto di simbiosi, di coesistenza di culture, in cui il Cremlino ha avuto spesso l’ultima parola per via della propria superiorità demografica, politica e, soprattutto durante il periodo sovietico, anche militare).

Armenia del Sud, composizione geologica

All’improvviso, dopo una lunga galleria, la strada abbandona le montagne e digrada verso valle, per costeggiare il lago Sevan, uno dei più grandi del Caucaso, i cui colori e le cui spume ricordano il mare. L’azzurro cobalto dell’acqua profonda e dolce contrasta con il marrone scialbo, spoglio e polveroso delle alture limitrofe. Il cielo dialoga con il lago, quasi a voler ribadire la dominazione incontrastata del blu sul paesaggio circostante. La strada diventa più comoda, a quattro corsie, e le marshrutke possono accelerare; Yerevan dista solo un’ora dal bacino di Sevan e i primi grattacieli si stagliano all’orizzonte, sagome regolari che compaiono e scompaiono fra gli scheletri dei magri cespugli cresciuti lungo il bordo dell’autostrada e già seccati dal sole.

SECONDO MOVIMENTO: allegro con moto - notturno, allegro sostenuto alla Khachaturyan

Yerevan, periferia Sud

Il centro di Yerevan è racchiuso all’interno di un anello, costituito a ovest da un largo boulevard al centro del quale si trova un parco lungo e stretto, costellato di caffè e ristoranti. A est e a nord, invece, i declivi delle colline cingono la città, quasi fossero gli spalti di uno smisurato teatro a cielo aperto di cui la stessa Yerevan costituisce l’immensa platea. Yerevan è moderna, quasi interamente edificata in tufo rosa-rossastro. Agli inizi del secolo scorso, l’architetto Alexander Tamanyan ridisegnò la pianta urbanistica del centro storico; i palazzi da lui progettati sono ispirati al classicismo italiano e al Medioevo armeno: la piazza principale, Piazza della Repubblica, non solo ricorda l’architettura italiana del periodo fascista, ma sembra anche ricalcare la metafisica delle “Piazze d’Italia”, la serie di dipinti realizzata da Giorgio De Chirico agli inizi del secolo scorso. I fregi e gli ornamenti dei palazzi sono quelli tipici delle chiese medievali armene. Anche l’imponente scalinata delle “Cascate”, adagiata sulla collina a nord-est della città, ricorda in maniera impressionante Piazza di Spagna a Roma. Yerevan sembra voler a ogni costo rimarcare le proprie radici occidentali e rimuovere quelle orientali, russe, persiane e in misura minore anche turche. L’Armenia è un paese fortemente nazionalista e ciò è visibile persino nella struttura urbanistica della capitale. La via principale, che taglia l’anello del centro da nord a sud-est, è intitolata a Mesrop Mashtos, il monaco e linguista che nel 405. d.C. codificò l’alfabeto armeno. Via Mashtos, dopo aver attraversato trionfalmente il cuore della città, finisce ai piedi del Matenadaran, un maestoso edificio in stile neoclassico che ospita tutti i manoscritti e i libri stampati della tradizione armena, dal Medioevo fino al Novecento. Il Matenadaran non è un semplice museo, ma un vero e proprio tempio: le sale sono state progettate in maniera tale da assumere le sembianze delle antiche chiese armene che si trovavano in territorio ottomano, quelle distrutte dai “Giovani Turchi” ai tempi del genocidio. I manoscritti non sono solo dei documenti storico-culturali, ma anche dei veri e propri feticci. La visita al Matenadaran è sentita come un obbligo morale da ogni cittadino armeno e ha una valenza patriottica e quasi religiosa. Accanto al Matenadaran si trova la gigantesca statua in bronzo della “Madre Armenia”, una donna dai tratti fisici squadrati (ispirati di nuovo alla retorica fascista italiana, soprattutto alla statua della Sapienza che si trova all’Università di Roma) con in mano una spada, a proteggere la città e l’intera nazione. I turisti camminano lentamente per le vie del centro, con le macchine fotografiche appese al collo e la bottiglia dell’acqua in mano come unica difesa dal sole forte e dal caldo che assedia la città. La vera Yerevan, quella sincera, autentica, non imbellettata di lussuosi negozi e dei simboli tipici della globalizzazione neoliberista, si trova però a sud, lì dove i visitatori stranieri raramente si avventurano. La metropolitana, costruita durante il periodo sovietico e costituita da treni con due soli vagoni, collega la periferia settentrionale, dove si trovano i quartieri residenziali, a quella meridionale, che fino agli inizi degli anni Novanta ospitava le principali fabbriche del paese. 

Lavash
Nell’Unione Sovietica una città acquistava prestigio e poteva vantarsi di essere una metropoli solo se aveva la metropolitana. Tbilisi e Yerevan erano capoluoghi piccoli e la costruzione di una ferrovia urbana sotterranea è stata un dono politico del Cremlino alle due capitali del Caucaso e non il frutto di una scelta legata alla necessità di muoversi velocemente e di diminuire il traffico di superficie. L’Armenia era famosa per le sue industrie metalmeccaniche, che producevano materiale rotabile per le ferrovie dell’intero impero sovietico. C’erano anche fabbriche specializzate nell’alta tecnologia (un settore che è ancora oggi abbastanza forte nel resto del paese, ma non nella capitale), in particolar modo nella creazione di microchip e componenti aero-spaziali. Negli anni ’90, dopo una sciagurata politica di privatizzazioni, la maggior parte delle industrie è fallita. La periferia sud di Yerevan è un triste monumento ai tempi passati, emblema di decadenza e di abbandono. Ai lati della linea della metropolitana si susseguono gli edifici che un tempo ospitavano operai e macchinari. I vetri alle finestre sono rotti o scheggiati, il ferro degli infissi, che nessuno più ha verniciato, cola sotto forma di ruggine sui mattoni di tufo rosso. All’interno dei cancelli la vegetazione ha preso il sopravvento sulle panche e sugli spazi in cui i lavoratori si riunivano per fumare durante le pause. I binari di servizio, che collegavano alcune aziende con la linea ferroviaria per Tbilisi e l’Iran, si snodano per decine di metri incorporati nell’asfalto di stradine secondarie. Si interrompono all’ingresso degli ex stabilimenti: la morsa dell’asfalto si allenta e le rotaie tornano a scorrere sulla terra; vengono però subito soffocate da erbacce altissime e persino da qualche albero da frutto, cresciuto per caso fra le traversine. Le uniche fabbriche ancora attive sono quelle legate alla produzione di materiali edili e alla manifattura del tabacco. Lungo il grande boulevard che unisce il centro della città all’autostrada, ci sono solo alcune officine, davanti alle quali giovani apprendisti abbronzati e a petto nudo sorseggiano un caffè o bevono una coca-cola ghiacciata. Guardano sornioni i rari passanti, con gli occhi semichiusi per l’albedo solare che spande luce ed energia non solo dal cielo, ma anche dall’asfalto e dagli edifici circostanti. Le uniche abitazioni a mostrare qualche traccia di vita sono le vecchie “krusciovke” a 5 piani, i condomini che il Presidente dell’URSS Nikita Krusciov fece costruire per risolvere l’annoso problema della casa che costringeva le famiglie dell’impero a condividere gli appartamenti.

Noravank

La situazione economica in Armenia è critica proprio perché non c’è produzione industriale. Anche in centro, sono numerosi i segnali che indicano il disagio in cui la popolazione è costretta a vivere: balza agli occhi l’enorme quantità di “Lombard”, una parola che in russo sta a indicare i monti di pietà: già nel Medioevo, infatti, i primi ad aprire i banchi dei pegni ovunque in Europa furono dei ricchi commercianti lombardi. In uno di questi locali c’è anche Astrid, professoressa di chimica all’Università di Yerevan. Alta e dinoccolata, la pelle olivastra, i capelli nerissimi e gli occhi grandi e allungati, sta impegnando la collana d’oro ereditata anni fa dalla nonna: “Non è un grande problema -dice Astrid con un sorriso che non riesce a nascondere la delusione- a settembre comincerò di nuovo a tenere lezioni private e ricomprerò la collana. Purtroppo adesso è estate e gli studenti sono in vacanza. Solo dello stipendio universitario non è possibile vivere: la paga media di un docente è di circa 180 dollari al mese...”

Hovhannes Aivazovsky. "Noè scende dall'Ararat" (1889)

TERZO MOVIMENTO: lento ma non troppo – ostinato

Azhad Saryan vive in un appartamento in centro città, in un edificio in mattoni di tufo rosso che si trova proprio lungo la via Mashtos. Siede al tavolo di lavoro e con un monocolo appoggiato all’occhio sinistro incastona con grande precisione una pietra preziosa nel gambo di un anello d’oro. Azhad ha appreso sin da bambino dal padre Serzh l’arte orafa. Ogni domenica mattina vende i gioielli che produce in una specie di fiera che ha luogo in un ampio locale nella centralissima Piazza della Repubblica. Azhad è in realtà un assistente sociale, lavora in una cooperativa da lui stesso fondata insieme a degli amici alcuni anni fa, quando ha capito che non avrebbe potuto impiegarsi in un ente pubblico senza l’appoggio di un politico o di un qualche potente amministratore. Dopo un anno trascorso in Russia, a Mosca, in cerca di una sistemazione migliore, Azhad ha deciso di tornare a Yerevan per non lasciare soli i genitori ormai anziani, Serzh e Iulia. Serzh ha lavorato per 40 anni come ingegnere presso l’Azienda Trasporti di Yerevan. Ha una pensione di circa 90 euro al mese. Iulia ha insegnato lingua armena per tutta la vita nella scuola elementare del quartiere e la sua pensione è uguale a quella del marito. La famiglia Saryan, per potersi permettere una vita decente, non solo crea e vende gioielli, ma ospita anche a casa propria studenti e volontari stranieri, per lo più giovani, la seconda o la terza generazione di emigranti armeni che decide di tornare nella terra dei progenitori per imparare la lingua. La Repubblica Armena ha circa 3 milioni di abitanti; più di 8 milioni di armeni vivono all’estero, soprattutto in Russia, negli Stati Uniti d’America e in Ucraina. La diaspora armena è cruciale per la sopravvivenza della stessa Repubblica: le rimesse degli immigrati non solo contribuiscono a risanare le casse dello Stato, ma anche quelle delle singole famiglie rimaste in patria che possano vantare almeno un parente in terre lontane. I Saryan all’estero non hanno nessuno, e per questo si arrangiano come possono per arrivare alla fine del mese. In una calda sera d’estate, Iulia si intrattiene con gli ospiti stranieri nella spaziosa cucina del suo appartamento. Sul tavolo ci sono ancora i resti dell’abbondante cena: il lavash - il pane armeno, piatto come una piadina-  il formaggio salato, le melanzane affumicate e trifolate in padella, la carne, il vino rosso della piana di Areni, la località dove per la prima volta nella storia gli esseri umani hanno scoperto la vite e i segreti della sua coltivazione. Iulia esalta le gesta del popolo armeno, che è eroicamente sopravvissuto al genocidio e che per secoli non ha avuto un proprio Stato. Ricorda che nel Medioevo l’Armenia occupava l’intero Caucaso, prima che arrivassero gli “usurpatori”, vale a dire georgiani, azeri e turchi. Nello stesso tempo, però, è molto critica nei confronti delle attuali élite politiche, soprattutto del presidente Serzh Sargsyan, che governa ininterrottamente il paese dal 2008. Nel 2018, Sargsyan non si potrà più candidare ma il Parlamento ha prontamente cambiato la Costituzione e dal 2017 l’Armenia non sarà più una Repubblica presidenziale bensì parlamentare. Questo significa che i poteri politici non si concentreranno più nelle mani del presidente ma in quelle del premier. Inutile dire che Sargsyan sta già pensando di presentare la propria candidatura a Presidente del Consiglio. Iulia era una compagna universitaria di Sargsyan. Lo ricorda come un ragazzo silenzioso, timido, ma con grandi capacità organizzative. Il presidente appartiene al Partito Repubblicano, che ha stravinto alle elezioni politiche del 2012 e che controlla in toto la vita pubblica e i mezzi di comunicazione di massa del paese. In ogni caso, la popolarità del Presidente sembra lentamente ma inesorabilmente incrinarsi: nonostante abbia ancora l’appoggio della maggioranza della popolazione, nelle strade di Yerevan si sentono sempre più spesso lamentele nei confronti delle scelte politiche dei governanti. 

Noravank . Il Dio mongolo cristiano

Nel 2013, dopo un incontro a quattr’occhi con il presidente russo Vladimir Vladimirovich Putin, Sargsyan ha deciso di interrompere le trattative legate a una collaborazione economica e culturale con l’Unione Europea per avvicinarsi all’Unione Eurasiatica, in cui l’Armenia è entrara nel 2015. Dell’Unione Eurasiatica fanno parte la Federazione Russa, la Bielorussia, il Kazakistan e il Kirghizistan. La decisione di Sargsyan non è campata in aria: la Russia -che ha promosso con tutte le proprie forze la formazione di questa organizzazione internazionale- è un partner importantissimo per l’Armenia. Nell’immenso territorio compreso fra Mosca e Vladivostok vive più di un milione di armeni e il fatto che per loro non sia necessario il visto di ingresso è un vantaggio notevole. In più, la Russia non ha soltanto interessi nel Caucaso, ma è anche fisicamente presente nel nord della penisola: paradossalmente, la sua influenza è più forte in Armenia o in Sud Ossezia che non in Cecenia e nelle altre repubbliche caucasiche direttamente controllate da Mosca. La rottura delle trattative con l’UE ha però costretto l’Armenia all’isolamento geo-politico: le frontiere con la Turchia sono chiuse a causa dei problemi legati al genocidio di inizi Novecento, quando il governo dei “Giovani turchi” fece uccidere 1 milione e mezzo di armeni presenti sul territorio ottomano: l’UE avrebbe potuto contribuire a scongelare i rapporti fra i due paesi. Le relazioni diplomatiche con l’Azerbaigian sono ai minimi storici a causa della guerra in Nagorno-Karabakh; quelle con la Georgia sono assai precarie: Tbilisi ha optato per una decisa e chiara politica pro-occidentale, soprattutto dopo l’aggressione russa che fra il 1991 e il 2008 ha sottratto al paese l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia. Solo l’Iran, con cui l’Armenia condivide il confine meridionale, gode apparentemente della totale fiducia di Sargsyan e dei suoi uomini. Frotte di turisti iraniani si aggirano per le vie di Yerevan: per loro non è necessario il visto di ingresso. Coppie scure di carnagione che si tengono per mano e ragazze giovani con lo chador appena appoggiato sui capelli, in maniera sensuale e provocante, mangiano nei ristoranti e fotografano piazze e fontane, persone e luoghi di culto. L’Iran, però, sembra preferire come partner commerciale caucasico l’Azerbaigian, con cui ha stipulato degli accordi per la costruzione di una ferrovia che unirà la Russia a Teheran. Il progetto iniziale prevedeva che il tracciato passasse per l’Armenia, ma si è rivelato troppo costoso e gli Ayatollah hanno preferito accordarsi con Baku. Richard Giragosyan, direttore dell’ONG “Regional Studies Center”, ha lavorato per molti anni negli Stati Uniti, al servizio della Casa Bianca. Ha deciso di tornare nella terra dei suoi avi e di dedicarsi alla sua ONG, che è legata al governo degli Stati Uniti ma che mantiene un ampio margine di autonomia e si dedica soprattutto a studiare la situazione politica armena. Energico e deciso, alto e sportivo, non risparmia parole e commenti quando qualcuno gli pone domande di scottante attualità. “In Armenia, la Russia controlla completamente settori strategici quali quello dell’energia, delle telecomunicazioni, dei trasporti e, indirettamente, l’intera economia. Adesso che siamo nell’Unione Eurasiatica, ritengo sia estremamente difficile che Mosca permetta l’ingresso di investitori stranieri nel nostro paese... Certo sarebbe un suicidio rompere le relazioni con la Russia”. Secondo Giragosian l’Armenia ha tutte le carte in regola per posizionarsi fra Oriente e Occidente, fra l’UE e la Russia, approfittando anche dei litigi fra le grandi potenze che ancora oggi, così come cento anni fa, tentano di estendere la propria influenza sul Caucaso. “Il nostro ceto politico non è in grado di attuare una così alta politica estera, che prevede scelte delicate e oculate. I governanti armeni -continua Giragosian- sono dei vecchi dinosauri che non hanno idea di quello che avviene oggi nel mondo contemporaneo. I più pericolosi, poi, sono quelli che indossano abiti occidentali, parlano la stessa lingua degli europei e degli americani, conquistano il loro appoggio e le loro simpatie ma hanno una mentalità sovietica e un solo obiettivo – la presa del potere a qualsiasi costo”. Eppure, qualcosa sta lentamente cambiando: “Le nuove generazioni hanno una mentalità completamente diversa rispetto a quella dei nostri politici. Sono in contatto con il mondo, sanno le lingue, si informano attraverso internet. Prima o poi i giovani arriveranno al potere e le cose dovranno cambiare. 

Georg Bashinjaghian "Ararat" 1912

L’Armenia ha un grande potenziale umano e culturale”. Giragosian conclude l’intervista con una nota personale, inaspettata ma gradita perché molto sincera: “Io non sono pazzo. Non avrei mai lasciato gli USA, dove lavoravo per il governo, per trasferirmi in un paese che non ha futuro. Se sono qui è perché so che le cose cambieranno, e in meglio”. Giragosian ha ragione: le giovani generazioni, anche se a livello politico non sono affatto attive, hanno una nuova mentalità che potrebbe davvero modificare il volto del paese, nonostante siano molto più isolate rispetto a quelle georgiane, azere e turche. Perché? La colpa è della politica estera di Yerevan: i problemi con la Turchia, come accennato, sono di vecchia data (Se Yerevan piange, Ankara e Istanbul non ridono. In questa calda estate del 2016, una delle più torride da quando si hanno misurazioni meteorologiche attendibili, in tutte le città della Turchia si respirano nervosismo e terrore, che si appiccicano alle pelle come l’umidità contenuta nell’aria bollente. Gli elicotteri sorvolano di continuo i quartieri di Istanbul con piccole telecamere attaccate ai pattini. Carri armati e mezzi blindati della polizia stazionano immobili come pachidermi nella piazza davanti alla Moschea Blu, dove i turisti si radunano per poi disperdersi nei vicoli a ridosso del mare. La libertà di movimento per i cittadini turchi è sospesa, le foto del presidente Erdoǧan giganteggiano ovunque, sui muri delle case, in metropolitana, sui cartelloni pubblicitari. Un’enorme bandiera, rossa con in mezzo la mezzaluna bianca, pende davanti a un negozio di alimentari; si agita alla brezza della sera e accarezza per un istante il volto delicato di un transessuale iraniano che cerca fra i turisti un compagno con cui trascorrere il tempo che lo separa dall’alba)

Karen Harutynyan

Dopo l’indipendenza, proclamata nel 1991, l’Armenia aveva instaurato contatti diplomatici con Ankara, ma la guerra in Nagorno-Karabakh ha fatto precipitare la situazione. Durante il conflitto, infatti, la Turchia ha appoggiato l’Azerbaigian, che già ai tempi dell’URSS contendeva all’Armenia questa piccola regione montuosa al confine con l’Iran. Il Nagorno-Karabakh era abitato sia da armeni sia da azeri. Lo scontro armato è cominciato nel 1988 ed è ufficialmente terminato nel 1994, anche se al fronte le scaramucce continuano con sparatorie e provocazioni reciproche da parte di entrambe i contendenti. Il Nagorno-Karabakh ha anche proclamato l’indipendenza ma nessuno stato al mondo l’ha riconosciuto. Dal 1994 in poi, gli azeri sono stati cacciati dalla neonata e sedicente repubblica, così come da tutto il territorio armeno. La stessa cosa è accaduta agli armeni residenti in Azerbaigian. Certo è che dopo centinaia di anni di contatti e scambi economici e culturali, i rapporti fra Yerevan e Baku si sono completamente interrotti e, per la prima volta nella storia, le giovani generazioni dei due paesi in lotta non hanno alcun tipo di rapporto con i vicini. Come è possibile che un conflitto armato duri da così tanto tempo e che non si sia ancora trovata una soluzione? Il Nagorno-Karabakh è una terra estremamente povera e i pochi giacimenti petroliferi non giustificano odi così profondi e una guerra così lunga e snervante. La verità è che i governi armeno e azero utilizzano la regione per creare un sentimento nazionale forte e distrarre l’attenzione dei propri cittadini dai numerosi problemi interni. Uwe Halbach, ricercatore presso la “Stiftung Wissenschaft und Politik” di Berlino, afferma che la politica azera e armena è completamente “karabachizzata”. La retorica bellica, che è presente quotidianamente sui media, ha il compito di accrescere il patriottismo all’interno dei due paesi e di addossare le colpe del malcontento sociale a un nemico esterno. Fonti vicine al presidente Sargsjan, che vogliono restare rigorosamente anonime, asseriscono che sono in corso dei tentativi da parte del governo armeno per trovare una soluzione definitiva al problema legato al Nagorno-Karabakh. 


L’Armenia sarebbe pronta anche a restituire alcuni territori illegalmente occupati che appartengono senza dubbio all’Azerbaigian. Le trattative sono però segrete: dopo anni di propaganda, il popolo armeno non è pronto ad accettare alcun tipo di compromesso. Il primo presidente armeno, Levon Ter-Petrosyan, ha perso le elezioni nel 1998 proprio perché stava cercando una soluzione pacifica al problema, che potesse accontentare anche gli azeri e smorzare una volta per tutte le tensioni. Per questo Sargsyan è molto cauto e non esce allo scoperto con proposte pubbliche. In ogni caso, nell’aprile del 2016 la polizia ha arrestato Zhiran Sefilyan, un eroe di guerra che da anni organizza proteste pacifiche in tutta l’Armenia contro il governo e il presidente e che si è apertamente schierato contro ogni eventuale cessione di territori all’Azerbaigian. Sefilyan ha fondato un movimento che si chiama “Riformare il parlamento” ed è stato accusato di voler organizzare un attentato terroristico volto ad abbattere il ripetitore delle telecomunicazioni di Yerevan. Le accuse erano in realtà tendenziose; fatto sta che a luglio un gruppo di veterani di guerra ha occupato una stazione di polizia alla periferia della capitale, uccidendo anche alcune guardie, per richiedere la liberazione di Sefilyan. I combattenti speravano che il popolo si riversasse nelle piazze e nelle strade della città per sostenerli, ma vicino alla caserma si sono radunate poco centinaia di manifestanti. Dopo giorni di trattative, i “terroristi” sono stati arrestati, nonostante le autorità avessero promesso loro l’amnistia. La loro protesta non era legata solo al Nagorno-Karabakh, ma anche alla situazione politica interna, alla corruzione e alle numeroso difficoltà in cui l’economia armena si dibatte. In generale, i veterani di guerra, molti dei quali soffrono di stress post-traumatico e vivono in condizioni di estrema povertà, sono stati quasi dimenticati dal governo, non hanno un lavoro e ricevono pensioni miserrime; oltre a ciò, non hanno alcun riconoscimento o prestigio sociale. Si possono rifugiare solo nell’alcol oppure nella lotta armata. La famiglia Saryan è rimasta sconvolta dagli eventi di luglio e segue con interesse e passione le proteste dei pochi cittadini che ogni venerdì si riuniscono nella piazza del teatro dell’Opera per chiedere le dimissioni di Sargsyan e del governo. Quelle rare volte che i manifestanti sfilano in corteo per la via Mashtos, dove si trova l’appartamento dei Saryan, Iulia chiude la finestra per non far sentire agli ospiti stranieri gli slogan e le urla arrabbiate. Non solo, sono proprio quelli i momenti in cui Iulia esalta le gesta passate del suo popolo. 

Vardges Surenyants  "Ferdowski legge il poema Shahn" 1913

Il passato diventa mito quando il presente è insopportabile e il futuro sembra essere destinato a non arrivare mai. La situazione attuale in Armenia è molto simile a quella balcanica degli anni Novanta: da un lato c’è un’insoddisfazione diffusa e radicale per via delle pessime condizioni di vita, dall’altro la propaganda bellica impedisce che quella stessa insoddisfazione diventi aperta e chiara protesta politica. I cittadini avvertono inconsciamente che le contestazioni -a cui spesso guardano con simpatia- sono sinonimo di tradimento; introiettano un senso di colpa che impedisce loro di schierarsi del tutto contro le autorità. Una situazione schizofrenica, che spinge gli abitanti di Yerevan a simpatizzare con i manifestanti del venerdì ma a non uscire di casa per unirsi a loro. La polizia, dal canto suo, fa di tutto per bloccare chi il venerdì sera voglia raggiungere il Teatro dell’Opera: chiude le vie del centro al traffico e i vicoli prossimi al luogo delle manifestazioni. “Come hanno potuto arrestare Sefilyan, un vero eroe e difensore della Patria, e come hanno potuto arrestare coloro che difendevano Sefilyan, anche loro ex-combattenti nel Nagorno-Karabakh”, dice Iulia con un’espressione amareggiata sul viso solcato da pochissime rughe, nonostante abbia da poco compiuto 70 anni. A luglio, la polizia ha arrestato anche Armen Martirosyan, vice-presidente del partito di opposizione “Eredità”, perché aveva manifestato per la liberazione di quelli che il governo definisce terroristi. Iulia ama ripetere che Martorisyan è “uno del popolo, uno di noi”. È stato liberato dopo tre settimane di carcere e dopo che i suoi compagni hanno pagato una cauzione in denaro. Appena uscito di prigione, ha raggiunto immediatamente il Teatro dell’Opera e ha trovato il tempo di scambiare quattro chiacchiere con i giornalisti stranieri, nonostante decine di persone lo acclamassero ininterrottamente e facessero la fila per stringergli la mano: “Negli ultimi 25 anni i problemi si sono accumulati -dice Martirosyan- i giudici non fanno il proprio dovere, la corruzione è onnipresente, della polizia meglio non parlare. Il popolo è davvero stanco di tutto ciò”. Perché allora le proteste non riescono a essere efficaci, a cambiare davvero le cose? Nel settembre del 2016 il Presidente del Consiglio Hovik Abrahamyan si è dimesso per calmare gli animi, ma si ha l’impressione che ogni trasformazione sia funzionale al mantenimento dello status quo. Cambiare tutto affinché nulla muti per davvero. Il senso di colpa legato al tradimento del sentimento patriottico può spiegare fino a un certo punto l’attuale immobilità della società armena. Ci aiuta a capire cosa si cela dietro questa situazione di stallo Karen Harutyunyan, direttore del giornale-televisione on-line “Civilnet”, finanziato dall’Occidente (soprattutto dall’UE) e dalla diaspora armena. Harutyunyan ci accoglie nel suo ufficio all’ultimo piano di un nuovo edificio in centro a Yerevan, proprio di fronte al Teatro dell’Opera. Parla con voce calma, dietro di lui ci sono scaffali ricolmi di libri in armeno, inglese e russo. Attraverso la porta a vetri del suo ufficio è possibile scorgere molti giovani collaboratori intenti a scrivere e a prepararsi per una diretta dallo studio televisivo ricavato all’interno della redazione. “Quello che in Armenia manca – sostiene Harutyunyan – è una massa critica in grado di pensare con la propria testa. I media non sono affatto obiettivi, addirittura non è chiaro chi siano i padroni e i finanziatori dei giornali e delle televisioni più popolari. Quando si legge un articolo, è difficilissimo distinguere la notizia in sé dal commento di chi scrive. Questo crea ovviamente confusione. I cittadini non sanno a chi rivolgersi per capire davvero ciò che accade e non sanno distinguere propaganda e realtà.” In ogni caso, anche Harutyunyan, così come Richard Giragosyan, è convinto che le cose siano destinate a mutare e che le nuove generazioni cambieranno completamente il volto del paese nel giro di pochi anni.

Stepanos Nersissian, "Picnic sul fiume Kura" 1860 circa

FINALE: sostenuto, allegro ma non troppo
DI TUFO E DI VENTO
Yerevan si trova in una grande vallata, fertile e ubertosa, fra due grandi montagne, vulcani mansueti perché ormai spenti: L’Ararat e l’Aragat. L’Ararat è il monte mitico su cui si incagliò l’arca di Noè subito dopo il Diluvio. Alle sue pendici Noè bevve del vino e si ubriacò: cominciò a correre nudo sull’erba di un greppo mentre i figli, impietositi e pudici, cercavano di raggiungerlo e di coprirgli le membra ormai vecchie e mollicce. L’Ararat si trova adesso in territorio turco, ma appartiene, con le sue due gobbe inconfondibili, rispettivamente di 5000 e di 3000 metri, all’immaginario collettivo armeno. L’Aragat invece è situato alle spalle della città e si nasconde dietro le colline della periferia settentrionale. È alto più di 4000 metri. A sera, l’aria sulla cima dell’Aragat si raffredda molto velocemente, mentre a valle rimane calda. Si crea così una drammatica depressione barica che costringe l’aria fredda in quota a discendere verso la pianura. Poco prima che il sole tramonti e poi fino a tarda sera, Yerevan viene spazzata da un vento forte e insistente, che in armeno si chiama “kami”. L’aria fresca entra nei minuscoli fori dei mattoni di tufo e fa suonare come uno strumento musicale tutti gli edifici, in un unisono armonico e appena percettibile. Il vento fa danzare i fili dell’alta tensione, disperde in minuscole e invisibili goccioline il getto d’acqua che esce dalla grande fontana di Piazza della Repubblica, solleva le gonne leggere delle ragazze che passeggiano nelle vie del centro e che abbassano gli orli dei vestitini con la mano destra, urlano “uh” e poi corrono a piccoli e rapidi passi a cercare riparo sotto ai portici del Museo di Storia Armena, lì dove il vento si placa come una bestia domata. Bere dalle fontanelle che sono disseminate ovunque nelle vie del centro diventa impossibile, perché il fiotto d’acqua che esce dalle bocche di metallo viene spazzato via senza pietà e bagna l’asfalto lucido circostante. Alla periferia sud, dove di sera nessuno cammina e non c’è neppure un’anima che si affacci alle finestre, il vento alza al cielo le foglie seccate dal sole e cadute precocemente dagli alberi; di loro non ci sarà più traccia al mattino successivo, forse riescono ad arrivare ad alta quota e a sorvolare la frontiera con la Turchia, per poi cadere al di là del confine, innocenti e inconsapevoli di essere arrivate in territorio nemico. Il vento entra anche dalle finestre aperte delle case: le tende all’interno si sollevano come fantasmi, le carte e i giornali lasciati sulle scrivanie si sparpagliano ovunque nel corridoio e i lampadari dei salotti traballano felici, liberi dall’immobilità polverosa a cui sono stati per anni costretti.
Il vento si calma solo intorno a mezzanotte, quando la depressione barica fra la valle e il monte si colma del tutto. Yerevan rimane immobile, stanca e sconvolta dalla violenta sfuriata d’aria, ma pulita, e scintillante anche.
[Yerevan, Novi Sad – agosto, settembre 2016]

VARIAZIONI SUL TEMA: GYUMRI
Lento e dissonante, per arpeggione solo

Gyumri

Era il 7 dicembre 1988 quando la terra tremò per circa 30 secondi nel nord dell’Armenia, ai piedi del monte Aragat. I pendii e i picchi dell’Aragat furono scossi da onde potenti, ripetute, per lo più ondulatorie, del settimo grado della scala Richter. La città di Gyumri, che si trova nel nord-ovest dell’Armenia, al confine con la Turchia, fu rasa quasi completamente al suolo. Gli edifici costruiti all’epoca di Stalin resistettero e furono semplicemente danneggiati. Le “Kruschovke” rimasero in piedi ma erano pressoché inabitabili. I palazzi edificati al tempo di Brezhnev si disintegrarono completamente, quasi a rimarcare la progressiva decadenza dell’URSS nel corso dei decenni. Un anno dopo la potente scossa, la vecchia Unione Sovietica si sarebbe dissolta del tutto e l’Armenia avrebbe cominciato il proprio percorso verso l’indipendenza, proclamata nel 1991. Per Gyumri, però, questi sconvolgimenti storici non ebbero alcun significato fondamentale. Le macerie sono rimaste lì dov’erano per anni. Già l’8 dicembre del 1988, i sopravvissuti capirono a quale destino stessero andando incontro: nessuno arrivò a soccorrere i feriti e a scavare fra i resti delle case per recuperare i cadaveri. Passarono giorni interi prima che Mosca si decidesse a spedire i primi aiuti. Negli anni successivi, Yerevan sarebbe stata troppo impegnata nel conflitto con l’Azerbaigian per pensare alla ricostruzione di Gyumri. La città è così lentamente ma inesorabilmente morta; si è spenta ed è diventata un monumento, il cippo funebre di sé stessa. Il centro è ancora in parte distrutto, come se il terremoto fosse avvenuto ieri e non trent’anni fa. Le case, in pietra vulcanica nera, sono per lo più disabitate. Le famiglie che ci vivevano hanno preferito emigrare o risiedono ancora nei container -ormai arrugginiti- alla periferia del centro urbano. Molte abitazioni hanno gli usci sprangati. Le vie del centro sono piastrellate con blocchetti di leucite, lucidi a tal punto da sembrare bagnati, un po’ come i sanpietrini a Roma. 

Gyumri
Le case hanno spesso un ampio cortile interno e un balcone che corre lungo tutta la facciata, a ripetere il perimetro della corte. Serviva per collegare gli appartamenti delle varie famiglie, che dividevano in condominio la corte stessa e l’ampio ingresso all’edificio, costituito spesso da un largo e corto corridoio, una sorta di entrata trionfale dai portali scolpiti. Alcune case sono ancora abitate: all’interno, gli alberi da frutto, soprattutto susini, regalano ombra e appigli per stendere le corde da bucato. Due signore lavorano in un cortile, preparano la salsa di pomodoro per l’inverno o mettono sotto sale i peperoni. Alcune case hanno la facciata signorile, ancora intatta; l’interno, però, è infestato da erbacce e quel che resta del pavimento è spesso nascosto da un alto strato di pattumiera. Il primo piano di un appartamento è stato letteralmente troncato a metà dal terremoto: sono ancora visibili una poltrona rossa sospesa sul nulla e la tappezzeria alle pareti, verde, impreziosita da eleganti motivi floreali. 
Gyumri

Ai tempi dell’impero sovietico, Gyumri si chiamava Leninakan ed era una città ricca e culturalmente molto viva, che ospitava spesso concerti, opere e rappresentazioni teatrali. Risuona ancora per le strade l’eco del concerto per violino e orchestra di Aram Khachaturyan, che fu suonato per la prima volta a Mosca nel 1940 e che venne eseguito diverse volte anche qui, a Gyumri. Dello splendore antico non è rimasto più nulla. Le strade sono quasi deserte: un bambino guarda i rari passanti dal garage in cui suo padre sta facendo delle riparazioni a una vecchia “Lada” e sembra non avere il coraggio di avventurarsi oltre. Un anziano signore, che cammina curvo, appoggiato a un bastone, dà la mano in segno di rispetto a tutti coloro che incontra. Una signora di mezza età entra con uno scolapasta in mano nel container con il simbolo della Croce Rosa ormai sbiadito, vicino a quella che era la sua casa, di cui rimangono intatti solo i muri portanti. In una via secondaria giacciono le carcasse di due auto, chissà da quanto tempo dimenticate lì. La piazza principale è immensa ma non vi passeggia quasi nessuno; la chiesa in tufo nero è stata ricostruita ma a terra giace ancora la vecchia cupola, abbattuta dal terremoto. 

Gyumri
C’è chi, come Alexan Ter-Minasyan, cerca di restituire nuova vita a Gyumri: con l’aiuto del governo tedesco, Alexan ha costruito un ospedale e un hotel, le cui stanze sono impreziosite dalle opere pittoriche e scultoree dei principali artisti armeni viventi. C’è in realtà poco da fare. Gyumri sembra essere in coma irreversibile. I politici compaiono in città solo alla vigilia delle elezioni. Non sanno più neppure cosa promettere, per questo i loro comizi sono molto brevi. Scappano via il prima possibile; le guardie del corpo impediscono alla popolazione di avvicinarsi a quelli che dovrebbero essere i loro rappresentanti. Alle scorse elezioni politiche, il partito del presidente ha preso pochissimi voti, sia in città sia nei villaggi che, come satelliti, ruotano intorno a Gyumri. Da quel 7 dicembre 1988, la politica nazionale e Gyumri sembrano aver divorziato per sempre. 

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KAZAKISTAN
(Reportage geopoetico)
di Christian Eccher

Sonata Estiva
Primo movimento –  allegro moderato
(Nella steppa del Sud)

Turkestan

I villaggi in Kazakistan sono come isole nella steppa. Interrompono la monotonia ossessiva dei colori e dei suoni: il giallo sporco dell’erba bruciata dal sole; il marrone scheletrico degli arbusti dalle foglie riarse che giorno dopo giorno si piegano sfiniti dal sole e si accasciano al suolo, finché le pioggie autunnali non li trasformano in humus; il fruscio della sabbia che scivola su altra sabbia nei deserti vicino al confine con l’Uzbekistan.
I centri abitati si annunciano all’improvviso, con un pugno di case dai muri di cemento grigi e dai tetti di lamiera ondulata azzurra. Alle finestre tende molto semplici; qualche cane randagio si aggira in cerca di cibo sul retro delle abitazioni. Non ci sono strade vere e proprie, ma solo piste sabbiose, scavate dagli pneumatici delle jeep e delle automobili di passaggio. I paesi si trovano per lo più vicino alle grandi vie di comunicazioni; non è raro che le autostrade fendano i villaggi dividendoli in due e costringendo gli automobilisti a rallentare all’improvviso. Ai lati della strada asfaltata si affollano bambini, uomini di mezza età dalla pelle bruciata dal sole, donne con lo chador sedute sul marciapiede o su neri copertoni con la mano sulla fronte per difendere gli occhi dalla luce abbacinante del mattino. Vendono cocomeri, rossi e succosi, focacce e pagnotte tonde, dalla crosta color terra e a tratti screziata, che lascia scorgere il bianco della mollica all’interno. Nei mercati, al centro del paese o in quelli improvvisati ai bordi dell’autostrada, si vende di tutto: carne di cavallo, di vitello o di mucca, lampadine, ciabatte e asciugamani fabbricati in cina, berretti di lana provenienti dalle montagne del Kirghizistan, e poi frutta, tanta frutta fresca, sistemata a piramide su bianche scodelle.

La steppa del Sud
Appena usciti dai centri abitati, lungo l’autostrada, gli asini trasportano carretti pieni di cocomeri verso la città; giovani uomini stanno a cassetta e tengono salde le briglie nelle proprie mani; fra il verde striato delle angurie fa spesso capolino la testa di un bambino, che guarda stregato i tir rombanti diretti verso il nord del Kazakistan e verso la Federazione Russa. Gli asini: senza di loro, nulla di ciò che è presente nella steppa esisterebbe: sono loro a trasportare le vivande dalle poche aree coltivabili della regione e solo grazie a loro i materiali da costruzione arrivano ovunque, anche lì dove non ci sono strade. I cavalli no, sono animali nobili, pascolano in libertà nella steppa, visti da lontano sembrano figure stilizzate, come quelle disegnate dagli uomini preistorici sulle pareti delle caverne: una linea orizzontale che di colpo si piega verso il basso a rappresentare la schiena e il collo dell’animale intento a brucare; le zampe sono quattro linee verticali oblique. La carne di cavallo è molto costosa; i giovani kazachi innamorati regalano alla famiglia della sposa il più bell’esemplare del proprio branco, perché il padre di lei acconsenta al matrimonio e benedica la futura famiglia.
Lungo l’autostrada fra Shymkent e Turkestan, le “marshrutke”, furgoni privati che fanno concorrenza al trasporto pubblico, pressoché insesistente, si susseguono l’una dopo l’altra. Gli autisti guidano in maniera frenetica, a bordo di ogni Ducato ci sono fino a dodici persone: madri con i figli piccoli dal volto sudato e bagnato di lacrime, giovani studenti che tornano a casa per le vacanze, uomini d’affari con la valigetta nera, i capelli impomatati e gli occhiali da sole. Gli autisti delle marshrutke salutano i colleghi che sfrecciano nella direzione opposta con un cenno del pollice, che si solleva per un brevissimo istante dal volante. Un impercettibile segno di solidarietà fra i capitani della steppa.
Vicino alla città di Turkestan, non a caso antica capitale del Kazakistan, le campagne sono coltivate. La terra fertile ha permesso ad alcune tribù kazache di abbandonare mille anni fa la vita nomade e di occuparsi di agricoltura. Così è nato il Khanato Kazaco, che fra il XVI e il XVIII secolo conquistò l’intera Asia Centrale. Quella del Khanato fu però una dominazione debole, che non è riuscita a controllare davvero le tribù nomadi della steppa e che per questo si è dissolta all’arrivo delle truppe russe. Rimangono le antiche vestigia dell’ex capitale: un tempio risalente al Quattordicesimo secolo mai terminato e le mura megalitiche di una città-isola nel mare della steppa. Fra le antiche pietre delle costruzioni crollate, i cammelli pascolano mansueti: ogni tanto, un corvo si siede sulla gobba di uno di loro e scruta il paesaggio circostante, incurante delle continue ondulazioni a cui la schiena dell’animale lo costringe.
Verso sud, la fascia di terra fertile lascia di nuovo il posto al consueto paesaggio brullo e marrone.  In lontananza, verso est, si scorgono lievi alture, senza vegetazione e dal profilo nervoso, con picchi e rocce zigrinati come se si trattasse di vere e proprie cime montuose. Sono le prime sommità della catena del Tien Shan, che si estende per oltre 2500 km dal Kirgizistan fino alla Cina.
Nelle ore più calde della giornata, le colline scompaiono, inghiottite dall’umidità dell’orizzonte o cancellate dalla fortissima luce solare. Il divario di temperatura fra l’aria al suolo, riscaldata dalla terra rovente, e quella in quota, di gran lunga più fresca, genera delle differenze di pressione che danno vita a numerosi, piccoli, ridicoli tornadi, del diametro di 5-10 metri. I vortici d’aria percorrono la steppa in tutte le direzioni, indipendentemente l’uno dall’altro. Sollevano al cielo enormi quantità di polvere. Può capitare che attraversino l’autostrada o incrocino una linea ferroviaria. Le automobili o i treni che si scontrano con essi interrompono il gorgo ascensionale e la tromba d’aria perde d’intensità, fino a esaurirsi nel giro di pochi secondi. La polvere rimane sospesa per lunghi, interminabili minuti, poi lentamente si deposita al suolo e ricopre la vegetazione rara, i vagoni merci dimenticati su qualche linea ferroviaria secondaria, le periferie delle poche grandi città che sorgono nella steppa e su cui le trombe d’aria non osano vorticare. Le città: le uniche forme certe, le uniche isole sicure nel mare secco e immenso che va dalla Russia fino al Kirghizistan e all’Uzbekistan.

(forse una volta, poiché sbiadisce la memoria, un giorno in questo mare ci è parso di cantare)

Secondo movimento – lento e pensoso, andante con moto
(Schymkent, pane e sabbia)

Schymkent

Shymkent non ha conture ben definite. Continua a crescere inesorabilmente da circa vent’anni. Paradossalmente, il centro della città si trova ormai in periferia, ed è composto da due grandi bolevard che si incrociano proprio nel punto in cui sorge un’enorme fontana a forma di tulipano. Davanti alla fontana, una gradinata, su cui i cittadini siedono per trovare un po’ di refrigerio durante i caldi pomeriggi estivi. A sera, dalle bocchette situate lungo il basamento circolare che fa anche da vasca di contenimento, partono potenti getti d’acqua verso il grandioso tulipano rosso, che giganteggia proprio al centro della fontana. L’acqua scende copiosa lungo le pareti del fiore di pietra, in parte si nebulizza e viene portata dal vento verso la gradinata. Se i raggi obliqui del sole al tramonto fendono le minuscole goccioline in sospensione, si forma una striscia di arcobaleno che i bambini tentano inutilmente di afferrare, saltando e allungando la mano verso l’alto.
Shymkent è una città abitata da kazachi e da uzbeki, che da sempre vivono fianco a fianco sin dalla fondazione della città, che risale a mille anni fa. Shymkent non è lontana dall’Uzbekistan e fino a pochi mesi fa era possibile passare il confine illegalmente, dato che la frontiera non era ancora marcata. Gli uzbeki arrivavano in Kazakistan soprattutto da Tashkent e venivano ospitati per qualche tempo dai parenti di Shymkent; lavoravano in nero nei cantieri e tornavano a casa dopo qualche mese. Le paghe in Kazakistan sono più alte di quelle in Uzbekistan. Da quando le autorità kazache hanno deciso di porre un limite all’immigrazione clandestina, per gli ubeki è diventato molto più difficile spostarsi e ottenere il visto di lavoro. Spesso la Storia mostra il suo volto beffardo: i kazachi sono stati per secoli nomadi, mentre gli uzbeki stanziali, poiché vivevano in zone fertili dove era possibile la coltivazione dei campi. Shymkent, così come Tashkent e Samarcanda, sono città uzbeke nate come caravanserragli lungo la via della seta, in cui i pellegrini, i viaggiatori e i commercianti in viaggio avevano l’opportunità di rifocillarsi e acquistare frutta e verdura fresca. Al giorno d’oggi, sono gli uzbeki a doversi muovere, dato che il petrolio kazaco ha fatto sì che l’economia prosperasse di più nei territori controllati da Astana che non nel loro paese. Resta il fatto che gli uzbeki sono famosi per la loro abilità in campo commerciale e non è un caso che quelli nativi di Schymkent siano proprietari di attività commerciali di ogni tipo. I loro ristoranti hanno le pareti e gli architravi dipinti di verde, proprio come a Samarcanda. Le cameriere sono timide ragazze con il velo a nascondere i capelli, che non si affacciano quasi mai sulla soglia e corrono indaffarate dai saloni alla cucina, rosse in viso e con un sorriso appena accennato sulle labbra scarlatte e carnose. Lungo le strade del centro, anziane signore dai vestiti sgargianti spingono carretti ricolmi di pane uzbeko: enormi, tonde pagnotte profumate, le stesse che inebriano i viaggiatori all’arrivo alla stazione delle autolinee, sul marciapiede vicino al bazar coperto da una larga tettoia. Le venditrici di pane sono di poche parole, hanno i visi intagliati da rughe profonde, scavate più dal sole che non dall’età.
Shymkent finisce all’improvviso. Verso nord, senza preavviso, la steppa prende il sopravvento sulle piccole case dal tetto in lamiera blu. Poi, più nulla; lo sguardo vaga sconsolato per chilometri e avvista solo i mulinelli delle trombe d’aria, lontano, in un punto indefinito dell’orizzonte. Meglio voltarsi dall’altra parte, andare verso il parco Abay e ancora oltre, incontro ai centri commerciali, ai cantieri dei palazzi nuovi di quella che un tempo era la periferia e che ora si trova al centro della città. E poi più giù, ancora, fino al Parco dell’Indipendenza e alla stazione ferroviaria, un edificio in stile neoclassico dai treni blu e dalle numerose bancarelle che, vicino all’ingresso, vendono cibarie di ogni tipo e tutto ciò che può essere utile per un lungo viaggio. Le 26 carrozze azzurre del treno per Almaty sono già posizionate sul primo binario; aspettano sornione il locomotore, che non è stato ancora agganciato alla testa del convoglio. I passeggeri salgono lentamente e prendono posto nelle vetture arroventate dal sole. La terza classe è priva di scompartimenti, le cuccette sono diposte a gruppi di quattro e sono separate da una semplice parete divisoria. Due letti sono sistemati ai lati, nel corridoio, uno sopra l’altro. I bambini corrono avanti e indietro, signore di ogni età passano lungo i vagoni e vendono vestiti, tovaglie, lenzuola e asciugamani. Il treno si muove con uno strattone, dopo che il cuccettista ha invitato coloro che non devono viaggiare ad abbandonare la carrozza.
Farhod è uzbeko, ma vive da trent’anni a Shymkent. Va ad Almaty a ritirare il passaporto presso il consolato del proprio paese. Il presidente dell’Uzbekistan Karimov ha infatti deciso che solo coloro che hanno la residenza all’interno dei territori controllati da Tashkent appartengono alla nazione uzbeka. Tutti gli altri sono stranieri e per ottenere qualsiasi documento si devono rivolgere alle rappresentanze diplomatiche all’estero. Farhod è quindi straniero sia in patria sia in Kazakistan, ma la cosa non sembra disturbarlo. Nato ai tempi dell’URSS, quando l’Asia Centrale faceva parte dell’immenso impero sovietico, Farhod si sente a casa ovunque. A Shymkent ha una piccola azienda che si occupa di installazione di caldaie di seconda mano provenienti dall’Olanda. Insieme a lui lavorano tre ragazzi, anche loro uzbeki. Farhod ha i capelli ricci, un fisico sportivo, lo sguardo profondo e una camicia elegante sbottonata sul petto, a causa del caldo asfissiante nel vagone. Si asciuga nervosamente il sudore dalla fronte con un fazzoletto di stoffa ben piegato. Dal finestrino di sinistra si scorge solo la steppa, marrone e striata di bianco verso l’orizzonte. Da quello destro giganteggiano già le montagne del Tien Shan; i ghiacciai occhieggiano sulle cime, stemperati dalla foschia della sera che ne rende i contorni incerti fino a confonderli con i picchi rocciosi circostanti. Farhod è stato alpinista, conosce ogni cima del Tien Shan fino alla catena del Pamir. A cinquant’anni ha un unico grande desiderio: vedere Venezia, città sprofondata nella laguna, l’esatto opposto delle montagne su cui ha trascorso buona parte della propria esistenza. Non sa se tornerà a vivere in Uzbekistan: la moglie e i figli si sono ormai ambientati a Shymkent. Tutto dipende dalla situazione politica: quando il presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbayev, che ha 75 anni, non ci sarà più, potrebbero scoppiare disordini fra le componenti minoritarie e i Kazachi; soprattutto i russi nel nord del paese potrebbero proclamare l’indipendenza con l’appoggio di Mosca. Uno scenario ucraino non è purtroppo da escludere neanche in Kazakistan. In un caso simile, sarebbe forse meglio tornare a casa, a Tashkent, o provare ad aprire un’attività commerciale a Samarcanda. Nell’incertezza del mondo post-sovietico, in una situazione politica liquida, anche gli uzbeki, da sempre stanziali, sono diventati un popolo migratorio.

(volgetevi verso il richiamo, benedite i fiori calpestati, l’acqua dei pozzi che avete bevuto vi saranno protettori durante l’esilio intrapreso: fra selve incantevoli e stagioni impetuose.)

Terzo movimento – allegro con moto, andantino.
(Ten chi: cielo e terra)

Il rapido da Schymkent entra puntuale nella stazione di Almaty 2, davanti alla quale una massa confusa e brulicante di tassisti abusivi prende d’assalto i passeggeri in arrivo, ancora assonnati e stanchi. L’aria è fresca, quasi pungente, una brezza leggera scende dai monti i quali, alle spalle della città, raggiungono i 3500 metri di altezza. Farhod si avvia rapidamente verso la fermata dell’autobus, lungo il boulevard delimitato ai lati da due piccoli canali, fra la strada e il marciapede. Quasi ogni strada di Almaty è fornita di simili fossi, al fine di convogliare l’acqua proveniente dalle montagne verso nord, dove comincia la steppa e il formidabile altopiano che dai piedi del Tien Shen si estende fino alla Siberia.
La periferia settentrionale di Almaty non ha una forma ben definita. Le case sono basse e molto semplici, con giardini poco curati sul retro, e si alternano a officine dalle saracinesche sollevate, che lasciano intravvedere l’intimità degli interni ombrosi: copertoni abbandonati negli angoli più remoti, dove la polvere della steppa si deposita in maniera impercettibile ma testarda; telai arrugginiti di vecchie automobili; uomini a petto nudo affaccendati intorno a presse e tavoli ricolmi di attrezzi di ferro. Fra le strade, come innocui serpenti, si insinuano i binari di linee ferroviarie secondarie, ormai in disuso: fino a qualche anno fa, servivano le industrie di Almaty, privitizzate dopo il crollo dell’URSS e successivamente fallite. Adesso ospitano le carcasse di vecchi vagoni, le cui ruote sono completamente ricoperte da rovi ed erbacce: la terra, immobile e invidiosa, ha voluto legare per sempre a sé i carri che per anni l’hanno percorsa in velocità e in assoluta libertà.
La città prende corpo, dimensioni e forma verso sud, lungo il boulevard Dostyk, ex boulevard Lenin, che attraversa tutto l’agglomerato urbano. Come Shymkent, anche Almaty non ha un vero e proprio centro. Gli edifici di fattura sovietica si alternano a parchi, chiese ortodosse e piccole moschee. Almaty è stata la capitale del Kazakistan fino al 1997, fino a quando cioè il presidente Nazarbayev non ha deciso di trasferire la propria residenza, il parlamento e i ministeri ad Astana, che fino ad allora era poco più grande di un qualsiasi villaggio perso nella steppa. Ufficialmente, Nazarbayev ha preso una simile decisione per via dei numerosi sciami sismici che colpiscono Almaty; la vera ragione è però legata al fatto che il presidente ha voluto rimarcare la presenza delle istituzioni kazache nel nord del paese, abitato principalmente da russi.
Sulle panchine disposte lungo il perimetro di Piazza della Repubblica, un enorme quadrangolo che ospita il nuovo palazzo delle conferenze, siedono giovani ragazze che centellinano gelati e si guardano attorno indolenti e annoiate. Fra loro c’è anche Marina: ventiquattrenne, ha il viso squadrato e i lineamenti molto regolari. Gli occhi sono leggermente a mandorla, asiatici. Marina è russa ma la sua famiglia vive ad Almaty da generazioni, da quando cioè la città, fondata nel 1854 come avamposto meridionale dell’impero russo, ha cominciato a svilupparsi economicamente. Marina ha terminato la facoltà di ingegneria dell’Università kazaco-tedesca di Almaty; ha anche discusso la tesi di master ad Hannover ed è tornata in Kazakistan convinta di riuscire a trovare lavoro senza grosse difficoltà. Chi non è in possesso di una raccomandazione, però, raramente riesce a impiegarsi in un’industria, sia pubblica sia privata; in più, le poche aziende che hanno contattato Marina le hanno chiesto se fosse disposta ad accettare tangenti da parte dei clienti. Marina si sarebbe dovuta occupare di controllo degli impianti elettrici ma la maggior parte delle industrie kazache non sono in regola con le normative previste dalla legge. I direttori risolvono il problema pagando gli ispettori, che in cambio certificano la regolarità degli impianti. Marina ha fermamente rifiutato questo tipo di lavoro e sta valutando l’ipotesi di tornare a vivere in Germania. La spaventa anche il futuro politico ed economico del Kazakistan. Il presidente Nazarbayev, che controlla con mano di ferro il paese da vent’anni, non sembra pensare alla propria eredità; non ci sono élite pronte a proseguire il suo operato. In più, il Kazakistan ha basato la propria economia sull’esportazione di petrolio: adesso che il prezzo del greggio è crollato da 100 a 40 dollari al barile e la situazione economica comincia a peggiorare, gli egoismi nazionali potrebbero esacerbarsi e portare alla dissoluzione del paese. Se il nord, abitato prevalentemente da russi, dichiarasse l’indipendenza, a pagarne le conseguenze sarebbero quelli come Marina e la sua famiglia, russi kazachi che da sempre vivono ad Almaty. Il Kazakistan rischia di diventare una nuova Jugoslavia.

(Le porte dell’Inferno sono a Tengiz, vicino al Mar Caspio, dove si trova il più grande giacimento petrolifero kazaco. Il dottor Fischer, americano, docente di economia a San Francisco, visitò insieme ai propri studenti i pozzi con una maschera antigas sul viso, per difendersi dagli acidi sulfurici che il terreno di tanto in tanto e senza preavviso rilascia.)

La passeggiata domenicale a Shymbulak

Dalla parte opposta della piazza, di fronte all’hotel Kazakistan, un altissimo edificio sulla cui sommità svetta un ornamento di cemento simile a una corona, un’enorme fontana spruzza acqua verso il cielo ed è come un’isola di refrigerio nell’asfalto che la assedia da ogni lato. Ogni sera, poco prima del tramonto, una signora anziana, dagli occhi a mandorla e dalle gambe solcate da vene visibilmente dilatate, si arrampica lungo il boulevard Dostyk, verso le panchine poste di fronte alla gran vasca d’acqua. Con lei ci sono sempre due bambini, grassi e malati, due fratelli, che camminano a fatica; uno dei due trascina dietro di sé un camioncino di plastica, legato a un filo di spago. Giocano per qualche tempo vicino alla fontana, che nella loro fantasia assume le dimensioni del mare. La donna anziana, forse la loro nonna, li guarda con apprensione, sa che se dovessero fuggire verso la strada trafficata lei non potrebbe correr loro dietro, non ne avrebbe le forze. I bambini giocano, cercano di coinvolgere anche gli altri ragazzini, a loro volta attratti dall’acqua come le vespe. Nessuno però vuole fermarsi e passare del tempo con loro due, e a nulla vale il tentativo di mettere in mostra il bel camioncino rosso e giallo, con una betomiera che ruota su sé stessa quando anche le ruote nere e luccicanti sono in movimento (una sera di agosto, davanti alla fontana si fermò un gruppo di giovani manager, con in mano dei palloncini arancioni ricolmi di elio su cui nereggiava il nome della ditta per cui lavoravano. I due bambini si fermarono incantati, uno di loro cercò di afferrare un pallone, ma il capo dei manager, una ragazza sui trent’anni, cacciò via i fratellini, con educata e impietosa fermezza). Solo quando il sole tramonta, la nonna chiama i fratelli e si avvia verso casa: la signora ancheggia faticosamente, reggendosi a stento sulle gambe che, muovendosi a scatti, costringono il busto a piegarsi ora a destra e ora a sinistra, proprio come una nave nel mare in tempesta. I bambini scappano via veloci, discendono il boulevard Dostyk allegri e schiamazzanti, mentre accanto a loro sfrecciano i ragazzi con lo skateboard: Almaty è una città obliqua e in bicicletta o con lo skateboard, se i semafori sono verdi, si può andare nel giro di pochi minuti dalla periferia meridionale a quella settentrionale, lì dove finiscono le case e comincia il mare della steppa.
(Pietà, infinita pietà… - Azucena, atto II)

Il mercato centrale di Almaty

Finale: a tempo di minuetto

Da Piazza della Repubblica a Medeu ci vogliono solo 15 minuti di autobus. Medeu è la località più a sud di Almaty, ed è già alta montagna: dal piazzale di fronte allo stadio del ghiaccio parte una lunghissima funivia che permette a chi voglia scappare dal caldo della città di arrivare in pochissimo tempo a Shymbulak, un larghissimo spiazzo a 3100 metri di altezza da cui si dipartono numerose piste da sci. Il ghiacciaio che fino a qualche anno fa ricopriva il picco più alto di Shymbulak si sta a poco a poco sciogliendo: dietro di sé lascia un’impressionante quantità di detriti, che la lingua di ghiaccio ha portato verso valle nel corso dei secoli. Il paesaggio è brullo, immerso in un silenzio interrotto soltanto dai lontani rombi di frane e di pietre che rotolano. Il Tien Shan è una catena giovane, ancora in via di formazione, nata dall’incontro-scontro fra la placca eurosasiatica e quella indiana. Le montagne si innalzano incessantemente, i picchi raggiungono altezze vertiginose in poche migliaia di anni e le rocce sulla loro sommità spesso perdono l’equilibrio, cadono all’improvviso e lasciano dietro di loro una scia di polvere marrone, che rimane sospesa per qualche minuto fra cielo e terra.
Solo le cime più alte sono coperte da nubi. Sul Tien Shan sia i cumuli sia i cumulonembi, responsabili dei violenti temporali estivi che flagellano le montagne, non si formano quasi mai sotto i 5000 metri d’altitudine. Nella stagione calda, le nuvole arrivano da sud, dal lago di Issyk-Kulj e dai massicci del Kirghizistan. Le alte pressioni che dominano sulla steppa, però, impediscono a questi sistemi nuvolosi di estendersi oltre le montagne, oltre Medeu e la periferia sud di Almaty. D’inverno, invece, le perturbazioni scendono da nord-ovest, dalla Siberia, e portano pioggia e neve persino in pianura. Anche in questo caso, però, le nuvole viaggiano ad altezze notevoli. Almaty non si sveglia mai nella nebbia. Il cielo è pulito, privo delle scie di condensazione degli aeroplani, dato che le principali rotte aeree passano per il nord del Kazakistan o più a sud, sul Pakistan e sull’India. La via della seta continua a essere soltanto una via di terra.

Il mercato verde di Almaty

Aziza ha ventidue anni. Magra, alta, dinoccolata, ha un viso regolare e la forma degli occhi appena allungata: è kazaca ma è nata e cresciuta a Tashkent. I tratti somatici tradiscono ascendenze uzbeke: il meticciato è tipico del Centro-Asia, da sempre crocevia di popoli e di culture. Aziza ha deciso di trasferirsi in Kazakistan per l’Università. I genitori e i due fratelli più piccoli l’hanno seguita, dato che ad Almaty le retribuzioni sono di gran lunga più alte che a Tashkent. Di sera, la ragazza balla in un ristoranze uzbeko e durante il giorno studia lingue straniere in uno dei numerosi atenei privati della città. Con il proprio stipendio, Aziza aiuta i genitori a pagare il mutuo dell’appartamento che hanno comprato nella periferia a nord di Almaty, vicino all’autostrada che i cinesi stanno costruendo e che collegherà Pechino all’Europa in soli 4 giorni.
Aziza sogna di trasferirsi in Irlanda, perché ha sentito dire che laggiù le nuvole sono basse, e navigano sospese sul mare come se fossero grandi, bianche e grigie navi da crociera. 
***

CATALINA
Pensieri liquidi
di Sabrina Peron

Per compiere la traversata del Catalina Channel (L.A. – California) occorre rispettare alcune regole fondamentali della Catalina Channel Swimming Federation - CCSF: si nuota senza muta, con un normale costume da piscina, la cuffia e gli occhialini; non si può mai toccare il kayak o la barca che seguono da vicino. La distanza da percorrere è di circa 20/21 miglia (poco meno di 39 chilometri, a seconda delle correnti). Generalmente si parte di notte per evitare il traffico delle navi e le correnti sfavorevoli.  Io sono partita alle 00,16 del 22 agosto 2015, dalla spiaggia di Doctor's Cove - Isola di Catalina Le condizioni del tempo erano ottimali: mare calmo, leggera brezza, temperatura dell'acqua 22 gradi circa (71 Fahrenheit, che per lo stretto di Catalina è insolitamente "calda").
 Durante la traversata ho ricevuto alcune "visite" piuttosto insolite per quel tratto di oceano Pacifico. Alle 8,32 del mattino, uno squalo martello di circa 2 metri, senza intenzioni aggressive, avvistato a poco più di una quindicina di metri da me. Alle 10,37 una tartaruga marina, a circa 10 metri. Tra le 11,17 e le 11.23, un giovane squalo blu, a circa 20 metri. Sono arrivata alla spiaggia di Terranea Cove di Ranchos Palos Verdes, dopo 12 ore, 10 minuti e 38 secondi: la prima donna italiana nella storia ad aver attraversato lo stretto di Catalina a nuoto. Qui sotto i miei pensieri, necessariamente, liquidi e frammentari.

Inizio
Notte 20/21 agosto 2015
Oceanside (Ca) – Home: Sogno. Notte. Mare. Nero. Onde. Pesci. A branchi numerosissimi. Uno grande. Enorme (Balena? Leviatano?). Nero come il mare. Nero su nero. Spalanca la bocca. Gigantesca. Come Pinocchio ci nuoto dentro: bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Nero.

21 agosto 2015
Giorno
Oceanside (Ca) - Home: Feeding plan: pronto. Integratori: pronti. Cuffia, costume occhialini: pronti. Vestiti caldi per il “prima” e il “dopo” traversata: pronti. Io: pronta, ma vorrei essere altrove.
Tardo pomeriggio – ore 16 circa
Oceanside (Ca) - Home: arriva a prenderci Anthea Beletsis (con il kayak). Caricata la macchina. Partiamo in tre: Anthea (paddler), Ingrid (head-crew), io (swimmer…ma vorrei non esserlo più).
Tardo pomeriggio
Freeway 405: On the road verso San Pedro (Ca). Da lontano scintilla l’Oceano. Pacifico Lo guardiamo tutte. Anthea, mi guarda e sorride: we’re near… si we're near, ma vorrei essere altrove.
Freeway 405: Penso: illusioni, aspettative, desideri, speranze, scopi, sono tipicamente umani. Penso: Oceano = Natura. Natura priva di telos. Tantomeno fini che hanno a che fare con l'Uomo. Con me. La natura segue leggi fisiche. É indifferente a tutto. Penso. Penso la lezione di Leopardi. Lo penso ma, poi, vorrei invocare Divinità barbare, Dei mediterranei (schiere di Dattili, Eolo, Poseidon, Minerve alate), Madonne cristiane, Pater noster. Penso: è tutto inutile. Penso: lo è davvero? Penso: le mani di dio. Penso Rodin. Penso é troppo facile ora avere fede. Penso: paura, fragilitá. On the road procediamo verso la nostra meta.
Freeway 405: Penso (ancora): affrontare il mare ad "armi pari”: sfida? insolenza? vanità?
Métron (limite, il mio). Hybris (tracotanza, la mia). Didódai díkēn: pagherò il fio di così tanta tracotanza? Si risveglieranno le Erinni o veglieranno le Benevole?
Freeway 405: Altri pensieri: non posso controllare il mare, le correnti, i venti. Posso controllare solo il mio corpo e la mia mente. Sicura?  No. Riformulo: posso tentare di controllare. Devo sperare di controllare. Devo controllare. Solo il mio corpo. E la mia mente. Tutto il resto in balia degli eventi, del mare, delle sue creature. Di chi mi accompagna. Fiducia. Fiducia negli altri. Fiducia in me stessa. Fiducia nella sorte, nei venti, nelle correnti. Fiducia nei pesci.
Sera - ore 19 circa
San Pedro (Ca) – Long Beach Habor : Arrivate, attendiamo sul molo. Osserviamo pescherecci ormeggiare con sea lions e pellicani a seguito. Arriva il capitano dell'Outrider (John Pittman). Arrivano i due Observers del Catalina Channel Swimming Federation - CCSF (Jodi DiLascio e David Clark), arriva Neil van der Byl (paddler). Passa Dan Simonelli per un saluto e per portare acqua (spacciata per) miracolosa: la kangem water. La bevo. Come fosse acqua santa, acqua di Lourdes. L'Outrider ritarda la partenza: problemi col motore? Penso, bene tanto non ho fretta. Spero in un guasto irreparabile. In un autoaffondamento dell’Outrider. L’Outrider parte.
Sera - ore 22 circa
Sull’Outrider (in viaggio verso l'isola Santa Catalina – più o meno due ore): Esame del feeding plan: Ingrid spiega. Esame degli integratori: altre spiegazioni pazienti di Ingrid. Raccomando: acqua calda, bollente, per sciogliere integratori e maltodestrine. Raccomando (ancora):  warm feed, please. Speranze: speriamo non mi facciamo star male di stomaco. Training mentale: aspettati sapori disgustosi; aspettati lingua&gola bruciata dal sale. Aspettati il peggio. Sempre. Messa a punto: da dove mi passeranno gli alimenti? Neil (perentorio): dal kayak. Tutti approvano. Anch’io. Neil si è portato un piccolo zaino che pare la borsa di Mary Poppins: estrae pinzette e trasforma delle semplici bottigliette in borracce. Pronte a essere lanciate in acqua e riprese dal kayak.
Sempre sull’Outrider (sempre in viaggio verso l'isola Catalina): è ora del briefing. Momento solenne. Riuniti in cabina. Tutti presenti: swimmer (Sabrina), headcrew (Ingrid) paddlers (Anthea e Neil) observers (Jodi e David), captain (Jonh Pittman). Mi siedo vicina a Jodi: la sua presenza, non so perché, mi rassicura. Jodi&David enunciano (solennemente) le regole del CCSF: è permesso indossare solo una cuffia, gli  occhialini e un normale costume da piscina. E’ permesso spalmarsi di vaselina o lanolina. Non è permesso toccare il kayak o la barca. Il cronometro parte dal momento in cui metti un piede in acqua. Il cronometro si fermerà nel momento in cui metterai entrambi i piedi sulla sabbia asciutta. Sguardi. Domande. Spiegazioni. Rassicurazioni
Penso: ok keep calm Sabrina. Segui il kayak nuota non fare mai di testa tua, nuota. Segui il kayak. Tu segui il kayak. Non viceversa. Tu dai il ritmo. L'Outrider la direzione. Il kayak segue l’Outrider. Fidati. Siamo qui per te. Perché tu possa traversare questo stretto. Arrivare. Toccare la terraferma. Tornare a casa.
Neil dice (severo): non allontanarti dal kayak. Il kayak non verrà a prenderti se ti allontani. Poi dice: immagina il kayak come la corsia della piscina. Segui la corsia. Facile, penso. Sono in piscina. Il kayak è la corsia. Bene sì. Facile. Seguo la corsia. Non ho paura. Acqua fredda. Gli observers sentenziano (gravi): questa è una traversata di acque fredde, a cold water challenge. Fortunata. Sei fortunata l'acqua è quasi calda: 21/22 gradi. L’Oceano è calmo. Smoother. Condizioni ideali. Dream condition for a swimmers. Keep calm. Siamo qui per te: questa è la tua festa. It’s your party. Ora dormi. Riposati.
Si ora mi stendo e dormo. Punk nelle orecchie. Occhi chiusi. Mi copro, vestiti caldi a strati e sotto il costume. Colorato. Allegro. Voglio allegria: it’s my party. L’Outrider avanza e ondeggia. Smetto di pensare. Non pensare. Tra poco arriveremo all’Isola Catalina. Non pensare. Musica. Alza il volume.
22 agosto 2015
Isola di Catalina (Passata da poco la mezzanotte): ci siamo l'Outrider è quasi arrivato. Sento che rallenta. Balzo su. Sono pronta. Rido. Mi spoglio. Resto in costume. Mi spalmo di lanolina. Ingrid mi aiuta. Prendo dose doppia di integratori preparati da Ingrid. Ho freddo. No non è vero. Non ho freddo. Sistemo la luce sulla cuffia. Ingrid mi aiuta a sistemare la candela luminosa sul costume. Nervosismo. Ingrid spezza la candela. Come ha fatto? Sono tutta luminescente. Strisce luminose verdi lungo le gambe. Ingrid ha le dita delle mani tutte verdi. Mi viene da ridere. Ingrid sistema una nuova candela. Ecco sono pronta. Esco dalla cabina. Mi guardo attorno. E’ tutto buio. Ho freddo, non importa, non ho freddo, non lo sento. Ho freddo appoggio le mani sul thermos caldo (meglio di niente penso, ma non pensare). Ecco ci siamo. Metto gli occhialini: li ho sporcati di lanolina, pulisco le mani, pulisco gli occhialini, li rimetto. Esco sulla ponte. Guardo il mare, Anthea vicina sorride, mi incoraggia. Ingrid, mi rassicura dice: vai. Nero. Devo saltare in acqua. Rido. Stringo la mano a Jodi. Una stretta forte. Neil sta preparando il kayak. Cerco il fondo dell’acqua. Nero. Chiedo è abbastanza profondo? Si lo è. Si è ora. E’ ora, dai. Tuffati. Mi tuffo.
Ore 00,16
Dall’Outrider (ormeggiato) all’Isola di Catalina
Mi tuffo. Cerco di fare un tuffo dignitoso. Come se fossi in piscina. Ai blocchi di partenza. Penso: ma sono un brocco nei tuffi. Penso non importa. Pronti, Via. Ecco sono in acqua.
Mi dirigo verso la Doctor’s Cove Beach. Acqua fredda. No. Meno fredda di quanto mi aspettavo. Penso: Ok posso farcela. Devo farcela. Sono sulla spiaggia. Esco dall'acqua. Sistemo gli occhialini. Mi attengo alle regole: alzo una mano, metto il piede nell'acqua. Mi dimentico di abbassare la mano. Resto con il braccio alzato, i piedi nell’acqua. Cosa devo fare? Neil dice qualcosa: abbassa il braccio. Non capisco. Neil mi fa segno. Sì devo abbassare il braccio. Lo abbasso. Ecco ora il cronometro è partito: ore 00,16 - 22 agosto 2015. Tic, tac. Entro in acqua. Inizio a nuotare. Bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Nero. Come nel sogno.
La lunga notte
Nell’Oceano – Notte (primi minuti).
Temperatura acqua 72F[1]. Temperatura aria 69F. Altezza onde: mare piatto, glassy. Velocità vento: 5 nodi[2]. Frequenza bracciate: 57 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).
Penso sto bene. Penso è buio. Penso non importa. Penso è fredda. L’acqua. L'aria. Penso no, non ho freddo. Penso sto bene. Penso nuota: nuota, bracciata, respirazione, gambata. Penso: conta. Conto: uno due tre quattro. Mi fermo a quattro. Di più non riesco. Troppo faticoso. Ricomincio: uno due tre quattro. Sto vicina al kayak. Vicinissima. Non voglio perderlo, perdermi nella notte. Non pensare, nuota.
Il kayak di Neil è grande, a pedali, usa poco la pagaia.  Bene, così riesco a stargli vicino. Il kayak Neil ha una lunga luce verde sul lato: é proprio come la corsia della piscina, penso. Mi sento protetta. L'Outrider è al di là del kayak, lo intravedo, io sono nella posizione più esterna: Outrider, kayak, Sabrina. Respiro a sinistra. Solo così posso vedere il kayak. Quindi io a sinistra sul lato esterno. Alla mia sinistra il kayak e alla sinistra del kayak, l'Outrider. La luce verde del kayak mi ipnotizza.
Nell’Oceano - Notte (prima mezz'ora e oltre).
Temperatura acqua 72F. Temperatura aria 70F. Altezza onde: 1ft [3] (scala Wave Height Feet). Velocità vento: 5 nodi Frequenza bracciate: 53 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).

La rotta
Feeding plan: feeding fissato ogni mezz'ora. Quanto è lunga mezz’ora? Non pensare nuota: bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Conta: uno, due, tre, quattro. Neil mi fa segno con la mano aperta: cinque. Cinque minuti al feeding. Gli faccio capire che ho visto: alzo il pollice della mano sinistra senza interrompere la bracciata. Quanto sono lunghi cinque minuti? Neil fa un nuovo segnale: due. Due minuti al rifornimento. Di nuovo rispondo che ho capito alzando il pollice. Poi conto. Conto le bracciate che mancano per arrivare a due minuti. Ne conto quarantadue. Poi arriva il rifornimento. Bevo velocemente. Il rifornimento è caldo sto bene. Neil è soddisfatto. Dice: great stroke Sabrina! ottima bracciata. Continua così. Continuo. Penso: mai nessuno ha detto great stroke Sabrina! Mi sento fortissima. Penso: sì posso farcela. Great stroke Sabrina! Great stroke Sabrina! Penso: no aspetta, è ancora lunga la notte. Hybris. Didónai Díkē. Nuota. Notte. Buio. No non è vero nell’Oceano c’è luce. Si chiama bioluminescenza. Eh ma fa poca luce. Eh ma che ti credevi? Notte buio. Non ci pensare. Guarda la bioluminesceza: tante piccole luci nel mare. Sembrano lucciole. Seguono l’alternarsi delle bracciate. Bello, sì certo. Ma vorrei più luce. Ok ma non ci pensare nuota. E’ notte. Non c'è luce. Ma c'è la luna. C’è la luna? Non lo so non ho guardato. E la luna? C'è? Nuota non pensare, conta: uno-due-tre-quattro. Ricomincia: uno-due-tre-quattro. La prima ora è passata. Siamo al secondo rifornimento. Penso: sto bene. Penso: ho freddo. Sento la pelle d'oca: Si, ma sto bene. Va bene così dice Neil. Aumenta il ritmo, ce la fai? Chiede Neil. Si, ce la faccio. O ci provo. Non lo so. Ho aumentato il ritmo? Non ci penso, riprendo a contare. Meduse in ordine sparso pungono braccia, gambe, pancia. Prurito, non ci pensare, non fanno male. Solo fastidio. Non fanno male. Nuota non ci pensare. Bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Conta. A che rifornimento sono arrivata?
Ore 2.45 – 3.15
Nell’Oceano - Notte (fonda).
Temperatura acqua 72F. Temperatura aria 68F. Altezza onde: 1ft. Velocità vento: non riportata. Frequenza bracciate: 51 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).

Neil avvisa: al prossimo rifornimento cambio di canoa. Allora son circa tre ore al prossimo rifornimento. Di già? Tre ore. Sei rifornimenti. Conta: uno- due- tre- quattro. Neil si dà il cambio con Anthea. La canoa di Anthea è più piccola, non è a pedali ma solo con la pagaia.  Non posso starle troppo vicino: Non ci riesco. Mi avvicino troppo Anthea non riesce a pagaiare. Non vedo la fine della pagaia. Notte. Buio. Ma dove finisce la pagaia?
Mi avvicino ancora. Finisco quasi sotto la kayak. Mi allontano. Ora sono troppo lontana. Vado più vicina. Cerco le luci del kayak. Cerco di orientarmi con la distanza: non troppo lontana, non troppo vicina. Gli occhialini sono sporchi. Entra acqua.  Devo resistere fino al prossimo rifornimento. Non ci pensare nuota. Conta: uno-due-tre-quattro. Attenta alla pagaia. I piedi hanno toccato, qualcosa. Cosa? Non ci pensare. E’ stato un attimo. Forse non hanno toccato nulla è stata una impressione. Nuota non pensare. Anche la mano destra ha toccato qualcosa. Cosa? non pensare nuota. Avanti. La notte finirà. Sentinella a che punto è la notte?
All’angolo destro dell'occhio destro vedo lampi di luce. Non ci pensare. Saranno gli effetti della bioluminescenza. All’angolo sinistro dell’occhio sinistro vedo invece dei cerchi concentrici. No, non è vero. Non ci sono cerchi in mare. Non pensare. Nuota. Seguo il kayak. Penso: non avanziamo, stiamo girano in cerchio. Lampi di luce nell'occhio destro. Davanti a me appare una palizzata enorme di legno marrone. Impossibile. Siamo in mare. Attenta ci vai a sbattere. Impossibile siamo in mare, non si sono palizzate in mare. Stiamo girando in cerchio. Impossibile l'Outrider sa la direzione. Quando arriva il prossimo rifornimento? Ho freddo. Anthea fa segno con la mano: due. Mancano due minuti. Conta. Forza, conta le bracciate. Ne conto quarantacinque. Arriva il rifornimento: è freddo. Chiedo un rifornimento caldo: a warm feed, please. Ho freddo.

Ore 3,12 - 4,45
Temperatura acqua 72F. Temperatura aria 68F. Altezza onde: 2-4ft. Frequenza bracciate: 53 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).

Dall'Outrider vogliono sapere: cosa ha chiesto? Come sta?  Rispondo: good! gooood! (she says she feel good, riporteranno nel diario di bordo). Riprendo a nuotare. Conto: uno-due-tre-quattro. I lampi di luce sono passati. Avanti così. Quando finirà anche questa notte? Mi chiedo. E’ una notte che non passa. Mi rispondo. Si passa. Sto diventando schizofrenica, penso. Penso: pazienza. Ci vuole pazienza, il tempo scorre arriverà il giorno. Pazienza. Non pensare, nuota. Nuovo rifornimento Anthea dice continua da sola, sempre dritta, vado a prenderti del warm feed. Guardo l'Outrider, beccheggia. Mi sembra enorme. Guardo davanti a me. Cerco di decifrare la notte. Vedo onde nere. Anche loro mi sembrano enormi. Mi sembra che mi sollevino e mi sprofondino. Guardo oltre le onde. Lontanissima la luce di un faro: appare e scompare. Mi sembra di vedere delle mura dietro il faro. Perché penso alla città di Dite? Sto andando all’inferno penso. Riprendo a nuotare. Sola. Anthea è andata verso l’Outrider. Non ho paura. Fidati. Vai. Anthea arriverà subito. Questione di minuti. Anzi di secondi. Anche meno. Ecco Anthea con il warm feed. Sto meglio. Riprendo a nuotare: bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Conto uno, conto due. Conto tre. Conto quattro. Ancora tocco qualcosa con la mano destra ma non ci penso e conto. Conto uno. Conto due. Conto tre. Conto quattro.
Penso agli squali. No, non ci sono squali qui. Penso ad altri animali: orche, balene, delfini. No non si sono animali qui. Ci sono io. Non pensare nuota. Conta. Sento la canea che monta. Lo so stanno aspettando: il successo, il fallimento. Ho freddo. Penso: se hai freddo nuota più forte. Non posso fermarmi. Non mi fermerò. Non posso. Non voglio rinunciare. Non me lo perdonerei, non mi perdonerei la canea e quel stupido video ed i commenti. Sento il ringhio di sottofondo. Sento: ah ma noi l’avevamo detto che nuotava troppo lenta; ah ma noi l’avevamo detto che c'era freddo, che c'erano i pescecani … che non poteva farcela.
Penso: maledetta hybris. Ho superato il mio métron. Penso ancora: non ci sono squali. Non se ne sono mai visti qui. Ah che gusto quando dirò fifoni, menagrami non ci sono squali, non ne abbiamo visto uno. Ah che gusto. Non pensare nuota. Non dirai proprio nulla. Nuota. Cerca il ritmo. Conta: uno-due-tre-quattro. Ha da passà ‘a nuttata. Ha da passà.



L’alba
Nell’Oceano - Alba
Ore – 4.45 – 6,15
Temperatura acqua 72F. Temperatura aria 69F. Altezza onde: 1ft. Velocità vento: 3-4 nodi. Frequenza bracciate: 52 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).

Nuovo rifornimento. In lontananza mi pare di vedere il cielo più chiaro. Chiedo ad Anthea se sta arrivando l'alba. Yesss, dice e sorride. O forse così mi pare o così ricordo. Penso è fatta, se supero la notte è fatta. E’ passata ‘a nuttata. E’ passata. Nel frattempo Ingrid, l’headcrew, lotta contro la nausea.
Nuovo cambio di turno dei kayakers, arriva Neil: c’è luce. Finalmente. Vedo Neil, finalmente. Non più la luce verde ipnotizzante della canoa. Al primo rifornimento glielo dico: finalmente posso vederti. Dall'Outrider vogliono sapere cosa ho detto e poi tutti sorridono (nel diario di bordo annotano: Sabrina says: “All right. Finally I can see you”. All smiles). Arriva del warmfeed. Sto bene. Sto bene (nel diario di bordo annotano ancora: “I’m feeling very good!”, says Sabrina). Nuoto. Non ho problemi. Con la luce aumento il ritmo. Dall'Outrider arriva odore di uova fritte e bacon. Sulla barca è ora della colazione. Mi viene una fame sgangherata, penso che mangerei una dozzina di uova. Penso che vorrei essere sull'Outrider al caldo ad ingozzarmi di cibo. Poi penso ok con la luce arriva il sole. Tra un po' arriverà il sole. Here comes the sun. Canticchio. E sono quasi felice.
Giorno, finalmente!

Nell’Oceano – Giorno
Ore 6.15 – 7,45
Temperatura acqua 72F. Temperatura aria 69F. Altezza onde: 2-4 ft. Velocità vento: 3-4 nodi. Frequenza bracciate: 53 -50 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).

Nebbia, nebbia, nebbia e ancora nebbia. Sono circondata dalla nebbia.
Al rifornimento chiedo: quando arriva il sole? Presto, rassicura Neil. L’oceano ha preso un colore grigio metallico. Sabrina hoping for the sun scriveranno gli observers. Si spero nel sole. Spalle fredde. Vorrei del sole che mi scaldasse le spalle, la schiena. Al rifornimento successivo chiedo ancora: ma il sole tra poco arriva, vero? Il sole non arriva. Mi viene voglia di piangere. Solo nebbia. Una nebbia oceanica. Non si vede nulla. E poi, a tradimento, eccolo: un crampo. Parte dal piede sinistro e risale lungo la gamba. Mi concentro. Cerco di controllarlo. Provo ad andare avanti. Bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Posso controllarlo, penso. Voglio controllarlo. Finisco di pensarlo e il crampo si prende anche la gamba destra. Vai avanti, mi dico. No. Vai avanti! No, non ce la faccio. Mi fermo. Le gambe sono di sasso. Mi tirano giù. Non riesco a muovermi. Cramps! Grido. Neil chiede se sull’Outrider ho portato qualcosa contro i crampi. Scuoto la testa, mortificata. No non ci avevo pensato e poi cosa si prende contro i crampi? Neil dice ci penso io. Fruga nello zaino di Mary Poppins ed esce una bustina. Dentro c'è una sostanza marrone. E’ senape! Buona. Penso. Ne vorrei ancora. Poi penso: senape per far passare i crampi. Questi sono pazzi. Sono Pazzi Questi Americani. No fidati, lo sanno. Yesss i crampi sono passati. Le gambe riprendono la loro battuta.  Le braccia riprendono a girare. Bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Sono persino felice. Prendo velocità. Uno-due-tre-quattro. Vai. Neil grida a Jodi: must be the mustard kicking her (anche questa frase viene puntigliosamente annotata nel diario di bordo).
Ore 7.30 - 8,37
Temperatura acqua 72F. Temperatura aria 69F. Altezza onde: 2-4 ft. Velocità vento: 3-4 nodi. Frequenza bracciate: 52 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).

Io nuoto. Non penso. Il labirinto dei miei pensieri è sbarrato. Al centro c’è solo un pensiero: nuota, nuota, nuota. Per il resto nella mia testa si è fatto il vuoto.
Però la spalla destra mi fa male. Non voglio fermarmi. Continuo a nuotare. Ogni bracciata parte un dolore lancinante. Cosa devo fare? Fermarmi? Dirlo? Stare zitta? Continuo a nuotare. Ma al successivo rifornimento Neil mi chiede se mi fa male la spalla. Dice che ho cambiato la bracciata: il dolore non è sfuggito al suo occhio vigile. Ammetto: sto male. Mi passa un antinfiammatorio. Lo prendo e riprendo a nuotare. Il dolore diminuisce. Poi passa. La bracciata torna regolare. In lontananza si intravede la terra.  Ma non ci voglio pensare, se ci penso so che sarà troppo lontana e allora crollerò. Non ci pensare non c’è terra, solo mare e acqua salata.
Nuoto. Bracciata. Bracciata. Respirazione. Gambata. Cos’è quell’agitazione sulla barca. Che succede. Osservano il mare. Guardano Neil. Neil li guarda. Osserva il mare. Non pensare. Nuota. Nuoto vicino al kayak. Più vicino. Non chiedere. Meglio non sapere. Nuoto: bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Conto: uno, due, tre, quattro. Nel frattempo nel diario di bordo annoteranno: “6-8 feet [4] hammerhead cruised by Port-bou, about 20 yards [5] from swimmer. No aggressive action. Crew just watched till out of sight”.

Ore 8,50 - 10,00
Temperatura acqua 72F. Temperatura aria 69F. Altezza onde: 1 - 2 ft. Velocità vento: leggera brezza (light breeze). Frequenza bracciate: 53 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).

Condizioni del mare ottime: “still dream conditions for a marathon swim”. Nuovo cambio: si alterna Anthea. Bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Osservo Anthea: pagaia sicura, tranquilla. Penso: sto nuotando nell’Oceano, ho al mio fianco un ex pilota d'aereo, suo padre è uno dei fondatori della scuola di psicologia di Palo Alto. Queste cose possono accadere solo in America. E’ il sogno americano. Spero che sia sogno americano anche per me. Nuoto, conto, respiro, non penso. C'è nuova agitazione sull’Outrider. Osservano il mare. Guardano Anthea. Anthea li guarda. Forse dice qualcosa. Osserva il mare. Non pensare. Nuota. Nuota vicino al kayak. Più vicino. Non chiedere. Meglio non sapere. Anthea si avvicina all'Outrider. Io mi impongo di non pensare e restare vicinissima al kayak, continuo a nuotare, regolare.
Nuoto: bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Nel frattempo sul diario di bordo annoteranno: “10,47 sea turtle basking on surface about 10 mt from Sabrina. Tartaruga!”. Dall'Outrider tutti rimangono affascinati: mai si era vista una tartaruga marina in quel braccio di oceano.
E poi circa mezz'ora dopo annoteranno ancora: “11.17 small shark, paralleling our course, overtaking and passing ahead of us. At the closest it was about 20mt to starboat of Sabrina and kept on going. Saw it until 11,23”.
Tutti (mi diranno poi) tirano un sospiro di sollievo. Io, volutamente ignara, continuo con la mia nuotata. Bracciata-bracciata-respirazione-gambata.[
Ore 11,28 – 12,27
Temperatura acqua 71F. Temperatura aria 73F. Altezza onde: 1 - 2 ft. Velocità vento:  8-9 nodi. Frequenza bracciate: 52 al minuto (Fonte dati: diario di bordo tenuto dagli Observers CCSF).

Ora tutti sono rilassati la costa si fa vicina. Mi dicono che mancano solo pochi yards.  Ma quanto misura un yard mi chiedo. Non ci pensare sono sempre troppi, mi dico. Nel frattempo un po' di sole è uscito. Ma non mi importa più. Non penso. Non voglio guardare la costa. Ma poi alzo la testa. La guardo. Penso saranno ancora cinque chilometri. Ancora cinque! Dalla barca mi incitano: sento Ingrid gridare ormai ce l’hai fatta! Io penso: ma no. Ma c'è ancora tutto quel mare davanti. Saranno almeno cinque chilometri. Cinque. Sei arrivata. Penso: potrei esplodere e disintegrarmi prima dalla stanchezza. Poi penso: non ci pensare. Non ci pensare. E continuo e continuo: bracciata, bracciata, respirazione, gambata. Uno-due-tre-quattro. Ora la costa è vicinissima. Osservo il fondo del mare: è più chiaro. Cerco di guardare il fondale: ecco sì, finalmente si vede. Ecco ora ci siamo. Anthea va avanti. Mi fa da guida per evitare gli scogli. Io la seguo, facendo attenzione. Dall'Outrider avvisano i bagnati di non avvicinarsi finché non sono sulla spiaggia asciutta. Io continuo a nuotare fino a quasi grattare il naso nella sabbia. Poi mi tiro su. Di nuovo su due gambe. Come gli umani. Mi impongo di non barcollare. Mi controllo. Sto bene, mi dico. Procedo a passi (che mi sembrano) lenti, pesanti. Sabbia bagnata. Continuo. Sabbia asciutta. Ecco alzo la mano. Sono arrivata. E’ finita. Tic, tac. Il cronometro di ferma: 12 ore 10 minuti 38 secondi. Dalla spiaggia scoppia un applauso tutto gridano: brava. Mi fa uno strano effetto. Imbarazzo. Mi sento una sorta di fenomeno da baraccone. Ma poi penso: chissenefrega. Ce l’ho fatta. Alzo tutti e due i pugni al cielo. Rientro in acqua per raggiungere l'Outrider. Anthea dice di attaccarmi al kayak. Rispondo di no. Dall’Outrider mi sono allontanata a nuoto, all’Outrider voglio ritornarci a nuoto. Ecco sono le ultime bracciate. Mi tirano fuori dall’acqua: mi tengono, mi sollevano. Mi coprono. Mi fanno domande, per constatare se sono lucida. Tutti mi abbracciano e io rido e batto i denti e mi guardo le mani che sono gonfie e bianche e rugose e ancora mi viene da ridere.


Sabrina Peron 
Note
1]72F = 22,2 gradi
2] Da 4 a 6 nodi: brezza leggera; onde minute, ancora molto corte ma ben evidenziate. Le creste non si rompono ancora. Fonte: http://it.windfinder.com/wind/windspeed.htm
3] Grosso modo: 1 ft = 30,48 cm
4] Circa 1.8 – 2.4 mt.
5] Circa 20mt.
***
45 YUNNAN
di Walter Porzio







44 PATAGONIA
di Walter Porzio









43 VALLI DEL KALASH
di Walter Porzio






COSTARICA
di Walter Porzio

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FOTOS RARAS DE CELEBRIDADES
di Walter Porzio







ITALIANI UNICI AL MONDO
di Walter Porzio






AUGURI ANNO NUOVO
di Walter Porzio






NON MALE
di Walter Porzio







BUONI PREPARATIVI
di Walter Porzio








Diario Persiano
di Lidia Sella

Iran centrale: da sud a nord (aprile 2014)
Al termine di una settimana di viaggio a ritmi serrati -e sempre velata- se ora mi volto indietro, vedo una carovana di immagini ed emozioni…



Shiraz

Masjed-e Vakil (Moschea del Reggente): una corrente di sacralità talmente intensa da rapire anche il profano: come nel bosco di colonne della Mezquita di Cordova.



Tomba di Hafez. Al tramonto, “happy - hour" rigorosamente non alcolico. Per innamorati di tutte le età. Ma soprattutto per la gioventù locale, affamata di sensualità non virtuale. L’appuntamento fra le anime gemelle della città ha luogo in uno scenario inconsueto, cioè nel giardino dove riposa Hafez (“colui che conosce a memoria il Corano”), poeta di corte vissuto nel Trecento.
Qui un adolescente foruncoloso, accoccolato ai piedi del sepolcro di pietra, legge a mente alcuni versi di una pagina aperta a caso in una silloge del poeta. La leggenda vuole che quel che lì sta scritto si avvererà, a patto che chi implora la grazia damore si trovi presso l’eterna dimora del vate, dove si crede aleggi il suo spirito. “Per quale motivo la gioia delloggi gettare al domani?”… Chissà se Lorenzo il Magnifico conosceva questo verso di Hafez? La rasserenante saggezza laica che affiora in alcuni “ghazal” di Hafez mi ha ricordato i pensieri di Marco Aurelio Imperatore, filosofo stoico. Dai testi di Hafez emerge anche una matrice anticlericale: “E tu bacia due cose soltanto, poeta: le labbra e la coppa / perché grave peccato è baciare la mano ai bigotti.” Dedito ad amori omosessuali, Hafez aveva una predilezione per i giovinetti. Un vizietto che non lo abbandonò nemmeno in età matura: “Sono vecchio, ma stringimi forte una notte sul petto, / e io dal tuo abbraccio ancor giovane nasco nell’alba.”


Persepoli e Naqsh Rostam






Non si può capitare su questo pianeta senza passare di qui. A Persepoli si respira aria di eternità.
Capitale dellimpero Achemenide, fondata da Dario I a partire dalla fine del VI secolo, questa città fu distrutta da Alessandro Magno già nel 330 A.C.: una meteora di potenza e bellezza nel firmamento della storia.
I bassorilievi con il corteo delle delegazioni dei ventitré popoli assoggettati ai Persiani -fra cui Egizi, Libici, Parti, Indiani- carichi di ogni genere di doni per limperatore: carri, scudi, asce, lance; vesti, tessuti, bracciali; vasi, coppe e canestri; e poi agnelli, tori, antilopi, asini, cavalli, cammelli, dromedari… Mi sarei soffermata per ore a studiare le sequenze di questa pellicola impressa nella pietra, eccezionale serbatoio di informazioni di carattere storico, militare, etnografico, etc... Una scultura didascalica, poco psicologica, tutta tesa piuttosto a tramandare la consapevolezza della propria superiorità. E latmosfera circostante, in questa giornata di luce perfetta (così lavrebbe definita Pessoa) sembra ancora impregnata della solennità di quei momenti. La stessa nobile magia ariana ci accoglie a Naqsh Rostam, con le tombe di Dario II, Artaserse I, Dario I e Serse I, tutti avvolti nel manto azzurro di questo cielo indoeuropeo.

Anche le divinità passano di moda. Chissà se un giorno si parlerà del Dio dei cattolici come oggi di Zeus, Odino o Ahura Mazda?


Fazargade              
                                         

L’architetto che ha progettato la Tomba di Ciro il Grande ha affidato a questo monumento -austero, imponente, misterioso- un compito semplicissimo: esprimere una gloria destinata a sopravvivere per millenni. E così è stato.

Interessante la testimonianza di Arriano sul comportamento di Alessandro Magno verso il nemico defunto: “Alessandro, cui stava a cuore visitare la tomba di Ciro, trovò che tutto era stato portato via tranne il sarcofago e il letto; gli “sciacalli”, dopo aver levato il coperchio del sarcofago, avevano profanato il cadavere di Ciro. Alessandro ordinò di restaurare la tomba di Ciro, riporre nel sarcofago le parti ancora integre del suo corpo, metterci sopra il coperchio e murare la porticina d’accesso, intonacandola d’argilla, e con il sigillo reale. Poi fece arrestare i Magi, custodi del sepolcro, li sottopose a tortura perché denunciassero i profanatori, ma costoro si dichiararono innocenti, né fu provato in alcun modo che fossero complici del misfatto. Pertanto furono rilasciati. I Persiani accusarono allora il satrapo Orxine, che fu dichiarato colpevole di aver depredato le tombe reali. Perciò i soldati di Alessandro lo impiccarono.”


Abar Kouk

La Casa del ghiaccio, edificio di forma conica, a metà strada fra preistoria e fantascienza.


Yazd

Le Torri del vento: antichissimi sistemi per rinfrescare gli ambienti in modo naturale, soluzioni ingegnose e seducenti. I nostri impianti di condizionamento d’aria, al confronto, sembrano barbare invenzioni. 

Nel Tempio di Zoroastro, una sacra fiamma -accesa nel 425- arde da quasi 1600 anni. Commovente tributo alla forza degli ideali. E allimportanza dei simboli.



Torri del silenzio. I principi dello Zoroastrismo, applicati al culto dei morti, hanno ispirato la costruzione delle Torri del silenzio. Qui i cadaveri venivano esposti alle intemperie e alla voracità dei corvi per evitare miasmi e impurità derivanti dalla cremazione.
Raggiunta la torre più alta di questo sito archeologico, ho notato un adolescente sdraiato a terra, immobile, le membra abbandonate, sanguinante, in stato di semi-incoscienza. Accaldato dal sole cocente del meriggio, procedendo lento, sotto il peso della sua disperazione, è salito fin quassù, cercando proprio la casa della morte. E ha bussato alla sua porta. Quando lei gli ha aperto, le ha chiesto solo un podi pace e la forza di ferire il proprio corpo in più punti, con una pietra aguzza.



 Tra Yazd e Isfhan

A Na’in, la Masjed-e Jameh: moschea fra le più belle e antiche dell’Iran, costruita fra il X e l’XI secolo. Suggestivo il mitreo sotterraneo.

Lungo la strada per Isfahan, ci investe una violenta tempesta di sabbia e vento. Allimprovviso noi e il nostro bus veniamo catapultati nel regno dell’invisibile: sarebbe stato un buon inizio per un viaggio nello spazio-tempo, attraverso altre dimensioni.


Isfahan

Mentre cammino per le vie della città, mi rammento le parole di Robert Byron ne “La via per l’Oxiana”, quando inserì Isfahan “nel numero più ristretto di quei luoghi, come Atene e Roma, che costituiscono una fonte continua di delizia per tutta l’umanità.” Come dargli torto?
Nella sala da musica all’ultimo piano del Palazzo Ali Qapu, assisto a un concerto improvvisato davvero speciale, eseguito con uno strumento d’epoca “a corda”, chiamato “taar". Il musicista            -lineamenti levantini ed espressione ispirata- gioca di fantasia su motivi tradizionali del repertorio persiano. Antico e moderno, Oriente e Occidente si sposano con naturalezza in queste melodie esotiche ma universali. Nell’ascoltarle ritrovo la stessa vena tragica sottesa agli “Ultimi quartetti per archi” di Beethoven.

Geniale lo studio sulle proporzioni auree celate nel progetto della Naqsh-e Jahan Square, per dimensioni la seconda al mondo dopo Tienammen a Pechino. A svelare l’appassionante mistero, Jason Elliot, nel sesto capitolo di “Specchi dell’invisibile - Viaggio in Iran” (Neri-Pozza, Vicenza, 2007).




Torri dei piccioni. Costruite per esigenze pratiche eppure non prive di fascino. Qui i volatili ottengono ospitalità in cambio del loro prezioso concime: una fruttuosa società tra uomini e animali.
Immersi in questa architettura di pieni e di vuoti, si ha l’impressione di camminare su una scacchiera di tenebre e luce. Una sorta di viaggio iniziatico che mi ha riportato a quelle atmosfere narrative un po’ surreali che ci accompagnano in certi racconti di Borges. (“Biblioteca di Babele” , “Giardino dei sentieri che si biforcano” ).


Quartiere Armeno, Cattedrale di Vank. Un affresco del giudizio universale in stile Hieronymus Bosch, dove il demonio mette in scena diverse e raffinate forme di supplizio. Quando i film horror non esistevano ancora, così forse i fedeli saziavano la loro sete “splatter" di sangue, mostruosità e ferocia.



Un delizioso gelato allo zafferano, nella sala da tè dell’Abbasi Hotel.


Tappeh-ye Seyalk (Sialk)
(fra Kashan e Fin)

Uno ziggurat del IV millennio, forse ancora più antico di quelli mesopotamici, eroso dall’acqua e dal tempo, ma in parte ancora integro. L’istinto di pensare in grande e l’impulso a creare, a costo di immani fatiche, opere capaci di resistere ai millenni, presuppone una straordinaria fede nel futuro, oltre che energia, entusiasmo, immaginazione. Fattori che, a giudicare dai risultati, durante l’infanzia dell’umanità non dovevano certo mancare.


Teheran

Una megalopoli popolosissima. Dodici milioni di abitanti, la notte. Che durante il giorno, per l’afflusso di pendolari, salgono a sedici. Una sacca infernale di smog, inquinamento, rumore. Né le auto né i pedoni rispettano i semafori rossi. Forse anche per questo il traffico è spaventoso.

Meraviglioso il Palazzo Golestan, con sale sfarzosissime e pareti esterne rivestite di specchi in cui si riflettono giardini incantati.


Imperdibili capolavori al Museo del vetro e della ceramica.

Teoria di tesori al Museo Nazionale,: statuina di femmina acefala, tutta cosce e mammelle (VII millennio), modellino di casa in muratura (V millennio), gigantesco lucchetto di granito (III millennio), ruota in pietra (II millennio), forchette sasanidi del 230 d.C. … 

Purtroppo, per un imperdonabile errore organizzativo da parte del nostro tour operator, capitiamo a Teheran nell’unico giorno in cui il mitico Museo dei gioielli, ospitato nel caveau della Banca Centrale, resta chiuso al pubblico.

Come premio di consolazione, indimenticabile visita al Museo del tappeto: dolce naufragare in quel caleidoscopio di colori, motivi, epoche e stili diversi. E, mentre attraverso questo labirinto immaginifico, noto che da ogni figura geometrica affiorano carovane di forme: una sorta di nemesi dell'arabesco.

Gli iraniani appaiono poco sicuri di sé. Quando incontriamo persone del luogo ci chiedono sempre se il Paese ci piace e che cosa pensiamo di loro.

Dopo tanta carne, finalmente assaggio uno squisito kebab di storione.

Anche qui alberghi spesso fatiscenti, scarsa pulizia ovunque e toilette pubbliche con bagni per lo più alla turca.

Birra analcolica: sapore dolciastro e colore equivoco, servita quasi sempre tiepida. E poi niente vino. Questo lo si sapeva. Ma almeno avevo sperato nell’acqua minerale gassata, che invece è introvabile. Così, mentre rimpiango un buon bicchiere di vino bianco, ripenso a una splendida quartina di Omar Khayyam, poeta e astronomo persiano dellXI secolo d.C., appassionato di vino e di donne:

“Quando son sobrio, la gioia mi è velata e nascosta, 
Quando son ebbro, perde ogni coscienza la mente, 
Ma c’è un momento, in mezzo, fra sobrietà e ubriachezza…
Per quello tutto darei, quello è la Vita Vera!”


                                          
SICHUAN
di Walter Porzio







SORRISI DAL MONDO
di Walter Porzio







ROMANIA
di Walter Porzio







YEMEN
di Walter Porzio








A SPASSO FRA LE PLEIADI 
Sette isole, un’estate. Reportage
di Lidia Sella

Rodi
La via dei Cavalieri

Ore ventuno del 9 agosto 2014. Atterro a Rodi. Aeroporto affollatissimo. Per ingannare l’attesa dei bagagli, invento un passatempo divertente. Osservo -dal “punto-vita” in su- alcuni rappresentanti del genere maschile. Se sono molto burini, scommetto con me stessa che portano i bermuda: e non sbaglio! 
Dato l’enorme afflusso di turisti, i tassisti organizzano solo corse collettive.
Al Nireas, cena deliziosa: insalata di ricci freschi, crocchette di granchio, gelato alla crema con backlava. 
Uno strano negozio offre l’opportunità di immergere i piedi in una vasca piena di pesciolini, per un massaggio “ittico”. 
A notte fonda mi avventuro nella Rodi vecchia, lontano dalla baraonda: pergole di bouganville, aria che profuma di gelsomino come a Capri, luna piena fra le antiche mura e, a sorpresa, l’orgoglioso rudere di una chiesa del XIV secolo, che sembra una San Galgano in miniatura. 
La mattina dopo, visito il Palazzo del Gran Maestro e l’Ospedale dei Cavalieri. Poi il Museo archeologico. Con specchio di età minoica (XIII-XIV secolo a.C.), precoce manifestazione di narcisismo. E terracotte del XII secolo a.C.: ma quanti millenni sopravviverà il nostro servizio da cucina?

Tílos


Pace e silenzio irreali: mai un rumore a interrompere il sonno.
Una sola strada, poco battuta. Impressionanti scorci a strapiombo sul blu, lungo la via per il Monastero di Agios Panteleimon. 
Sul porticciolo di Livadia, dove i traghetti attraccano in un mare limpido come un lago alpino, si affacciano diverse taverne. Kriticos, forse, la migliore.
Isola aspra lungo le coste ma con un cuore verde. Qua e là, rocce rosse, simili a unghiate sulla pelle della Terra. 
Acque tiepide, trasparenti, e rari sprazzi d’azzurro. Le spiagge più suggestive sono di ciottoli, quasi deserte persino a ferragosto, per lo più da raggiungere camminando a lungo sotto il sole cocente. O, in alternativa, con la barca un po' zozza del grasso greco Stelio che, incurante del proprio scarso fascino, si lancia in spericolate avances verso le sue clienti. Su un altro pianeta di civiltà si muove invece il fido e simpatico Rob di Manchester, che lo affianca nelle manovre e nell’organizzazione. Peccato gli orari svizzeri, con partenze troppo mattiniere e la giornata spezzata da rientri a metà pomeriggio. 
A Plaka, eleganti pavoni si esibiscono fra i bagnanti, nella speranza di conquistarsi una merendina…
Nella splendida insenatura di Àgios Sérgios, mi preoccupo di dissetare un intero gregge di caprette. Risultato? Si contendono una sorsata d’acqua a cornate. 
Serata metafisica a Mikro Chorio, music-bar inserito in un paese fantasma: lo spettacolo pirotecnico delle stelle cadenti che sfrecciano sullo schermo infinito del cielo aggiunge un respiro cosmico a questa città sospesa fra vita e morte.

Nysiros

Cratere

Toccata e fuga, in giornata, da Tílos. Quattro scie di ricordi.
1) Stéfanos, un cratere lunare striato di zolfo. 
2) Emporio: chora "bonsai" con pavimentazione mosaicata stile Campidoglio.
3) Il Monastero della Madonna Spiliani, sul costone roccioso che domina il villaggio marinaro di Mandraki: un’inquadratura da cartolina. 
4) Tílos, all’orizzonte, affiora dalla foschia come una terra fatata.

Halki



Hotel St. Nicolas Boutique, unico vero albergo dell’isola, ricavato in un’ex fabbrica di spugne. Da qui si gode una visione privilegiata sull’armonioso, coloratissimo, porticciolo ad anfiteatro, patrimonio dell’umanità protetto dall’Unesco. Uno scenario che lo sguardo e la mente potrebbero contemplare all’infinito, senza mai stancarsi, come davanti al fuoco nel camino.
Le chiamano “caves”. In realtà è un canyon fra gli scogli: quando lo si attraversa a nuoto, sembra di entrare in una galleria di azzurro. 
Yaloì e Aréte: luoghi di magica solitudine. Da raggiungere in barca con Lachis Paspalakis, proprietario del bar “La Piazza”, garbato e professionale, niente a che vedere col suo concorrente Alex, incivile ed esoso. 
Dal castello, vista mozzafiato sulle isole sorelle: una terrazza sul mondo. E sulla sottostante Baia di Trakià.
Da Remetzo o da Babis, i migliori “little shrimps”.

Creta (nord-est, est, sud-est)


Monastero Moni Toploù

Sitìa: unica nota di rilievo, il piccolo Museo archeologico. Conserva pezzi interessanti, ad esempio una vasca da bagno di epoca palaziale (1700 a.C.).
I siti archeologici che ho visitato da queste parti (Itanòs, Palèkastro, Katò Zàkros, Tripitì, Gournià) sorgono in posizioni panoramiche straordinarie, sebbene si trovino purtroppo in pessimo stato di conservazione.
Riguardo alle spiagge, ve ne sono di magnifiche. A est: Roussòlakkos, Katò Zàkros e, soprattutto, Xerocambos. Oltre alla mitica benché troppo affollata Vài. A sud: Diaskari e Agìa Fotìa. A nord est, nei pressi di Istron, la Golden Beach di Voulisma.
Nuotando a Kató Zakrós, ho rischiato la vita: intenta a inseguire un pensiero, e a modellarlo in forma perfetta, non mi ero accorta che il vento che si era levato improvviso mi aveva spinta al largo, ben al di fuori dalla profonda insenatura con acque tranquille da dove ero partita. Il mare si era ingrossato di colpo e quando mi sono voltata per meglio valutare quanto fossi distante da terra, un’onda mi ha sommersa, ho bevuto, mi è mancato il respiro e, per un attimo, sono stata presa dal panico. Ma mi è bastato immaginare le complicazioni legate al rimpatrio della mia salma per ritrovare subito coraggio e attraversare il lungo tratto che ancora mi separava da riva, sfidando la corrente contraria con un vigore che si rinnovava a ogni bracciata.
A Loghari, nella pianura di Kritsà, la Panagìa Kerà, chiesa bizantina del XIII sec., con affreschi del XIV e XV: sull’albero dell’arte, le chimere religiose si sono qui trasformate in tante gemme lucenti.
Àgios Nikòlaos, atmosfera animata e gioiosa, bar e ristoranti sulle sponde del piccolo lago circolare, noto come Vromolimni o Voulismeni, che fra il 1867 e il 1871 il pascià Adosidis ha provveduto a far collegare al mare mediante un canale. Le ripide pareti di granito che racchiudono in parte il bacino     
-nelle ore notturne, illuminate ad arte- creano sullo specchio d’acqua riflessi prodigiosi che sembrano allungarsi in profondità, quasi a evocare vette altissime. A completare l’atmosfera fiabesca, bianchi cigni veleggiano nel buio.

Chrissi




Cioè l’isola dorata, sebbene il suo vero nome sia Gaidouronìsi. Sei chilometri quadri di dune, sabbie chiare, finissime, cedri del Libano e acque di una bellezza commovente.  La si raggiunge in meno di un'ora di navigazione da Ieràpetra, con un boat-people che scarica orde di gitanti. Però qualche angolino più tranquillo attende i meno pigri. E se qui avrete la fortuna di scattare una foto con la vostra mente, vi resterà impressa per sempre.


Spinalonga


Spinalonga, isola-fortezza, eretta nel 1589 e in mano alla Serenissima Repubblica di Venezia fino al 1715, dal 1903 adibita a lebbrosario (uno degli ultimi in Europa), è disabitata dal 1957.
Mi arrampico fino al torrione e, mentre cammino lungo il suo perimetro interno, assemblando piccoli tasselli di panorama sul Golfo di Mirabello -catturati fra le merlature- penso che alla nostra specie è stato concesso di percepire soltanto i fotoni che pulsano in un modesto intervallo di lunghezze d’onda: come osservare il mondo da una feritoia.
Al rientro dall’isola, al ristorante Vritomartes di Elounda, spuntino a base di “cheese pie” casalinga, gustosa quanto la focaccia al formaggio di Recco, anche se al posto del certosino viene impiegato lo Xinomizytra, un caprino locale.

Note a margine.
Propedeutico alla morte, il viaggio itinerante: ti allena al distacco da luoghi e persone.
D’estate, in Grecia: cielo azzurro assicurato. E l’anima si sente a casa.
Non un compagno d’avventure ma resoconti di viaggio per lettori sconosciuti: emozioni in differita.
Cantare per due giorni interi Volare oh oh di Domenico Modugno: questo l'ordine semiserio che una notte mi è stato impartito in sogno. Una riprova inconscia del mio bisogno di svagarmi.
A tenermi compagnia, i miei amici adorati: i libri. Non potrò scindere il ricordo di atmosfere e paesaggi dalle suggestioni che la lettura di queste duemila pagine mi ha regalato.
I miei ringraziamenti vanno dunque ai seguenti autori:
1) Al Marchese Donatien Alphonse François De Sade per il godibilissimo “Dialogo tra un prete e un moribondo”, terminato nel 1782, uscito per la prima volta nel 1926 e ora contenuto in “Strenne filosofiche”, volumetto pubblicato nel luglio di quest’anno da La Vita Felice. Interessante la prefazione di Matteo Noia: da un lato ripercorre la vita tribolata dell’autore durante quasi trent’anni di reclusione; dall’altro suggerisce stimolanti riflessioni sul rapporto fra scrittura, immaginazione e realtà.
2) A Dostoevskij, per “Umiliati e offesi”, avvincente romanzo-feuilleton che il grande scrittore russo iniziò a concepire durante i lavori forzati in Siberia e poi terminò nel 1861, in pochi mesi di scrittura febbrile. Per lui non si trattava di un buon periodo. Eppure la sua ispirazione fu tanto forte da imporsi su i debiti, le perdite al gioco, gli amori burrascosi e le ricorrenti crisi epilettiche (fino a trenta attacchi all’anno). E non c’è da stupirsi che i numeri della rivista Vremja (Il Tempo), sulla quale il testo fu pubblicato a puntate, andassero a ruba. Indimenticabile il personaggio del Principe Valkovskij, figura di diabolica ipocrisia, costruita mediante finissimi artifizi psicologico-dialettici.
3) A Eva Cantarella per “Ippopotami e Sirene”. In questo saggio vengono messi a confronto due differenti modi di concepire il viaggio nell’antichità. In Omero, più xenofobo, i popoli che Ulisse conosce nelle sue peripezie appaiono piuttosto primitivi. E la vicenda fantastica offre continui spunti per richiamare il lettore ai nobili doveri che l’appartenenza alla civiltà greca impone. Erodoto, primo antropologo della storia, innamorato dell’ignoto, risulta invece affascinato dall’incontro con altre culture, sebbene nei suoi resoconti mescoli spesso storia e leggenda.
4) A Raj Jayawardhana per “Cacciatori di neutrini”. Centinaia di milioni di neutrini attraversano ogni secondo i nostri corpi. Non derivano solo da esplosioni di supernove ma vengono prodotti anche dalla fornace solare e nelle viscere della Terra. La loro concentrazione è tale che per ogni atomo del cosmo esiste un miliardo di neutrini. Il fisico teorico Boris Kajser ha addirittura affermato: “Se i neutrini non esistessero, noi non saremmo qui.” Ecco perché può tornare utile possedere qualche informazione in più su questi nostri misteriosi compagni di viaggio.
5) A Benedetto XVI e Piergiorgio Odifreddi  per “Caro Papa Teologo, caro matematico ateo”. Appassionante dialogo tra fede e ragione, religione e scienza. Dal quale la Chiesa e i suoi stessi fondamenti teologici escono con le ossa rotte.
6) A Caleb Schaef per “I motori della gravità - L’altra faccia dei buchi neri”. Al centro della Via Lattea - popolata da duecento miliardi di stelle - “abita” un buco nero con una massa quattro milioni di volte il Sole, che assolve un duplice compito: tiene sotto controllo la produzione di stelle, evitando un eccessivo accrescimento della Galassia, e converte in energia una grande quantità di materia. Questa, in sintesi, la nuova e affascinante tesi cosmologica qui suggerita.
7) A Nikos Kazantzakis (nato nel 1883 a Iraklion, dove oggi riposa), per “Zorba il greco” il romanzo è ambientato a Creta, nel primo Novecento, in un’atmosfera primigenia, adamantina. Iniziato negli anni Trenta, portato a termine nel maggio ’43, il testo fu per la prima volta tradotto dal greco in italiano nel 2011 a opera di Nicola Crocetti. Con questo racconto, Kazantzakis insegna il coraggio del cuore e indica agli uomini la via per una saggezza panteistica. L’intera vicenda si configura come una sorta di ironico, audace vangelo laico che, attraverso lo strumento letterario, tratteggia una moderna filosofia di matrice ellenica ma di vocazione universale, nemica di chi sopravvaluta la ragione a scapito della gioia di vivere.





                                           


RUSSIA
di Walter Porzio







ALGERIA DI VIRGOLA
di Walter Porzio

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LE CASE DEL NORD
di Valentino Pellegrini




Stoccolma.  Alle 6 si entra nel fiordo di Stoccolma e c'è un bel sole, lo stupore per le rive boscose e per le centinaia di isolotti è grandissimo, l'acqua è calma, minuscole insenature con essenziali attracchi e una casa in legno poco distante. Case semplici, in legno, pitturate con colori basici e della giusta intensità, hanno la forma che esemplifica il concetto di casa e sembrano collocate da una mano infantile che crea un paesaggio. Dove il sole brilla di più, dove l'insenatura è dolce e accogliente e l'acqua più cristallina, dove un gruppo di betulle offre un ombra discreta, ecco proprio li è il posto giusto per mettere una casetta. La nave procede lentamente per quasi sessanta miglia, gli isolotti più vicini passano a poche decine di metri, raramente le case sono raggruppate e ancor più raramente il gruppo eccede la coppia, non si vedono recinzioni. Si collocano da sé con discrezione, per non darsi fastidio ma ben attente a non perdere il piacere di vedersi da lontano, e di dare notizia del loro essere abitate con una festosa bandiera e la barca ormeggiata nella caletta.
Ma non esiste simbiosi tra natura e abitazione, nulla che possa ricordare capanne o insediamenti agro-pastorali, la meravigliosa natura se potesse non vorrebbe neanche le linde casette svedesi, si adatta al misurato e dispotico volere dell'uomo che impone il suo piacere senza altre necessità. E' bello avere una casetta su di piccolo scoglio ma è pur sempre una futilità salutistica e le finalità estetico-edonistiche vengono confermate dalla totale assenza di posticci di qualsiasi dimensione e misura, niente serre in  plastica niente capanni per gli attrezzi, niente forni e barbecue in muratura, la rimessa  per la barca ha la stessa dignità strutturale delle abitazioni.



Anche i russi amano la campagna e d'estate vanno a vivere nella dacia che può essere come quella di Putin, non molto diversa dalle residenze estive dei Romanov, o molto simile nella maggior parte dei casi ad una, piccola, rurale abitazione con orto, capanni, recinti costruiti con materiali di recupero. Le necessità in Russia affermano se stesse con prepotenza ed anche i grandi palazzi dalla cupole d'oro ne portano le tracce: le grondaie non finiscono nelle fogne che evidentemente non esistono o non possono esistere e terminano a mezzo metro dalla superficie dei marciapiedi e nell'ultimo tratto sono tutte acciaccate e distorte e questo vale anche per il teatro Marijnsky o per il palazzo Jussupov.
Pietroburgo possiede una collezione di muffe che intaccano i basamenti delle case non meno importanti di quelle di Venezia e per entrambe la manutenzione appare sempre enormemente inferiore alle manifeste necessità. In Svezia e in Finlandia le case non hanno mai bisogno di interventi di ripristino, tranne quelle in cui sono in corso, e questo segna una differenza fondamentale che non può essere spiegata soltanto in termini economici. Forse può ricevere qualche lume dalla riforma protestante dopo la quale fu maggiormente chiaro per quei popoli che i conti ciascuno li deve pagare da se. Più si va verso Nord e più le case rispecchiano bisogni fondamentali e la necessità di adattarsi al clima rigido dei lunghissimi inverni e si modellano sulla base di esigenze sociali nucleari e prive di esibizionismi cortigiani. Alle Lofoten si affiancano uniformi e utili lungo la piccola baia simili alla piccola casa di Pietro il Grande quando decise di  stabilirsi all'estuario della Neva. Poi tutto divenne diverso e Pietroburgo rappresenta con immediata evidenza uno dei maggiori e giganteschi sforzi di piegare la natura ai disegni della mente, solo gli argini granitici del fiume e la fortezza di Pietro e Paolo rispondono alle esigenze della lotta contro gli elementi naturali, il resto dice della volontà di piegare e mutare l'aristocrazia russa del 1700.




Se fosse cresciuta lentamente come primo porto e cantiere navale della Russia avrebbe accolto i suggerimenti della natura, basamenti granitici, muri di legno o forse di pietra o mattoni ma bando totale per intonaci pastello, lesene e stucchi, processioni di stanze fredde e inutili dove galoppava la tisi. Tantissimi edifici pubblici e in particolare le chiese e moltissime case nel Nord sono costruite con bellissimi mattoni di tonalità di colore che vanno dal rosso al bruno, spesso sapientemente  accostate. L'argilla non deve mancare e neppure il legname per cuocerla nei forni, il castello dei Cavalieri Teutoni a Marlbork mi è rimasto impresso come un immane monumento alla pazienza artigianale, credo che il primo pensiero di molti alla sua vista vada al numero di mattoni che sono stati necessari per costruirlo.
E' quasi impossibile non essere stupiti dalla mescolanza di potere, cocciutaggine, pazienza e abilità umana che esemplifica, alla bellezza non si pensa perché del tutto accessoria.
Vengono in mente le Piramidi anche loro oltre il bello e si pensa sempre alla fatica e all'ingegno necessari per assemblare i blocchi di pietra nella loro costruzione. Dal blocco al mattone l'impressione non cambia: grande potere e grande capacità di innalzare ad esso monumenti ciclopici, l'uomo evidentemente ha bisogno di impegnarsi in questo modo, si supera la noia dei bisogni quotidiani, si fronteggia la paura della morte e di svanire nel nulla.



Il destino di un popolo si legge nelle sue case? Sembrerebbe proprio così; dove abitano i Pietroburghesi? Le guide turistiche e gli autisti dei pullman, i controllori delle frontiere, i custodi delle sale dei palazzi dei Romanov verranno alla sera inghiottiti dagli immensi edifici civili del periodo Staliniano del tutto simili a quelli pre e post. Se non si fa parte di una colossale collettività organizzata a Pietroburgo non si può esistere e resistere; il rapporto tra il luogo e i suoi abitanti è stato possibile soltanto in  questa dimensione.
Anche se ci hanno vissuto Gogol, Dostoevskij ed  Esenin non si riesce ad immaginarli nelle loro case, a zonzo per il loro quartiere e men che meno al bar: Hemingway costretto dalla sorte a vivere a Pietroburgo non avrebbe scritto una riga. Il passaggio drammatico e brusco da una intellighenzia cortigiana e salottiera a quella  impegnata e devota alla politica è forse all'origine della mancanza di negozi, caffè, locali di ritrovo. Prima nei salotti dei nobili e nei molti grandi teatri poi solo in questi e nei luoghi di educazione e coordinamento politico. Il centro, architettonicamente europeizzante e aristocratico manca totalmente dei tempietti del buon vivere borghese e questa caratteristica determina uno sconcerto che confina con l'angoscia nei turisti che vedono materializzarsi il bando ad ogni aspirazione a quelle differenze irrinunciabili, quanto concrete, tra se stessi e gli altri che si realizzano nei negozi.


Fortunatamente a Stoccolma e Helsinki negozi, ristorantini e bar non mancano. Edifici severi classicheggianti e granitici, strade ordinate e pulite, mercati coperti letteralmente privi dell'odore di derrate alimentari ma finalmente un'infinità di posti dove si può comprare. E' una liberazione dall'incubo comunista dove esistevano soltanto, nascosti e relegati, posti di prelievo di beni di prima necessità. Anche se non è più così, le case e le strade russe riferiscono ancora di un mondo disciplinato e sobrio dominato dall'ideale del bene comune che riesce ad atterrire anche il popolo della sinistra di provenienza emiliano-romagnola. Si torna a Rostock, c'è il tempo per una gita a Berlino in pullman. I campi sono immensi, coltivati con cura e precisione teutonica e con grandi isole boscose che ne interrompono la monotonia, non si vedono abitazioni rurali simili alle nostre, ogni tanto paesi nuovi e ben costruiti, probabilmente le nostre cascine sono superate o forse mai esistite.
Nelle poche case isolate non si notano fienili, deposti, cortili con macchine agricole, tutto deve ormai svolgersi con modalità e ritmi industriali. Grandi capannoni dove vengono ricoverate e riparate le macchine agricole, i prodotti vengono immediatamente inviati a centri di lavorazione.
Certamente un gran risparmio se penso al mio vicino che possiede un trattore a cingoli per la vignetta ed un enorme trattore a ruote per un campetto di patate e per spalare la neve in inverno per conto della Provincia. Berlino è piena di vita e di giovani che ci vengono a studiare da mezzo mondo, la Merkel abita in un normale alloggio, i ministeri sembrano davvero uffici per lavorare ma forse è solo una superficiale impressione. Mi sento piccolo, molto ridicolo ma disperatamente pieno di voglia di sopravvivere.







                                               

























PASSAGGIO IN INDIA
di Walter Porzio





MYANMAR
di Walter Porzio





FIORDI NORVEGESI
di Walter Porzio



KENIA TANZANIA
di Walter Porzio







BULGARIA VIRGOLA
di Walter Porzio





HOLLA MOHALLA
di Walter Porzio


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BULGARIA
di Walter Porzio






KROBO
di Walter Porzio






FORTE DI KANGRA
di Walter Porzio





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WUDAABE AL GEREWOL
di Walter Porzio




AKWASIDAE 
di Walter Porzio





CALGARY 
di Walter Porzio





BUONA PASQUA 
di Walter Porzio






IL PARLAMENTO EUROPEO 
di Walter Porzio






ARGENTINA 
di Walter Porzio


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INDIA 
di Walter Porzio

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EGITTO 
di Walter Porzio







BIRMANIA 
di Walter Porzio







ALBANIA 
di Walter Porzio








LA CIQUITANIA
di Walter Porzio









ARGENTINA
di Walter Porzio







L’eliminazione del colbacco
di Giovanni Bianchi




Sono tornato in Russia (Mosca e San Pietroburgo) da dove mancavo da qualche anno. L'invito era stato fatto ancora una volta dagli amici di una fraternità ortodossa che risponde al nome di Sretenie ("Presentazione al Tempio"). Vivaci nella fede ortodossa, ansiosi di diventare vivaci anche nel sociale. Da qui il rapporto più che decennale con le Acli.
Sono convinto che il grande possa talvolta essere letto a partire dal piccolo e l'universale dal particolare, se hai la fortuna di collocarti dal punto di vista giusto. La Russia di Putin ha migliorato il tenore di vita generale dopo le svendite e le disattenzioni di Eltsin, troppo attento alla vodka. Inoltre il nuovo zar ha ridato dignità geopolitica al più grande Paese del globo, attingendo alla memoria e all'orgoglio non ancora spento dei soviet. Quasi una reincarnazione di quello spirito imperiale e di quella volontà di potenza che da Stalin giunse fino alla mummia di Breznev. Credo siano essenzialmente queste le coordinate del successo elettorale dell'abile dirigente del Kgb.
Che cos'è questa Russia? Non la si intende estendendo con ottuso continuismo il legame con quella di Stalin. Neppure la si legge inseguendo le fortune e i fasti dei nuovi oligarchi, sguinzagliati in mezzo mondo ad acquistare squadre di calcio, in patetica concorrenza con gli sceicchi arabi del petrolio. Forse ci si avvicina un po' di più alla sua verità odierna osservando i flussi del turismo di massa verso il Bel Paese, la riviera romagnola e altrove.
Non si governa un territorio esteso come la Russia, non lo si amministra negli interminabili inverni senza un apparato statale pesante. Chi paga e chi assumerebbe il numero infinito di donne e di uomini che spalano la neve e rendono transitabili i binari liberandoli dal ghiaccio? Il business non si è mai fruttuosamente cimentato con questi problemi collettivi.
È a partire da queste ataviche necessità che la nuova classe e le sue oligarchie di potere incrociano il dilagare inarrestabile del turbocapitalismo con gli organigrammi e i tempi da pachiderma di un'antica, estesa e necessaria burocrazia. Qual è dunque la vera sostanza sociopolitica della Russia di zar Putin?




Anche le sociologie dopo i fasti di Weber, Parsons, Sorokin e Wright Mills si sono svagate perché invaghite dei propri effimeri successi, del nuovo metodo, di una scientificità dalla corta radice destinata a danzare nel tempo breve. Dunque nessuna pretesa sociologica o sistemica nel mio rapido sguardo, ma la voglia ostinata di capire: quasi una sfida al bricolage della vita quotidiana, che tuttavia non è più in grado, neppure nella Russia postsovietica, di ignorare quelle "periferie esistenziali" che papa Francesco ha buttato negli ingranaggi di un turbocapitalismo globale che maschera la propria incoercibile avidità nella ideologia concreta del Pensiero Unico.
Anche in Russia? Anche in Russia, vecchio tovarish. Perché è sempre vero che se è rimasto indistruttibile e nostalgico l'antico richiamo della foresta, adesso la foresta non c'è più. Per tutti. Anche in Italia…



Mosca

Dove va la Russia di zar Putin e del Gazprom non lo so dire. Dico solo che la vorrei più prossima all'Europa, magari più prossima del Regno Unito di Cameron e della sua City rapace, che tanti guai, più di Wall Street, ha procurato agli Europei. I quali hanno avuto la dabbenaggine di nominare finalmente il loro primo Ministro degli Esteri scegliendo per l'ufficio lady Ashton, che, come tutti i sudditi di Sua Maestà Britannica – da destra a sinistra – crede anzitutto nella sterlina. In piena crisi dell'euro. Come se a inseguire le magnifiche sorti e progressive del Vecchio caro Continente "detronizzato" (Carl Schmitt) siano rimasti soltanto i disperati ucraini.
Ma placo subito, anche per ragioni di spazio, gli ardori geopolitici per tornare al mitico colbacco. Gli incerti rigori dell'inverno italiano (anche in Russia il clima fa le bizze e stupisce) ne avevano imposto l'immagine nostalgica alla coscienza, essa sì infreddolita. Ma sono tornato a mani vuote per lo choc di avere trovato sulle bancarelle per turisti nella sezione souvenir dei supermercati –gli stessi che troviamo in Italia intorno alle stazioni ferroviarie  e agli aeroporti, con gli stessi nomi scritti in cirillico– i "nuovi" colbacchi sintetici, dai colori incredibili, tutti con l'immancabile Stella Rossa in evidenza.

San Pietroburgo
Quando il business e il kitsch si danno la mano, anche una gloriosa e non universalmente amata rivoluzione appare trasformata in patacca per rispondere alla domanda di un turismo non sempre obnubilato dalla vodka. Ma li vedete questi finti colbacchi color ciclamino, verde e fucsia, rigorosamente unisex, a dispetto dell'ostinazione di zar Putin a negare l'evidenza che impone al diritto di riconoscere universalmente che oramai i sessi principali sono due? Tutti serialmente con la Stella Rossa, ridotta a patacca passepartout. Gli unici a conservare un bel colbacco di pelo d'ordinanza sono i poliziotti e qualche raro anziano renitente alle mode e al progresso. E perché allora non piazzare sul nuovo colbacco sintetico, già che ci siamo, il Che Guevara, Maradona o la Madonna di Medjugorie? Scherzi della nostalgia? Macché! Scherzi del business, la cui avidità ignora le frontiere, a partire da quelle dell'utilità e del buon gusto.
E mi rimbomba nel capo – quasi un mantra forsennato – la previsione del Manifesto del 1848, quando Marx ed Engels scrivevano: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria. Una profezia ripresa in sociologia da Bauman con la fortunata metafora della "società liquida" e da Marshall Berman nel titolo (in inglese) del più bel libro sul tema scritto a New York nel 1986, anticipando tutti i temi della crisi globale in corso.
E Berman si prende la libertà di dedicare il primo capitolo del libro al Faust di Goethe ...




 
ALGERIA
di Walter Porzio

                                                                                         




SLOVENIA
di Walter Porzio








DAHANU E BO - NO - NA

di Walter Porzio







QUEBEC
di Walter Porzio







ZULULAND
di Walter Porzio










OMAGGIO A "MILANO CITTA' NARRATA
di Paolo Di Stefano

















Un omaggio di Paolo Di Stefano al volume
“Milano città narrata”
A cura di Angelo Gaccione
Meravigli Editrice 2013
Pagg. 160 € 15,00


Milano narra di sé
Testo e foto di Paolo M. Di Stefano




















Milano narra di sé
Silente
A se stessa
Spoglia d’ogni retorica
Solo specchiandosi
In quel mondo diverso
Nato
Dalla pioggia cessata appena  















Non tamerici
Salmastre ed aspre
E pineti neppure
Ad ispirare il retore poeta
Solo sconnessi selciati
E pietra
E sassi di lontani torrenti
E asfalto incerto















E sosta la pioggia
E trema
Negli angusti confini
Che ruote impietose
Violano tormentose
Ed  iracondi passi
Premono in fretta
Maledicenti















Nel mobile velo
Milano si disegna
E solo si offre
Al guardar degli umili
Ai quali il cielo















Ricrea
E sua dimora ne fa
Vestita a festa.






 MONGOLIA
di Walter Porzio







LA DONNA NEL MONDO

di Walter Porzio








KANGRA SRINAGAR
di Walter Porzio










LA RUTA MAYA
di Walter Porzio



Guerriero Maya

Si chiama ruta maya, cioè "strada dei maya", ed è il percorso seguito da questa antica civiltà nelle vari tappe della sua espansione. In Messico, Honduras, Guatemala, Belize, Salvador, restano ancora og importanti siti archeologici che testimoniano gli antichi splendori di un popolo, per molti versi ancor sconosciuto e misterioso. Grandi templi dedicati al culto astrale ed imponenti edifici raccontano la su storia.... Clicca qui per scaricare il video di Walter Porzio. Buona visione!








SARAWAK
di Walter Porzio

Sarawak & Sabah - Il Borneo malese. Clicca qui per scaricare il video.






REPORTAGE

APPUNTI CRETESI
Viaggio solitario fra arte, cucina e natura
di Lidia Sella

Tempio votivo nella campagna di Creta
Nel preparare la valigia per partire, dimentichiamo sempre qualcosa. Un po' come quando ci apprestiamo ad affrontare la vita.
Chi ama la mitologia o ha avuto la fortuna di leggere "Il Minotauro" di Dürrenmatt, non dovrebbe visitare il Palazzo di Cnosso: tutto è così fasullo che si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un sito ricostruito dalla "Disney"!
Peccato, contrariamente alle informazioni ricevute dall'ufficio del turismo greco a Milano, trovo chiusi sia Festós che Górtina: ecco un ottimo pretesto per tornare!
In compenso, nella vicina area archeologica di Agía Triáda, accanto ai resti di una villa reale minoica immersa in un silenzio irreale, ho ammirato gli affreschi del XIV secolo che decorano l'abside della cappella di Agíos Geórgios, stupendi nonostante il pessimo stato di conservazione.
Lungo la strada da Festòs a Mátala: terra rossa, sposa di questo cielo blu. Luce precisa, sapiente. Vitigni vestiti d'autunno e distese di ulivi che scuotono le loro chiome d'argento nel vento tiepido di ottobre.
Mentre camminiamo nella realtà, non possiamo sapere ancora quale fra i paesaggi che stiamo attraversando fungerà, domani, da scenario dei nostri sogni.
Mátala: Sepolcri romani, scavati in un costone di roccia color ocra, sferzato da un vento africano, a picco sul mare. Anche progettando le stanze del loro sonno eterno gli antichi romani si preoccupavano di garantire la bellezza. Avendo forse intuito che il messaggio in essa contenuto era tanto potente da sopravvivere ai millenni...
Di certo prima o poi qualcuno calpesterà le nostre tombe.
Questa sera ho notato un uomo che portava con orgoglio uno stuzzicadenti dietro l'orecchio.
La notte, a Creta, il vento va a dormire.
Che cosa "vedrei", del mondo, se non avessi occhi?
Solo croci bianche e fiori colorati nei cimiteri greci, nessun dettaglio lugubre: una concezione serena della morte mediata dall'Oriente?
Tempietti ortodossi disseminati per la campagna: testimoni silenziosi di un sentimento pagano mai sopito?
Monastero di Pre¦üveli
Certe gole rocciose, simili a ferite nel ventre della Terra, si spalancano in improvvisi teatri di luce. Accanto a colline d'argilla che svettano come enormi mammelle da mungere.

 
Non credo in nessuna religione. Però nel monastero di Préveli ho acceso una candela alla vita. L'ho posta vicino alle altre, tutte infilate nella sabbia, inconsapevolmente unite a simboleggiare un fuoco sacro. Mi sono abbandonata alla superstizione di esprimere un desiderio impossibile, fingendo per un attimo di credere che si sarebbe avverato. A commuovermi la magia di quella fiamma cui avevo dato vita per capriccio e che, nella penombra del tempio, con pazienza, avrebbe sciolto la cera per restituirla alla terra: occorre tempo per venire alla luce e anche per tornare cenere.     
Ogni passo nel futuro ti porta nuove emozioni. E se viaggi nello spazio, oltre che nel tempo, allora si moltiplicano.
Costa sud di Creta, ultima propaggine d'Europa, una roccaforte affacciata sul mar Libico: qui il sole regala languidi, lentissimi tramonti.
Le stelle, da queste parti, giocano a nascondersi fra rocce altissime e rami di palme: così ci appaiono solo costellazioni mutilate, quasi volessero non farsi riconoscere.
Mi resterà il rimpianto di non essere approdata a Gávdos, isola coricata nel canale libico, a 26 miglia dalla costa cretese, già abitata nel neolitico, nota col nome di Clauda in epoca romana, covo di pirati sotto la dominazione araba… Per raggiungerla occorrono diverse ore di navigazione e in questa stagione i collegamenti scarseggiano. La rotta più breve - 2 ore e mezza - da Hóra Sfakíon.
Culla di civiltà, Creta, curiosamente è a forma di culla.
Padrona di strade semi-deserte, mentre profili di paesaggi sconosciuti mi vengono incontro, guido a velocità sostenuta, pennellando ogni curva. E sorrido all'idea che sarebbe piacevole, con la stessa naturalezza, riuscire a dominare l'ignoto.
Senza la civiltà micenea, quale diversa direzione avrebbe imboccato il nostro pensiero?
Viaggio senza radio, né tom tom, né cd. Uno sciame di pensieri mi tiene compagnia per qualche istante, prima di volare fuori dal finestrino abbassato. Sul sedile accanto a me, la cartina geografica ha un'aria un po' frustrata, perché non la consulto quasi mai: ho già presente il percorso o, al limite, chiedo indicazioni. Come sottofondo musicale, il requiem di Tomás Luis de Victoria (Sanchidrìan 1548 - Madrid 1611): scoperto mesi fa, poi ascoltato decine di volte, tanto che ora provo a riprodurne a mente l'amato suono.
Penisola di Gramvousa - cappella nella fortezza veneziana
L'aria profuma di finocchio selvatico bruciato dal sole.
Sono diventata arteriosclerotica persino sul fronte onirico. Sogno forsennatamente, ogni notte, come stanotte: trame complicate, dialoghi stimolanti, nitide architetture. Ma poi non ricordo più nulla.
Sono un sorvegliato speciale. Sotto stretto controllo da parte di me stessa. Distratta e smemorata come sono, quando mi muovo da sola all'estero devo prestare particolare attenzione a non perdere o dimenticare borsa, bagagli, documenti d'identità, biglietti vari, fogli col programma del viaggio, contanti, carte di credito, tablet, cellulare, macchina fotografica, occhiali da sole, l'unica chiave dell'auto a noleggio: uno sforzo di concentrazione continuo!
Anche a Creta ho incontrato una percentuale piuttosto elevata di greci rozzi e ottusi, forse i diretti discendenti delle orde di Slavi, Avari e Bulgari che, fra V e VIII secolo dopo Cristo, invasero la Grecia spazzando via le popolazioni autoctone, disperdendo così quel prezioso patrimonio cromosomico ellenico originario che in maniera tanto straordinaria aveva contribuito allo sviluppo del pensiero umano.
I greci, in genere, producono vini mediocri. Creta fa eccezione. Ho gustato un bianco fantastico: "Vidiano" del 2012, cantina Lyrarakis. Per la verità apprezzo anche il vino di Sámos, ricorda un passito. Già noto nell'antichità, a Milano l'avevo trovato da Superpolo.
Spiaggia di Préveli. Nel pomeriggio, sotto un cielo di zaffiro, ho camminato da sola, lungo un torrentello gelido, trasparente, che si faceva strada attraverso una foresta di palme. Ho seguito questo anonimo, inconsapevole ponte sull'Africa fino alla sua modestissima foce. E con lui mi sono mescolata alle tiepide acque marine.
Plataniás. Uno yogurt al rosmarino, delizioso. Al ristorante "Kianos". Ho domandato al proprietario che cosa significasse questa parola. Mi ha risposto: "luce blu". Per collegamento di idee ho subito pensato al termine Kuanós, che in greco antico veniva utilizzato per indicare il "fiordaliso."
Alla Penisola di Gramvoúsa, in nave. Durante la traversata capto uno scambio di battute demenziale. Lui, italiano aitante e saccente: "Il vero nome della città è "Split", poi italianizzato in Spalato." Lei, croata ma altrettanto ignorante, gli risponde: "Confermo, è proprio così!"
Dal forte veneziano, panorama di primordiale bellezza: vale l'arrampicata. Bálos, oasi marina protetta, una laguna incantata, maldiviana. La mia anima se ne ricorderà prima di lasciare questa Terra.