Fenomenologia Husserliana in America
di
Gabriele Scaramuzza
Edmund Husserl
Dobbiamo
alla cura di Michela Beatrice Ferri la recente raccolta di saggi - benvenuta,
insostituibile e nuova nel suo genere - sulla ricezione della fenomenologia
nell’America del Nord. Non conosco alcun testo che affronti a così ampio raggio
un tema tanto importante, e da angolature filosofiche diverse. Troviamo specialisti
illustri, di provenienze differenti. La notevole Preface è dovuta a
Robert Sokolowsky (Catholic Unversity of America, Washington, DC, USA); la encomiabile
e corposa Introduction (pp. 227-238) è della stessa Michela Beatrice
Ferri. Il volume consta poi di sette parti, e reca infine un indice dei nomi e
un indispensabile indice analitico. Dei saggi contenuti ricordo almeno quello
di Carlo Ierna su Spiegelberg (che ci ha lasciato, come noto, un fondamentale
lavoro sul movimento fenomenologico) e di Daniela Verducci su A. T.
Tymieniecka, che dell’intero lavoro deve essere considerata un po’ il nume
tutelare. Venendo più specificamente alla curatrice, Michela Beatrice Ferri
(1983) ha conseguito nel 2012 il Dottorato di ricerca in Filosofia sotto la
supervisione di Gabriele Scaramuzza e di Maddalena Mazzocut-Mis, e la Laurea
Triennale e Specialistica (su Enzo Paci) in Filosofia sotto la guida di Elio
Franzini. Non sarà privo di conseguenze che si sia dedicata in un primo tempo a
Enzo Paci - che non è certo stato il primo, né tanto meno l’unico, a occuparsi
e a introdurre la fenomenologia in Italia, ma l’ha percorsa e diffusa nel modo
più incisivo e ampio. Nel Dipartimento di Filosofia della nostra Università
Ferri ha poi compiuto i primi passi delle sue ricerche, sfociate ora nel
rimarchevole lavoro che sto segnalando. Non a caso nelle pagine degli Aknowledgments
alle pp. XV e XVI del volume incontriamo anche docenti dell’ateneo milanese.
Attualmente è Faculty presso lo Holy
Apostles College and Seminary. Già docente di Estetica presso la Accademia di
Belle Arti “Santa Giulia” di Brescia, e di Filosofia e Storia nei licei. È
autrice di saggi sull’Estetica dell’Arte Sacra, sull’Estetica, sulla ricezione
del pensiero husserliano in Italia e negli Stati Uniti d’America, sulla storia
della Shoah. Ha all’attivo numerose collaborazioni con istituzioni culturali e
con ambienti accademici. Suoi contributi sono comparsi in pubblicazioni
italiane e internazionali e in riviste italiane e internazionali.
Infine, Michela Beatrice Ferri al
volume qui in oggetto ha contribuito con un saggio suo, il primo della quarta
parte: The History of the Husserl Archives Established in Memory of Alfred
Schutz and the New School of Social Resarach. Ha poi scritto, alle pp.
145-149, in collaborazione con Thomas Nenon le dettagliate pagine introduttive
alla terza parte: Some Notable Husserlian Phenomenologists in North America.
Important Twentieth Century American Husserl Scholars.
Michela
Beatrice Ferri
editor
The
Reception of Husserlian Phenomenology in North America,
in
collaboration with Carlo Ierna, Springer, Cham (CH), 2019.
PP.
XXVII-482. Paperback 103,99. Ebook 83,29.
La collana in cui appare è “Contributions
To Phenomenology.
In
Cooperation with The Center for Advanced Research in Phenomenology”. Volume
100. Dedicated to Professor Lester Embree
Florida Atlantic University.
***
Niente caffè per Spinoza
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro
Livorno. Una giovane donna, il suo
matrimonio sul viale del tramonto, un’occasione la salva. È l’incontro con un
anziano Professore di filosofia, pensionato, praticamente cieco, vedovo (la figura
della moglie, e la sua fine tragica, appaiono solo in scorcio). Maria Vittoria
(vulgo Marvi), così si chiama, trova lavoro presso di lui: incombenze
domestiche, incontri con Elisa, la figlia che suona la viola, le nipoti,
ex-allievi in visita. Soprattutto deve leggergli passi da testi filosofici che
lui le indica: Platone, Aristotele, Epitteto, Zenone di Cizio, Epicuro, Seneca,
Sant’Agostino, Galilei, Pascal, Spinoza, Hume, Hegel, Schopenhauer, Bergson. Da
subito si fanno strada presenze dominanti anche nella vita dell’autrice: la
filosofia - e la musica, anche se quest’ultima è meno incombente nel romanzo
che nella vita (Alice Cappagli, è noto, suona il violoncello nell’orchestra del
Teatro alla Scala). Questo non impedisce che della musica si avverta una
traccia, anche nella scrittura.
Un
incontro casuale al mare con Angelo (ex-allievo del Professore, biologo
marino), Maria Vittoria se ne innamora, non sarà privo di conseguenze. Il
finale è infatti a suo modo lieto, non in modo eclatante: si profila piuttosto
come un orizzonte rassicurante, in cui non c’è solo il confermarsi di un
rapporto affettivo, ma anche di un mondo di letture e di studio. Certo, c’è il
funerale del Professore alla fine, eventi dolorosi, casi luttuosi non mancano
nel corso della vicenda. Ma in qualche modo la vita sempre riprende, la
speranza resiste; un alone positivo accompagna il romanzo, perché non dovremmo
esserne lieti? Tutto è solo adombrato, mai espresso a chiare lettere - come
l’arte deve fare. Nell’arte dell’understatement l’autrice è maestra: qualcosa è
detto e presto smorzato, ma come implicita promessa resta. Nella copertina colpiscono, oltre al
titolo (senz’altro editorialmente azzeccato, come del resto i titoli dei
capitoli), le parole poste ad esergo: “Dai libri che amiamo è possibile
ripartire sempre” - parole del tutto condivisibili, anzi encomiabili coi tempi
che corrono. L’immagine di copertina è coerente con esse; i risvolti e la
quarta, sempre di copertina, sono benissimo scritti, efficaci nell’invogliare
alla lettura. I libri poi sono in gioco quasi a ogni pagina del romanzo, e si
tratta soprattutto di classici della filosofia, appunto. Le ultime pagine del
libro sono dedicate alle fonti delle citazioni - come può avvenire in un
saggio; è la prima volta che mi capita di vederlo in un romanzo. Tensione narrativa: il libro
prende: si vuol sapere “come va a finire”, la storia; il suo senso. Per il
linguaggio mi vengono spontanei termini quali espressivo, fortemente
personalizzato: originale nelle scelte lessicali e stilistiche, negli
accostamenti di parole provenienti da contesti diversi: socialmente,
culturalmente, ma anche affettivamente diversi; i toni che trascorrono dal
quotidiano all’elevato, dallo spicciativo pratico al lento riflessivo all’emozionale;
e a tratti rasentano tenerezze, persino accensioni liriche. Che vengono
esaltate nei non pochi squarci paesaggistici, naturali tra mare, nuvole,
temporali e tramonti, ma anche cittadini - restano impressi non solo gli
splendidi scorci pisani, ma anche i meno nobili angoli livornesi. Ovunque la
religione è un dato scontato, in uno sfondo mai tematizzato. All’italiano colto
dell’ambiente del Professore fa da contrappunto il livornese, sapido,
spigliato, a volte spiazzante, immaginifico, parlato nell’ambiente d’origine di
Marvi - è un piacere leggerlo. È vivo negli incontri con la madre, con amici e
conoscenti; e nel mondo del marito e della suocera - in cui la presenza
affettiva più forte è quella del cane Aceto (su questo nome non a caso si
conclude il romanzo). I dialoghi sono costruiti con maestria, e non è cosa
semplice. Un romanzo dunque. Autobiografico? Non direi. Tratti autobiografici
tuttavia, come quasi sempre accade, non mancano: Livorno è la città di Alice
Cappagli, la filosofia è una sua passione, non a caso ci si è laureata, come
per adempiere un’antica promessa fatta a se stessa, e al padre. È anche
un’eredità paterna infatti, la filosofia: il Professore, insegante di filosofia
e poi cieco, è una controfigura del padre. Anche nella figlia Elisa, che suona
la viola, si allontana dalla sua città e dal padre, ha due figlie, si riflette
qualcosa dell’autrice. E certamente la figura di Elisa (e per essa
dell’autrice) ha a sua volta un parallelo nella vita non agevole della
protagonista, Maria Vittoria, che è anche l’io narrante. Senza contare che vive
in tutte le protagoniste sono atmosfere pisane: là abita una vecchia zia di
Elisa (morirà nel corso della narrazione); là lavora anche Angelo; e là forse
andrà a vivere anche la protagonista - ma questo è solo intravisto da
lontano.
Un’intervista di Brunella
Schisa ad Alice Cappagli apparsa il primo febbraio sul Venerdì di Repubblica
(accompagnata da una accattivante foto) conferma cose dette e aiuta a capire
meglio; ci si legge qualcosa che si sapeva, magari solo si sospettava, ma poco
si conosceva.
Da condividere la visione della filosofia che ne esce (e risulta
dal libro): non professionale, e tuttavia capace di compenetrare la vita. Non
era facile evitare che le citazioni filosofiche suonassero sentenziose,
didascaliche, e dunque stonate. Bello è anche il gioco tra filosofia e musica,
sono evitati i luoghi comuni che da sempre si affacciano a proposito dei
rapporti tra queste due dimensioni della nostra cultura. Oltre a interventi di
critica musicale, - con uno pseudonimo, su “Il Giornale” di Montanelli e “La
Voce” - Alice Cappagli ha scritto saggi filosofico-musicali su “Materiali di
Estetica”; ed è intervenuta anche su “Odissea”. Una raccolta di racconti, tutti
incentrati sull’ambiente musicale italiano d’oggi, è stata edita nel 2010 col
titolo Una grande esecuzione.
***
L’impossibile
“perché” da Giobbe al Processo
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro
“Hier gibt es kein Warum”:
ogni domanda è interdetta ad Auschwitz, lo ricorda Primo Levi in Se questo è un uomo; lì leggiamo anche, scritto da un detenuto: “ne pas chercher à comprendre”. D’altro lato, che nel
domandare si racchiuda rischio e pericolo lo sapeva bene anche Thomas Mann. Oggetto
del testo di Papi tuttavia non è solo un “perché” proibito o rischioso, bensì
piuttosto persino “impossibile”. Impossibile per chi? chi ne decreta
l’impossibilità? e come mai? Nel contesto, il limite estremo della questione è rasentato
da Kafka, su cui tornerò. Danno molto da pensare, come sempre, le pagine di
Papi, suscitano interrogativi, cui spero di dar seguito nelle considerazioni
che seguono.
Una premessa innanzitutto: quest’ultimo lavoro
va collocato nell’orizzonte degli interessi, tradizionali in Papi, per la
letteratura e l’estetica, nell’ambito della sua lunga riflessione sospesa tra
letteratura e filosofia. Ricordo qui quanto meno La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte (1992), Dialogo sulla poesia (1997, con Tomaso
Kemeny), Filosofia e architettura. Kant,
Hegel, Valéry, Heidegger, Derrida (2000), Gli amati dintorni. Filosofia, arte, politica negli specchi della
memoria (2001), Come specchi del
tempo. Yourcenar, Richardson, Fielding, Pavese (2016); e inoltre prove
squisitamente letterarie quali Il delitto
del Miralago. Un’infanzia sotto il duce (2001, con una premessa di Cesare
Segre) e L’albero d’oro. Un’adolescenza
immaginata (2004). Non è pensabile, inoltre, leggere L’impossibile “perché” senza considerarlo alla luce di taluni
ultimi saggi che sviluppano tensioni esistenziali sempre latenti in Papi: scavano
in profondità problematiche che non esiterei a chiamare teologiche, religiose
sullo sfondo. Tali sono i saggi contenuti nel numero di “Materiali di Estetica”
(5.2.2018) dedicato a “Le parole di Dio”: tra essi segnalo innanzitutto lo
scritto sul Vangelo secondo Matteo,
ma anche, collateralmente, su I trentatré
nomi di Dio e su La morte di Dio in
Nietzsche. Ma questo suo libro è da considerare anche in continuità con l’interesse di Papi per il tema della “crisi”, nel cui ambito
si colloca Il poeta, l’Impero, la morte (da me già segnalato
su “Odissea” nel 2015): oggetti ne sono Hermann Broch, James Joyce, Italo Svevo
e Josef Roth - il cui Giobbe è al
centro anche del secondo capitolo del libro qui in oggetto. Sullo sfondo delle
sue riflessioni resta presente Robert Musil, cui Papi ha dedicato nel 2016 un testo
a sé stante: Il pensiero ironico e il
regno dell’amore. Traversata filosofica nell’opera di Robert Musil. Vale la
pena aggiungere che il tema della “crisi” è di ascendenza banfiana; non a caso nel
2013 viene ripubblicato, di Antonio Banfi, La
crisi, a cura di Fulvio Papi e Fabio Minazzi, con una prefazione che resta
quella storica di Carlo Bo; essa risale ad appunti banfiani del 1934-1935. In
quest’ambito collocherei infine, sempre di Papi, Il lusso e la catastrofe (2006). Venendo
a L’impossibile “perché”, esso
rende conto dei diversi livelli a cui si pone il
problema, e le diverse risposte che gli si danno. “Il ‘perché’ del Giobbe
biblico deriva dalla distanza infinita della creatura dal creato […]. Dio può
mettere alla prova Giobbe che tuttavia […] mantiene intatta la fede
nell’infinita imperscrutabile volontà di Dio” (49). Da subito non ottiene
risposta, certo, l’interrogativo; e tuttavia c’è la fiducia che questa risposta
vi sia, in una trascendenza inafferrabile nella nostra limitata immanenza. La
domanda resta già qui inevasa: “il mio problema, scrive Papi, è seguire la
storia di un perché che alla fine rimane senza alcuna risposta” (23). Anche il Giobbe di
Joseph Roth attraversa sventure che lo conducono a un “tragico e impenetrabile”
(34), “desolato” perché (26); la prova a cui Dio sottopone il protagonista
produce però solo rabbia e disperazione in lui. Roth, sintetizza Papi, colloca
Giobbe “in una narrazione storica, in cui il devoto maestro dei testi biblici,
di fronte alle sventure che pure appartengono alle possibilità umane, le
considera come una risposta malvagia di Dio”. Da ciò la sua “ribellione a Dio,
la sua distanza a ogni pratica religiosa”. La situazione tuttavia “in questo
caso si capovolge perché i casi della vita cessano di portare il segno della
sventura, ma, anzi, regalano al Giobbe, emigrato in America dal suo villaggio
ebraico della Russia orientale, la gioia suprema di un figlio ritrovato. In
questa vicenda si può leggere il perdono di Dio e il miracolo che riconquista
il ribelle alla fede e quindi gli fa guardare il mondo come il luogo in cui la
provvidenza divina potrebbe ancora soccorrere i dolori della sua esperienza
mondana” (50-51). Il perché trova così una, pur sempre enigmatica, risposta o,
meglio, ricompensa. Il caso narrato da Roth
si inscrive pur sempre in un ambito in cui “la sciagura, la violenza, la pena, devono
trovare sempre una Alterità nel cui potere sia provocare un’altra storia. Il
silenzio, l’impossibilità, il nulla vi sono solo quando l’immanenza condanna se
stessa, quando l’identità tra l’esistenza e la colpa è data dalla stessa
condizione umana”. Con ciò è compiuto il passo verso Kafka, il cui
“Giobbe non detto” (cioè Joseph K.) vive, nel Processo, “l’estinzione di qualsiasi senso del suo ‘perché’” (51). In Kafka “la
colpa, più che originaria, è inevitabile: l’esistenza stessa ha preso la forma
di una colpa” (43). Papi, forse per pudore (data la notorietà della cosa), non
cita qui Anassimandro, ma il suo celebre detto - lo Spruch cui Heidegger ha dedicato il celebre saggio raccolto in
“Sentieri interrotti” - potrebbe ben esser posto a epigrafe dell’ultimo
capitolo di L’impossibile “perché”. Le pagine dedicate
a Kafka recano a titolo, e pour cause, La
colpa dell’esistenza. Ne ripercorro alcuni tratti: il protagonista “oppone
la forma della sua razionalità educata socialmente alle insensate e grottesche”
situazioni e persone che la mettono a priori fuori gioco (non è così anche col
nazismo, con tutti i regimi totalitari che per certi tratti Kafka sembra
prefigurare?). “Grottesco” ricorre nel lessico di Papi, con assoluta proprietà;
e non a caso si accompagna a termini quali umiliante, volgare, sudicio,
aggressivo; inconcepibile infine, e ciò nonostante produttivo di inenarrabili
orrori. In relazione a Joseph K. nel romanzo non v’è traccia di colpa: di colpa
esplicita, provata, quanto meno: di colpa esprimibile nei termini del
linguaggio di cui disponiamo. “In tutta la narrazione non esiste una risposta
plausibile”, non c’è ragione che tenga e trovi espressione: Joseph K., giova
ripetere, “vive nell’ombra di un irriducibile ‘perché’” (52). Non solo viene
messo “fuori senso qualsiasi esame di coscienza” (53), ma insieme ogni presa di
coscienza; l’idea stessa della verità, della giustizia risultano prive di senso.
Ciò cui si dà nome di intelletto come Verstand,
ma anche di ragione come Vernunft, la
radice di ogni possibile argomentare, dialogare, discorrere, comprendersi, vengono
ostruite con violenza: l’imposizione non accetta di misurarsi con alcuna forma
di razionalità, di relazione. In atto è “un potere privo di alcun controllo” (59)
- non è questo che avviene durante la Shoah? La stessa femminilità, onnipresente
nel Processo, cui Papi dedica pertinenti
osservazioni, è complice di questo gioco; non costituisce alcuna via di fuga, tanto
meno un’isola di salvezza; non è consolatoria, né compassionevole, né
caritatevole. Tra gli accusati stessi non c’è “alcuna cooperazione”, “ognuno è
solo” (68) - come per lo più avviene nei lager e nei gulag, in cui ogni
rapporto cui si possa dare il nome di “umano” è contrastato alla radice. Mentre
i “senza perché” dei Giobbe precedenti “erano pur sempre domande di un uomo di
fronte a una legge comprensibile”, quelli di K. non hanno risposta, neppure
ipotizzabile, in assoluto: quasi che “la lettura umanistica dell’esistenza,
proprio nella sua credenza più profonda, venisse rovesciata, e ogni possibilità
che le è propria diventasse parodisticamente (e qui sta la narrazione) la sua
crudele impossibilità, la sua condanna. Il senza perché della colpa senza Dio è
il modo in cui si può pensare l’intollerabilità stessa dell’esistenza” (73-74).
Verso la fine Papi chiama in causa Bruno Schulz, il noto autore di Le botteghe color cannella, per cui
l’intollerabile, il sudicio, il tremendo del mondo kafkiano sono il modo in cui
per via negationis si manifesta la
“sublimità dell’ordine divino” (74). La fede può in questo caso diventare
l’unica risposta agli improponibili “perché” che si pongono all’uomo. A Schulz
risponde a suo modo Papi nelle ultime righe del libro: “L’ordine divino, nel
mio percorso, non è che l’immanenza che svela a se stessa la colpa della sua
forma storica. È l’enfasi umanistica rovesciata nella sua verità. Sullo sfondo
un “poter essere” che non appartiene più nemmeno al pensiero” (75). Tento di
riprendere a modo mio le fila del discorso, riferendomi n particolare a quello
che ne è il culmine: Kafka. Nel caso di Joseph K. “il documento che certifica
la colpa è nell’esistenza stessa dell’accusato” (53); la colpa è iscritta nella
forma stessa della sua vita: colpa è il mero esserci o, meglio, esser così. Ma
colpa non è un atemporale peccato originale, bensì un peculiare modo (storico
dunque) di partecipare alla vita, di affrontare le vicende che la attraversano.
Nel Processo assistiamo a una
sorta di azzeramento del problema che la vicenda pone: insensata l’istanza
stessa, il desiderio di conoscere, di chiedere e di motivare, che aveva mosso
l’uomo di campagna, e insieme Josef K. La soluzione non è in una positiva
risoluzione del problema; non sta nell’affrontarlo, nel coglierne bene i
termini e disquisirne i risvolti. Sta piuttosto nel toglierlo di mezzo. Non era
un problema, il peccato del protagonista è già esserselo posto. Si tratta solo
di lasciar valere l’insolubile come tale; senza indagare. Per questo Kafka dichiara
impossibile, anzi tale da motivare la propria condanna, il chiedersi il
“perché” della vicenda da parte del protagonista del Processo. Con le parole di Leni verso la fine del sesto capitolo:
“Non mi chieda nomi, per favore, e corregga piuttosto il suo errore, non sia
più così rigido, contro questo tribunale difendersi non si può, bisogna
confessare. Faccia la sua confessione appena può. Solo dopo se la potrà cavare,
solo dopo”. Joseph K. non ha commesso nulla; si autocondanna a motivo dell’instancabile
perseguire, accanitamente (orgogliosamente, forse), il perché della propria
vicenda. L’alternativa può essere solo il “confessare” (Geständnis machen, nelle parole di Leni), l’ammettere dunque, la
propria colpa; confessare significa accettare, e accettarsi, senza chiedere
nulla. Implica una forma di abbandono, di silenzio fiducioso forse, nei
confronti dell’inesplicabilità della vita. E questo è pur un modo dell’esistere,
che risponde al tormentoso viversi come colpevoli, al non saper uscire dall’angoscia
delle domande “impossibili”, al presumere che possano avere risposta. Il
consiglio proviene da una donna, c’è una saggezza femminile in esso?
Fulvio Papi
L’impossibile “perché”
da Giobbe al Processo
Ibis
Ed. 2018
Pagg.
80 € 10,00
***
ANTONIA POZZI.
DESIDERIO DI COSE LEGGERE
di Gabriele Scaramuzza
Elisabetta Vergani
Elisabetta Vergani, attrice e drammaturga, co-direttrice, insieme a Maurizio Schmidt, di
Farneto Teatro, è tra le migliori interpreti della poesia di Antonia Pozzi; e
poco importa se la sua interpretazione si consegna nella recitazione (in questo
caso anche nella scelta delle poesie) e non in specifici saggi letterari. Ad
Antonia la legano indubbie Wahlverwandtschaten, (il goethiano “affinità elettive” è qui particolarmente calzante); per lei ha
scritto e interpretato due toccanti rappresentazioni teatrali: Radici profonde nel grembo di un monte e
L’infinita speranza di un ritorno (titolo
quest’ultimo tratto a sua volta dal documentato e penetrante L’infinita speranza di un ritorno. Sentieri
di Antonia Pozzi di Fulvio Papi, Milano, Viennepierre, 2009).
Più che una generica antologia di poesie, questa
raccolta segna un suggestivo itinerario personale nel mondo pozziano, ne
configura un’interpretazione; un po’ come era stato per la scelta di Gabriella
Rovagnati, che ha tradotto in tedesco e pubblicato, con testo italiano a fronte,
A. Pozzi, Parole/Worte, Göttingen,
Wallstein, 2008.
Elisabetta Vergani dedica
non poco spazio alle poesie del ’29, per nulla banalmente “adolescenziali”,
straordinariamente mature anzi per una diciassettenne. Segnalo a riprova alcuni
versi da Pace (del ’29 appunto):
“Leggo per un gran tratto nel futuro/come un foglio che mi sta dinnanzi: /poi, la visione cade bruscamente/nel buio dell’ignoto, come questa/ pagina
bianca, che si rompe, netta,/sul panno scuro della scrivania.”
Antonia Pozzi
Vale già per i
primi scritti quanto scrive nella sua prefazione Eugenio Borgna (richiamando
opportunamente anche le note pagine di Eugenio Montale sulla Pozzi): una
malinconia “dolorosa e profonda si è accompagnata alla breve vita di Antonia
Pozzi, e ne ha ispirato le poesie arcane e sommesse, luminose e fosforescenti,
immerse nella grazia e nel mistero di un fragile desiderio di morire che le sue
relazioni d’amore ogni volta franate e incomprese nei loro brucianti fulgori
hanno concorso nel farle scegliere la morte a ventisei anni”. E alla conclusione
delle sue righe Borgna confessa, che già “dal tempo lontanissimo del liceo
continuo a leggere e a meditare queste poesie: nelle ore liete e nelle ore
dolorose della mia vita”, senza che nulla abbiano mai perso “della loro
fragranza e della loro misteriosa fascinazione”).
La curatrice ha ripercorso tutti gli anni della
produzione poetica della Pozzi, con la sensibilità e il gusto che le
appartengono. Non ha certo trascurato i fatali e “irrimediabili” anni che si
trascinano per gli anni Trenta, il “cruciale” ’35, le emozionanti poesie del
’38: tra cui Periferia e Via dei Cinquecento testimoniano della
sua profonda sensibilità sociale. A
questo proposito mi è spontaneo ricordare il pertinente, e così attuale purtroppo,
brano da una lettera di Antonia indirizzata a Dino Formaggio da Pasturo il 27
settembre 1938: “E soprattutto, siamo stufi di prepotenze, di soprusi, di
aggressioni che sui giornali diventano ‘sacrosanti diritti’, degli urli della
folla anonima ridotta allo stato di bestia cieca, della repressione barbara e
retrograda di ogni voce umanitaria, del quotidiano capovolgimento della realtà
di fatto”; dove, aggiunge, si è perduto “il senso che domina noi giovani:
quello della libertà di coscienza”.
Mi ha fatto non poco riflettere il titolo: Desiderio di cose leggere, che riprende il
titolo e un verso di una poesia del 1° febbraio del 1934. Il mio primo pensiero
è andato a Sfiducia, la “tristezza”
di mani “troppo pesanti” e insieme “troppo leggere”: l’impossibilità di Antonia
(come del Tonio Kröger da lei amato) di tenersi alla “danza” lieve della vita e
di sottrarsi ai grumi opprimenti che la soffocano; e tuttavia il persistere in
lei di un desiderio di “leggerezza”. Qualcosa in proposito mi ha suggerito
anche la rappresentazione di Elektra
di Richard Strauss, cui ho assistito alla Scala; tanto più che essa mi ha
offerto l’occasione di rileggere il testo di Hofmannsthal. Quel “cose leggere” del
titolo mi ha richiamato quanto, opponendosi alla cupa Elektra, afferma
Crisotemide: Eh’ ich sterbe, will ich
auch leben! (“Vivere voglio prima di morire!”). Elisabetta Vergani ha interpretato
qualche anno fa Elektra di
Hofmannstahl, e a me piace immaginare che ne sia ricordata nei suoi percorsi
pozziani; non è nella prospettiva della morte che legge i versi della Pozzi, ma
dal punto di vista della sua vita, dei mille sapori della sua vita. Ha ragione
Kandinskij: “è meglio considerare vita la morte che morte la vita, anche se per
una volta soltanto”. E questo è anche particolarmente consono a una convinzione
banfiana: la cultura, e in essa la poesia, che la Pozzi considera una volta
come un destino (nella poesia appunto Un
destino, del ’35) non è un impoverimento della vita, ma una sua
intensificazione, ravviva i colori della vita. Una prospettiva in cui può
essere inclusa anche una morte che, come ha suggerito Graziella Bernabò, può essere
avvenuta “per troppa vita”.
La copertina del libro
Antonia Pozzi
Desiderio di cose leggere.
A
cura di Elisabetta Vergani
prefazione
di Eugenio Borgna
Salani
Edizioni 2018
Pagg. 96 € 8,50
***
Nel solco di papa Giovanni
di Vincenzo Guarracino
La copertina del libro
Un piccolo
mannello di lettere, 56 per l’esattezza, tra quelle che si scambiarono lungo l’arco di un trentennio (dal ’63 al 1991), padre David
Maria Turoldo (1916-1992) e mons.Loris Francesco
Capovilla (1915-2016), hanno visto la luce
recentemente, a poco più di un anno dalla scomparsa del secondo e a venticinque
da quella del primo, incentrate sul ricordo della figura tutelare di entrambi,
quel Giovanni XXIII, il “Papa Buono”, del quale Capovilla era stato segretario particolare
e il frate servita un fedele interprete e custode dell’eredità spirituale,
rappresentata soprattutto dal Concilio Ecumenico Vaticano
II, “una grazia”, un “dono”, destinati,
al dire di Capovilla, ad accendere nel mondo
“una grande speranza”, perché “chi non ha niente riceva una volta per tutte la
grande rivelazione che di ogni uomo fa un figliolo del Signore”.
Papa Giovanni XXIII morì il 3 giugno 1963, lasciando un ricordo
della sua persona e del suo pontificato, che va ben oltre gli angusti termini
del suo pontificato (poco meno di 5 anni), e che permane ancora ben vivo, come felicemente
testimoniano i riconoscimenti a lui tributati dalla
Chiesa dopo la morte, culminati
oltre che nella beatificazione nel 2000 e la canonizzazione nel 2014,
soprattutto nella venerazione di cui da allora in poi ha goduto da parte dei
fedeli.
Di quest’ultima, una
testimonianza particolarmente significativa è rappresentata dalle lettere (19 di Turoldo a Capovilla e 37 di Capovilla a Turoldo), che vanno dai mesi a ridosso
della malattia e della scomparsa del Papa, fino ai
tragici giorni della Guerra del Golfo (1990-’91), dalle quali emerge, assieme
al legame reciproco nel nome del Pontefice e del suo messaggio, la loro
capacità di cogliere e interpretare i “segni dei tempi” e di sostenersi a
vicenda nei rispettivi servizi, in un legame di fede e di affetto, nutrito di
rispetto e simpatia: Turoldo, che, non a caso, all’indomani
della scomparsa di papa Giovanni, aveva deciso di vivere a Fontanella di Sotto
il Monte, il paese in provincia di Bergamo, dove Angelo Giuseppe Roncalli aveva
visto la luce, sostenendo Capovilla nel suo impegno al servizio della Chiesa; Capovilla,
lettore ed lettore attento e appassionato di Turoldo, incoraggiandone la scelta
di fare di Fontanella un luogo aperto al dialogo e all’accoglienza, un
laboratorio per la spiritualità e il linguaggio liturgico, conciliando e
facendo convivere fede e poesia.
Raccolte
da Marco Roncalli e Antonio Donadio in una essenziale silloge, arricchita, in appendice,
da due testimonianze di grande spessore (rispettivamente del card. Gianfranco
Ravasi e di mons. Bruno Forte) sugli autori delle lettere e, di riflesso, sui
loro rapporti con il grande pontefice bergamasco, danno il senso di come due
uomini pur “chiaramente diversi” ma “che hanno scommesso la loro vita sul
Vangelo” siano stati capaci di attraversare il loro tempo, ciascuno a proprio
modo e con la propria sensibilità (Capovilla con la sua cultura teologica, Turoldo
con la sua tempra jacoponica di grandissimo poeta), partecipi delle vicende
della società e attenti ai bisogni degli “ultimi”.
David Maria Turoldo- Loris Francesco Capovilla
Nel solco di papa Giovanni. Lettere inedite
A cura di Marco Roncalli e Antonio
Donadio
Servitium Editrice, Milano 2017
Pagg. 189, 13,00 euro
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MI SENTO IN UN
DESTINO
di Gabriele Scaramuzza
Accanto ai noti Diari di Antonia Pozzi si sono voluti
raccogliere in Mi sento in un destino
- con la consueta acribia, con la sensibilità e la lungimiranza delle due più penetranti
specialiste di Antonia Pozzi - anche altre prose: esperimenti poco noti in
prosa, passi dalla celebre tesi di laurea su Flaubert, due saggi su Aldous
Huxley, e un breve esercizio di traduzione da un suo romanzo, Point Counter Point. Ma nelle prime
sessanta pagine appaiono, ed è cosa da sottolineare, due corposi interventi
delle curatrici:“Impara a viver sola - dentro di te”. Antonia Pozzi: una vita d’amore e di poesia, di Onorina
Dino; e “Quando la tempesta sarà solo un
ricordo”. Antonia Pozzi: vita e scrittura nel Diario 1935-1938 e nei saggi critici, di Graziella
Bernabò. Si tratta di pagine preziose, intense, che in parte riprendono tesi
note delle autrici, ma per lo più ne allargano il senso, mostrando la loro
fertilità. Non mancano infine le utilissime nota biografica, norme editoriali,
note al testo, bibliografia; e l’indispensabile indice dei nomi, troppo spesso,
con rammarico del lettore, tralasciato.
Questa
mia presentazione vuole essere solo un invito alla lettura; non riprenderò
dunque temi già presenti nell’universo, tutt’altro che limitato, degli scritti
su Antonia Pozzi. Mi limiterò a segnalare un tema poco presente in essi, a
quanto ne so: quello della musica; e non tanto dal punto di vista di coloro (e
non sono mancati) che hanno messo in musica poesie della Pozzi. Quanto proprio
dal punto di vista della musica presente nella sua esperienza; di ascolto, ma
anche esecutiva. Sapeva suonare il piano (come la madre); frequentava la Scala
e i concerti (celebre la sua presenza alla Società del Quartetto la sera prima
di suicidarsi).
Ma
vorrei qui attenermi al testo che sto presentando. Già la prima notazione del
Diario, del 21 dicembre 1925 (Antonia era dunque poco più che tredicenne, ma
non mancano tracce di maturità che vanno oltre la sua adolescenza), riguarda la
rappresentazione di Madame Butterfly
alla Scala: il silenzio della sala, “qualche colpo di tosse, qualche zittio”, l’apparire
di Toscanini, “il mago”, la mano nervosa che tiene la bacchetta, l’inseguirsi
lieve delle note, lo sbocciare della melodia “vibrante e passionata”. E
l’aleggiare silenzioso di Puccini, da poco mancato (il 24 novembre 1924); e
senz’altro tra gli operisti preferiti da Antonia. A conclusione Antonia rileva
con finezza il contrasto tra la rappresentazione appena seguita e la neve che
cade tra lo “strepito” della città. Onorina Dino riprende questo passo
all’inizio del suo saggio di apertura; e lo e commenta, con acute notazioni lessicali
e stilistiche.
Poche
sere dopo, il 24 dicembre dello stesso anno, assiste ai Maestri Cantori e commenta, con una maturità che non si
sospetterebbe in lei: “Passando dalla comica gravità del primo atto alle dolci
romanze e alla magistrale e celebre fuga del secondo, dalle compassate
ammonizioni di Hans Sachs alla soave canzone del tenore, si sente ovunque la
mano del genio: che capolavoro! che capolavoro!”. E Antonia nulla ancora sapeva
del wagnerismo di Banfi, e poi di Paci, di Rognoni.
Il
24 dicembre del ’26 ritorna su Puccini e ricorda la sua visita a Torre del Lago
dell’estate precedente: la “villa vecchia e silenziosa, tra il lago frusciante
di canne e sussultante di ondine irrequiete, e la pineta verde e odorosa […].
L’immagine della stanza terrena che fu la culla di Manon, di Mimì, di Tosca e
di Butterfly”; poi il ricordo della villa in cui nacque Turandot. Un mondo che,
scrive, “non si cancellerà più, ne sono sicura, dalla mia mente, e,
soprattutto, dal mio cuore”.
Il
27 dicembre dello stesso anno Antonia ricorda l’ascolto raccolto del grammofono
azionato dal papà (che pure amava molto la musica); nella sua discoteca si
trovava tanta musica, di vari livelli, dai ballabili alla musica classica. Ma
soprattutto: “È un vero piacere ascoltare, comodamente sdraiati in poltrona a
casa propria, un sublime preludio wagneriano, di cui si possono afferrare fin
le minime sfumature, o una sinfonia di Beethoven, oppure qualche nostalgica
rapsodia. O superbi gorgheggi di una classica ‘Violetta’… sento di là che
comincia l’Ave Maria di Schubert, la mia passione: dopo pregherò il papà di
suonarmi il Cigno di Saint-Saëns” … A proposito di
Violetta, e dunque di Verdi, occorre qui ricordare il grande amore di Remo
Cantoni verso questo musicista. Non
sono che assaggi, esempi, significativi, che a volte accostano con
adolescenziale disinvoltura brani di diverso valore. Non mi consta che esista uno
studio sulla presenza della musica nell’universo pozziano, ma è la cosa che più di tutto oggi auspicherei.
Antonia Pozzi
Mi sento in un destino.
Diario e altri scritti
a
cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino,
Milano,
Ancora, 2018
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LA NOSTALGIA
FERITA
di Gabriele Scaramuzza
Eugenio Borgna affronta
in questo succinto ma fortemente suggestivo saggio uno dei termini cardine non
solo della nostra tradizione culturale, ma anche dell’intero mondo del nostro
sentire: quello della nostalgia. Ce ne offre una snella ma in sé compiuta fenomenologia.
Affronta questo tema nelle sue radici etimologiche e storico-culturali (tra
letterarie e psichiatriche), mostrando una sensibilità squisitamente
fenomenologica per le sfumature, che insieme ne collegano e separano i diversi
aspetti; talché esso ci viene restituito in tutta la sua vivente complessità:
differenza, relazione, complessità sono termini chiave della nostra tradizione
fenomenologica, appunto. E v’è da aggiungere quanto opportunamente rileva
Stefano Crespi: “Rispetto a una tendenza psichiatrica che si muove in confini
‘organicistici’, farmacologici, Borgna è una punta significativa di una
concezione psichiatrica nella profondità, nello specchio dell’esistenza”
(L’esistenza, un tempo senza fine, “Il Sole 24 Ore”, 29 luglio 2018, p. 19,
dedicato agli ultimi due libri di Borgna, e soprattutto a questo
sull’angoscia).
Le
tessere che compongono il mosaico della nostalgia esprimono per lo più delle
positività nel panorama che Borgna ci offre; ma anche sconfinano nei territori
dell’amarezza e dell’angoscia, del dolore bruciante e della depressione, in una
parola delle malattie dell’anima (v. pp. 69-72).
Tra i termini ricorrenti in
Borgna infatti, a connotare le diverse tonalità che la nostalgia assume nelle
stagioni della nostra vita, troviamo, volendo esemplificare, speranza,
fragilità, sommesso, dialogo, tristezza, estenuato, tenerezza, stupore,
indicibile, lontananza, utopia, inenarrabile, struggimento, desiderio, lutto,
salvezza, arcano, umbratile, luminosa, straziante; e non bisogna dimenticate i
temi del silenzio e dello sguardo, che trascendono la mera presenza delle
parole e dei fatti.
Degne
di nota vi sono le analogie e le differenza tra nostalgia e rimpianto,
magistralmente tratteggiate da Borgna: entrambi vivono del passato, ma lo
agiscono in modalità diverse: “Nella nostalgia non risuona la climax emozionale
acuta e dolorosa, univoca e radicale, che si avverte invece nel rimpianto” (p.
16).
“La nostalgia, e non il rimpianto, è sorgente di esperienze vissute, di
speranze smarrite, ma non perdute, di immagini e di paesaggi, di volti e di
lacrime, di sorrisi e di gesti” (p. 33), che hanno riempito la nostra vita e
ancora ritornano, vive. Della squisita sensibilità di Eugenio Borgna
testimoniano anche le scelte lessicali e il delicato ritmo, la struggente
melodia del discorso. Quasi che la nostalgia non ne fosse solo l’oggetto, ma
anche la sostanza che lo intride, l’atmosfera che si respira leggendolo. La
nostalgia della nostalgia (viva soprattutto nei tempi in cui la vita si fa a
poco a poco più evanescente) sembra anzi il vero tema delle pagine di Borgna,
le percorre da cima a fondo. Perché la nostalgia è una dimensione essenziale
dell’esistere, se cade (come purtroppo non di rado avviene) è il senso stesso
della vita a risentirne. “Non si può vivere senza attesa, e senza speranza, ma
anche senza nostalgia” (p. 56). “Non dovremmo vivere senza una continua
riflessione sulla storia della nostra vita, sul passato che la costituisce, e
che la nostalgia fa rinascere, sulle cose che potevano esser fatte, e non lo
sono state, sulle occasioni perdute, sulle cose che potremmo ancora fare, e
infine sulle ragioni delle nostre nostalgie e dei nostri rimpianti” (p.68).
Luogo deputato di una simile riflessione sono, ed esemplarmente, le
autobiografie.
Non
a caso nel titolo compare il termine “ferita” a connotare la nostalgia, perché
un intento basilare di Borgna è risvegliare la nostalgia, non soffocarla (e
dunque ferirla a morte) nelle mille cure incombenti nelle nostre giornate. Suo
intento è condurre a “ritrovare la nostalgia, oggi facilmente perduta nel gorgo
dell’indifferenza e della noncuranza, della distrazione e della cancellazione
della dimensione del passato, divorata da quella del presente e del futuro”: “a
chi legga questo libro è demandata la risposta alla mia temeraria domanda se
davvero sia possibile ridar vita, e ridare senso, alla nostalgia ferita dalla
noncuranza e dal disinteresse: recuperandone le tracce perdute” (pp. 102-103).
Condurre a non ritrovarci prigionieri di un presente e di un futuro scissi dal
passato, vittime di quello che l’autore, del tutto felicemente, definisce
“stucchevole progressivismo” (p. 82): progressivismo che nel proprio cieco
slancio verso il futuro rinnega un passato ricco di senso e di colori. Se il
sentimento nostalgico non può esser dissociato dall’attesa, magari utopica, per
l’avvenire, tanto meno deve dimenticare che le sue radici affondano nel
passato.
Da
fine e avvertito psichiatra qual è, Borgna invita a non dimenticare il valore
terapeutico della nostalgia, il cui luogo è un passato che colora di sé il
presente, ma non lasciandolo com’era. Il viversi fondamentalmente come
psichiatra motiva la difesa della nostalgia (e del discorso sulla nostalgia)
che Borgna opera, rasentando in certi toni un vero inno, e un’elegia nostalgica:
“È così facile banalizzare le fondazioni etiche e semantiche della nostalgia:
considerandola una perdita di tempo, un’inutile e accidiosa reverie, un’ossessiva rimeditazione di
cose accadute nel passato, e sulle quali non vale la pena sostare nemmeno un
attimo, essendo di ostacolo a vivere una vita liberamente aperta al futuro:
all’avvenire” (pp. 87-88). “Sì, la
nostalgia, così negletta e così facilmente rimossa, è come una fonte di luce
che rischiara le oscurità e le défaillances della memoria di quello che è
stato, e non sarà più se non è nutrito dalla passione dell’interiorità” (p.89).
“Vorrei
augurarmi che questo mio discorso sulla nostalgia riesca a testimoniare i vasti
orizzonti tematici, e le profonde risonanze emozionali ed esistenziali, che
essa ridesta in noi: negli abissi della nostra interiorità. Per solito
dimenticata, e banalizzata, la nostalgia ci aiuta a vivere”, a rimuovere “la
ruggine lasciata dal trascorrere febbrile e fatale degli anni” (p. 101). Ha un
valore terapeutico, ripeto: “questo mio cammino ha risonanze che vorrei dire
nutrite di valori che si rispecchiano nei vasti territori della cura che, in
psichiatria, non può mai fare a meno di ascolto e di dialogo” ( p. 102).
Decisivo
è poi il tema della nostalgia della casa perduta, che ha accompagnato
dolorosamente (se posso permettermi un rapido excursus autobiografico) tutta la
vita di mia madre. Ma soprattutto ci riguarda da vicino la “nostalgia della
morte e del morire”. A proposito di una poesia di Emily Dickinson leggiamo,
coinvolti, di “parole friabili e struggenti”, che “ci fanno ripensare alla
nostalgia più lacerante e indomabile, che è quella della morte e del morire in
noi e nelle persone amate che ci hanno lasciato” (pp. 103-104).
Già
nelle prime pagine (3-7) del saggio colpisce la toccante apertura su uno
squarcio dell’adolescenza del suo autore; squarcio che a sua volta vogliamo
assumere come emblema di una nostalgia vissuta nella propria carne, che è poi
la spinta fondamentale che ha indotto l’autore a scrivere. Colpisce già a prima
vista la messe ingente di brani che Borgna porta a testimoni e a conferma delle
proprie parole - tratti da poesie, ma anche da romanzi, diari, autobiografie:
da Agostino a Etty Hillesum, da Gozzano a Leopardi, da Proust a Rilke, da Mann
a Virginia Woolf, da Hofmannsthal a Trakl, da Musil a Simone Weil, da Pascoli a
Karen Blixen, da Dostoevskij a Bernanos fino a Heidegger. Quasi la letteratura
fosse una fonte parallela alla psichiatria, e una fonte tutt’altro che
trascurabile, cui attingere conoscenze indispensabili a meglio cogliere la
sostanza della nostalgia. Così “lo Zibaldone, anche in una prospettiva tematica
così lontana e pratica, come è quella della psichiatria, è sorgente di
conoscenze e di riflessioni fenomenologiche e antropologiche senza fine” (p.
23); e questo vale anche per la grande poesia di ogni tempo; e ancora: “ogni
mio libro nasce in dialogo con la follia (la follia sorella sfortunata della
poesia)” (p. 91). Resta sottinteso che anche per Borgna il mondo estetico-artistico
è tra i modi in cui si articola la conoscenza dell’uomo; leggendo questo e non
pochi altri suoi scritti ci si rende ben conto che la dimensione poetica è
fondamentale in essi, e proprio per la sua portata rivelativa. Non è esatto,
infine, che in La nostalgia ferita
“Borgna indossa i panni del critico letterario”, come sostiene Mario Fortunato
nella sua recensione apparsa su “L’Espresso” del 22 luglio 2018, a p. 92. La
letteratura per Borgna non è oggetto di attenzione critico-letteraria, bensì di
una disamina che in essa ricerca una testimonianza, un riferimento, che
arricchisce un discorso che al fondo resta psichiatrico, restituendole con ciò
potenzialità che l’analisi storico-critica o filologica a torto lascia da
cadere.
Eugenio Borgna
La nostalgia ferita
Torino,
Einaudi, 2018;
Pagg. 114, €
12.
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LA LAICA
RELIGIOSITÀ IN FRANCO MANZONI
di Carlo Alessandro Landini
Carlo Alessandro Landini
Un critico ha definito quella di Manzoni
una poesia dell’assenza. A tanto riducendola, si rischierebbe di fare un torto
gravissimo all’autore laddove la definizione non fosse completata da due
ulteriori e necessitanti connotazioni: il desiderio e il movimento. Si è
portati ad associare all’assenza (a quest’ultima è dedicata una poesia della
raccolta Stanze d’argilla) la stasi assoluta, il rigurgito della
morte, di ciò che è freddo e senza vita. La poesia di Franco Manzoni è, tutto
all’opposto, calda come il ferro arroventato sul quale si abbatte il maglio del
“miglior fabbro”. E proprio a tale riguardo, un esame anche superficiale delle
occorrenze lessicali evidenzia, a farla da padrone in questa bella silloge, di
fondamentale importanza per gustare appieno l’originalità di Manzoni, sono verbi
indicanti calore (in tutte le sue
forme e conseguenze) come incendiarsi,
bruciare, accendere. Il fuoco è, giusta gli etnoantropologi di estrazione
fenomenologica (Mircea Eliade, Gaston Bachelard) la prima impronta dell’umano
che si raccoglie in clan, che forgia la propria identità tribale, conferendo un
marchio alla notte (che la vampa delle torce rischiara). Si ravvisa in questo
ricorrere di Manzoni - soprattutto, però, nella prima fase della sua attività
poetica - alla determinazione organotopica, coi suoi verbi esprimenti la vivace
attività degli organi di senso (il tatto e la vista sopra tutti), una netta
predominanza della propriocezione di tipo aptico, prensile, manuale, simile a
quella che guida l’esperienza neonatale e informa la curiosità degli infanti, o
che ispira e conduce il gioco degli amanti (“potessi venire a prenderti”). Ad
essa si accompagna il ricorso continuo, reiterato, quasi estenuante, a verbi
indicanti moto a luogo (una sola volta Manzoni si contraddice voluttuosamente:
“tutto è immobile” (nella poesia Concerto).
Verbi quali rincorrere, salire, scendere,
cadere, esplorare (che è fra i primissimi stades de développement cognitif, come Piaget li definisce), precipitare,
partire. Questa vera e propria tensione centrifuga perviene al suo climax
nella poesia Il viaggio (“Si
parte...”), che, se esteriormente adombra il tema spinoso della migrazione, se
non addirittura della fuga precipitosa dalla madrepatria in cerca di destini
migliori, sub specie symboli essa
designa il senso di radicale inadeguatezza che induce il poeta, e forse tutti
gli esseri umani, a migrare, a spingersi altrove, “fra ombre e naufragi” (la
suggestione virgiliana è palese, e come non ricordare il Manzoni umanista, traduttore
dei grandi classici?). Insomma, il movimento è sì, in Manzoni, un moto verso l’altro ma è, più spesso, un moto verso
l’ignoto (il partir n’importe où di Tahar Ben Jelloun) e la spia di
un’insofferenza e di un disagio radicali, forse un involontario omaggio alle
nebbie padane che aleggiavano, negli anni Cinquanta e Sessanta, sui tetti di
una Milano esistenzialista, la grande e anonima metropoli che ruotava attorno
ai caffè di Brera e che nella fenomenologia di Enzo Paci aveva il suo fulcro
teoretico. Il viaggio, dunque. Come a suffragare l’ipotesi della divina mania che Platone espone nel Fedro, ipotesi che fa i conti con uno
stato prepotentemente alterato della coscienza (il topico fuori di sé degli alienati, degli eroi greci, dei santi di tutte le
epoche), Manzoni predilige i verbi indicatori dell’ansia e dell’urgenza
(vitale, amorosa, animale, prosociale). Come involarsi, urgere, precipitare. Culminando nel verbo assalire (“dove ogni cosa ci assalirà...”)
che accorpa il senso del movimento e quello dell’automutilazione, dell’aggressione
autodiretta (l’assalto è portato, nel testo di Felici liquidamente..., all’interno di un’immaginaria coppia). A
smentire l’appello di una carnalità plumbea, pesante come lo sono la colpa e la
successiva espiazione che essa comporta, la poesia di Franco Manzoni è colma di
un non sottacibile richiamo al divino, all’esperienza religiosa aurorale, non
mediata da confessioni e fedi particolari, ma piuttosto da ricondursi al numinosum, alla subitanea apparizione
del dio che atterra e che, allo stesso tempo, suscita e consola. Che la poesia
sia sempre anche una ierofania, una manifestazione sensibile del divino, è ben
dimostrato dalla nostra letteratura tutta, in ispecie da quella manierista e
barocca, ma non solo (lo prova la poesia, altissima, di Campana, Rebora, Onofri,
amatissimi dal Nostro). Qui Manzoni pare come sospeso fra due mondi, quello
della toponomastica legata all’infanzia del poeta, di Milano e dei ricordi ad
essa collegati, e quello di un aldilà dai contorni sfuggenti, per lo più
tenebrosi (“ora che non è più sole”, “dovrò salire nel buio...”) e non sempre
rassicuranti, qualche volta persino opprimenti (perché oltre la soglia lo
attende l’eponimo “angelo di sangue”). Nel lessico di Franco Manzoni un posto a
tutto tondo è ritagliato alla panoplia dell’estasi, alla nominazione, a volte
solo decorativa, altre volte drammaticamente essenziale, che accompagna e che
illustra il personalissimo memento mori del
poeta. Come Francisco Goya, anche Franco Manzoni tratteggia i suoi dèi in
sembianza di baluginii spettrali e la morte, non diversamente da come fa
Leopardi in uno dei suoi Canti più
belli, viene spesso accostata all’amore (ma diversamente dal Recanatese, per
Manzoni l’esperienza amorosa è salvifica nella misura in cui essa ottiene, o
può ottenere, la salvezza, peraltro non garantita appieno dalla morte). La
carne, la morte, il divino. Manzoni segue Praz nell’equivocare, intorbidando
volutamente l’idea che la civiltà occidentale si è andata costruendo
dell’ideale religioso a partire dalla formidabile smentita operata da Hegel e
dal posteriore positivismo teologico. Fino a erompere in un monito al tempo
stesso laico e pitocco, alla Baschenis: “si accetta sai / più concretamente /
di dover morire”. L’avverbio concretamente
è molto lombardo, indice forse di una supina, agostiniana accettazione del mondo
e dei suoi trabocchetti, come qualcuno osserverà, ma anche, più probabilmente,
di un pragmatismo tutto meneghino e febbrilmente industrioso (si noti che la
categoria del concreto è quella prediletta
da un romanziere anseatico ed alto-borghese come lo è Thomas Mann). Proprio
allo scopo di imprimere “una scossa all’anima” (Una piccola canzone..., v. 6), a quell’anima che “non pesa” (Sei venuta intera..., v. 5) e che perciò
si lascia agevolmente trascinare sursum,
verso l’alto, con afflato mistagogico, quasi gnostico (“è tutta una luce / in
essa affogo...”), Franco Manzoni moltiplica i suoi vocativi, in guisa di esortazione e fin di aperto comando. Punto di
forza della poesia del Nostro è il saper coniugare la funzione emotiva e
puramente denotativa (che non si limita, tuttavia, alla semplice descrizione,
ricorrendo più spesso alla callida
iunctura di accostamenti inopinati, inanellati a sorpresa) a quella
conativa dell’ingiunzione gnomica (che si direbbe quasi mutuata dagli esametri
di Focilide e dai distici di Teognide): guardami,
sfiorami, leccami, rincorrili, vivi, asciugami, apri, prendi, non voltarti.... (ma l’elenco sarebbe lungo) sono ingiunzioni
secche però accorate, spesso disperate, talora solo maliziose, tali da non
sfigurare nell’Ars amandi, ma anche
come un’eco lontana di taluni imperiosi e stravolti accenti del grande Dylan
Thomas, nel quale l’esortazione appare come il correlativo adeguato, osserva
Heaney, per la riflessività del sentimento. Ancora una volta dobbiamo porre
l’accento sulla valenza sensoriale di questi imperativi, facilitanti la fuga
del poeta, vagheggiata se non attuata (così come avviene per Leopardi), dalla
claustrofobia emotiva di un’esistenza sofferta, il più delle volte subita, ma
anche (cristianamente?) accettata. La maggior parte dei lemmi che Franco
Manzoni utilizza in questa splendida raccolta si lasciano assaporare e godere a
motivo della persistente anfibolia di senso che la pervade (a ciò contribuisce
una fraseologia liberamente paratattica, che procede per franche e avulse
associazioni e che solo a fatica si potrebbe definire ermetica, mentre essa è, invece, più vicina all’espediente surrealista
del cadavre exquis, tutto affidato al
goloso gioco d’incastro acriticamente operato dall’inconscio). Se l’equivoco è
alla base di ogni grande poesia, l’imperativo sta viceversa a bucare, a squarciare,
anzi, la sottile linea d’ombra che vela il mondo sublunare delle imitazioni imperfette
e che sostenta le mistificazioni imposteci non solo dalla nostra stessa condition humaine, ma anche dal dubbio radicale
che pervade quest’ultima e che finisce per erodere, col passare degli anni, le
nostre coscienze tremule. L’ingiunzione poetica di Manzoni (il quale, non a
caso, nel 1987 pubblicò una silloge dal rivelatore titolo imperatore!, con tanto di punto esclamativo), con l’invocazione e
la preghiera che ne sono la declinazione eufemizzante, attenuata, sta all’ispirazione
come l’exhortatio che conclude
l’intervento del retore, definitiva e dirimente, sta all’oggetto del
contendere. Montalianamente precisandosi in
absentia, più per ciò che essa esclude
e respinge da sé che per ciò che essa mostra di gradire e di voler accogliere
in sé. Tra queste affabili, insinuanti ingiunzioni v’è come uno scarto, un
salto di qualità spiccato da questo verso
un altro e più lontano piano
dell’esistere. Vi è nella poesia di Franco Manzoni una tensione irrisolta,
stridente, quasi bellicosa, fra il piano della fede e quello di una molto umana
carnalità. In realtà, una terminologia espressamente dedicata al sacro non dà, qui, un’ampia e
convincente testimonianza di sé. Locuzioni apparentemente rivelatrici quali donna di dio, febbre del dio, seme di dio,
serva di dio, sacra abitudine, cristo morente, guglie benedette, paradiso, sono tutte adoperate - con rigore che
nulla concede a facili sdilinquimenti - con l’iniziale minuscola, quasi che si
tratti di interiezioni gergali, modi di dire colloquiali, solecismi. Manzoni si
annette il sacro come un attributo della realtà, piegandola alla ragion pratica
di una laica ed ebbra inquietudine (lo fanno sempre i grandi poeti, ché
altrimenti essi avrebbero indossato l’abito talare). Diremo che il sacro è una
soglia alla quale si accede, in casa Manzoni, in punta di piedi, senza fiatare,
in silenzio, col cappello in mano. Una volumetto del 1990, Faccina, nel quale il Nostro parla della figlioletta Beatrice morta
ancora neonata, è forse quello nel quale con maggiore potenza espressiva, con
un incanto quasi rilkiano, Manzoni ingloba prospettive noetiche
apparentemente differenti e lontane nel tempo per unificarle e armonizzarle
alla luce di un dolore che non riuscirà mai a placarsi e nemmeno, a ben vedere,
potrà precisarsi a parole. La poesia Oltre
gli oggetti, del 2001, dedicato all’amico Roberto Sanesi, tocca forse la
vetta più alta di questa religiosità laica nella quale l’intuizione di un
oltremondo, di una realtà che va molto al di là di quanto la sola poesia è in
grado di esprimere (può forse la musica farlo? ne dubitiamo, benché quella di
Bach sembri provarci), è sempre in agguato.
Ben rappresentato è l’eros, al quale il Nostro dedica la parte
conclusiva dell’antologia, quella in cui sono raccolti gli inediti più recenti.
Entrambi, sia il sacro (però a dimensione d’uomo) che l’eros (però
sacralizzato, elevato a tantrico motore di conoscenza) hanno lo scopo, qui, di
sollevare gli occhi del proprio ideale interlocutore verso le altezze del mondo
spirituale, ovvero, dando credito a una felice intuizione di Pavel Florenskij,
di aprire quest’ultimo, il mondo soprannaturale, alla coscienza. In questo
senso Franco Manzoni - che proprio nel 2018 festeggia, con questa raccolta, il
quarantesimo anniversario della sua attività di autore in versi - può dirsi
oggi uno tra i poeti più significativi e interessanti del nostro tempo e la sua
poesia un tentativo, perfettamente riuscito, di alternare “la vita nel
visibile” a quella nell’invisibile. Se l’anima è il luogo della
poesia, come scrive Keats, Milano è per Franco Manzoni il genius loci della poesia civile così come Roma lo era stata per
Pasolini. Sporcarsi le mani con la vita di tutti i giorni, quella
che ci impone la fatica di vivere, di tirare avanti, di credere, di sperare, di
amare, anche di pregare, se e quando occorre. Questo è il miracolo operato
dalla poesia di Franco Manzoni. Se quest’ultima è “un’infinita accoglienza di
dolore”, si tratta di un dolore consumato e redento dalla parola che si fa
vita.
La copertina del libro
Franco Manzoni
Angelo di Sangue/ Inger
de sânge
Edizioni
Eikon (Bucarest) 2018
Pagg.
112 Leu 25
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A DINO
FORMAGGIO
NEL DECIMO ANNIVERSARIO
DELLA MORTE
di Gabriele Scaramuzza
Dino Formaggio
Dieci anni fa, il 6 dicembre del 2008, è
mancato a Illasi Dino Formaggio, studioso di estetica, artista, e mio
insegnante. Era nato a Milano nel mese di luglio, il 28, del 1914; perciò fin da
ora ne rievoco la scomparsa - è il mio modo di considerare la sua morte, come
voleva, nella prospettiva della vita. V’è da aggiungere che ottant’anni fa, nel
1938, sempre nel mese di dicembre, il 3, moriva a Milano Antonia Pozzi, sua
grande amica. Vale la pena ricordare, sia pur a latere, anche lei.
*
Le loro voci si
intrecciano a proposito di eventi che restano purtroppo tuttora nei nostri
orizzonti. In una lettera da Marzio datata 5 settembre 1938 scrive Formaggio
alla Pozzi: “Io sto in questi tempi rafforzando il mio pensiero sociale”,
“medito Marx e ho voglia di azione. Porci, dici? Ma non ancora fottuti. E,
Cristo, lo saranno presto”. Antonia gli fa a suo modo eco il 27 settembre 1938
in una lettera da Pasturo: “E soprattutto, siamo stufi di prepotenze, di
soprusi, di aggressioni che sui giornali diventano ‘sacrosanti diritti’, degli
urli della folla anonima ridotta allo stato di bestia cieca, della repressione
barbara e retrograda di ogni voce umanitaria, del quotidiano capovolgimento
della realtà di fatto”; dove, aggiunge, si è perduto “il senso che domina noi
giovani: quello della libertà di coscienza”.
*
Continuo per
frammenti, ricorrendo a mie memorie sparse.
Mi è rimasta impressa l’ammirazione con cui a
Toceno nella seconda metà degli anni ’50 lo ricordava uno dei suoi primi
allievi liceali (poi ingegnere, ricordo persino il cognome: Falciola), per il
coraggio che aveva mostrato nel non nascondere le sue critiche al fascismo, e
in anni in cui era pericoloso farlo.
Mi è tornato così alla memoria il racconto di
Formaggio dell’arresto: si era pericolosamente esposto esprimendo su un mezzo
pubblico a voce alta la sua convinzione, del resto più che giustificata, che
la guerra era ormai perduta. Le sue giustificazioni (avrebbe agito da semplice
storico spassionato) non lo salvarono dall’esser tradotto nelle carceri di
Verona, dove fu compagno di cella di Berto Perotti, germanista, poi autore dell’impressionante
libro su La notte dei cristalli,
pubblicato nel 1977. Non ricordo come avvenne la liberazione di Formaggio, mi è
rimasta in mente solo la sua corsa di slancio, felice, verso le Torricelle
all’uscita dalla prigione (così mi raccontava). Ma insieme ricordo le sue
narrazioni del soggiorno a Bassano, coi suoi, durante la guerra, della prima invasione
della Francia (ovviamente mal sopportata dai francesi). Sono notizie che
andrebbero tutte verificate, certo, ma è quel che mi resta. Di prima mano è
invece la testimonianza delle sue lezioni sulla resistenza: sobrie,
circostanziate, mai enfatiche.
Il suo atteggiamento
verso gli scioperi per Trieste confortò poi in me una sia pur larvale presa di coscienza
politica. Erano scioperi strumentalizzati da studenti del Movimento sociale (di
uno di essi, rosso di capelli, mi è rimasto il nome), e l’ambiente non era
certo di sinistra; solo in seguito sentii parlare degli anni del fascismo,
della resistenza, e ancora più tardi della Shoah. In quell’ambiente l’esser di
sinistra era visto come una colpa e divenne un capo d’accusa contro Formaggio;
ricordo bene scritte contro di lui sui muri esterni del liceo.
*
Ritrovo qualcosa di Formaggio nella Lettera a un giovane cattolico di
Heinrich Böll, scritta nel 1958, ma riferentesi agli anni del nazismo: “la
morale era stata identificata, al solito, con la morale sessuale. Non voglio
trattenermi a spiegarle quale immenso errore teologico sta alla base di tale
identificazione, […] Non una parola su Hitler, non una parola
sull’antisemitismo, su eventuali conflitti tra un ordine e la nostra
coscienza”.
Da quella perniciosa identificazione Formaggio si
era presto emancipato, resta un merito per lui, per tutti.
*
Fin dai primi tempi Formaggio mi ha insegnato la
libertà di coscienza, il coraggio della verità (termine che con giustizia e
ragione tornava spesso nei suoi discorsi), il rifiuto di occultare la realtà
dietro le cortine fumogene dell’ipocrisia, il tedio della retorica,
dell’edulcorazione irresponsabile e della mitologizzazione. È in nome di questo
che mi sento tuttora in diritto di prender la parola.
Le sue lezioni,
la voce, la mimica del corpo, racchiudevano promesse meravigliose. Con
entusiasmo scoprivo mondi di arte e di pensiero a me del tutto ignoti. Quel suo
modo di coinvolgere, di sollecitare risposte attive, trovava un terreno
favorevole nella mia estrema ricettività. Trasmetteva il pensiero altrui, ma
insieme, e in modo preponderante, lo rendeva vivo comunicando insieme il suo
modo di essere verso di esso. Una partecipazione, una densità affettiva colorava
il rapporto con la cultura che ci comunicava; non mortificava la cultura con obblighi
di corto raggio. Per questo non ho mai provato noia, non c’è stata pigrizia, né
mancanza di buona volontà o di capacità di concentrazione, per me, nelle cose
che davvero anche dopo di lui mi hanno preso.
Un ricordo tuttora
toccante è la sua lezione all’inizio dell’ultimo anno del liceo prima che ci
lasciasse per l’università; gli occhiali abbrunati, la voce incrinata dalla
commozione: la sua vita, affermava, non aveva senso se non nella ricerca. Questo
mi fa riandare a una conversazione una sera nella sua abitazione a Milano, in
via Anco Marzio: una lezione vera e propria anzi, sugli sviluppi della
filosofia contemporanea. Non era ormai più mio insegnante e si era gentilmente
assunto il compito di surrogare così le sue lezioni mancate. La testa reclinata
sulla poltrona, il consueto tono di voce suadente, dipingeva a tinte
apocalittiche la sconsolante situazione del mondo contemporaneo. Il racconto
riempiva di intima gratificazione, infondeva certezze interiori, tanto più
quanto più affondava lo sguardo nella catastrofe. Tutto era così disperante, è
vero, ma noi eravamo al caldo, e al sicuro, in un luogo del nostro personale
sublime.
Conservo infine
tuttora un quaderno con gli appunti dalle sue lezioni su Spinoza, assai belle; me
li sono persino trascritti in bell’ordine. Risuonava qui l’eredità di Banfi, di
cui Formaggio dovette aver seguito il celebre corso spinoziano. Tutto in questi
appunti avvalorava l’idea di una vita raccolta in se stessa, fatta di dedizioni
profonde e di rapporti umani semplici ma autentici e costanti, tutta giocata su
poche cose essenziali. Quell’idea che traspare anche da talune parole di Antonia
Pozzi.
Antonia Pozzi
Nel mondo
universitario in cui Formaggio è capitato la sua posizione era certo
eccentrica; ma in esso ha saputo muoversi con accortezza dopotutto. Non lo ha
mai abbandonato tuttavia un senso di fondamentale estraneità ad esso, che ho
condiviso.
Personalmente ancora
gli resto grato di non aver lasciato cadere, nei fatti, domande tuttora nevralgiche. Mai avrebbe scambiato l’efficienza,
la correttezza professionale (che anche gli Eichmann possiedono, si sa, e al
più alto grado), per universalità etica. Dedizione a un compito e adeguatezza
nello svolgerlo possono stridere con le finalità cui sono volte. Un’acribia, qualsiasi
acribia, è benvenuta, ma non vale di per sé: ci si deve chiedere in relazione a
cosa, a che fini è esercitata.
Tra le cose che
più mi hanno preso c’è inoltre che, nel concreto dei suoi modi di agire (ma mai
in dichiarazioni programmatiche), Formaggio si è sottratto alla censura che
l’ambiente in cui si è formato praticava verso tutto ciò che suona soggettivo, psicologico.
Le sue lezioni, i suoi scritti (e non solo i primi, che più amavo), il suo
comportamento, recano in sé una caratteristica impronta personale, e chiare
venature autobiografiche.
*
Concluderò con
due memorie. Una sua cartolina dalla montagna innanzitutto: pini attorno,
radura, monti innevati al fondo, e parole: “la vera morale consiste non già nel
seguire il sentiero battuto, ma nel trovare la propria strada e seguirla
coraggiosamente”; e dietro, con un pensiero affettuoso, “molti auguri”.
Conteneva un’esortazione, e un velato rimprovero, ora lo so bene. A lui, infine,
devo il gusto per i mobili antichi, tanto che su sua indicazione ne ho
acquistati alcuni che ancora ho con me; e l’interesse per le litografie (me ne
ha anche regalate alcune), tutto questo era così consono alla sua personalità.
Come cifra di quanto mi è più caro ricordare è l’aura delle betulle che
Formaggio mi ha trasmesso, della loro delicata bellezza; tanto che ne ho collocate
due nel nostro giardinetto di Padova.
***
Libri
L’ITALIA
CONTESA:
LA RICOSTRUZIONE E LA CLASSE OPERAIA
di Franco Astengo
La copertina del libro
È appena arrivato in libreria il nuovo lavoro
di Giuseppe Vacca L’Italia contesa
(edizione Marsilio). Nel testo si affronta, con la solita finezza d’esposizione
e ricchezza di ricerca storica tipica dell’autore, una tematizzazionefondamentale della storia della Repubblica
partendo dal presupposto che, per lungo tempo, questa storia è stata la storia
dei partiti che l’hanno fondata e, in particolare, di due grandi forze popolari:
il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana. L’autore
ricorda come i due partiti fossero “uniti dalla Carta Costituzionale ma divisi
dagli schieramenti internazionali di riferimento”. Il PCI e la
DC, considerati soprattutto nell’elaborazione politica progressivamente esposta
dai loro principali esponenti, sono descritti dall’autore come caratterizzati
da un intreccio di divergenze ideologiche insuperabili e di generosi tentativi
di convergenza. In particolare nel quarto capitolo “La percezione della Dc da
Togliatti a Berlinguer” e, più specificatamente nel paragrafo “ De Gasperi dopo
la morte” si affronta il passaggio riguardante la ricostruzione dell’Italia dal
disastro bellico.
Una
ricostruzione attuata prima con la collaborazione di governo (fino al maggio
1947) e successivamente con la DC alla guida dell’esecutivo e il PCI con il PSI
all’opposizione.
In questo
passaggio si rileva, almeno dal punto di vista dell’autore, come semplicistica
la valutazione che Togliatti fornisce
sulla figura di De Gasperi, nel suo saggio pubblicato da “Rinascita” tra
il 1955 e il 1956, in sei puntate, scritto quindi dopo la morte dello statista
trentino. La
valutazione di Togliatti era riassunta in quel saggio intendendo l’azione
degasperiana come di “ restaurazione del capitalismo”.
In realtà, precisa
Vacca, Togliatti intendeva come la ricostruzione del Paese durante i cinque
anni tra il 1948 e il 1953 fosse avvenuta (utilizzando i fondi dell’ERP in
maniera autonoma anche rispetto agli stessi intendimenti del governo USA)
ripristinando il modello di sviluppo tradizionale dell’economia italiana,
fondato su bassi salari e bassi consumi (sarebbe così composta la “struttura
economica tradizionale).
L’autore
contesta questa valutazione togliattiana (ripetiamo espressa tra il 1955 e il 1956) e ne ripercorre tutto l’itinerario analitico ponendo in particolare
l’accento sull’analisi che Togliatti vi svolge circa il rapporto tra il
corporativismo fascista e quello cattolico. In quest’ambito, oltre al dato
puramente riferito al tema della ricostruzione post-bellica, è sottoposta a
giudizio anche la distinzione tra i due “antifascismi” (quello democristiano è
considerato da Togliatti come “antifascismo speciale) portando così il tema sul
piano squisitamente politico. All’interno di quest’analisi sviluppata nel testo di Vacca si può notare
come l’autore ometta la presenza, in quel contesto storico, di un protagonista
che a giudizio di chi scrive questo intervento è stato sicuramente fondamentale:
la classe operaia.
Insieme nel
lavoro di Vacca pare mancare anche la descrizione del delinearsi dei rapporti
di forza sul piano sociale e del determinarsi di nuove condizioni materiali di
vita e di lavoro nell’Italia di allora. Condizioni materiali di vita e di
lavoro il cui mutamento materiale avrebbe poi avuto influenza sullo sviluppo dell’insieme delle
questioni economiche e delle vicende politiche e sociali almeno fino alla
vigilia del “miracolo economico” e dell’apertura (travagliata e complessa) del
centro-sinistra.
È bene quindi cercare di fornire un contributo per qual che
riguarda l’analisi del periodo della ricostruzione post-bellica rivolto al
complesso degli agenti sociali influenzarono il quadro politico. Quadro
politico, attraversato anche all’epoca da una forte tensione rivolta alla “autonomia” nell’insieme dell’essere e dell’agire dei suoi soggetti
portanti, cioè i partiti fortemente caratterizzati ideologicamente. Proviamo
allora ad andare brevemente per ordine.
Alla fine
della guerra l’Italia si trovò di fronte ai seguenti maggiori problemi: in
primo luogo vi era la grave situazione economica; in secondo luogo vi era
l’eredità della divisione politica e militare del paese durante il periodo
della Resistenza. L’Italia del Nord aveva sviluppato al massimo il movimento di
lotta contro il nazifascismo e si trovava complessivamente, nel valutare le
esigenze di rinnovamento del Paese, su posizioni più radicali e progressiste
che non l’Italia del Sud: quest’ultima, invece, dove la mancanza di lotta
armata e la presenza della monarchia e del governo avevano assicurato la
“continuità” delle strutture dello Stato, era rimasta chiusa in orizzonti più
conservatori e moderati.
Infine,
erano ben presenti sul territorio le forze armate alleate, con un loro peso
assai rilevante in quanto esse non soltanto rappresentavano l’unico organismo
in grado di provvedere ai primi necessari aiuti a una popolazione in miseria,
ma sorvegliavano accuratamente gli sviluppi politici della situazione italiana,
con non nascoste inclinazioni per le forze più moderate e una netta ostilità
verso i partiti della sinistra. L’influenza
dell’Amministrazione Militare alleata divenne immediatamente un elemento
imprescindibile per le forze politiche, tanto più che le truppe anglo americane
diventarono subito una garanzia per i partiti di Destra e di Centro. Dal punto
di vista economico l’Italia del 1945 si trovava in condizioni che, pur essendo
di gran lunga migliori di quelle di molti altri Paesi europei (ad esempio la
Germania e la Polonia) erano di per se stesse quanto mai pesanti. Le
distruzioni belliche avevano portato alla perdita di circa il 20% del
patrimonio nazionale. L’industria si era nella maggior parte salvata, poiché i
danni bellici si aggiravano intorno all’8% degli impianti; ma le capacità
produttive complessive, scese nel 1945 al 29% rispetto al 1938, erano
gravemente compromesse, sia dalla mancanza di materie prime, sia
dall’invecchiamento tecnologico, dovuto al logoramento subito durante la guerra
negli anni trascorsi senza un adeguato rinnovamento. L’agricoltura
nel 1945 ebbe un calo produttivo assai pesante, dovuto sia alla rovina delle
coltivazioni e dei terreni nelle zone di guerra, sia all’impoverimento del
suolo, rimasto senza sufficiente concimazione.
In questa
situazione risultarono d’importanza fondamentale gli aiuti forniti dagli
alleati, con evidenti conseguenze politiche. Gravissimi danni avevano subito i
trasporti.
Anche nel
settore dell’edilizia, con la messa fuori uso di oltre il 10% del totale dei
fabbricati, la situazione si presentava abbastanza grave, specie nelle maggiori
città.
I prezzi
intanto erano saliti nel 1945 rispetto al 1939, di 18,4 volte. I disoccupati e
i sottoccupati ammontavano a un numero assai rilevante e costituivano un grosso
e difficile problema politico e sociale.
Nel 1946 i
disoccupati censiti risultarono 1.654.872 e il salario medio era circa la metà
di quello del 1938. In questa
situazione si presentavano due alternative possibili: che lo Stato assumesse
nelle proprie mani il controllo della ricostruzione oppure che questa venisse
affidata sostanzialmente all’iniziativa privata.
Alcuni
importanti elementi a sostegno della prima eventualità esistevano.
Anzitutto
era disponibili gli strumenti di controllo che il fascismo aveva messo in atto
per le esigenze dell’economia corporativa e dell’economia di guerra.
Questi
controlli, svincolati dalle esigenze dell’economia corporativa, potevano essere
utilizzati secondo nuove esigenze programmatiche. In secondo luogo esisteva la
base pubblica sia nel campo della finanza sia dell’industria: anche in questo
caso si trattava dell’eredità della politica d’intervento attuata dal fascismo
negli anni’30. Si tenga presente che lo Stato deteneva nel 1945 il possesso di
circa il 90% delle banche e una quota notevole dell’industria, specialmente di
quella pesante.
La legge
bancaria del 1936 rendeva inoltre possibile allo Stato di operare una selezione
del credito secondo finalità specifiche. Pur tuttavia prevalse la seconda
opzione: quella liberista e ciò avvenne quando era ancora in carica il governo
di solidarietà antifascista. Il cambio della moneta, che con i controlli a essa
legati avrebbe consentito di verificare gli extraprofitti dei “pescecani” di
guerra e sottoporli ad adeguata tassazione, fu combattuta con successo dai liberisti
favorevoli per contro al minimo di tasse sul capitale e alla sicurezza dei
profitti. La Dc si dimostrò, attraverso i ministri Bertone e Campilli, coerente
esecutrice della linea liberista. In ogni caso tra il 1945 – 46 la ripresa
economica e produttiva non si realizzò. Una svolta fu introdotta con la
politica economica di Luigi Einaudi, ministro del Bilancio, attraverso la
svalutazione della lira nell’agosto del 1947. La svalutazione ebbe voluto
perché in tal modo si sarebbe favorita la riduzione delle importazioni, il
rientro di capitali e il rilancio delle esportazioni, secondo una linea di tipo
deflazionistico. I risultati allora arrivarono, nel senso auspicato dai
promotori di quella linea di politica economica. La svolta einaudiana si pose,
però, di pari passo con un attacco generalizzato ai livelli di occupazione, che
nel 1948 era ancora assai basso con ben 2.124.474 disoccupati su una
popolazione di 46 milioni. Alla fine del 1948 la produzione industriale aveva
raggiunto l’89% di quella del 1938 e quella agricola dell’84%. La politica
congiunta di svalutazione e deflazione ebbe un importante effetto sulla
struttura delle imprese italiane, favorendone la concentrazione. Risultò
comunque molto significativo, all’interno di quel quadro, il fatto che l’IRI
avesse superato la tempesta antistatalista e avesse ripreso ad operare
ottenendo nel 1948 notevoli finanziamenti che dovevano costituire la base per
un prossimo rilancio dell’industria pubblica.
In
conclusione di questa parte della nostra ricostruzione si può affermare che la
politica liberista di Einaudi aveva ottenuto rilevanti risultati rispetto
all’obiettivo di rilanciare l’iniziativa privata e di contrastare una politica
di programmazione, ma non ne ebbe alcuno per quanto riguardava il carattere
monopolistico delle concentrazioni finanziarie ed industriali. L’atteggiamento
delle Sinistre di fronte ai problemi della ricostruzione fu improntato in
generale, pur con differenze tra i comunisti e i socialisti. ad uno spirito di
“solidarietà nazionale” e quindi di collaborazione “condizionata” con le forze
imprenditoriali.
Una simile
linea aveva quale presupposto un orientamento teorico generale che portava i
comunisti a ritenere che il capitalismo italiano, con le sue tare storiche, non
fosse in grado di assumere autonomamente il controllo del processo produttivo e
si trovasse pertanto nella condizione di dover accettare il controllo delle
grandi organizzazioni politiche e sindacali della Sinistra, le quali avrebbero,
a livello di rapporti di produzione, realizzato la stessa formula del governo.
Era la linea
del cosiddetto “capitalismo straccione” elaborata da Amendola che poi sarebbe
stata alla base dello scontro interno nel post Togliatti, fino all’XI congresso
del 1966.
Il fatto che
i comunisti lasciassero campo libero all’iniziativa privata portò i
capitalisti, nella fase iniziale e di loro maggiore debolezza, ad accettare
tatticamente il rapporto che i comunisti chiedevano; dopo di che, riassunte le
redini delle aziende, passarono ad un’offensiva generalizzata contro le
Sinistre e le loro richieste di controllo; vanamente, a quel punto, il PCI
chiese un inizio di programmazione economica, che pure in un primo tempo aveva
respinto come non attuabile per mancanza di strumenti.
In sostanza,
all’estromissione nel 1947 delle Sinistre dal governo si accompagnò quella dai
luoghi di lavoro.
Così la CGIL
si trovò a dover restare su posizioni difensive, senza poter contrastare il
recupero di potere delle classi dirigenti, nonostante tentativi di uscita da
quel tipo di posizione come quella tentata nel 1949 con il varo del “Piano del
Lavoro”.
In primo
luogo il sindacato non riuscì ad opporsi allo sblocco dei licenziamenti, il
quale nel gennaio del 1946 diventò totale anche se con scaglionamenti.
Nell’ottobre
del 1946 fu accettata una tregua salariale che durò un anno, venendo così
incontro alle richieste del padronato, in nome delle esigenze dalla
ricostruzione.
Una
situazione assai critica per la CGIL si delineò quando, in presenza di un forte
processo inflattivo con la conseguente erosione dei salari si creò anche una
situazione di diffusi licenziamenti a partire dagli ultimi mesi del 1947. Le
reazioni che diedero origine a forti agitazioni da parte degli strati popolari
più colpiti furono, in sostanza, “frenate” dal sindacato, che si trovava in
un’obiettiva posizione di debolezza e nell’impossibilità di dare alle proteste
della base uno sbocco diverso da quello legato alle prospettive di una futura
ripresa economica in grado di aumentare le disponibilità di lavoro.
Ben presto
la scissione nelle file del sindacato, nel quadro di un’offensiva moderata
generalizzata, doveva creare ulteriori difficoltà e un indebolimento del
movimento operaio, coinvolto anche a livello sindacale dalla sconfitta storica
nelle elezioni dell’aprile 1948.
Così il 1948
fu un anno chiave nella situazione del dopoguerra.
La vittoria
schiacciante della DC nelle elezioni del 1948 e gli importanti aiuti
statunitensi dati al Paese in base al piano Marshall costituirono la premessa
perché l’ulteriore sviluppo politico e economico italiano avvenisse in un
quadro d’isolamento sia dei partiti della Sinistra, sia della CGIL. Questo
punto deve essere ricordato con attenzione, anche rispetto alle note critiche
contenute nel volume di Vacca.
De Gasperi,
dopo che come si è già fatto rilevare nel periodo 1945-48 era stato bloccato
ogni rinnovamento politico – sociale sentiva nondimeno la necessità di un passo
avanti, sia pure parziale.
A fronte di
forti agitazioni sociali affrontate con quella repressione poliziesca che ebbe
le sue punte più drammatiche al Sud con le uccisioni di braccianti a Melissa e
a Montescaglioso e al Nord a Modena, con l’assassinio di 5 operai davanti alla
fonderie Orsi Mangelli nel 1950, fu tentato dal governo centrista una sorta di
“riformismo dall’alto” che diede risultati, a partire dalla riforma agraria
approvata nel 1950, modesti e insoddisfacenti. I risultati complessivi del
quinquennio 1948-53 apparvero positivi sotto l’aspetto quantitativo, ma se si
verificano dal punto di vista sociale gli squilibri non erano stati in alcun
modo affrontati e attenuati. questo è un
punto che deve sottolineato e ricordato).
La politica
liberista del governo aveva dunque fatto pagare costi salatissimi sia al
proletariato industriale del Nord, sia al bracciantato del Mezzogiorno.
Agli elevati
profitti stavano di fronte salari bassi e pesantissime condizioni di lavoro:
condizioni miserrime per milioni di persona a cui si accompagnava una
fortissima emigrazione verso i Paesi europei e le Americhe (emigrazione
stimolata e agevolato dallo stesso Governo).
La
ricostruzione poteva considerarsi ultimata nel 1954, quando la produzione
industriale aveva superato ormai dell’81% la produzione del 1938, ma le
condizioni reali di vita di gran parte del Paese iniziarono a migliorare
soltanto con l’avvio della modernizzazione della grande industria, avvenuta
grazie all’innovazione tecnologica che aveva fornito grande vantaggio alle
esportazioni.
Toccò
all’industria di Stato ricoprire il ruolo di capofila sia sul terreno
dell’innovazione tecnologica, sia rispetto alle esportazioni, nella siderurgia,
nella chimica e nell’industria petrolifera, con la vicenda legata all’ENI di
Mattei fino alla sua misteriosa scomparsa. Ma se aumentò complessivamente la
produttività e con essa i profitti, i salari rimasero comunque indietro e
scarsi furono i progressi dell’occupazione: nel 1955 risultavano ancora ben
2.161.000 disoccupati. In una fase di sviluppo caratterizzata da alti profitti
e da bassi salari, il padronato portò avanti (come mise in luce perfino
un’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche
svolta nel 1957) una dura politica di attacco ai sindacati. Insomma: la
ricostruzione era conclusa e ci si avviava verso il “miracolo economico” in un
clima di duro attacco alla CGIL, in condizioni di bassi salari e di alta
disoccupazione.
Appariva
chiaro, allora come adesso, quali soggetti sociali erano stati chiamati a
pagare gli altissimi costi della ricostruzione del Paese stremato dalla guerra
fascista. Si apriva a questo punto la stagione che avrebbe portato al “miracolo
economico” e ad una svolta negli equilibri politici con il Luglio ’60 e il
governo Fanfani delle “convergenze parallele”.
Un’Italia
contesa dunque ma non semplicemente tra i due grandi partiti di massa.
Un’Italia
stretta nella morsa feroce di una
aggressiva lotta di classe condotta da un padronato rimasto arretrato fin sulla
soglia degli anni’60. Nella realtà quindi una ricostruzione realizzata
attraverso enormi sacrifici umani, di lavoratrici e lavoratori e delle loro
famiglie in un clima di pesante sopraffazione sociale: quell’Italia degli anni
’40- ’50 da non dimenticare.
***
Aforismi ubriachi DI MIKY DEGNI
di Giovanni Bonomo
La copertina del libro
Conosco Miky
Degni da quando partecipò ad alcune edizioni di Bacco Natale,
celebrazione del dio Bacco che allo scadere di ogni anno organizzavo presso la
mia dimora in Brera per tirare qualche sana boccata di ossigeno, oltre che
qualche sorso di buon vino, a fronte della frenesia consumistica prenatalizia
dei forzati dei regali ad ogni costo. Tra i vari ospiti, artisti, musicisti,
poeti e scrittori, che si dilettavano in agoni improvvisati, nello spirito
teatrale e cyraniano del mio salotto diventato alcolico per l’occasione, con le
migliori e premiate rime (baciate o alterne) in coma etilico, era anche questo
signore al quale non diedi all’inizio molta importanza… anche se i suoi
“Dipinti Ubriachi” disegnati con il vino (Nebbiolo di Valtellina, Sassella ma
anche Sforzato) denotavano già quel pizzico di genialità artistica che ebbi
dopo a scoprire appieno.
Ora non è un
caso, se crediamo alle impreviste ma necessarie sincronicità della vita, che
mentre stavo esaminando i primi 80 Aforismi di altrettanti autori per festeggiare
i 15 anni di vita di “Odissea”, in qualità di collaboratore della rivista, mi
arriva un suo messaggio WhatsApp: “Aforismi ubriachi, il mio nuovo libro”.
Ed eccomi qua ora con il libretto (Aforismi
ubriachi, Trenta Ed. 2018) in mano a sfogliarlo e, prima di leggere gli
aforismi, che sono 41, a osservarlo nei disegni che li accompagnano. Uno stile
che già conoscevo e che già apprezzavo, la pennellata flash incisiva,
essenziale, simbolica, che solo un vero artista come Miky Degni, altro che
“pubblicitario” come da alcuni recensori è stato chiamato, riesce a fare. Forse
era inevitabile l’approdo all’aforisma da parte di un pittore essenziale, che
coglie con pochi colpi di pennello l’essenza delle cose, ma io non me lo
aspettavo proprio, ed è stata per me una gradita sorpresa. Riuscire a esprimere
in poche parole una riflessione che richiederebbe un articolato discorso, come
quasi sempre avviene quando si parla di se stessi, è un altro segno di talento:
“Dipingo col vino perché
l’inchiostro non lo reggo”.
E questo primo aforisma, che introduce la raccolta, è la sua presentazione di
artista: non sono uno scrittore, non reggo l’inchiostro, e dipingo (e ora
scrivo senza inchiostro ma) con il vino. Eppure, nonostante questa professione
di modestia iniziale, i suoi “aforismi ubriachi” sono senz’altro degni
di tale genere letterario.
Ho sempre
considerato l’aforisma una frase “flash” sagace, e quindi non a tutti concessa,
che ci fa apparire a volte lapidari e impietosi, quando serve, ironicamente
eccessivi e provocatori, sempre, per sorprendere e trasmettere un’intuizione
che sveglia il pensiero.Devo dire che Miky Degni va oltre perché in questo
libretto troviamo anche la parodia dell’aforisma: ridotto a una sola parola “A(R)MATEVI”,
che fa il verso alle scritte sui muri dell’Università Statale ai tempi della
contestazione studentesca, e a due parole con “Partito € Consumista”, perfettamente in linea con il
disfacimento politico, tra diffusa mediocrità sociale e consumistica
insulsaggine, che sta vivendo oggi il nostro Paese.
Ma non è forse
vero che, se indugiamo troppo ai piaceri del palato fine e “artistico”, come
pretende la novelle cousine, rischiamo di morire di fame? “Una volta c’erano i cuochi, oggi ci
sono gli chef. Domani forse mangeremo qualcosa”. Si stava meglio
quando si stava meno peggio. Speriamo che l’auspicio dell’Autore, per quanto
riguarda l’artigianato culinario (ma quale arte!), si realizzi. Per ora, stando
così le cose, possiamo dire che, in questo caso, “l’arte è una bufala, come la mozzarella”. Ora ci taglieggiano
anche le pietanze se andiamo in certi ristoranti con velleità artistiche. Questo
perché “La logica del
profitto produce solo nuovi ingordi (di ignoranza!)”. E gli ingordi di ignoranza li
troviamo purtroppo in ogni campo. Siamo in un Paese con il più alto tasso di
analfabetismo di ritorno, e questo perché: “In Italia tutti scrivono ma nessuno legge”. Grazie anche ai social
che permettono a tutti di digitare e scrivere idiozie senza prima pensare, così
come viene permesso in tanti talk show di parlare senza prima connettere
la lingua al cervello.
Del resto la
prima cosa che facciamo entrando in una casa o in un qualsiai locale è di
cercare il Wi-Fi per poter continuare a ‘tweettare’ o a ‘postare’ su Facebook.
Vale allora l’esortazione dell’autore: “Attiva il cervello, non il wi-fi”. Ormai “In questo Paese tira di più un tweet
che un carro di buoi”. Non ci stupiamo se la nostra amata Italia, in
cui l’innovazione digitale è sempre in ritardo, è popolata più che da nativi
digitali, come si suol dire, da morenti cartacei. Ed io ho vissuto
personalmente tale situazione nella transizione dal cartaceo al digitale nel
processo telematico, con la tragicomica “copia di cortesia” che ancora oggi
viene richiesta da certi giudici. Non ci stupirebbe un dialogo di questo
tenore: “Sei nativo digitale? No,
sono morente cartaceo”.
Che cosa
potremmo fare per contrastare questa contemporaneità social dove il like
sembra il fine ultimo dell’esistenza? Risposta: diffondere il pensiero critico
e libero, l’amore per il sapere, la cultura. Perché il pensiero è l’unico
benefico virus che ci potrebbe salvare: “Andate per le strade e contagiate tutti. C’è bisogno che la cultura si
propaghi nell’aria come un virus letale”.
Ce ne sarebbero
di riflessioni da fare e cose da dire, andate a leggervi tutti gli altri
aforismi dell’Autore. Basta leggere, anche se l’operazione non sembra gradita
ai più in Italia, come prima dicevo. Ma non prendete l’esempio da me, perché
io, da quando ho letto che il vino fa male, ho smesso di...
leggere.
***
AFORISMI D'AUTORE
Omaggio all'aforisma
In occasione del XV anno
di vita di “Odissea”, abbiamo deciso di rendere un piccolo omaggio ad uno dei
generi espressivi più fascinosi e sintetici. Lo facciamo attraverso la penna di
autori di varie discipline e di ogni parte d’Italia che hanno accolto il nostro
invito. Alcuni di loro dedicano attenzione da sempre a questa forma estetica,
altri la praticano raramente, altri ancora hanno scritto solo stimolati dalla
spinta amichevole di “Odissea”, vale a dire per l’occasione, e dunque siamo loro
doppiamente grati. Il risultato non ci sembra malvagio: giudicate voi.
I
disegni a corredo sono stati realizzati dall’amico e collaboratore Adamo
Calabrese. L’ordine di pubblicazione rispetta quello dell’invio dei materiali. [A.G.]
1***
Ci sono intelligenze messe al servizio di pessime
cause.
Angelo
Gaccione
2***
Alla mancanza si può sempre aggiungere qualcosa.
Per questo non stanca mai.
Alessandra
Paganardi
3***
I generosi sono altruisti, ma attirano gli
avari.
Laura
Margherita Volante
4***
Mai sottovalutarsi, ma prendersi troppo sul
serio ci rende ridicoli.
Filippo
Gallipoli
5***
L’arte è l’ultimo baluardo dell’essere, dopo la fine di ogni episteme.
Alessandro
Calabrìa
6***
La bomba più intelligente è quella che non ha mai voluto venire al mondo.
Graziano
Mantiloni
7***
Mi piacciono le persone che inseguono un ideale
e un sogno
per tutta la vita, senza mai scendere a
compromessi.
Chiara
Pasetti
8***
Suicidi per debiti: sacrifici umani sull’altare
dell’Usura.
Lidia
Sella
9***
La guerra è uno stato patologico dell’uomo.
Dategli un ago e con quello farà la guerra.
Cataldo
Russo
10***
Duole dirlo, ma quell’ultima assenza
è l’essenza dell’esistenza.
Ornella
Ferrerio
11***
È solo nell’intimità che si misura appieno
l’estraneità.
Donatella
Bisutti
12***
Dire davvero quello che pensano è l’ultima
conquista dei vecchi.
Pensare fino in fondo quello che dicono è la
prima dei giovani.
Pier Luigi
Amietta
13***
Dio c’è. Sta scritto sui muri.
Pino
Aprile
14***
La natura di uno scandalo non è determinata da
chi lo dà,
ma da chi lo prova.
Amedeo
Ansaldi
15***
In tipografia, come nella vita, più del corpo
conta il carattere.
Alessandro
Zaccuri
16***
Nei giochi della mente trovo ogni cosa.
Alberto
Casiraghy
17***
L’esagerazione disarma l’eccesso.
Cesare Vergati
18***
Non è vero che il cuore si trova nello stesso
punto, in ognuno di noi.
In alcuni è a pochi centimetri dall’Ego, in
altri è a pochi centimetri dall’Anima.
Fabrizio
Caramagna
19***
Puntini
tra quadre.
Siamo messi male, anzi peggio: siamo omessi...
Giuseppe
Langella
20 ***
Tra un niente e un altro niente
nel mezzo ci abbiamo trovato la vita.
Renato
Pennisi
21***
Al dolore e alla sofferenza non si dovrebbe
chiedere il passaporto.
Anonimo
Lombardo
22***
Ci sono paesi in cui gli imbecilli occupano
tutto il palcoscenico e anche le prime file
della platea. Dopo all’ingresso mettono un
grande cartello dove c’è scritto: tutto esaurito.
Fulvio
Papi
23***
È possibile cercare l’amore, l’affetto, la
benevolenza negli occhi dell’altro,
trovare in lui la luce che non abbaglia, ci
allieta e rafforza,
capace di accoglierci nella nostra stessa
piccolezza e fragilità.
Franco
Toscani
24***
Contro gli
aforismi
L’eccessiva brevità è un alibi.
Luca
Marchesini
25***
Il drammaturgo ha la capacità linguista di
contemplare l’abisso.
Il poeta quello di alleviarlo.
Giuseppe
O. Pozzi
26***
Una carezza è sostegno nella tristezza, è
speranza nel dolore.
Giuseppe
Puma
27***
Stendersi sul letto è parafrasi di morte.
Come esorcismo, gli occhi non vogliono
chiudersi.
Poi, di colpo, le palpebre trovano l’oscuro in
un centro di luce.
Ottavio
Rossani
28***
Testarda speranza, incespicando tra ceneri di
mondo in agonia, sei mia.
Renato
Seregni
29***
Lungo la nostra brevità in cammino, noi si trema
come foglie per lo stesso vento.
Franco
Celenza
30***
L’unica dolcezza che ho avuto della vita è lo
zucchero, e non posso mangiarlo.
Lorenza
Franco
31***
Non c’è ossimoro più subdolo della “guerra umanitaria”.
Giuseppe Natale
32***
La vera comprensione delle origini delle cose va
oltre la ragione:
si chiama la ragione del cuore.
Oliviero
Arzuffi
33***
La politica è improvvisazione allo stato puro, è
azione che precede il pensiero, in questo sempre identica a se stessa nel tempo
e nello spazio.
Paolo Maria Di
Stefano
34***
Conoscere
l'irraggiungibile.
Le cose vere, superiori, attengono agli spazi
del Sogno,
ma posso conoscere l'irraggiungibile se non
ignoro il sogno divino della mia carne.
Mario Sodi
35***
Se da più in basso si parte, più in alto si
arriva.
Esempio ne sono anche: i grattacieli.
Nicolino
Longo
36***
Ormai l’auto-critica è diventata la critica
delle auto.
Giovanni
Bianchi
37***
Tutti dicono che le religioni degli altri sono
false...
E hanno ragione!
Giovanni
Bonomo
38***
Chi ama la concentrazione del linguaggio si
limiti nei messaggi, digitando sul telefonino una semplice S: la comprensione
dei suoi tanti significati possibili sia affidata alla perspicacia del
ricevente.
Tiziano
Rossi
39***
Gli intellettuali si sforzano di stabilire
certezze, mentre il loro mestiere
è seminare dubbi.
Giordano
Bruno Guerri
40***
La religione è la matematica dei poveri di
spirito.
Piergiorgio
Odifreddi
41***
L’Amore è il bene più grande tra i beni soggetti
a deperimento.
Dante
Maffìa
42***
Ex voto
Grida
grida
Ti
hanno dato
la
parte del suicida.
Amedeo
Anelli
43***
Le
cose buone necessitano di tempi larghi.
Gabriele Scaramuzza
44***
Gli
dèi mi hanno concesso ancora un giorno.
Che
fare?
Pianterò
degli alberi.
Adamo Calabrese
45***
Vivere
nella gioia, operando per il bene dell'umanità.
Arrigo Colombo
46***
Il
neo-proprietario: rogito ergo sum.
Giancarlo Consonni
47***
A proposito di civili
eutanasie
Sin
che c’è morte c'è speranza.
Carlo Gragnani
48***
Se
sei riuscito a dar corpo alle ombre e alle reticenti magie della natura, puoi
dire
-non a torto- di aver vissuto al novanta per cento. Su questo non ci
piove. L’altro dieci è l’onesto passerotto che ti porti dentro, in aperto
contenzioso tra un novanta per cento di
miglio e il colore accecante del miele inquieto e saporoso che pullula nel
sogno.
Leopoldo Attolico
49***
Non
c’è che il tempo. Ma non c’è mai tempo.
Roberta De Monticelli
50***
La
musica è, tra le Arti, la più inafferrabile ed evanescente.
Proprio
per questo la più incline a catturare istanti di verità universali.
Aldo Bernardi
51***
Chi
muore lascia il proprio corpo. Chi scrive lascia le proprie parole come spettri
vaganti sulla terra.
Mauro Germani
52***
Il
pericolo maggiore non è nel viaggio ma nel porto.
Rinaldo Caddeo
53***
Al
funerale di un amico si piange in genere non il defunto, ma la parte di noi
perduta con lui.
Piero Lotito
54***
Potere:
Il
dilemma è antico: logora o non logora?
Forse
è bene starne lontani, non ubbidire e neppure comandare.
Franco Astengo
55***
La
corruzione è come un cancro che invade il corpo umano, si diffonde in tutti gli
organi vitali, ne succhia le sostanze nutritive e quando ha compiuto la sua
missione l'organismo stremato e in disfacimento cessa di vivere.
Elio Veltri
56***
Il sogno è vita
Sogno
di sognare un sogno, che sto già sognando.
Sogno
di sognare che racconterò quel sogno come non fosse un sogno.
Macché
la vita è sogno, il sogno è vita!
Marco Garzonio
57***
Le
epoche finiscono quando si smette di ricordare.
Pierfranco Bruni
58***
Legalità ed etica
Legalità
ed etica non sono la stessa cosa:
se
si è etici si è legali, ma se si è legali non è detto che si sia etici.
La
legalità è produttiva, l’etica è generosa.
La
legalità è conformità alla norma, l’etica è sentirsi responsabili
della vita
degli altri.
L’etica
è il movimento spontaneo verso il bene.
Salvatore Natoli
59***
La
letteratura è la rappresentazione scritta della nostra esistenza,
la nostra
vera essenza. La
letteratura è vita.
Stefania Romito
60***
Aforisma
In
buone mani, un’arma micidiale la cui potenza è inversamente proporzionale
alla
sottigliezza.
Luigi Mascheroni
61***
Vita,
trauma dell’incoscienza.
Franco Manzoni
62***
La
poesia non salva la vita, altrimenti tanti poeti non sarebbero finiti al
manicomio,
troppo
presto al coemeterium e quasi sempre
nelle braccia di sora Miseria.
A
salvare la vita è l’indole, quando è buona, e il caso, quand’è favorevole.
Silvio Aman
63***
Ho
sempre pensato che bisogna essere persone serie per poter fare un film Comico.
Maurizio Nichetti
64***
Se
il girovita si allarga la vita si restringe.
Giorgio Colombo
65***
È
solo a livello dei dizionari che resiste la
parentela tra Memoria e Ricordo.
Nella
realtà, la prima sta alla mente, il secondo al cuore.
Vincenzo Guarracino
66***
Chi
non è sensibile alla preghiera non lo è nemmeno alla poesia.
Roberto Pazzi
67***
Domanda
L’uomo
si chiede perché. Per quanto ne sappiamo
questa
è la differenza che lo fa divo fra i vivi.
E
abusa di presunta onnipotenza, solo per un interrogativo.
Maurizio Meschia
68***
E
se la vita, alla fine, fosse solo un assegno scoperto?
Federico Migliorati
69***
Le
donne a questo servono: a ritardare le barbarie.
Maria Pia Quintavalla
70***
Il
credente è un’ottimista fervente, mentre l’ateo è un pessimista osservante.
Giuseppe Denti
71***
Talvolta,
se il malato stenta a guarire, il medico saggio cerca quale medicina
togliergli, piuttosto che quale nuova medicina prescrivergli.
Francesco Piscitello
72***
Il
vero poeta coltiva il silenzio per catturare il mistero della vera poesia.
Franco Esposito
73***
La
festa della Liberazione è certamente una tra le più belle feste italiane.
E
anche in questa affermazione siamo partigiani...
Fabio Minazzi
74***
La
fortezza ripida sbarra la strada, chiama all’intermittenza.
Filippo Ravizza
75***
La
menzogna abbisogna di tantissime parole, la verità quasi di nessuna.
Marzia Borzi
76***
Ogni
sorriso che ostenta magnifici denti dissimula la loro natura d’affilate zanne.
Claudio Zanini
77***
Perle
ai porci… siamo sicuri che costino più delle ghiande?
Laura Cantelmo
78***
Il cielo
Il
cielo è tutto: a volte ci cade addosso, ma non ci accorgiamo, troppo impegnati
a strisciare sulla terra: il tutto per noi è il niente.
Mario Rondi
79***
Elogiare
il passato non significa condannare il presente, ma soltanto aiutare
quest’ultimo a riacquistare la qualità dei tempi antichi.
Fare
una critica equivale ad iniziare una bonifica.
Jacopo Gardella
80***
L’unico
errore di Dio è stato dare ad Adamo il cuore e il seme della vita.
Silvio Raffo
***
Libri
IL PARINETTO DI BELLINI
di Gabriele Scaramuzza
E' assolutamente da
segnalare quest’ultima e ingente fatica di Manuele Bellini: è scritta in modo
chiaro ed efficace, e ci permette di far luce in un pensiero suggestivo sì, ma tutt’altro
che semplice, molto articolato, denso di risvolti difficili da inseguire con la
padronanza che mostra Parinetto. Si tratta inoltre della prima monografia interamente
dedicata a uno dei più affascinanti e noti docenti della nostra Università, che
rischia oggi di essere, ingiustamente, dimenticato. Bellini è ora di ruolo nei
licei, ma ha conseguito di dottorato di ricerca in
Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, e lì si è occupato di
Estetica. Tra l’altro ha pubblicato I profili dell’immagine (Milano
2003) sull’estetica di Bergson, e L’enigma dei geroglifici e l’estetica (Milano
2013). Ha inoltre curato Corpo e
rivoluzione. Sulla filosofia di Luciano Parinetto (Milano 2012); e con me
infine Verdi e la rivoluzione (Milano 2013) di Parinetto.
Personalmente sono stato molto attratto dal modo
davvero originale di Parinetto di ripensare il marxismo, e da alcune tematiche
che egli connette ad esso, quali la mistica, il taoismo, l’alchimia, la
stregoneria, oltre all’ovvia utopia e alla Sinnlichkeit. Mi è del tutto congeniale inoltre la valorizzazione
da parte di Parinetto di Verdi, il suo modo innovatore di considerarlo. Ma per
una presentazione del volume qui in oggetto non c’è sintesi migliore di quella
che ci ha offerto lo stesso Bellini. Non esito dunque a riportarla qui.
La filosofia “eretica” di Luciano Parinetto
(Brescia 1934 - Chiari 2001), docente di Filosofia morale alla Statale di
Milano, vede in Marx un’utopia della sensibilità (Sinnlichkeit) ben distante dal “sistema” del materialismo dialettico, che di Marx faceva il profeta del
movimento operaio, concepito come un corpo unico da guidare verso la
rivoluzione socialista. Parinetto rileva, invece, nel filosofo di Treviri, il
valore del singolo (e ne parla con echi kierkegaardiani), la cui diversità è il
potenziale grimaldello per l’emancipazione dell’umano. E il singolo, se si
risale alle fonti rimosse del pensiero dialettico marxiano (come a Rousseau, a
Lessing o alla tradizione alchemica), non è affatto un’essenza, ma un divenire:
non ha una natura propria (che farebbe pendant con la fissità ontologica borghese), ma è un orizzonte di possibilità
tutte aperte (che, per converso, i socialismi reali hanno cristallizzato in un
tipo antropologico cui adeguarsi).
Di qui l’attenzione per la stregoneria: la strega è
un concetto metamorfico che surdetermina tutte le minoranze culturali, tutte le
diversità perseguitate a partire dall’età moderna (dagli indios americani ai contadini tedeschi,
dagli ebrei alle donne agli omosessuali), nelle quali Parinetto (cui peraltro
si deve l’impulso ai Gender Studies e l’influenza su Mieli) individua l’esibizione della dialettica e,
d’altronde, nella dialettica vede la chiave di lettura della diversità. Del
resto la strega, che è errante nei nomi e nei luoghi, la notte emigra nel
Sabba, luogo del desiderio, e per questo si fa portatrice dell’utopia di un
totalmente altro. Non esiste a mio avviso omaggio migliore che si possa fare in
memoria di Luciano Parinetto.
Manuele Bellini,
Dialettica
del diverso.
Marxismo
e antropologia in Luciano Parinetto
Mimesis, 2018, pp. 185, € 18.
***
Libri
Neanche la pioggia ha così piccole mani
di Claudio
Zanini
Osservazioni
sul romanzo La complice di Marina
Corona
“Nessuno,
neanche la pioggia ha così piccole mani”. Questo verso del poeta americano E.
E. Cummings, che costituisce l’incipit del romanzo di Marina Corona, La complice (puntoacapo editrice), riassume il carattere della protagonista
Greta, una ragazzina alle soglie dell’adolescenza. Più della pioggia, anche lei
ha mani piccole e delicate non ancora in grado di sostenere (di difendersi da) le
prime prove che la vita le pone davanti. Piccole mani bambine desiderose di ricevere
dall’altro (e donargli) quella tenerezza di cui ha bisogno. Mani che sono
accolte da quelle grandi del padre, che scambiano calore con quelle del primo
ragazzo che le prende tra le sue, mani che accarezzano il volto della zia
ammalata e cercano tepore nel pelo del cagnolino Tomtom. E poi la pioggia, che
significa anche lacrime. Il pianto sommesso di chi scopre un mondo ostile, sentendosi
incompreso e ingiustamente rimproverato.
È un romanzo scritto con grande sensibilità; sembra quasi
che l’autrice sia entrata con passi sommessi e rispettosa partecipazione nell’anima
della piccola Greta, restituendo alla pagina turbamenti ed emozioni con grande
pudore. Turbamenti dovuti all’età ingrata ma resi più dolorosi dalla scoperta
casuale, per la strada, del padre strettamente abbracciato a una sconosciuta. A
Greta sembra che il mondo le crolli sotto i piedi. Un accadimento estraneo, per
lei ancora impensabile, le rivela una realtà inspiegabile da cui si sente respinta,
esclusa.
Una realtà di cui ha via via dolorosa percezione
attraverso la depressione della madre sempre più vulnerabile, i suoi frammenti di
conversazione al telefono e certe telefonate anonime, poi il tono ambiguo del
padre quando le si rivolge; infine, le allusioni della domestica e i
pettegolezzi riferiti dalla custode.
Dunque, il
mondo di Greta. Vi si respira un’aria grigia e pesante; quella che pervade la
casa, resa quasi irrespirabile dai genitori in costante reciproco conflitto; dove un padre egoista e superficiale, irresponsabilmente,
ora cerca la complicità della figlia. Un uomo frustrato cui si contrappone la madre,
che ha avuto la disgrazia, incinta di pochi mesi, di perdere una seconda bambina.
Una donna passiva, debole, timorosa e incapace di vedere la realtà. Entrambi
lontani dal capire minimamente sentimenti e ansie della figlia che cresce e
faticosamente si sta costruendo un’identità. Un’atmosfera di penombra fosca,
gravida di falsità e sentimenti inespressi. Una penombra, tuttavia, illuminata,
come da fugaci raggi di sole, dalla capacità della bambina di vedere e scoprire
la poesia di brevi e inattese gioie. Ci sono sempre, infatti in Greta, accanto
alle sue tristi considerazioni, inattesi lampi di fantasia, frutto d’un
pensiero fervido e attento a tutto ciò che la circonda. È lei, infatti, a
citare all’inizio, le parole dei versi di Cummings (sentiti vedendo un film) al
suo amico Andrea. Tra l’altro, questo poetico fantasticare accomuna Greta al
bambino protagonista de La storia di
Mario, il romanzo precedente di Corona.
Greta è una bambina estremamente sensibile e
intelligente. I genitori credono (o meglio, preferiscono credere) che lei non
capisca i loro discorsi “adulti” e il loro comportamento; invece Greta li
comprende, li “sente” direi, con l’intera persona. Non li sa spiegare, ma ne coglie
la sostanziale falsità e crudezza; e, altrettanto, chiaramente, sente quanto la
respingano in una dimensione d’infantile minorità. Lei soffre anche per loro,
ma loro questo non lo capiscono. Le parlano (raramente) come fosse ancora una
bambina molto piccola.
Tant’è vero che il suo rapporto con loro è sostanziato da
continue e inspiegate imposizioni, causando una contrapposizione, muro contro
muro, nei suoi confronti. Pensando che da tali insensate direttive derivi la
loro autorevolezza, le rimproverano, tra l’altro, di dire bugie, mentre non
hanno la consapevolezza di vivere, loro, nella menzogna. A parte il fatto che
la bambina non racconta bugie, ma esprime un’immagine fantastica (poetica)
della realtà, trasfigurandola. Anche lei imparerà a mentire, con la cognizione,
tuttavia, di compiere qualcosa di sporco e d’inautentico.
Una breve osservazione. Leggendo, la figura di Greta
viene via via prendendo le sembianze dell’adolescente ritratta da Edward Munch
nel dipinto Pubertà (1895). Vi si
rintracciano nell’atteggiamento spaurito, le stesse solitudine e angoscia che
turbano la nostra protagonista.
Gli adulti
del mondo di Greta. Oltre ai genitori, vi fanno parte anche il prete che, senza
partecipazione confessa la bambina, quasi dovesse assolvere a una pratica
noiosa; gli insegnanti ottusi e meschini,
i parenti e amici dei genitori presi nel vortice dei loro grigi problemi
d’incomprensioni, rancori e ipocrisie. Uniche eccezioni sono la nonna che si
accorge del turbamento di Greta – in un’età in cui “non si è né carne né
pesce”, come dice - e la esorta a dire la verità, e, infine, ha l’accortezza di
mettersi da parte; e la zia Giovanna, una donna malata angariata da un figlio egoista.
A questo mondo, chiuso su se stesso, si contrappone quello dei bambini; dove,
tuttavia anche qui, Marco, un ragazzo appena più grande di Greta, con cui lei
vorrebbe iniziare un timido rapporto, assume gli atteggiamenti spavaldi del
ruolo del maschio adulto che sta diventando, mentre le amichette sono fatue e
superficiali. Resta Andrea, il compagno di banco riservato e sensibile, che
cerca di capire, la spinge a non rendersi complice, a infrangere quel velo di
menzogne; le vuole bene. Ma, è ancora un bambino; mentre Greta è cresciuta, ha
compiuto il rito di passaggio, diventando donna. Ha perso l’innocenza ma,
affrontando la dolorosa verità ne ha preso coscienza, pronta ad affrontare
la vita con maggiore consapevolezza.
Questo intenso bildungsroman
si svolge con una narrazione, che direi quasi sommessa, ben scandita
nell’alternanza dei vari capitoli, raccontata con una scrittura accurata, in
cui s’intrecciano malinconia e momenti di gioia, stupore e smarrimento; e dove
s’incontrano, come dicevo, lampeggiamenti di luminosa poesia. Ma, e questo è
noto, l’autrice, Marina Corona è poeta di valore.
***
Libri
COME NASCE UN POETA
Il carteggio Pazzi – Sereni
di Angelo Gaccione
Roberto Pazzi nel suo studio a Ferrara
(Foto: Marzia Borzi)
“(...) Guardi, anche
tutta questa mia goffa ansia di pubblicare per cui mi sono rivolto a Lei per
quattro anni (non creda che non
sappia che è ridicola, che è immatura e indecorosa, oltre che inopportuna),
è dovuta anche – non solo, so che c’è
anche l’ambizione – a questo desiderio di poter comunicare di più quelle
‘sublimazioni’ di stati d’animo miei che possono diventare di tutti (...)”
[Bocca di Magra, agosto 1969]
“(...) Penso a Lei e
alla Sua poesia: Lei ha fatto in tempo ad esprimere la propria realtà di vita
con il metro, il tipo di sublimazione estetica compatibile con tale realtà, ma
io? (...)” [Ferrara, 28 aprile 1972]
“(...) forse più non sa che la mia impazienza di una volta è limitata ora in
qualcosa di pericolosamente fatalistico ed amaro, qualcosa come una coscienza
di sé ferita. La mia poesia da dieci anni – Lei ha assistito a questo farsi – è
la costante e continua verifica di me con me e di me con gli altri (...)”
[Ferrara, 26 novembre 1974]
“(...) Lei può immaginare l’amarezza di non essere
riuscito a collocare quanto scrivo in una casa editrice più grande ma è troppo
importante per me che quello che scrivo – a qualsiasi costo – circoli.
(...)” [Ferrara, 6 novembre 1975]
Vittorio Sereni
L’ansia spasmodica, l’impazienza, e la stessa
amarezza che traspaiono da questi brandelli di lettere, fanno parte di un
corposo epistolario che dal Capodanno del 1965 giunge fino al 26 giugno del 1982.
Ad esprimerle è un giovane divorato dal dèmone della poesia che ha avviato il
suo difficile, frustrante e tormentato apprendistato, e si chiama Roberto
Pazzi. Il destinatario a cui il giovane si rivolge con pronomi di riguardo,
dalle iniziali rigorosamente maiuscole, è Vittorio Sereni: noto poeta e nel
contempo influente uomo di potere nei gangli della grande editoria italiana. Sereni
incoraggia sin dall’inizio il suo giovane protetto di cui intuisce potenzialità
e talento, e come può cerca di spianargli la strada, mettendolo in contatto con
le personalità, le riviste, i critici, gli editori con cui intrattiene
rapporti. Gli dà consigli su come muoversi nell’ambiente, su come approcciare i
personaggi da contattare, gli suggerisce letture, ma non gli nasconde le
difficoltà, le insidie del percorso, i tempi lunghi. E pur invitandolo alla
pazienza, a considerare le possibili delusioni (e Pazzi ne dovrà subire
diverse, come il lettore vedrà), già in una lunga lettera del 9 giugno del 1968
(Pazzi all’epoca ha 22 anni) così generosamente gli scrive: “Io la terrò d’occhio e sarò io ad aiutarla
se ne avrò modo e se avrò modo di non farlo a vuoto”. Ne avrà sì, il modo, Sereni, e mai gli
lesinerà l’aiuto. Pazzi è giovane, e nei giovani le passioni sono sempre totali,
divoranti. Come il bisogno tremendo di mettersi a confronto, di spalancare la
propria anima ad un’altra anima che con noi possa entrare in risonanza, e
allora vorrebbe di più, essere capito in profondità, che fosse colta l’urgenza
del suo malessere, che i suoi versi fossero analizzati, scarnificati perfino,
vagliati lemma per lemma, ed il suo insistere, il suo pressare, hanno per un
lungo tratto temporale, quasi l’urgenza di un grido disperato lanciato al suo
mentore. Sereni tenta come può di arginarne l’impeto. È
sommerso, come egli stesso dice in una delle lettere, “da un diluvio di carta”,
dai tempi, dalle scadenze, da quella che Pazzi, riferendosi al ruolo di
direttore editoriale che l’amico svolge, definisce con una punta di amarezza “deformazione professionale”.
E se ne
lamenterà con lui in occasione della scelta di un gruppo di poesie per la
rivista “Prospetti” diretta da Petrucciani in questi termini: “Mi perdoni, ma tutto è avvenuto come fosse
una sorta di impegno contrattuale”.
Una veduta dello studio di Pazzi a Ferrara
(Foto: Federico Migliorati)
Il grido non è stato accolto nella sua
profondità, come il venticinquenne Pazzi avrebbe voluto (la lettera è del 1971);
Sereni stempera, raffredda, forse non è un uomo di passioni e il suo riserbo
suona eccessivo alle orecchie di Pazzi, ma agisce, segue passo passo
attivamente anche la strutturazione del libro che il suo giovane amico vuole
realizzare, ed ecco la gratificazione in un brano della risposta che arriverà a
Pazzi qualche mese più tardi (9 dicembre 1971): “ (...) e non creda che io mi sarei occupato
delle sue cose se a suo tempo non l’avessi sentito”. Sereni si riferisce al
tocco magico, al quid che deve
circolare nei versi, a quella cosa
impalpabile che non sappiamo definire, ma che consegna al linguaggio della
poesia il suo misterioso statuto. C’è per Sereni il quid nei versi di Pazzi, e la prova evidente sta nel suo
occuparsene concretamente; Pazzi vorrebbe sentirlo esplicitamente, leggerlo in
scrittura fuoruscito dalla penna di Sereni, magari con una nota articolata,
chiarificatrice, spietatamente critica, ma fissata sulla carta. Pazzi sa bene
quanto sia importante l’aiuto che Sereni disinteressatamente gli dà, e molti
passaggi delle sue lettere lo testimoniano. Lo sarà altrettanto negli anni a
venire, quando finalmente andrà consolidandosi la sua riconoscibilità di poeta
negli ambienti ufficiali dell’universo letterario, ed egli potrà scrivere al
suo benefattore: “Non può immaginare la
felicità che Lei mi ha dato con questa nuova possibilità di cui mi ha parlato
al telefono. Vorrei dirLe tante cose sul valore di riscatto della mia esistenza
che ha il fatto di esprimerla così, in poesie”. (Lettera del 24 dicembre
1978). Due anni più tardi, 14 dicembre 1980, in quella che per me resta la
lettera più bella dell’intero epistolario, Pazzi definirà il suo incontro con
Sereni “come un segno del destino”.
Un destino che a rarissimi adolescenti è capitato. Quanti hanno avuto il
privilegio e la fortuna di un incontro così fatato? Se penso al deserto che
alcuni di noi hanno dovuto attraversare, al nido di vipere che è divenuto
l’ambiente letterario italiano, alla colpevole distrazione, all’indifferenza e
spesso all’ostilità verso quanti non possono vantare appoggi di alcun genere, alla
difficoltà di fare almeno arrivare in certe mani materiali su cui ci si è
dannati, all’impossibilità di confrontare un dubbio, un sentiero che si è
intrapreso... Se penso a quel periodo solidale del dopoguerra di cui mi hanno
parlato Carlo Bo, Gaetano Afeltra, Bonura, Consolo, Fernanda Pivano e tanti
altri per il libro Milano la città e la
memoria, ai ricordi di Crovi ricostruiti per il libro L’immaginazione editoriale...
Pazzi con il curatore dell'Epistolario nel suo studio
(Foto: Marzia Borzi)
Ma torniamo al carteggio. Questa del 14 dicembre 1980 a cui
ho appena accennato, non è una semplice lettera; è una toccante confessione di affetto
e di stima, verso una guida preziosa, che ha segnato a fondo il poeta Pazzi: “Io vorrei che Lei sapesse che in quel tanto
di positivo che brucia nella mia vita, Lei c’è”. Non abbiamo la risposta di Sereni a questa lettera; a partire da
questo momento l’epistolario registra solo missive di Pazzi, ma l’essersi
costituito in udienza, l’essersi
fatto platea e pubblico nei confronti
del giovane esordiente, assistere alla sua crescita,
come scrive nella nota pubblicata su “Arte e Poesia” del 1969, sin dai primi
anni in cui avviene il loro incontro a Bocca di Magra ed aver mantenuto vivo
nel tempo questo interesse, dà la misura di un affetto che Sereni sentiva vero
verso questo giovane inquieto e che di continuo lo sollecita. Lo aveva preso a
cuore perché per anni si incontravano nel piccolo borgo ligure dove Sereni villeggerà
per oltre un trentennio. L’amicizia si era consolidata nel tempo perché il noto
letterato era amico dei genitori di Pazzi e d’estate fittava la casa dei
cugini, ma può darsi che nel fondo ci fosse anche qualcosa di più paterno,
Sereni aveva avuto solo figlie femmine.
Come
nasce un poeta. Epistolario
1965-1982, è questo il titolo del libro, si compone di 91 lettere: 50 sono
di Pazzi, 41 di Sereni. Di Sereni ne sono riportate alcune autografe
completamente scritte a mano. Una conversazione di Pazzi con il curatore
Federico Migliorati apre il volume, e una sezione di testi poetici di Pazzi lo
chiude. Dentro ce n’è abbastanza di materia, per capire alcuni risvolti di quel
mondo dell’editoria e della poesia che tra la fine degli anni Sessanta e gli
inizi degli anni Ottanta, sono stati insieme conflittuali e proficui.
Soprattutto c’è Pazzi con la sua caparbia ostinata passione, il suo bisogno
insopprimibile di costruirsi come poeta, la formazione di un Io che si dibatte
fra esaltazioni e delusioni, intima e solitaria ricerca espressiva e necessità
di uscire dalla clandestinità, per confrontare nello spazio pubblico gli esiti
di questa ricerca e di questo “fare”. Ci sono i suoi miti e le sue letture, le
preferenze e gli autori di riferimento, le sue convinzioni estetiche e le sue
ragioni. E ci sono, come capita spesso ai poeti, quegli inspiegabili deliri
creativi, quelle epifanie che ti inchiodano per ore e ore allo scrittoio, a
scrivere a volte per due giorni di seguito, senza fermarsi, senza dormire, come
ci informa un brano della lettera del 23 maggio del 1978.
Sereni sul Naviglio a Milano
Ha fatto bene Pazzi a pubblicare questo epistolario, potrà
tornare molto utile a quanti decidono di intraprendere l’esaltante e insano
mestiere dello scrivere. A guardarsi dentro, a capire più chiaramente le
proprie insopprimibili pulsioni, a prendere coscienza di quanto fiele si dovrà
ingoiare, a chiedersi come suggeriva Rilke al suo giovane aspirante poeta: Devo io dunque scrivere? A me ha
suggerito molti altri spunti su cui ci sarebbe ancora tanto da dire. L’autore
me ne aveva accennato in occasione della presentazione di un altro epistolario,
quello di Cassola, proprio nella sua magnifica città, a Ferrara, nella Casa di
Ariosto. Pazzi era stato generoso e disponibile, ed aveva accolto volentieri
l’invito di venire a parlare di quel libro e a ricordarne lo scrittore. Mi
disse che il carteggio di Cassola lo aveva convinto a riordinare quello che era
intercorso fra lui e Sereni. Il coinvolgimento dell’amico Migliorati nella
curatela e il recupero delle lettere inviate da Pazzi a Sereni conservate nel
Fondo di Luino sul lago Maggiore, hanno conferito ora a quella felice
coincidenza, una gioia in più.
La copertina del libro
Roberto Pazzi – Vittorio
Sereni
Come nasce un poeta.
Epistolario
1965-1982
A
cura di Federico Migliorati
Edizioni
Minerva 2018
Pagg.
176 € 15,00
***
Libri
L’ESPRIT DE FAMILLE.
77 positions libanaises di Fraçois
Beaune
di Mila Fiorentini
François Beaune
Un kamasutra della
famiglia scritto da un giovane scrittore francese originario dell’Auvergne e
residente a Marsiglia, una sorta di reportage narrativo che restituisce un
affresco gustoso e contraddittorio di quel caleidoscopio chiamato Libano.
Pubblicato in francese con le edizioni tunisine
Elyzad nella collana Histoires vraies de la Méditerranée (letteralmente “storie
vere del Mediterraneo!), questo autore che ho avuto il piacere di conoscere nel
corso della settimana francese di Scandicci, sobborgo di Firenze, promossa
dall’Institut Culturel Français, ha scelto di parlare di Mediterraneo, al Mediterraneo
e con il Mediterraneo, optando per una casa editrice del sud. Dopo il romanzo La lune dans le puit (letteralmente la
luna nel pozzo, non ancora tradotto in italiano), pubblicato con Gallimard, mi
ha detto che ha cercato di sintonizzarsi con la sponda sud che racconta. Ed ora
è tradotto in arabo proprio da una casa editrice libanese. L’esprit de famille, letteralmente “Lo spirito di famiglia”,
restituisce attraverso 77 quadri, ironicamente definite “posizioni”, il mosaico
che compone il Paese mediorientale che della varietà e della contraddizione ha
fatto la sua cifra caratteristica. Con una scrittura rapida, che procede per
impressioni, François ci accompagna in un dialogo a due voci con una serie di
personaggi: una sorta di reportage giornalistico che ha però la vena della
narrazione introducendoci nella multiforme società di questo piccolo paese dove
ci sono ben 16 confessioni diverse e dove vige un vero e proprio tri-linguismo
tra arabo, francese e inglese. Elegante e smart ad un tempo il formato ben si
accorda con questo piccolo saggio sul Mediterraneo dal punto di vista di una
delle dimensioni peculiari di questo continente liquido: la centralità della
famiglia. Come spiega nei ringraziamenti finali, il fatto di non conoscere
l’arabo lo ha limitato nel proprio viaggio nella società, facendogli
privilegiare le famiglie cristiane, di lingua francese. Per altro i cristiani
in Libano sono generalmente più francofoni che arabofoni e anglofoni. In ogni
caso emerge la presenza, oltre dei cristiani di confessione maronita, dei
druidi che credono nella reincarnazione e dei musulmani sia sunniti sia sciiti
e non ho trovato che si avverta l’angustia di una sola prospettiva anche perché
difficilmente i libanesi, se non forse i più osservanti, vivono chiusi in una
cerchia monocolore, anche se abitano in quartieri, per così dire, “tematici”. Salta
all’occhio in queste brevi storie tracciate con pennellate veloci, da uno
scorcio o un racconto al massimo di due-tre pagine, la contraddizione tra due
estremi, la concezione della famiglia in modo tradizionale, ancor più che
religiosa -spesso soprattutto nell’educazione sessuale pesa più la tradizione
che l’aspetto religioso, come dimostrano alcuni precetti che si ritrovano in
tutte le confessioni ma anche in persone non strettamente praticanti- e la
ricerca della libertà individuale, in modo spesso trasgressivo. In effetti
probabilmente in questo angolo di mondo come anche in molte regioni del nostro
sud -si tratta in fondo di un comun denominatore mediterraneo- la
contraddittorietà è una nota tipica perché ovunque si impone il divieto, il
controllo, il senso del peccato, si alimenta altresì la trasgressione e
ribellione, il senso di colpa come anche il gusto per il peccato. Soprattutto
nell’ambito sentimentale e sessuale la vita relazionale dei giovani libanesi è
contraddittoria e non solo in contraddizione con la propria famiglia con la
quale si cerca quasi sempre di mantenere un rapporto perfino intimo, quando non
simbiotico; il conflitto è dentro la persona ed è una scelta, il desiderio di
appartenere a entrambe le dimensioni. Tra i tanti racconti quello di un ragazzo
che in Libano conduce una vita sessuale libertina, con incontri collettivi che
raccontano addirittura mode sessuali diffuse tra i giovani; eppure decide di
sposare una donna vergine e religiosa, molto tradizionale. Se per alcuni
aspetti si tratta di un percorso evolutivo della persona e di una dimensione
duplice che c’è in ognuno di noi, in tutte queste storie, ogni particolare e
ogni scelta è portata all’eccesso: il digiuno e l’abbuffata, per usare il
simbolo tipico della quotidianità della vita del musulmano durante il Ramadan,
il mese sacro. Da sottolineare come sullo sfondo resti sempre l’idea di un
paese in guerra, minacciato, che per certi versi somatizza questo stato di
crisi ed emergenza permanente e, dall’altro, ne sia assuefatto. Questa
condizione permanente di precarietà sviluppa infatti in molti libanesi, e ne ho
conferma da persone che conoscono bene il Libano e da tanti colleghi giornalisti
che lo hanno frequentato, un’inclinazione al carpe diem, come se non ci fosse più domani e a prendere la vita
come degli eterni adolescenti. In ogni caso una lettura frizzante e attenta
allo stesso tempo a cogliere le sfumature di una società interessante e con non
pochi disagi.
La copertina del libro
Fraçois
Beaune
L’esprit
de famille - 77 positions libanaises
Éditions Elyzad, 2018
Pagg. 180 € 16,00
***
Libri
La vie devant
soi
Romain Gary alias Émile
Ajar
di Mila Fiorentini
Romain Gary
Un romanzo quasi senza
trama, un affresco di vita sociale e un quadro di solidarietà tra poveri per
certi aspetti di grande attualità e per altri inattuale, che si richiama a
molta tradizione letteraria, diventando al contempo un testo estremamente
moderno. Una vecchia signora accoglie in un clima agro-dolce ma sincero
“ragazzi di strada”. Il libro è la storia di un amore tra Momo, Mohamed, musulmano di incerta provenienza,
allevato quasi come un ebreo e Madame Rosa, curva sotto il suo peso che diventa
una metafora della vita. Rosa è una donna che non si lamenta ma che ha paura,
anche senza ragioni, perché non occorrono dei motivi per avere paura nella vita
ed è questo l’insegnamento più grande che il bambino riceve. Un racconto di
quotidianità spicciola che diviene metafora della difficoltà del vivere e
dell’unico valore: bisogna amare, sono le parole che chiudono il libro. Un
testo con una punta noir e qualcosa di disturbante, appena morboso, e di grande
interesse per il profilo stilistico della lingua, l’uso dell’argot che è
insieme popolare e colto, affondando le proprie radici nel francese medioevale
di prostitute e marinai, ben diverso dallo slang, il français branché del nouveau
roman che mima il linguaggio sgrammaticato dei giovani di oggi.
La vie devant soi è un romanzo d'Émile Ajar,
così si firmava in alcuni casi Romain Gary, a sua volta Pseudonimo
di Romain Kacev, libro pubblicato il 14 settembre 1975 con Mercure de
France che riportò lo stesso anno il premio Goncourt. L’autore
era nato nel 1914 in Lituania e nel 1928 si trasferì a Parigi. A trent'anni,
Gary è un eroe di guerra (gli viene conferita la Legion d'honneur) e scrive il
suo primo romanzo, Formiche a Stalingrado (1945), ispirato alla resistenza
polacca contro i tedeschi, che Sartre giudica il miglior testo sulla
resistenza. Comincia poi a lavorare come diplomatico per la Francia senza
abbandonare la scrittura tanto che nel 1956 vince il Gouncourt con Le
radici del cielo, ambientato in Africa, sulla lotta generosa di pochi
volonterosi contro la decimazione degli elefanti, cui seguono, tra gli altri, La
promessa dell’alba (1959), dedicato alla memoria della madre; Cane
bianco (1970), di contenuto antirazzista; e appunto La vita davanti a
sé; quindi Gli aquiloni (1980).
Fu
il marito della scrittrice Lesley Blanch e dell'attrice americana Jean Seberg,
dalla quale divorziò. Poco più di un anno dopo il suicidio di questa (settembre
1979, per ingestione di barbiturici), si diede la morte nella sua casa a
Parigi.
Il
romanzo La vie devant soi, pubblicato
in Italia come tutti i suoi romanzi da Neri Pozza, costituisce un’eccezione
nella storia del Goncourt per averlo conquistato già in precedenza, fatto
singolare così come lo pseudonimo. La sua vera identità fu svelata solo alla
morte dello scrittore malgrado i dubbi non fossero mancati. Romain Gary prese
questo nom de plume in un momento nel quale era molto criticato, anche per
ritrovare una certa libertà d’espressione. Curioso il fatto che la rivista Lire
criticherà aspramente Gary ma loderà Ajar.
Per timore che la questione finisca in tribunale Gary rifiuterà il
Goncourt fatto che d’altronde solleverà critiche aspre soprattutto sul Figaro e L'Aurore.
Il
premio in ogni caso era legato al libro più che all’autore. Il romanzo ha
conosciuto una certa fortuna anche se il personaggio è praticamente sconosciuto
in Italia ed è stato adattato per il cinema da Moshé Mizrahi nel 1977 con Simone
Signoret nel ruolo di Madame Rosa. L’attrice ottenne, tra
l’altro proprio per questo film, l’Oscar come migliore attrice nel 1978 e
il lungometraggio ottenne l’Oscar come miglior film straniero a Hollywood.
Altro adattamento per il grande schermo fu quello di Mommy de Xavier Dolan;
così come il libro si ritrova in qualche modo nel film Mon Roi de Maïwenn,
letto da Toni e interpretato da Emmanuelle
Bercot. Nel 2010 è stato adattato anche per la televisione e il
teatro.
Come
accennato, il libro presenta un mood drammatico, senza tragicità, esprimendo
infatti una solidarietà tra umili, con un lato un po’ disturbante e morboso,
quasi noir. Ricorda per alcuni aspetti I miserabili di Victor Hugo, citato
all’interno e anche La Trilogia della città di K di Agotha Kristof. Il racconto
è infatti sviluppato dallo sguardo del bambino
che non sa neppure se è algerino o marocchino e che racconta di vivere in un clandé, termine dell’argot che indica
una casa di prostituzione, un bordello. Allevato come un ebreo, ma con amore,
pur riconoscente a Madame Rosa, nata in Polonia, ebrea che conosceva anche
l’arabo e aveva riparato in Marocco, lascia trapelare una punta agro-dolce,
dicendo che per chi era “arabo”, vigeva in ogni caso il ramadan durante il
quale oltre il digiuno diurno erano escluse alcune pietanze prelibate per tutto
il mese. E la tenutaria sembrava goderne. La vicenda si svolge tra Belleville e
Barbès, a Parigi, quartiere di immigrazione dove arabi, ebrei e neri convivono
e racconta una storia che sembra quella dei nostri giorni in quanto
all’ambiente sociale sebbene la dimensione semi-clandestina dell’accoglienza e
in fondo la sua tenerezza ne denunci la distanza nel tempo. Madame Rosa come ebrea ha conosciuto Auschwitz e
si è difesa nella vita con la prostituzione a rue Blondel dove poi ha aperto
“una pensione per ragazzi senza famiglia che sono nati di traverso”. C’è
qualcosa di malinconico e di sinistro, un po’ grottesco in questa donna enorme
che di tanto in tanto si mette rossetto e parrucca rossa per uscire e sentirsi
ancora femminile e, insieme, estremamente materna. Il coprotagonista, voce
narrante, chiamato affettuosamente Momo, ha ormai quattordici anni anche se lei
gli fa credere che ne abbia solo undici, timido e animato da qualche curiosità,
non si sente troppo giovane per capire la vita e mostra una maturità di affetti
per la sua madre adottiva che accompagna fino alla fine e oltre. La solidarietà
diventa riconoscenza e il ragazzo non vuole che questa donna, che avrebbe
meritato un ascensore per sopportare sei piani di scale, come si dice nell’incipit
folgorante e di un’ironia sottile, finisca i suoi giorni all’ospedale dove gli
esseri umani vendono tenuti in vita a forza. Madame Rosa infatti non si lamenta
mai ma ha paura e per questo, come gli insegna, non c’è bisogno di avere delle
ragioni. Si tratta piuttosto di un’angoscia esistenziale che Momo dice essere
segno di intelligenza, probabilmente di consapevolezza e di grande sensibilità.
Racconto semplice eppure di grande spessore riveste a mio parere un interesse
soprattutto per la lingua con la quale è scritto, inframezzando nell’eloquio
molto argot e rendendosi così parte della tradizione del romanzo francese che
unisce l’analisi psicologica a quella sociale, com’è il caso del grande Honoré
de Balzac e del già citato Victor Hugo. Il profilo è in qualche modo popolare e
raffinato, insieme e offre un panorama di grande ricchezza linguistica.
La copertina del libro
Roman Gary
alias
Émile Ajar
La vie devant soi
Collection
folio
Mercure
de France, 1975
Premier
dépôt légal dans la collection 1982
***
POETI
SILVIO AMAN
Silvio Aman
NOTTE IN CITTÀ
Quando la notte veglia
appare ovunque un giallo incandescente,
inizio di una scena senza attori –
palazzi stranamente soleggiati
da una ribalta ambigua –
il sonno segregato dentro gli incavi,
tagliato a precipizio dai profili.
Oppure può trattarsi di un black out
per la bufera,
e il mezzo di scoprire – oltre i tetti –
il flusso galoppante delle nubi,
il guizzo del lampeggio
che mi apre lunghe gole al suo bengala.
Allora è l’entusiasmo,
e il sogno folleggiante che le invio,
da questa mia cornice,
subito esclama:
“Vieni, o città dipinta,
giungi con vasche ed alberi!”
***
LA LUCE DEI TUTÙ
(Eresia luminosa)
Nel quadro di De Gas
le piccole in tutù
rivelano ventagli di accensioni
con danze d’ombra sull’assito,
riverberi infiammati di un foyer
o come un ondeggiare di fogliami.
Senza di loro le bianche finestre
parrebbero voyeur
di lente e insterilite meridiane –
l’astro da solo è niente.
***
NARCISI, MA NON SOLO
(Tranfert)
Il mazzo dei narcisi
espande intensamente un desiderio –
c’è un senso di finito e d’infinito…
e a un tratto io lo sento in quel profumo:
è l’ansia di aspettarmi
quello che lei si aspetti anche da me…
Reciproco non è
che in moti di dissimile avventura:
cercare in noi, nascosto,
il sogno che ci muove.
***
SERATA A WILHELMSHAVEN
Più tardi, quando l’onda cala
e il suo residuo è il limo,
l’orrore cui le cose si rassegnano,
non so cos’aspettarmi –
il mare è così grigio
e tanto solo in questi suoi pensieri…
O è forse per l’ambiente dimidiato?
Resta, non so se per lusinga o meno,
l’acquatica empatia delle vetrine…
qualcosa in cui il tramonto – in abat-jour –
parrebbe anticipare nel diverso
l’umore mattutino dell’aurora.
Poi penso a Villa D’Este e a quell’abate
che mi trasforma in acqua,
ai tocchi gocciolanti del suo piano
e a quelle fontanelle da cui sprizza,
alterno e melodioso,
il suono scintillante della pace.
***
Libri
La vita in scacco.
Ancora sul libro di Zanini
di Marina Corona
Scacchiera
Nell'angolo severo i giocatori
muovono i lenti pezzi. La scacchiera
li avvince fino all'alba al duro campo
dove si stanno odiando due colori.
Su di esso irradiano rigori magici
le forme: torre omerica, regina
armata, estremo re, cavallo lieve,
pedoni battaglieri, obliquo alfiere.
Quando si lasceranno i due rivali,
quando il tempo oramai li avrà finiti,
il rito certo non sarà concluso.
In Oriente si accese questa guerra
che adesso ha il mondo intero per teatro.
Come l'altro, è infinito questo gioco.
Debole re, pedone scaltro, indomita
regina, sghembo alfiere, torre eretta
sul bianco e nero del tracciato cercano
e sferrano la loro lotta ramata.
Non sanno che il fortuito giocatore
che li muove ne domina la sorte,
non sanno che un rigore adamantino
ne soggioga l'arbitrio e la fortuna.
Ma il giocatore è anch'esso prigioniero
(Omar lo dice) d'una sua scacchiera
fatta di nere notti e bianchi giorni.
Dio muove il giocatore, e questi il pezzo.
Che dio dietro di Dio la trama inizia
di tempo e sogno e polvere e agonie?
La copertina del libro
Il libro di Claudio Zanini Il posto cieco, mi ha ricordato questa bellissima poesia di
Jorge Luis Borges. La vicenda del libro,
infatti, si muove su più piani: ci sono le strade di una città spazzata dal
vento dove si incamminano il giovane Carlo e la sua attraente zia Clara e poi, dopo un modesto
portone e una lunga serie di scalini, si apre una sala di teatro dove si
prepara uno spettacolo di varietà, ma ancora più in alto c'è una soffitta abitata
da inquietanti personaggi da dove si può guardare la sala del teatro osservando
tutti gli spettatori e gli attori come se si trattasse di pezzi del gioco degli
scacchi e in particolare da questa altezza si può vedere chi, fra il pubblico,
ha occupato il “posto cieco” quel posto sfortunato dove la visione dello
spettacolo è inibita dalla presenza degli altri che impediscono la visuale.
Da questa descrizione si può subito capire come
il romanzo di Zanini, che è peraltro capace di tratteggiare personaggi
caratterizzati e psicologicamente connotati, si muova su un piano di
riflessione metafisica che osserva, da un punto di vista globale, l'esistenza e
il senso del vivere degli esseri umani. Questo però nel romanzo non viene mai
detto, neanche nei dialoghi tra i singoli personaggi, non ci sono mai momenti
di riflessione teorica o di osservazioni esistenziali, tutto viene suggerito
dalla struttura del romanzo stesso che colloca il lettore in un luogo con più
prospettive.
Non a caso Zanini è anche pittore, infatti,
questo intersecarsi di diversi piani di visione ricorda molto da vicino le
combinazioni formali della pittura moderna con i suoi punti di fuga e le sue
diverse linee d'orizzonte.
La vicenda del romanzo si svolge nel trascorrere
di una sola giornata nel corso della quale i due protagonisti: il giovanissimo
Carlo e la sua seducente zia Clara decidono di recarsi ad assistere appunto allo
spettacolo teatrale. Questo si tiene ad un piano elevato di un vecchio palazzo,
i due attraversano dapprima i camerini
degli artisti che il lettore conoscerà da vicino con le loro caratteristiche di
guitti ma anche con la loro vicenda umana la quale tocca i diversi
registri che possono richiamare La
commedia Umana di Honoré de Balzac.
Preso posto fra il pubblico, Carlo e zia Clara si
trovano tra diverse persone che vengono via via presentate al lettore e che
costituiscono un variegato panorama dei vizi e delle doti umane messe in luce dagli atteggiamenti che i
singoli assumono nel corso dell'attesa e poi dello stesso svolgimento dello
spettacolo; fra questi personaggi ce n'è uno solo che occuperà appunto “il
posto cieco”, il posto dal quale la visione prospettica è inibita, a lui la
sorte ha riservato questa tutta singolare “cecità”.
Se finora abbiamo nominato Jorge Luis Borges e
Honoré de Balzac c'è un altro grandissimo che non possiamo fare a meno di
richiamare alla mente leggendo questo romanzo ed è Franz Kafka. Carlo e sua zia
si muovono, infatti, in un palazzo fatiscente e labirintico che ricorda molto
da vicino gli angoscianti meandri del castello kafkiano, ma inoltre essi fanno
singolari incontri lungo questi corridoi e queste scale, si imbattono per
esempio nei Polovesiani personaggi “Macrocefali, minuscoli per natura e
gentili” ma assolutamente enigmatici e sfuggenti, ma ancora oltre, quando Carlo
si troverà nella soffitta che consente una visione panoramica della platea e
del palcoscenico, si imbatterà in creature piccole e ambigue a metà tra il
mondo umano, il mondo animale e il mondo fantastico, sorta di crisalidi dal
fascino inquietante che si sono rintanate tra la polvere e le travi della
soffitta. Questi personaggi larvali hanno un fascino triste e nello steso tempo
vagamente minaccioso per la loro singolarità e, inseriti nei grigi androni del
casamento, richiamano i respingenti abitanti dei palazzi kafkiani.
La trama è composta quindi da voci diverse e da
protagonisti multiformi anche se tutto si muove davanti allo sguardo gentile e
innocente di Carlo, dando così a tratti al romanzo il tono di un romanzo di
formazione per le diverse esperienze che si susseguono alla vista del ragazzo
che ancora non conosce il mondo e lo viene via via esplorando. Non manca, in questa panoramica con tanti diversi
punti focali, l'elemento tragico, dove la miseria, l'avidità e la brutalità si
rovesciano in un crescendo violento e pericoloso e dove unico punto fermo, non
sempre però sufficiente, è l'amore. L'umile e dimesso sentimento in questo
brulicare di vita tenta un salvataggio del senso e del legame affettivo.
Alla luce di questo appassionante romanzo
possiamo così rispondere all'interrogativo finale della poesia di Borges: quale
dio muove i fili dei personaggi di questo mondo vivace e multiverso, questo
piccolo universo del vivere e del rappresentare? Se nella stesura del romanzo è
certamente l'autore colui che genera e poi dirige personaggi e vicende, nel
susseguirsi di queste all'interno delle pagine troviamo come deus ex machina un
caso nutrito molto spesso dalla miseria pratica ma soprattutto spirituale dei
personaggi tenuto però a bada dall'ingenuità, in un certo senso dall'innocenza
di chi guarda senza lasciarsi contaminare dall'ombra. Se c'è un personaggio nell'oscurità del
“posto cieco” c'è però anche un osservatore luminoso, curioso e candido che
mentre osserva fa sì che si svolga la trama di questa umana avventura.
***
Libri
Le parole e le lacrime
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro
Mi sono rimaste molte impressioni alla
fine della lettura di questo libro. Provo a sintetizzarle qui, così come
vengono, frammentariamente.
Innanzitutto colpisce la tenuta stilistica,
sempre coerente, della scrittura; ci si sente un lavoro accurato, paziente.
Lo
scritto ha una sua originalità rispetto a quello che comunemente si legge, a
quanto posso dire io, da profano. Ci sono riprese efficaci, veri leitmotiv. Il
soggetto che scrive non parla in prima persona, ma diventa il personaggio
principale di cui si parla (c’è una sorta di soggetto prima del soggetto?); vi
è un gioco di punti di vista e la loro mutevolezza dà profondità alla scena. Il
soggetto che scrive si stacca da sé, si raddoppia nel soggetto di cui scrive,
si prende alle spalle. Scrive e insieme si osserva scrivendo, riflette sul
proprio scrivere, e questo prende. Chi scrive si interroga sul se stesso che
scrive, sul senso del proprio scrivere - è una della cose più coinvolgenti per
me.
Il rapporto
elemento materno-scrittura è naturalmente fondamentale. Per qualcosa mi ricorda
Kafka (leggo con emozione a p. 62 “perduta dietro l’incanto della prima volta
che aveva letto Il processo”) alle
prese col padre, cui dà scritti che questi sottovaluta e mette distrattamente
da parte – fino alla lettera al padre (che però il padre non avrà, anche per
l’intervento della madre). Il problema del riconoscimento assume in questi
contesti giustamente un grande rilievo. Vi sono pagine dense, che danno molto
da pensare, non è un libro di facile consumo Le parole e le lacrime. Ci si mette un po’ a entrare nella storia,
a prima vista è lo stile che attrae; ma quando ci si è, tutto diventa più agevole.
Prende lo spessore “esistenziale” (non saprei trovare un altro termine): al
fondo sta il variegato tema della scrittura, l’intreccio scrittura-vita, il
tema della solitudine. Effetti umoristici serpeggiano per tutto il libro. Non
mancano però momenti di vero e proprio pathos. Tra i punti con cui mi sono
sentito in consonanza c’è il tenersi in disparte e insieme la nostalgia del far
parte: “Due versanti ha questo sentimento, quello del dispiacere e della
nostalgia di non esser proprio parte del gruppo, e quello dell’orgoglio per il
sentirsi differente e distante pronta a lasciare perdere tutti” (p. 27). Il
tema della morte (cui è dedicato il cap. 2): “… per la prima volta sa che
morirà come tutti, infelice e con dolore e sofferenza e senza trovare il senso,
e che magari faranno a gara a tenersi compagnia il più possibile, lei e il
marito, ma che non c’è rimedio e dunque non è nemmeno da temere che sarà
brutto, perché brutto sarà senz’altro. Brutto e basta” (p. 43). Poi tanti altri
particolari: le canzoni, Rembrandt, quello che le può esser rimasto di
Wittgenstein, su cui l’autrice si è laureata con Piana… Tutto assume una
luce diversa in questi giorni per Marialuisa Cavallazzi luttuosi.
Marialuisa Cavallazzi
Le parole e le lacrime
Ed. Mimesis 2015
Pagg.
129 € 12,00
***
LIBRI
GIOCARE A MANGIARSI
di Giulia Contri*
come forma dell'odio divoratore.
Narrare, gioco serio del
pensiero. Recensione di Giulia Contri
del romanzo di Mariano Bargellini,
Giocare a mangiarsi, [Effigie Editore, 2014]
Gioco al massacro. Bargellini gioca seriamente quando narra perché narra senza consentire,
e invitando a non consentire, nelle forme e nei temi, alla logica dell’editoria
che oggi, nella narrativa in specifico, supporta e promuove, come rispondente
ad una supposta domanda dei lettori, la banalità delle relazioni, e con essa la
teoria che non c’è rapporto soddisfacente. La banalità delle relazioni è la
forma dell’odio che le governa: non resta che mangiarsi, divorarsi.
Dove impera l’odio, cola il sangue. Si vedano i media che ostentano con le telecamere,
come quadro ormai inevitabile dei rapporti umani, “pozze di sangue negli
interni della gente normale”, “corpi stritolati
da avvinghiamenti spinosi, da abbracci irti di d’aculei”, “vittime
sfigurate gonfie livide per i baci maritali filiali fraterni”(1). Si veda il ‘sogno della piramide’, ove si parla di ‘’assuefazione
alla solitudine” di chi si relega “in una casa disabitata’, dove la “vita è
finita”, e le persone che l’abitavano, un tempo “corpi familiari”, sono ora
“immagini d’ombra” cui non si ha più ”accesso”. È “una vita che non fa storia,
senza frutto, senza senso”(2). Senza meta (il senso), e
senza frutto per questa meta, (il profitto), per i conviventi la convivenza è
gioco al massacro.
Cultura dell’odio. Con un romanzo che definisce sperimentale, innovativo rispetto alla
tradizione narrativa dell’’800 e del ‘900, Bargellini fa appello al lettore a
non indulgere alla cultura dell’odio, della banalizzazione dei rapporti: la
forma non è quella di una storia per eventi, l’assetto è immaginale per singole
metafore, iperboli ed allegorie reiterate, attraverso le quali un soggetto
narrante, “fabulatore”, si rappresenta, visivamente e razionalmente, per la
logica sociale che lo guida, agli occhi propri e altrui.
Con quella
rappresentazione il narratore coinvolge i lettori a porsi domande sul proprio
rappresentarsi, se per consenso alla, o per critica della, civiltà del farsi
fuori. Oltre a metafore, iperboli
ed allegorie, Bargellini avanza paradossi: così gli scrittori (e insieme
ciascuno di noi?), ad esempio, sanno paradossalmente (sappiamo?) di
accondiscendere alla logica del massacro della cultura, e nel contempo pensano
(pensiamo?) di non condividerla? Sanno (sappiamo?) di avere a che fare con una
contraddizione intorno alla quale si gioca la nostra posizione civile? Siamo,
cioè, scrittori o comuni cittadini, autonomi da fonti esterne che ci “dittan
dentro”, o siamo asserviti volontariamente ai loro dettami? “C’è una volontà di
occultamento trasmessa dall’alto, dalle superne sfere o stanze del potere” che
ci soggioga, o “è mio costume di scrittore la penna sul foglio o...i tasti del
computer usarli esclusivamente per la ricerca della verità?”(3).
Siamo tutti imputabili? Una metafora illuminante che il narratore propone per
provocarci è quella paradossale relativa al “fabulatore” della storia. Egli ci
racconta -afferma- “una storia vera”, di trasformazione reale, che egli ha
subito dalla comunità: una metamorfosi in cavalletta dal volto cheratinoso e
inespressivo, che ha perso, nella sua omologazione massificante ad altri altrettanto
trasformati in insetti senza più volto umano, i caratteri individuali da homo
sapiens. E però, a differenza di altri che hanno consentito a quella
trasformazione massificante, sa criticare come errore del pensiero la rimozione
della propria configurazione dai tratti umani, del proprio volto-pensiero
singolare, per occultarsi dietro una maschera neutra: “Nel buio della nostra
mente uno specchietto di chiaroveggenza
di solito opaco”(4) è
rimasto. O: “Dietro la maschera entomologica ci siamo noi, al postutto”(5). Siamo tutti imputabili?
Padreterno o Satana? La metafora principe del romanzo, però, che provoca il
lettore a ripensarsi per l’idea di legame sociale che ha in testa, è quella
degli insetti che, fattisi divoratori nella loro omologazione omicida,
fuoriescono dal videogioco virtuale per invadere la realtà reale. Il narratore
intende con essa suggerire che quegli insetti virtuali sono il corpo vivo di
una cultura che intende cooptare gli individui all’idea del massacro come inevitabile, facendone degli “uomini
dimissionari”(6), rinunciatari cioè rispetto al pensiero di una civiltà
del rapporto? Di quella cultura del massacro così prepotentemente dominante nel
mondo è ipotizzabile un “invisibile programmatore”, un “Padreterno” che “dietro
le quinte, giovandosi dei trucchi e degli effetti speciali dell’optoelettronica”(...)“da un’oltranza implacabile”(7)
impartirebbe i suoi “comandi” al pensiero, impedendogli di elaborare in libertà
un proprio positivo criterio di legame sociale?
O ad impartire i suoi
comandi sarebbe una “Meccanica Satanica”, un Diavolo “Principe delle tenebre”(8)
cui il pensiero umano non avrebbe la forza di resistere?
L’altare trema?
Il narratore si riserva, con questo romanzo, di raccontare in forme immaginali
potenti il versante folle di guerra su cui l’uomo è incamminato. Ne nullifica,
svuotandoli di senso, gli argomenti. Ne scopre gli altarini a sostegno
dell’idea che esista un altare (quelle “stanze del potere”, quelle “superne
sfere” presupposte) su cui sacrificare l’autonomia di giudizio di chi ama la
pace nei rapporti. Non c’è bisogno di invocare, suggerisce ironicamente il
narratore, né padreterni né diavoli a giustificare la servitù volontaria alla
teoria del massacro come forma inevitabile del legame sociale cui ci si è
votati: è il romanzo intero che muove a concepire una sovranità del pensiero in
grado di battere criticamente l’errore di pensiero in cui consiste quella
teoria.
[*Psicoanalista
Società Amici del pensiero Sigmund Freud di Milano]
Note
1.pag. 7
2.pag. 61
3.pag. 10
4.pag. 239
5.pag. 12
6.pag. 57
7.pag. 213
8.pagg. 106 - 107
***
LIBRI
Le
Passioni fragili
di Gabriele
Scaramuzza
Eugenio Borgna
Passioni fragili
sono in particolare quelle adolescenziali, tenui, evanescenti, esposte a ogni
vento, ma proprio per questo da tenere nella massima considerazione e da
seguire con la sollecitudine di cui necessitano, dato che i loro effetti
resteranno vivi tutta la vita. Il testo di Eugenio Borgna ha in questo il suo
centro, caratterizzante e nuovo; ma coinvolge anche temi psichiatrici ed
esistenziali che investono tutta la vita, e l’esistenza di molti.
Il
suo modo di procedere è squisitamente fenomenologico, e ispirato alla
psichiatria fenomenologica di Minkowski e di Binswanger. Se, come ha
efficacemente scritto Moritz Geiger, “scorgere le differenze è la passione
della fenomenologia”, Borgna esercita questa virtù con tutta la perspicacia e
la delicatezza che lo caratterizzano. È attento alle differenze, tuttavia è
anche sensibile al tessuto di relazioni che segnano lo sfumare dell’uno
nell’altro dei temi in gioco. Importante è cogliere la separazione, ma
altrettanto lo è la sensibilità per le zone d’ombra, in cui le cose sconfinano,
sfumano l’una nell’altra. Così malattia e dolore, silenzi e parole, emozioni e
passioni, normalità e follia, ansie e depressioni… sono da cogliere nelle loro
peculiarità, ma anche nei loro intrecci.
Un grande rilievo
assume nel testo di Borgna il tema del linguaggio e della parola. E soprattutto
è massicciamente presente la parola della poesia: colpisce e fa molto piacere
il ricorso intenso, costante, alla poesia: “La Psichiatria ha come sua ricerca
tematica gli sconfinati orizzonti della interiorità, della soggettività, che sono
anche quelli della grande letteratura, e della grande poesia, che aiutano la
psichiatria in questa ricerca”. L’arte della parola non è solo un campo di
conferma o di verifica di certezze acquisite altrove, ma anche un ambito di
scoperta in proprio, e di espressione, di verità insondabili, che non è
semplice mettere in luce in altri modi; è chiamata a testimone di strati del
vissuto cui su altri piani non si saprebbe dar voce. La letteratura ha
insurrogabili doti veritative, aiuta a capire meglio e a far emergere realtà
che altrimenti resterebbero misconosciute, o trascurate. Il mondo artistico per
Borgna costituisce un ambito affine, e una fonte di ispirazione e di
conoscenza, cui attingere, anche per allargare le esperienze cliniche.
È
difficile riassumere qui l’intera problematica, ampia, articolata che Borgna
tematizza. Mi limiterò a segnalare alcuni temi che mi sono i più congeniali, e
che mi paiono a tutt’oggi decisivi. Di formazione medica, psichiatra per
vocazione e per professione - vuoi nella ricerca vuoi in una lunga esperienza
clinica: la psichiatria, scrive, è “la disciplina che è stata la ragione della
mia vita”, - Borgna unisce alle sue competenze specifiche un interesse
raffinato per la poesia, il cui mondo mostra di padroneggiare magistralmente.
I temi della morte
e del suicidio, della malinconia e dell’angoscia sono visti attraverso il
filtro di grandi poeti che io stesso amo: da Georg Trakl a Guido Gozzano, da Emily
Dickinson a Rainer Maria Rilke… Clemente Rebora fu amico anche di Antonio
Banfi, nelle sue poesie Borgna scorge un peculiare “modo di vivere e di
rivivere l’esperienza lacerante del dolore”, espresso “con parole di alta e
profonda ispirazione lirica, e non solo cristiana ma umana”; le sue ultime
poesie vanno “ricondotte nella loro genesi al dolore e all’angoscia della
morte”. Allieva di Banfi fu Antonia Pozzi, cui Borgna ha dedicato non pochi
toccanti saggi. Scrive: “nella adolescenza Antonia Pozzi è ferita da paure e da
angosce, da esperienze interiori, che direi sconvolgenti, e che ne dicono la
sensibilità e la fragilità, il male di vivere e la radente disposizione a
guardare dentro di sé”. “La fragilità e la smarrita stanchezza di vivere, la
sofferenza e la nostalgia della morte, la malinconia come forma di vita, sono
state le premesse” ai suoi versi. Le sue poesie sono “scandite da una
malinconia intrecciata ad una smarrita e temeraria nostalgia della morte”, e
per questo associate all’angoscia.
Particolarmente
toccanti, ma anche tali da offrire ampia materia su cui meditare, sono le
pagine dedicate a quella che Borgna chiama la “psichiatria elegiaca” di Mario Tobino.
Si coglie bene la profonda simpatia che Borgna nutre verso questo grande
scrittore e medico. Egli tuttavia non gli risparmia qualche riserva,
soprattutto laddove entra in gioco il confronto con Franco Basaglia: “I suoi
libri sono immersi in una climax poetica che gli ha consentito di descrivere i
pazienti nella loro gentilezza e nella loro spontaneità, nella loro sensibilità
e nella loro nostalgia di vicinanza umana. Certo, egli non ha saputo
riconoscere la grande importanza dei fattori ambientali e sociali nel causare e
nel curare la sofferenza psichica”.
Della
scrittura di Eugenio Borgna, infine, colpiscono innanzitutto i modi, il ritmo
delicato, avvolgente, le scelte lessicali, le tonalità affettive. Quasi fosse,
lo scrivere, una continuazione con altri mezzi della terapia cui l’autore, da
psichiatra, ha dedicato tutta la vita. Qualcuno, non toccato in prima persona
dai mali dell’anima, ne trarrà un incitamento alla partecipazione, alla comprensione
verso gli altri, a una disponibilità che sta diventando sempre più rara.
L’animo di un lettore che sia stato anche solo sfiorato dal disagio psichico e
dal dolore ne uscirà confortato, troverà conferme del proprio vissuto, e anche
delle proprie attese. Chi dal disagio psichico è stato colpito nella propria
carne vedrà riconosciute, con sollievo, le proprie inquietudini.
Su più persone di
quanto si sospetti la scrittura di Borgna avrà comunque un effetto terapeutico,
quasi il lettore fosse lui stesso sottoposto, leggendo, alla cura che Borgna ha
sempre perseguito come proprio ideale. “Dovremmo esser consapevoli della enorme
responsabilità che le parole hanno in vita”, e Borgna lo sa bene. Se le parole
possono avere un uso curativo, questo vale anche per le parole dei saggi di
Borgna, per noi che le leggiamo, con intima adesione. “Al di là di ogni altra
possibile motivazione, anche questo libro ha come suo fine ultimo quello di
dilatare gli spazi alla comprensione della sofferenza umana, alle esigenze di
solidarietà e di comunione verso le persone che stanno male, e che hanno
bisogno di essere riconosciute nella loro fragilità e nella loro solitudine,
nelle loro nostalgie e nelle loro speranze, nel loro desiderio di ascolto e di
vicinanza umana”. E questo non riguarda solo persone malate; non meno riguarda
persone considerate “normali”.
La copertina del libro
Eugenio Borgna
Le passioni
fragili
Feltrinelli,
2017, pp. 238, € 18.00
***
Libri
LAZZARO
Il nuovo romanzo di Roberto Pazzi
di Angelo Gaccione
Roberto Pazzi
Gli
sparerà? Alberto Cantagalli, romagnolo, maestro di campagna, la sua
bella Beretta calibro 7,65 a nove colpi l'ha fatta revisionare. Di
esercitarsi si è esercitato: a casa del suo amico Andrea, romagnolo
come lui, e la mira è notevolmente migliorata. Da tempo cova contro
di lui un odio feroce: il tiranno, il mostro, lo stupratore della
democrazia, il pagliaccio che ha ridotto il Paese a zimbello del
mondo con la sua immoralità, il suo cinismo, la sua corruzione, la
sua mignottocrazia; che ha trasformato in puro spettacolo il
dibattito pubblico, a vaniloquio, grazie al dominio di una
videocrazia invasiva e pervasiva; che ha fatto dell'uso del potere la
via maestra dell'arricchimento personale e della propria supremazia,
intessendo rapporti loschi con le cricche di ogni dove, deve morire.
Leo Bonsi, è questo il nome del tiranno, e il paese ha bisogno di un
nuovo Gaetano Bresci che lo liberi dalla sua presenza e dal morbo
maligno che lo ha invaso.
In verità Vitulia non merita niente
perché dell'incantatore di serpenti che ora li domina e li
blandisce, gli italiani, per la gran parte, sono divenuti lo specchio
fedele.
Ma ora il dado è tratto e a Cantagalli
non resta che partire, con in tasca la Beretta, alla volta di Roma
dove l'odiato capo dello Stato vive, circondato da dodici “angeli
custodi” che ne assicurano la difesa giorno e notte. Ma gli
sparerà? Perché questo insistente interrogativo? Perché mentre
cresce nel lettore la sete di giustizia che l'atto eroico
dell'attentatore dovrà appagare, Cantagalli tergiversa, divorato da
dubbi e ossessionato da uno strano e inquietante sogno in cui il
cadavere di Lazzaro rifiuta la resurrezione, mentre un Cristo
inzuppato di pioggia tenta invano con le sue esortazioni di
risvegliarlo alla vita. E non solo. In una sorta di delirante
proiezione fantasmatica, Cantagalli che in realtà non vuole agire,
non vuole uccidere: “Se venisse qualcuno a ridestare anche me, a
innamorarmi della vita... un altro Cristo, che invitasse anche me a
risvegliarsi (…) per
tornare a volare...”
(come la farfalla dorata posata sulla testa bendata di Lazzaro nel
sogno), “Se venisse qualcuno a liberarmi da me stesso, a
innamorarmi ancora... ad arrendermi alla vita normale...”,
a quella beata normalità
tanto aborrita e insieme tanto cercata; qualcuno che
venga magari “a tentarci nella forma di un dialogo”,
perché gli uomini hanno bisogno di parole, della forza vivificante
della parola, del dialogo che vale più della luce, come ci insegna
Goethe nella sua favola, Cantagalli questo dialogo lo intraprende
davvero, lo intraprende nella maniera più confidenziale, con quella
entità (il suo doppio?) che dalla cacciata dall'Eden la tradizione
biblica individua nell'angelo ribelle, il Lucifero, il portatore di
luce. È
un dialogo, questo con Satana, con il Signore delle mosche, in cui i
confini fra bene e male si fanno incerti, e dove solide verità
vacillano o vengono ribaltate. Vengono ribaltate le nature stesse dei
dialoganti, in uno scambio di ruoli, in una metamorfosi in cui
Cantagalli finisce per tramutarsi nel Cristo eremita nel deserto alle
prese con il Diavolo tentatore che lo blandisce con le sue mille
suadenti lusinghe, e il Cristo stesso vorrebbe scambiarsi nel ruolo
di Satana seppure per il tempo di una mezza giornata.
Intanto
un altro Satana, rinserrato nel suo palazzo dell'Esquilino, il
dittatore sanguinario Leo Bonsi, riflette sulla sua condizione e
sulla sua solitudine. Solo come lo sono in fondo tutti i tiranni,
algido e separato come lo è il potere. La degradazione verso cui è
avviata la parabola oscena del suo declino sessuale di guardone,
mette il sigillo finale ad una impotenza sancita dall'inesorabilità
del tempo. Un successivo infarto ne minerà le capacità verbali per
una beffarda legge del contrappasso. Il puttaniere impenitente
ridotto all'impotenza, l'illusionista fantasmagorico dall'eloquio
suadente ridotto alla balbuzie.
Di
metamorfosi in questo romanzo di Roberto Pazzi ce n'è più di una.
Nel capitolo sesto della terza parte il Signore delle mosche apparirà
al Cantagalli sotto questa forma, e da mosca lo trasformerà per
portarlo in volo nella stanza del dittatore per mostrarglielo nella
sua natura di depravato. Nella stanza in cui troneggia un enorme
lampadario di Boemia, Cantagalli vedrà con i suoi occhi da mosca Leo
Bonsi alle prese con il sesso di due delle sue guardie del corpo. Nel
capitolo tredici della quarta parte Cantagalli sarà trasformato in
farfalla dal Diavolo. Una farfalla come quella del sogno, quella
rimasta a far compagnia a Lazzaro. È
una metamorfosi che gli permette di vagare per Roma, approdare in
piazza San Pietro e ascoltare una predica del papa a pochi centimetri
da lui. Ma soprattutto svolazzare sul bastione turrito di Castel
Sant'Angelo dove la statua dell'Arcangelo, che in realtà altri non è
che l'arcidiavolo Belfagor, si lascia convincere dal Demonio, a
prestare il suo aiuto nell'impresa di rapire con un atto di forza il
tiranno dalla sua stanza, ora che il suo tempo e scaduto e che un
colpo di mano militare lo ha spodestato dal potere e la Corte
Costituzionale lo ha dichiarato colpevole di alto tradimento. In
cambio il Diavolo gli garantirà la definitiva libertà e potrà
lasciare lo spalto del torrione in riva al Tevere, dove da secoli è
stato murato sotto forma di statua. Dunque alla fine Cantagalli non
sparerà a Leo Bonsi, ci penseranno Diavolo e Arcidiavolo a farlo
sparire. A lui sarà riservato di assistere alla scena, fino a quando
Teresa di d'Avila, la folle di Dio, la sposa del Signore, la mistica
che il Bernini ha impresso nel marmo carica di tutta la sua estasi
erotica e che vaga per la città eterna, non l'accoglierà nelle sue
calde mani tramutandolo in uomo.
Roberto Pazzi
Tutta
questa materia, in parte scopertamente contemporanea e cronachistica
facilmente decodificabile nei suoi personaggi e nel suo climax, nelle
sue pieghe e nei suoi accadimenti (Berluskaiser ed il berlusconismo
in primis), divenuta sostanza dell'antropologia della nazione
(biografia degli italiani, come si è poi detto fotografando il
periodo), si intreccia ad un'altra più complessa e solo in apparenza
metafisica. L'oscura vicenda di Lazzaro che a fine romanzo si
scioglie svelando una verità inquietante: Lazzaro in realtà era una
giovane donna, sorella di Marta e di Maria Maddalena, l'amante
carnale di Cristo, morta consumata dal troppo amore non corrisposto,
per il suo Signore. Quel suo non voler ritornare alla luce,
quell'ostinato rifiuto di ubbidire al miracolo della resurrezione,
quel corpo bendato dalla testa ai piedi, non doveva che preservare
questo mistero agli occhi del mondo, perché agli amori totali è
preclusa qualsiasi felicità. A far volare
ancora
la farfalla di Lazzaro, quella che si era impressa sul suo capo
bendato, miracolosamente identica alla farfalla in cui Cantagalli era
stato mutato; a riconciliare
quest'ultimo
con l'esistenza come aveva bramato, a innamorarlo
ancora
della
vita, penserà Teresa. Teresa con la sua passione totale, il piacere
che non aveva conosciuto e di cui era stata privata.
Il
romanzo di Pazzi, come si vede, mescola al verminaio oggettivo
della politica, elementi favolistici dalle forti rispondenze
allegoriche. Il teatro è la Roma attuale, ma attraversata e
richiamata attraverso i suoi luoghi più evocativi e simbolici. C'è
la Roma imperiale e c'è la Roma dei fasti papali; la Roma delle
chiese cinquecentesche e barocche cariche di memorie pittoriche,
musicali, architettoniche e c'è la Roma amata dai letterati di cui
sono rimasti segni nelle lapidi e nelle incisioni. Perché Lazzaro
è
anche un romanzo dalle continue allusioni alla storia, alla
letteratura, all'urbanistica, ai personaggi più vari che la cultura
ha sedimentato nella sua immaginazione di scrittore.
La copertina del libro
Roberto
Pazzi
Lazzaro
Bompiani
Ed. 2017
Pagg.
214 € 17,00
***
Libri
Un'insostenibile
voglia di vivere
di
Fulvio Papi
Il
libro di Gabriele Scaramuzza “Un' insostenibile voglia di
vivere. Frammenti di
memorie e riflessioni” è, nel
quadro della letteratura italiana contemporanea, un'opera del tutto
“inattuale”. L'aggettivo è rubato, come si capisce subito, a
Nietzsche e anche al suo senso. Non c'è bisogno di molte analisi per
giustificare l'aggettivo, è sufficiente ricordare in breve il
racconto: una progressiva esperienza affettiva che ripete in forme,
solo sulla superficie diverse, il disagio profondo del vivere di un
ragazzo e poi di un giovane che nasce (ma qui si dovrebbe essere più
analitici) dello stile sostanzialmente repressivo che l'io nascente
trovò nell'ambiente familiare, ripetuto nella scuola. La legge della
prestazione identitaria ha l'effetto in una natura incerta e
delicata, l'io nascente, di una solitudine incapace di costruirsi con
quel minimo di sicurezza che nasce proprio dalla relazione con
l'esperienza dell'alterità. Il ragazzo percepisce una insufficienza
di sé che nello sguardo degli altri appare come un giudizio di
conferma. Attraverso il tessuto di regole simili a quelle militari,
la madre apre al ragazzo una situazione educativa, la dimensione
maschile chiede invece il rifugio nel dolente silenzio del sé.
Potrei dire, con qualche incertezza sul mio sapere, che da qui nasce
una immaginazione del femminile come possibile riconoscimento e
quindi salvezza del sé. Credo sia una distorsione che si manifesterà
nei rapporti affettivi che emergono dal racconto.
Siamo
al liceo dove avviene nel giovane una parziale liberazione tramite la
consuetudine con l'insegnante di filosofia e storia (poi, aggiungo
io, un celebre estetologo universitario) che gli apre, si sarebbe
detto “la vita dello spirito”: letture letterarie e poetiche,
mostre d'arte, musica, architettura. Tuttavia l'equilibrio della
personalità era sbilanciato rispetto alla più generica educazione
del vivere comune. Tuttavia nella circostanza positiva di una
sublimazione che può diventare la forma stessa della vita, e,
tuttavia, è sempre esposta alla prova di quella occulta destinazione
di sé che è il rapporto con l'alterità, dove il se stesso della
sublimazione ha il desiderio di un riconoscimento che non è una
valutazione, ma ben più impegnativo un'attenzione e un affetto
femminile. Questa licenza inizia con un fallimento con una cara
compagna di banco. Sono storie da seguire al millimetro, e su cui c'è
poco da sorridere, ma qui ci accontentiamo di citare l'autore: “ho
collaborato attivamente a lasciar cadere un affetto”. Forse era
troppo forte l'assuefazione a una identità incapace di un passo al
di là di sé stessa. Poi l'autore vince un posto al Collegio
Ghislieri di Pavia. Un privilegio. E invece l'esordio è negativo:
prepotenze, sgarbi, talvolta vere violenze, qualche sfiorata amicizia
e infine, scrive l'autore, la “parentesi di Carla”. E qui
dissento del tutto dalla parola “parentesi”. Carla diventa
l'immagine di una centralità affettiva, di una ricerca di sé,
nell'approvazione amorosa della ragazza del proprio percepirsi come
soggetto mancante. A me questa storia, che non posso qui raccontare
nei suoi dolorosi episodi, ha fatto venire in mente l'ostinazione
amorosa dell' “io” protagonista nel bellissimo libro “Il
segreto” (di Giorgio Voghera)
“So il colore dei tuoi occhi, di quale biondo i tuoi
capelli, il tono della tua voce. Non i gusti, le preferenze, le
inquietudini”. Così accade
che l'icona estetica della ragazza diviene un'immaginaria terapia
affettiva di un “io” che si percepisce mancante. Carla non so se
percepisca esattamente questa situazione, ma certamente la interpreta
correttamente come un desiderio che di fatto, al di là della sua
immagine, esclude la sua vita ricca o povera che sia, in ogni caso
per Carlo “normale”. L'autore a suo modo ne è consapevole: “la
mia malattia si chiama Carla”. In questo ci si ammala perché non
esiste uno scambio, la ragazza dovrebbe parlare il linguaggio che
l'autore intrattiene con se stesso. La ragazza vive nella sua realtà,
si fidanza e il nostro autore recupera l'abitudine psicologica alla
rinuncia: le parole di Faust: “rinunciare tu devi
rinunciare”.
E
qui per l'autore si apre una frattura che è destinata a configurare
una natura psicologica: resterà una vita segnata da fallimenti
reiterati cui però si contrappone “una vitalità che stenta a
spegnersi”. Forse troppo nell'ombra nel libro, tanto da dare
l'impressione di una verità punitiva. Ora non posso riassumere gli
innamoramenti di una vita giovane che attraverso il reticolo degli
affetti cerca di crescere laddove più percepisce la sua mancanza.
Marta a Milano, Giulia a Padova, Hanna a Monaco. Naturalmente ogni
episodio ha le sue variazioni e i suoi casi, sempre psicologicamente
molto fini, sottili, eleganti che trovano, nella narrazione un
lessico scelto e maturo, pagine raffinate. E tuttavia, a mio
giudizio, in forme diverse si ripete la scena originaria con Carla.
Nel testo appare ora la storia di “Marco” che un lettore anche
non molto esperto, capisce come l'autore abbia voluto dare un doppio
drammatico di se stesso. Non credo che ne fosse bisogno. È
come una confessione che esagera il peccato. Ora toccherebbe a me.
Una scrittura limpida, talmente matura da far pensare a una distanza
della narrazione da quello che viene narrata. La scrittura, bene o
male, ha un suo tempo. L'autore è capace di analisi così minuziose
che la letteratura corrente ha quasi dimenticato. L'incertezza di sé
che si dipinge nel rapporto con le figure femminili, si ripete anche
nel lavoro universitario a Padova (felice invece la pausa a Venezia)
dove assiste alle aggressioni estremiste, senza peraltro riuscire a
sentirsi in una comunità: la sua strategia è quella di una persona
solitaria che, a mio parere, è sempre una relazione che interpreta
una oggettività.
Un
bel libro, raffinato, inattuale nell'epoca dei successi pubblici di
individualità apparenti e finalizzate all'applauso corale (con
eccezioni di valore). Se in una nota critica, posso avanzare
un'osservazione personale: non c'è troppo desiderio di punizione in
una vita che pure ha saputo dare a se stesso e ad altri, valori,
esperienze, educazione tutti positivi?
Gabriele
Scaramuzza
Un'insostenibile
voglia di vivere.
Frammenti
di memorie e riflessioni
Mimesis
Ed. 2017
Pagg.
200 € 18,00
***
Libri
Dino
Formaggio. Amo la tua anima. Lettere ad
Antonia Pozzi
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro
Ho ricordato
altrove, e lo riprendo qui, che in una mia ultima telefonata pochi giorni prima
della sua morte - a Convegno pozziano del novembre 2008 appena concluso -
Formaggio si rammaricò di non aver potuto esserci, e di non aver potuto dire
finalmente la sua verità sul caso Pozzi. Quasi non avesse ancora toccato lui
stesso il fondo delle cose, quasi la sua ultima parola non fosse ancora stata
detta, malgrado quanto lui stesso aveva scritto e più volte dichiarato.
Conservo tuttora il rammarico che la sua voce non si sia espressa fino in
fondo. Fosse avvenuto, ne avremmo tratto giovamento tutti, noi non meno di lui;
fare i conti onestamente con se stessi, anche di fronte agli altri, restituisce
dignità, e rispetto. Amo la tua anima
viene incontro alle mie attese, e insieme risponde a domande che la raccolta
delle lettere di Antonia a Dino pone ai lettori. Colma una lacuna (per quanto è
possibile, dato che insieme solleva altri interrogativi: lati di non-detto sono
inevitabili nei rapporti umani, soprattutto in quelli più impegnativi, come mi
fa notare Tiziana Altea), ed è perciò tanto più apprezzabile che venga ora
pubblicato; è encomiabile che la moglie, Adriana Zeni, con il valido aiuto di
Giuseppe Sandrini, lo abbia messo a disposizione del pubblico. Personalmente ne
ho tratto conferme, in una luce tuttavia in parte nuova, dell’immagine di
Formaggio che mi si è costruita dentro. Le lettere di Antonia Pozzi sono state
pubblicate sei anni fa (Soltanto in
sogno. Lettere e fotografie per Dino Formaggio, con la cura attenta sempre
di Sandrini, Verona, Alba Pratalia, 2011); mancava il punto di vista
dell’interlocutore, essenziale per comprendere l’intera vicenda. Ed ora eccolo.
Le traversie che hanno accompagnato lo scambio delle lettere e dei materiali
tra i genitori di Antonia e Dino poco dopo la morte di lei sono state
ricostruite da Sandrini (p. 99 e sgg.). Per nostra fortuna Dino (contravvenendo
al diktat del padre di Antonia) ha gelosamente conservato alcune lettere e
fotografie. Sarebbe ottimistico ritenere che lo scambio epistolare tra Antonia
e Dino sia ora completo. Le lettere che ci sono pervenute sono quelle sopravvissute
a contrastanti volontà, alla pressante richiesta a Dino di restituzione da
parte dell’avv. Pozzi, e alla sua successiva opera di distruzione o di
manipolazione: si può presumere abbia agito qui come ha agito con le poesie
della figlia.
Ed
ora vengo a taluni tratti rilevanti, nella mia ottica, del libro. Le lettere
sono molto dense sul piano affettivo; stilisticamente il tono di Formaggio è
alto, si può presumere consono alla lettura di poeti contemporanei da lui
amati, da certo D’Annunzio a una vena di futurismo. Lo lega a D’Annunzio una
sorta di vitalismo, ma più naturalmente e immediatamente corporeo, e più
hausmanniano. Vi sono elementi futuristi, anche sul piano lessicale: esiste una
contiguità tra certo futurismo e D’Annunzio. Qualche attrattiva D’Annunzio dovette
esercitarla (malgrado le ovvie differenze) su Formaggio: ricordo che fu lui a
portare mia moglie e me a vedere il Vittoriale, da Padova; ricordo il suo
atteggiamento curioso, attratto anche se critico, in quella visita.
Non
mancano poi nelle lettere cenni al mondo politico, temi esistenziali e
religiosi (sia pur di una religiosità per nulla confessionale): a un certo
punto Dino parla “del libro meraviglioso che si intitola ‘Vangelo’”. Colpisce
l’insistenza con cui torna la figura della madre, sempre intensamente amata da
Dino; e il rispetto per i genitori di Antonia. Già affiorano infine alcuni
punti cardine del suo futuro pensiero: dove dichiara che la sua “attività
centrale” certo sarà “nel campo estetico, ma di un’estetica che […] è troppo
umana per essere imbagolata tra i pettegolumi della critica d’arte” (71).
Traspare
anche chiaramente da queste lettere che al mondo degli studi (in cui pur operò
e più tardi si affermò) giunse tuttavia con difficoltà: non gli veniva naturale
da giovane, se lo imponeva come uno sforzo improbo e sterile. Basti pensare al
modo in cui si esprime con Antonia circa il lavoro per gli esami, per la tesi;
l’insofferenza che prova per questo. “Ora mi ha punto la spina della tesi e il
sangue che n’é uscito ha rigato di malinconia tanta felicità” (38). In questo
era diverso da Antonia (come attesta la bellissima lettera che gli inviò il 28
agosto del 1937 - la si può leggere in Soltanto
in sogno), che lo aiutò molto nel lavoro della tesi, con incoraggiamenti e
soccorsi concreti, anche con traduzioni dal tedesco, tra cui da Utitz (cfr. ad
es. le pp. 45, 65-66).
Ma
è il titolo (che riporta peraltro parole di Formaggio) per prima cosa a
colpire: sembra sottintendere una scissione dell’anima dal corpo. Ma davvero le
due cose sono così scindibili, anche per Formaggio? Non appartiene la
separazione a un’ideologia vetusta, e che comunque verrà poi superata nella sua
filosofia? Lo dimostra il suo successivo interesse, fenomenologico, per il tema
del corpo. In gioco qui è la personalità intera (in cui anima e corpo vivono
fusi) della Pozzi; in essa Dino sembra riconoscersi senza residui: “Amo la tua
anima Antonia – ma come un fiore vero – come i biancospini che stellano la
siepe della casa di mia nonna – come le folate pazze di sole dei papaveri del
grano, come una realtà viva con tutte le sue vene, una per una”(40). E poco
oltre: “io ti ritrovo Antonia, e ti sento carne e canto” (41): E ancora:
“grazie creatura Antonia. Io ho un ricordo di te che ti salva tutta” (77).
Bisogna
tuttavia aggiungere che certamente Antonia non appartiene al novero delle
figure di donne in seguito amate da Dino, di quelle almeno che ho conosciuto.
Tutte più avvenenti, quanto ad apparenza fisica. Certo, abbiamo solo foto di
Antonia, o brevissimi filmati; nulla sappiamo della sua presenza viva, vissuta
da Giovanni Maria Bertin come “dolcissima” (Noterelle
di un condiscepolo, in “Il canto di Seikilos. Scritti per Dino Formaggio
nell’ottantesimo compleanno”, Milano, Guerini, 1995, p. 99). Certo è possibile
che, malgrado il loro intenso legame spirituale, a Dino fisicamente l’amica
“non piacesse” (come egli stesso ha confessato una volta). Antonia non sapeva
valorizzare la propria femminilità, anche nel suo modo di vestire (indossava
vestiti costosi senza grazia, a detta di amiche sue – e anche questo è un
sintomo del suo modo di viversi). Possiamo dire che il modo di essere della sua
intera personalità non fosse tale da superare agli occhi di Dino altri aspetti
di Antonia, non gli rendesse plausibile l’idea di un matrimonio. A esso
peraltro Dino si dichiarava refrattario all’epoca, ed era sincero: “Mettermi
ora davanti al dilemma – o marito o nulla? - Ora? - Ma è almeno antistrategico.
Nulla, io debbo rispondere” (78). “Abbiamo una fratellanza di spirito
indiscutibile ed io vorrei indistruttibile. Non infrangere questi cristalli,
Antonia. […] E se io mi lego a te, a qualcuno, a chiunque, la mia vita è finita
nei suoi impulsi più alti, e la strada che mi ha accompagnato sin qui, mi
abbandonerebbe” (79). Ricordo bene quanto Formaggio si dichiarasse
recalcitrante a rapporti “per sempre”, almeno in un certo periodo della sua
vita. Agiva allora (a 24 anni, e a fascismo trionfante) sul fondo della sua
personalità una sorta di “anarchismo estetico”, che gli impediva di fissarsi in
una sola dimensione, di assolutizzarsi e di assolutizzare. Ricordo poi (ed
erano gli anni del fallimento del suo primo matrimonio), in una lezione liceale,
un suo accenno a Goethe, fatto valere a conferma della prospettiva di fuggire
da ogni amore che si prospettasse come unico, assoluto, eterno. In un momento
di sincerità (davvero molti anni fa) mi disse che, oltre all’arte, amava le
donne, al plurale, sopra ogni cosa. Contraddittoriamente, Formaggio contrasse
tuttavia due matrimoni: il primo (tardo-giovanile) con esito infelice, il
secondo nella maturità riuscito e tenuto caro, anzi valorizzato come esempio da
seguire.
Altrove
Dino, con ragione, parla (è Sandrini che lo riporta) di un “equivoco”, di “una
confusione di piani” tra sé e Antonia: “Questo nostro mondo era stato
fragilmente tessuto sui fili d’oro della nostra più pura spiritualità. È un
mondo d’infanzia, di sogno , di campagne fiorite, di carri, di siepi, di albe e
di tramonti, di campane, di strade bianche […] fuori da ogni possibile forma
comunemente umana” (104). E certo sorsero malintesi fra loro - di qui certi
rimproveri di Dino: “Sempre dell’acredine. Sempre delle malignità. Sempre voler
farmi dire e pensare a cose e fare cose che non faccio né penso”(74). Agivano
evidentemente in loro modi radicalmente diversi di vivere e progettare il loro
rapporto, un’idea diversa dell’amore, della donna. Nei suoi anni giovanili
sentiva certo come sua la dimensione estetica della vita, più che non quella
etica, se vogliamo rifarci alla nota distinzione kierkegaardiana. Antonia al
contrario tendeva ad assolutizzare ogni suo amore, a dargli durata e solidità.
Doveva esserle estranea la “leggerezza” di Così
fan tutte.
Era
in una dimensione “estetica”, per nulla intellettualistica, che Dino si viveva
da giovane. Per lui la vita sensibile aveva un’esistenza intensa, preminente:
“Io vivo molto più di sensazioni che di ragionamento” (48). Amava l’“avventura”
esistenziale e culturale (un punto di incontro con Antonia, ma da punti di
vista non identici evidentemente, fu il romanzo di Manfred Hausmann, che Antonia
aveva iniziato a tradurre): “Vagabondare vuol dire immergersi nella densità
aromatica e sonora della vita”(47).
Dino
Formaggio
Amo
la tua anima. Lettere ad Antonia Pozzi
a cura di Giuseppe Sandrini
con la collaborazione di Lucia Pretto
Verona, Alba Pratalia, 2016, pp. 128, s. p.
***
Quel signore del ’53
CASSOLA. NEL CENTENARIO DELLA NASCITA
di Gian
Carlo Ferretti
Per
ricordare lo scrittore Carlo Cassola, nel centenario della nascita, 1917-2017 abbiamo
chiesto al critico Gian Carlo Ferretti questa testimonianza.
Carlo Cassola
Il mio primo incontro con Carlo Cassola risale all’inizio del 1953,
quando mi ero appena laureato a Pisa. Qualche anno prima insieme ad alcuni miei
coetanei studenti e operai, avevo fondato a Pontedera (dove vivevo) un circolo culturale,
come reazione a una provincia tanto vivace politicamente quanto culturalmente
torpida. Ci muovevamo tra il PCI e la «terza forza» su una comune piattaforma
laica (nella «terza forza» si riconoscevano, per dirla sommariamente, coloro
che in Italia non si schieravano né con le sinistre né con i partiti
centristi), ma all’inizio dovemmo accettare l’offerta di una sede da parte
delle ACLI, che ci costrinse a una serie di autocensure sia nei programmi sia
nella scelta delle riviste per la sala di lettura: dove per esempio non poteva
figurare «Belfagor», la rivista del mio maestro Luigi Russo, che fin dalla sua
testata demoniaca veniva considerata estremamente pericolosa dalle autorità
democristiane e religiose locali. Ben presto allora ci trasferimmo nella sede
della costituenda Biblioteca comunale, messa a nostra disposizione da una
giunta socialcomunista che non ci condizionò mai. Fu un’esperienza
straordinaria, per noi e per quegli anni pontederesi, attraverso un fitto
programma di conferenze, dibattiti. Memorabile una serata con Danilo Dolci.
Il carteggio di Cassola con Gaccione
Il circolo fu molto
osteggiato dai benpensanti e dalla parrocchia di Pontedera. Ci consideravano
una sorta di gioventù perduta, e noi per scherzosa e polemica sfida cantavamo
«Noi siam come le lucciole, viviamo nelle tenebre...». Un giorno arrivò a
Pontedera un signore, che raccolse informazioni sulla vita sociale e politica
della città, e sulla nostra attività culturale. Era Carlo Cassola, che qualche
giorno dopo pubblicò sul «Mondo» di Mario Pannunzio, giornale da noi molto
amato, un servizio di prima pagina, nel quale il nostro circolo veniva indicato
a esempio. Ci sentimmo tutti onorati e commossi. L’intera vicenda del circolo
culturale sarebbe diventata quasi leggendaria nella storia della città, e avrebbe
trovato un continuatore e uno storico in Romano Luperini, più tardi docente di
Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Siena.
Carlo Cassola
In quello
stesso 1953 mi trasferii a Milano per lavorare prima al “Calendario del popolo”
e poi all’ “Unità”, pubblicando articoli di critica letteraria e di analisi
dell’editoria libraria anche su “Belfagor”, “Rinascita”, “Il Contemporaneo” e
altre riviste. Nel 1964 pubblicai il mio libro di esordio Letteratura e ideologia, composto dalle prime monografie complete
di Bassani, Cassola e Pasolini. Di Cassola ho sempre amato i racconti degli
anni quaranta e cinquanta, mentre ho avuto crescenti riserve verso la
successiva produzione di romanzi, perché la vedevo viziata da un processo di «dilatazione»
con effetti di ripetitività. Dalle sue pagine maggiori emerge tra l’altro una
figura di donna gelosa del suo nucleo sentimentale ricco e segreto, ferita
continuamente dal mondo degli uomini (e dalla storia), ma armata di una strenua
autosufficienza. Un personaggio di indubbia novità e coerenza nel Novecento
italiano. Con Cassola,
dopo la memorabile e fugace venuta a Pontedera per conto del «Mondo» nel 1953, non avevo avuto più
contatti. Finché dalla seconda metà degli anni cinquanta, prima in relazione ad
alcuni miei scritti critici e poi per la preparazione e pubblicazione della
monografia, ebbi con lui un ampio carteggio e molti incontri. Era un
conversatore acuto e spiritoso, anche quando parlava di sé. Ricordo che una
volta mi disse: «Vedi, per uno scrittore toscano non si scompone
nessuno, mentre uno scrittore triestino lo prendono sul serio tutti».
Cassola giovane
In generale poi nei nostri rapporti si dimostrò sempre «un vero
signore », come si diceva una volta. La sua correttezza, gentilezza,
disponibilità, simpatia mi avrebbero colpito sempre: insieme alla capacità di
accettare o discutere critiche anche severe con equilibrio, distacco, e senza
l’ombra di un risentimento polemico. Me
ne resi conto ancor più nel 1983 con il mio pamphlet Il best seller all’italiana, dove il Cassola dei romanzi era uno
dei principali bersagli, come rappresentante di una letteratura di consumo
medio-alto. In seguito ho maturato un progressivo ripensamento autocritico
sulla consapevolezza che Cassola ha avuto della propria collocazione e del
proprio ruolo, nell’editoria e nel mercato letterario italiano, anche se ho
mantenuto le mie critiche sull’involuzione letteraria di molte sue opere. Mi
sono venuto cioè convincendo, grazie a certe sue lettere, a certe sue
dichiarazioni e al suo comportamento complessivo, che a partire dalla Ragazza di Bube (1960) la sua produzione
narrativa sempre più serrata e la crescita del suo personaggio pubblico, non derivarono da una personale e intenzionale
strategia di successo. Cassola in realtà subì inconsapevolmente la logica di un
mercato che in fondo non capiva, e che viveva come ossessivo bisogno di lettori
e di pubblico. Cassola insomma fu sì un protagonista, ma anche una vittima
innocente dei fasti e dei clamori del « mercato delle lettere » tra gli anni
sessanta e settanta. Una riprova è stata, dalla fine degli anni settanta, la
sua progressiva e poi definitiva rinuncia a quel ruolo, e la scelta di un «
impegno » antimilitarista estremo che lo ha emarginato e isolato, al punto che ai suoi funerali nel 1987
non si è presentato nessun rappresentante di quell’editoria che grazie a lui
aveva realizzato ottimi fatturati.
[Questa testimonianza è basata su alcuni
stralci, in parte riscritti e integrati, della mia autobiografia Una vita ben consumata. Memorie pubbliche e
private di un ex comunista, Aragno, Torino, 2001]
***
Pasolini
e l’avanguardia
di Gian Carlo
Ferretti
Pier Paolo Pasolini
Questo libretto curato da Angelo Gaccione
e Giorgio Colombo Intervista a Pier Paolo
Pasolini. Torino 1961, nasce da una bella iniziativa: dal recupero cioè di
una registrazione fatta a Torino nel 1961, in occasione della presentazione di Accattone da parte di Pasolini,
accompagnata da un articolo di Carlo Levi. Una edizione che è anzitutto la
conferma della inesauribile miniera pasoliniana. Come è ben noto da
anni continuano a uscire in Italia e all’estero le pubblicazioni di
inediti spesso preziosi. Lo si può
spiegare con almeno due motivazioni: la straordinaria complessità delle
esperienze intellettuali di Pasolini: poeta, narratore, critico letterario,
linguista, teorico del cinema, regista, giornalista, artista e anche politico
di una sua anomala e originale politicità; e la molteplicità dei suoi
interventi, presentazioni, dibattiti, partecipazioni pubbliche. Questa sua
intervista è caratterizzata (come tante altre) da un tono vivace, discorsivo,
diretto, e al tempo stesso da una varietà e ricchezza di problemi. Vi si parla
molto di cinema naturalmente, per l’occasione da cui nasce. Interessanti per
esempio le riflessioni sulle analogie e differenze tra romanzo e film, tra
scrivere e girare, che ci fanno entrare nel suo laboratorio creativo. Ma nell’intervista vengono affrontati
importanti temi generali, tra fasi superate e anticipazioni di fasi future. C’è
un’evocazione del suo Friuli contadino e della poesia dialettale degli anni
quaranta, che vedono nascere l’eresia del peccato innocente. C’è la contrastata
tensione razionale, che sottintende il motivo centrale delle Ceneri di Gramsci (1957), con la celebre
terzina rivolta alla tomba di Gramsci appunto: “lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te
nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere.” E c’è un motivo insistente,
quasi ossessivo, sollecitato anche dai suoi giovani interlocutori, e cioè la
ricerca di una formulazione nuova della categoria di “avanguardia”, che
anzitutto esclude l’ “avanguardia sperimentalistica” anticipando così la sua
condanna del Gruppo 63.
Pasolini cerca di ipotizzare, di definire e di far
propria l’idea di un’avanguardia impegnata, civile, democratica, con uno sforzo
che si rivela poco producente, per la carenza teorico-critica del suo discorso
e per un’oggettiva difficoltà: la natura intrinsecamente elitaria di ogni
avanguardia rispetto alle istanze popolari.
La sua ricerca (paradossalmente e sorprendentemente) lo porta a sottovalutare
la dirompente carica innovativa di Ragazzi
di vita (1955), e a sopravalutare la struttura tradizionale e la
programmaticità ideologica di Una vita
violenta (1959).
Molto più significativa la lucida analisi della
contraddizione interna alla crescente diffusione della cultura in Italia, negli
anni del boom economico. Diffusione che, dice Pasolini, reca in sé due fenomeni
opposti: la democratizzazione ed emancipazione delle masse con un ruolo attivo
dell’intellettuale di opposizione, e il consumismo del mercato neocapitalistico
con una sostanziale integrazione della sua produzione. Questa contraddizione Pasolini
si trova a viverla fino alla morte, nella sua stessa personale e complessiva
esperienza intellettuale, che lo vede muoversi sempre più tra persecuzione e
successo, tra ritornanti attacchi,
censure, processi giudiziari, aggressioni contro di lui, e una contemporanea
affermazione e fortuna delle sue opere e del suo personaggio pubblico nei mass media, nella società e sul mercato. In
questo senso il suo scandalo è al
tempo stesso provocazione, contestazione, trasgressione, e accettazione (se non
ricerca) di una attenzione, enfatizzazione, successo da parte del mondo
dell’informazione, del pubblico e della critica. Ci sono del resto due autorevoli e
insospettabili testimonianze, che colgono questi due risvolti fondamentali, pur
sottovalutando la partecipazione di Pasolini
alla costruzione del suo personaggio, documentata da tanti
scritti ed esperienze, e smentite solo formalmente da certe sue dichiarazioni
contro il successo e contro il mercato. Gli scriveva Gianfranco Contini (il
grande critico che lo aveva scoperto e valorizzato) nel febbraio 1962: “ Tempo
fa sono passato da Casarsa […], e ho pensato al P.P.P. che Lei rimpiange, ma io (nonostante qualche
tentazione psicologistica) non altrettanto, perché dopotutto il pedaggio anche
gravoso l’ha pagato per sicuri guadagni. Solo io credo che Lei dovrebbe
difendersi meglio, non dalla “notte brava”, ma dalla “dolce vita” che
l’assale (e peggio se per via amica),
perché, se noi pasolinisti della prima ora non possiamo affatto presumere che
il vero Pasolini fosse quello […], avremmo forse qualche diritto a che non diventasse
un mito di paparazzi.” E il suo amico, cugino e studioso Nico Naldini così
scriverà nel capitolo 1964 della sua biografia del 1989: “La figura pubblica di
Pasolini, che si è andata via via costruendo anche contro i suoi desideri,
continua a esporlo ad ogni sorta di attacchi, dai quali non si ripara mai
prudentemente, ma anzi egli stesso li provoca con insistenza. Sia che si tratti
del dibattito su un libro o della presentazione di un film, scende
letteralmente dalla cattedra per
controbattere con lucidità ossessiva le provocazioni di quella parte del
pubblico che lo confuta con un delirio di tensioni e di violenza. Qualsiasi
occasione basta a scatenare l’aggressività di questo pubblico […].”
La copertina del libro
Intervista a Pier Paolo Pasolini
(Torino 1961)
A cura di Angelo Gaccione e
Giorgio Colombo
Ed. Orizzonti Meridionali,
2016
Pagg. 64 € 5,00
***
Libri
di Vincenzo
Guarracino
ANITA GUARINO SANESI
Anita e Roberto Sanesi nel loro giardino a Milano
Un libro su un
poeta e sulla (sua) poesia, Di te, di me,
dell’albero, edito da ExCogita di Milano. Un libro di poesia, abitato da un
grande fuoco, quello dell’amore-poesia, che fa di quest’opera, veramente
commovente e coinvolgente, ben più di ciò che sembrerebbe a prima vista
promettere, un saggio cioè biografico-critico. Il poeta è Roberto Sanesi,
scomparso troppo prematuramente all’alba del nuovo millennio, il 2 gennaio del
2001: uno che ha incarnato agli occhi di molti (quorum ego) la capacità di dar voce, polimorficamente, in modo plurimo e prismatico, alla poesia
intesa come ricerca ed esperienza di senso, come messa in gioco di sé in
territori vastissimi, dalla poesia, alla critica d’arte, alla traduzione, sulla
scena della nostra inquieta contemporaneità.
L’Autrice
ne è Anita Guarino Sanesi, che, sua compagna di una vita, ha goduto
dell’impareggiabile privilegio di esserne stata depositaria di pensieri, sentimenti,
confidenze, progetti, sogni, che qui vengono disseminati come perle in un testo,
che ha l’andamento intermittente e irregolare dei meccanismi della memoria
accendendosi a tratti di commozione soprattutto nella conclusiva riconferma
dell’impegno a “mantenersi degna” di un lascito intellettuale e morale
assolutamente eccezionale, riannodando attraverso la scrittura i fili di una
vita, di una “storia”, unica e tutt’altro che “immaginaria”.
Concepito
come “una lettera
mancata che non ha fine” indirizzata idealmente al marito, Di te, di me, dell’albero, dal titolo
bellissimo, tratto da un testo di Roberto, ha il pregio di mettere da subito in
evidenza ciò che il libro contiene, una storia che, ancorché privata e
personale (“di te, di me”), fatta di solidarietà e complicità sentimentale, si
allarga ad abbracciare un sistema vastissimo di rapporti familiari e
intellettuali (letterati e artisti tra i più
prestigiosi del ‘900, da Eliot, a Berio, a Cecchi, e via via Dorfles, Michaux, Paci,
Pivano, Pomodoro, Quasimodo, Schwarz, Guanda, Strehler, Sutherland, Tilson,
Vittorini, e tanti altri), che ne fanno il quadro di un’epoca nell’arco di
mezzo secolo.
Il risultato è il diario di una vita, costruito per frammenti, con
i materiali incandescenti della memoria, cui non nuoce l’assenza di un rigoroso
ordine cronologico, agiti come sono, ad espansione, da una sorta di meccanismo
metonimico.
A farla da padrone, in tutto questo, è logicamente il
protagonista, Roberto, ma un ruolo assolutamente non secondario lo gioca
l’autrice, che si rivela “una protagonista, una vera partecipe dell’arte e
della poesia in fieri del marito”, come sottolinea nella Prefazione per Anita Gilberto Finzi, e
come lei stessa proclama in apertura, rivendicando con orgoglio il suo spazio
accanto a “un uomo”, “che ho
accompagnato per tutta la vita”. Anche se in una posizione in apparenza
defilata e marginale, “spettatrice inconsapevole di se stessa”, Anita si rivela qui interamente calata nella sua parte di
moglie e compagna, svolta con amorevole devozione, come gli era stato
riconosciuto dallo stesso Roberto in una delle ultime uscite pubbliche al
Teatro Arsenale nel novembre del 2000. Preziosa custode di memorie, ci illumina
su fatti fondamentali della sua vita: ci informa sugli anni giovanili, sulle
incertezze e difficoltà degli inizi, sui successi e le delusioni che ne hanno
costellato la vita e soprattutto su certi fondamentali episodi, come l’incontro
con T.S. Eliot, un vero punto di svolta di una carriera intellettuale straordinaria.
Il tutto con l’amarezza a stento dissimulata di non poter incidere più di tanto
nel contrastare il tempo perduto, un fatto questo che ci fa ritenere questo
libro come un essenziale tassello alla scoperta, oltre che di un Poeta tra i
maggiori che abbiamo avuto la ventura di conoscere, di una Donna di umanissima
sostanza.
La copertina del libro
Anita
Guarino Sanesi
Di
te, di me, dell’albero
ExCogita Editore, Milano 2014
Pagg. 263, € 18,50
***
LIBRI
L’ODORE ACIDO
DI QUELL’ANNO
di Carla Battistini
Paolo Grugni
Leggendo il romanzo di Paolo Grugni “L’odore acido di quei giorni” (giunto
ora alla quarta edizione in concomitanza con i 40anni del ’77) risulta
difficile non ‘innamorarsi’ del protagonista Alessandro Bellezza. Un antieroe
che riesce ad ammaliare sin dalle prime pagine, forse per suo vissuto contorto,
forse per la singolare professione che svolge: quella di recuperare i cadaveri
degli animali uccisi lungo le strade dell’Emilia che collegano Persiceto a San
Giacomo del Martignone. Un lavoro solitario svolto in quelle ore della notte in
cui il mondo sembra fermarsi e nel silenzio assoluto di un mondo addormentato,
Bellezza diviene metaforicamente un salvatore di anime in una provincia
sonnacchiosa, dove si vive di riflesso la tragicità di sanguinosi eventi
politici che stanno cambiano la storia della Repubblica italiana. Il
protagonista è in bilico fra il suo vivere quotidiano, inquieto e sofferto,
sempre in lotta con i fantasmi del suo io (fu coinvolto suo malgrado in
un’operazione delle Brigate Rosse), e i fantasmi che si aggirano in quella
realtà di provincia, dove si dice e non si dice, dove tutto si sa ma si
dimentica anche presto. Dapprima il ritrovamento di una donna nelle neve e
successivamente l’omicidio di un insegnante sono il bandolo di una intricata
matassa di eventi che si allargano a macchia d’olio: la città di Bologna e la
sua provincia vengono così unite da una travolgente trama noir, dove le vicende personali sono strettamente correlate alle
vicende politiche (la caccia a un terrorista di Ordine Nuovo) in un crescendo
di tensione che spinge il lettore a immedesimarsi con il narrato e a farsi esso
stesso ricercatore di “verità”. Ciò che colpisce maggiormente in questo romanzo
è quindi il vivido ricordo degli anni ’70, anni difficili, anni di piombo, anni
di terrorismo rosso e nero. Mantenere la memoria del passato, in questo caso
del ’77, tre mesi (da gennaio a marzo) intricati, ribelli, creativi, la cui
opposizione a un asse politico come quello DC-PCI fu stroncata dai carri armati
mandati da Cossiga, allora ministro dell’interno. Proprio per questo a Grugni
va riconosciuto il merito di averne mantenuto la memoria, perché il passato è elemento integrante della
crescita dell’essere umano e, in maniera più ampia, della società, dimenticarlo
o rinnegarlo sarebbe un grave ed imperdonabile errore. A Grugni va anche il
merito di scrivere in maniera lineare, mai pomposa od artefatta, le sue
descrizioni sono piccoli componimenti poetici di riconoscibile valore lirico,
le parole dosate e mai eccessive riescono a restituirci un affresco letterario
di quei giorni acidi (l’odore dei lacrimogeni), i suoi scritti li sentiamo
vicini, in qualche maniera ci appartengono. E non è poco.
La copertina del libro
Paolo Grugni
L’odore acido di quei giorni
Laurana
Editore, 2017
Pagine 312; euro 15,90
***
LIBRI
Belluomini.
Nel campo dei fiori recisi
di Vincenzo
Guarracino
Francesco Belluomini
È un autore,
Francesco Belluomini (Camaiore, classe 1941), aduso a guardar in faccia la
realtà e dir la sua, in prosa e in versi, con fierezza e franchezza tutta
toscana, senza concessioni al sentimentalismo, fedele sempre a un principio che
fa del rispetto della memoria la sua peculiare misura morale, il suo fulcro
espressivo e concettuale.
Solo
per restare ai suoi libri più recenti, Sul
crinale dell’utopia (2013), Intimi
riflessi (2015), romanzo, il primo, e poema, il secondo, cortocircuiti
sentimentali ed espressivi danno vita a una complessa elaborazione del proprio
esserci nel reale, nel primo caso di fronte ai disastri ideologici del recente
passato (nello specifico, il “tradimento” di ogni utopia, di ogni attesa
palingenetica della Rivoluzione sovietica), nel secondo nella scoperta della
propria nudità di fronte alla morte delle figure fondanti del proprio sistema
sentimentale più profondo. Una sorta di elaborazione personale e civile del
lutto, non diversamente da quanto aveva fatto nei versi forti e civili di Nell’arso delle sponde per le vittime del tragico incidente della stazione
ferroviaria di Viareggio, nella notte del 20 giugno del 2009, un’autentica
Spoon River civile come pochi altri sanno fare (esattamente come anni prima
aveva fatto per le vittime dell’eccidio nazista di Sant’Anna di Stazzema, con Le ceneri rimosse. L’eccidio di
Sant’Anna, 1989).
È questo stesso
spirito che riscontriamo ora nel romanzo più recente Nel campo dei fiori recisi, Aracne, Roma 2017), che ripercorre
“scampoli di Olocausto”, come dice il sottotitolo, mettendo in scena un
episodio oscuro, quello di Sonia Contini, rimasto ai margini della storia della
deportazione ebraica e fatto riemergere oggi dal suo storico letargo come atto
di civile sovversione nei confronti dell’inumanità della vita, per mano di chi
nella memoria fermamente crede come in una risorsa energetica e vitale e non
vuole dimenticare. Vengono, infatti, ripercorsi tragici eventi: le giornate di
quel marzo del 1944, in cui la famiglia Contini, al pari di molte altre, fu
strappata dalla propria casa livornese per intraprendere un lungo viaggio senza
ritorno, verso i campi di sterminio, a salvarsi dal quale saranno solo due
sorelle, Sonia e Daniela, che, nonostante la giovane età, riusciranno a
sopravvivere con matura tenacia scampando al genocidio dell’Olocausto.
A raccontare
questa lunga odissea del dolore è Sonia, che, a distanza di anni, rompendo il
doloroso silenzio di una vita, si presta a rievocare in uno straziante
“memoriale” il lungo percorso che l’ha portata dal campo di concentramento fino
ai lontani paesi polacchi, facendo riemergere ricordi sepolti, ma non rimossi e
cancellati, ridando spessore a figure lontane attraverso la storia della sua
adolescenza, spesa dietro il filo spinato del lager di Birkenau.
Un
atto di giustizia, dunque, questo libro, che tocca con la forza della sua
verità e del suo linguaggio, non meno di quanto avviene in un altro
“memoriale”, quello della comasca Ines Figini (“Tanto tu torni sempre. La
vita oltre il lager”, a cura di G. Caldara e M. Colombo, Melampo Ed. 2017)
che qui mi sembra utile citare.
È
a questa esigenza, di rispetto della verità, che Belluomini presta la sua
penna: non per trovare “la ragione del piangere”, i fatti sono di per sé
eloquenti, ma per ridare dignità alle vittime di ogni violenza, al di là di
ogni perdono, per “guardare avanti” con serena fierezza e fiducia.
La copertina del libro
Francesco
Belluomini
Nel campo dei
fiori recisi
Aracne
Editrice, Roma 2017
Pagg.
265, € 15,00
***
LIBRI
LA PITTURA DI FRAGIACOMO
di Gabriele
Scaramuzza
Pietro Fragiacomo
È davvero encomiabile
il lavoro compiuto da Andrea Baboni per l’edizione di questo denso volume
dedicato a Pietro Fragiacomo, uno dei più sensibili e accattivanti pittori
della seconda metà del nostro Ottocento. Il libro è frutto dell’opera di Andrea
Baboni, ed è articolato in più parti. Lo scritto da Baboni ci aiuta
innanzitutto a penetrare nella biografia di Fragiacomo e nelle diverse fasi
della sua pittura, ma insieme ha un respiro ampiamente culturale che permette
di collocarlo nel periodo storico in cui visse. Toccanti non sono solo le
pagine dedicate alla vita, ma anche quelle recanti a titolo Pietro Fragiacomo, cantore delle “luci di
mezzo” (che riguardano la formazione, la maturità e l’ultimo drammatico
decennio del pittore). Baboni tocca innanzitutto con maestria la sostanza della
pittura, ma al tempo stesso non trascura il contesto in cui Fragiacomo si formò
e la risonanza che ebbe ai suoi tempi e negli anni successivi. Massimo pregio
del libro è il catalogo delle opere, corredato da note esaustive, frutto di una
fatica da parte di Baboni che non deve sfuggire. Per chi semplicemente ama
sfogliare il volume, riprenderlo in mano da non specialista e goderne, le
pagine più attraenti sono com’è naturale le molte tavole illustrate, a colori,
molto ben fatte a mio avviso, e comunque emozionanti. Solo la confidenza con queste
ultime può dar carne al mondo di impressioni, di ragguagli, di interrogativi
suscitati dalla lettura delle pagine scritte. Non è da dimenticare che il libro
presenta una rapida premessa di Massimo Paniccia e una breve prefazione di
Giuseppe Pavanello (recante a titolo, sintomaticamente, “Un paysage est un étât
d’âme”). È corredato da una Antologia Critica, da un compiuto resoconto delle Esposizione
e da una nutrita Bibliografia. Ha visto la collaborazione alla catalogazione e
agli apparati di Matteo Ziveri; e, per le note biografiche, di Francesca Baboni. A conclusione del suo saggio Andrea Baboni
così riassume il senso della pittura di Fragiacomo: “restando sempre fedele
alla sua ispirazione, amò comunque soprattutto il mare e nel renderlo nessuno
come lui ne seppe interpretare lo spirito.
Più che un colorista, fu un pittore della luce realizzando nelle sue
opere l’eredità di quelle raffinate lagune in cui il Guardi aveva raggiunto
alti esiti poetici. Si colloca quindi come valido continuatore della tradizione
pittorica veneta così come anticipatore dei muovi fermenti; un artista di
riferimento non solo nella storia della pittura veneta”.
P.S. – per ragguagli sull’ingente lavoro di storico di Andrea Baboni e
sulla sua figura di conoscitore della pittura italiana del XIX secolo, si
invita a visitare il suo sito www.andreababoni.it - ma si può anche contattarlo direttamente
all’indirizzo baboniandrea@libero.it . Una buona recensione del volume è reperibile su “Il Piccolo” di
Trieste: Fragiacomo, l’artista che fece
della pittura poesia, di Marianna Accerboni.
La copertina del volume
Andrea Baboni
Pietro Fragiacomo
Fondazione
CRTrieste, 2016
Pag. 414 € s.i.p.
***
Libri
IL POSTO CIECO
di Claudia Azzola
Fenomenologia Husserliana in America
di
Gabriele Scaramuzza
Edmund Husserl |
Dobbiamo
alla cura di Michela Beatrice Ferri la recente raccolta di saggi - benvenuta,
insostituibile e nuova nel suo genere - sulla ricezione della fenomenologia
nell’America del Nord. Non conosco alcun testo che affronti a così ampio raggio
un tema tanto importante, e da angolature filosofiche diverse. Troviamo specialisti
illustri, di provenienze differenti. La notevole Preface è dovuta a
Robert Sokolowsky (Catholic Unversity of America, Washington, DC, USA); la encomiabile
e corposa Introduction (pp. 227-238) è della stessa Michela Beatrice
Ferri. Il volume consta poi di sette parti, e reca infine un indice dei nomi e
un indispensabile indice analitico. Dei saggi contenuti ricordo almeno quello
di Carlo Ierna su Spiegelberg (che ci ha lasciato, come noto, un fondamentale
lavoro sul movimento fenomenologico) e di Daniela Verducci su A. T.
Tymieniecka, che dell’intero lavoro deve essere considerata un po’ il nume
tutelare. Venendo più specificamente alla curatrice, Michela Beatrice Ferri
(1983) ha conseguito nel 2012 il Dottorato di ricerca in Filosofia sotto la
supervisione di Gabriele Scaramuzza e di Maddalena Mazzocut-Mis, e la Laurea
Triennale e Specialistica (su Enzo Paci) in Filosofia sotto la guida di Elio
Franzini. Non sarà privo di conseguenze che si sia dedicata in un primo tempo a
Enzo Paci - che non è certo stato il primo, né tanto meno l’unico, a occuparsi
e a introdurre la fenomenologia in Italia, ma l’ha percorsa e diffusa nel modo
più incisivo e ampio. Nel Dipartimento di Filosofia della nostra Università
Ferri ha poi compiuto i primi passi delle sue ricerche, sfociate ora nel
rimarchevole lavoro che sto segnalando. Non a caso nelle pagine degli Aknowledgments
alle pp. XV e XVI del volume incontriamo anche docenti dell’ateneo milanese.
Attualmente è Faculty presso lo Holy
Apostles College and Seminary. Già docente di Estetica presso la Accademia di
Belle Arti “Santa Giulia” di Brescia, e di Filosofia e Storia nei licei. È
autrice di saggi sull’Estetica dell’Arte Sacra, sull’Estetica, sulla ricezione
del pensiero husserliano in Italia e negli Stati Uniti d’America, sulla storia
della Shoah. Ha all’attivo numerose collaborazioni con istituzioni culturali e
con ambienti accademici. Suoi contributi sono comparsi in pubblicazioni
italiane e internazionali e in riviste italiane e internazionali.
Infine, Michela Beatrice Ferri al
volume qui in oggetto ha contribuito con un saggio suo, il primo della quarta
parte: The History of the Husserl Archives Established in Memory of Alfred
Schutz and the New School of Social Resarach. Ha poi scritto, alle pp.
145-149, in collaborazione con Thomas Nenon le dettagliate pagine introduttive
alla terza parte: Some Notable Husserlian Phenomenologists in North America.
Important Twentieth Century American Husserl Scholars.
Michela
Beatrice Ferri
editor
The
Reception of Husserlian Phenomenology in North America,
in
collaboration with Carlo Ierna, Springer, Cham (CH), 2019.
PP.
XXVII-482. Paperback 103,99. Ebook 83,29.
La collana in cui appare è “Contributions
To Phenomenology.
In
Cooperation with The Center for Advanced Research in Phenomenology”. Volume
100. Dedicated to Professor Lester Embree
Florida Atlantic University.
Niente caffè per Spinoza
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro |
Livorno. Una giovane donna, il suo
matrimonio sul viale del tramonto, un’occasione la salva. È l’incontro con un
anziano Professore di filosofia, pensionato, praticamente cieco, vedovo (la figura
della moglie, e la sua fine tragica, appaiono solo in scorcio). Maria Vittoria
(vulgo Marvi), così si chiama, trova lavoro presso di lui: incombenze
domestiche, incontri con Elisa, la figlia che suona la viola, le nipoti,
ex-allievi in visita. Soprattutto deve leggergli passi da testi filosofici che
lui le indica: Platone, Aristotele, Epitteto, Zenone di Cizio, Epicuro, Seneca,
Sant’Agostino, Galilei, Pascal, Spinoza, Hume, Hegel, Schopenhauer, Bergson. Da
subito si fanno strada presenze dominanti anche nella vita dell’autrice: la
filosofia - e la musica, anche se quest’ultima è meno incombente nel romanzo
che nella vita (Alice Cappagli, è noto, suona il violoncello nell’orchestra del
Teatro alla Scala). Questo non impedisce che della musica si avverta una
traccia, anche nella scrittura.
Un
incontro casuale al mare con Angelo (ex-allievo del Professore, biologo
marino), Maria Vittoria se ne innamora, non sarà privo di conseguenze. Il
finale è infatti a suo modo lieto, non in modo eclatante: si profila piuttosto
come un orizzonte rassicurante, in cui non c’è solo il confermarsi di un
rapporto affettivo, ma anche di un mondo di letture e di studio. Certo, c’è il
funerale del Professore alla fine, eventi dolorosi, casi luttuosi non mancano
nel corso della vicenda. Ma in qualche modo la vita sempre riprende, la
speranza resiste; un alone positivo accompagna il romanzo, perché non dovremmo
esserne lieti? Tutto è solo adombrato, mai espresso a chiare lettere - come
l’arte deve fare. Nell’arte dell’understatement l’autrice è maestra: qualcosa è
detto e presto smorzato, ma come implicita promessa resta. Nella copertina colpiscono, oltre al
titolo (senz’altro editorialmente azzeccato, come del resto i titoli dei
capitoli), le parole poste ad esergo: “Dai libri che amiamo è possibile
ripartire sempre” - parole del tutto condivisibili, anzi encomiabili coi tempi
che corrono. L’immagine di copertina è coerente con esse; i risvolti e la
quarta, sempre di copertina, sono benissimo scritti, efficaci nell’invogliare
alla lettura. I libri poi sono in gioco quasi a ogni pagina del romanzo, e si
tratta soprattutto di classici della filosofia, appunto. Le ultime pagine del
libro sono dedicate alle fonti delle citazioni - come può avvenire in un
saggio; è la prima volta che mi capita di vederlo in un romanzo. Tensione narrativa: il libro
prende: si vuol sapere “come va a finire”, la storia; il suo senso. Per il
linguaggio mi vengono spontanei termini quali espressivo, fortemente
personalizzato: originale nelle scelte lessicali e stilistiche, negli
accostamenti di parole provenienti da contesti diversi: socialmente,
culturalmente, ma anche affettivamente diversi; i toni che trascorrono dal
quotidiano all’elevato, dallo spicciativo pratico al lento riflessivo all’emozionale;
e a tratti rasentano tenerezze, persino accensioni liriche. Che vengono
esaltate nei non pochi squarci paesaggistici, naturali tra mare, nuvole,
temporali e tramonti, ma anche cittadini - restano impressi non solo gli
splendidi scorci pisani, ma anche i meno nobili angoli livornesi. Ovunque la
religione è un dato scontato, in uno sfondo mai tematizzato. All’italiano colto
dell’ambiente del Professore fa da contrappunto il livornese, sapido,
spigliato, a volte spiazzante, immaginifico, parlato nell’ambiente d’origine di
Marvi - è un piacere leggerlo. È vivo negli incontri con la madre, con amici e
conoscenti; e nel mondo del marito e della suocera - in cui la presenza
affettiva più forte è quella del cane Aceto (su questo nome non a caso si
conclude il romanzo). I dialoghi sono costruiti con maestria, e non è cosa
semplice. Un romanzo dunque. Autobiografico? Non direi. Tratti autobiografici
tuttavia, come quasi sempre accade, non mancano: Livorno è la città di Alice
Cappagli, la filosofia è una sua passione, non a caso ci si è laureata, come
per adempiere un’antica promessa fatta a se stessa, e al padre. È anche
un’eredità paterna infatti, la filosofia: il Professore, insegante di filosofia
e poi cieco, è una controfigura del padre. Anche nella figlia Elisa, che suona
la viola, si allontana dalla sua città e dal padre, ha due figlie, si riflette
qualcosa dell’autrice. E certamente la figura di Elisa (e per essa
dell’autrice) ha a sua volta un parallelo nella vita non agevole della
protagonista, Maria Vittoria, che è anche l’io narrante. Senza contare che vive
in tutte le protagoniste sono atmosfere pisane: là abita una vecchia zia di
Elisa (morirà nel corso della narrazione); là lavora anche Angelo; e là forse
andrà a vivere anche la protagonista - ma questo è solo intravisto da
lontano.
Un’intervista di Brunella
Schisa ad Alice Cappagli apparsa il primo febbraio sul Venerdì di Repubblica
(accompagnata da una accattivante foto) conferma cose dette e aiuta a capire
meglio; ci si legge qualcosa che si sapeva, magari solo si sospettava, ma poco
si conosceva.
Da condividere la visione della filosofia che ne esce (e risulta
dal libro): non professionale, e tuttavia capace di compenetrare la vita. Non
era facile evitare che le citazioni filosofiche suonassero sentenziose,
didascaliche, e dunque stonate. Bello è anche il gioco tra filosofia e musica,
sono evitati i luoghi comuni che da sempre si affacciano a proposito dei
rapporti tra queste due dimensioni della nostra cultura. Oltre a interventi di
critica musicale, - con uno pseudonimo, su “Il Giornale” di Montanelli e “La
Voce” - Alice Cappagli ha scritto saggi filosofico-musicali su “Materiali di
Estetica”; ed è intervenuta anche su “Odissea”. Una raccolta di racconti, tutti
incentrati sull’ambiente musicale italiano d’oggi, è stata edita nel 2010 col
titolo Una grande esecuzione.
***
L’impossibile “perché” da Giobbe al Processo
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro |
“Hier gibt es kein Warum”:
ogni domanda è interdetta ad Auschwitz, lo ricorda Primo Levi in Se questo è un uomo; lì leggiamo anche, scritto da un detenuto: “ne pas chercher à comprendre”. D’altro lato, che nel
domandare si racchiuda rischio e pericolo lo sapeva bene anche Thomas Mann. Oggetto
del testo di Papi tuttavia non è solo un “perché” proibito o rischioso, bensì
piuttosto persino “impossibile”. Impossibile per chi? chi ne decreta
l’impossibilità? e come mai? Nel contesto, il limite estremo della questione è rasentato
da Kafka, su cui tornerò. Danno molto da pensare, come sempre, le pagine di
Papi, suscitano interrogativi, cui spero di dar seguito nelle considerazioni
che seguono.
Una premessa innanzitutto: quest’ultimo lavoro
va collocato nell’orizzonte degli interessi, tradizionali in Papi, per la
letteratura e l’estetica, nell’ambito della sua lunga riflessione sospesa tra
letteratura e filosofia. Ricordo qui quanto meno La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte (1992), Dialogo sulla poesia (1997, con Tomaso
Kemeny), Filosofia e architettura. Kant,
Hegel, Valéry, Heidegger, Derrida (2000), Gli amati dintorni. Filosofia, arte, politica negli specchi della
memoria (2001), Come specchi del
tempo. Yourcenar, Richardson, Fielding, Pavese (2016); e inoltre prove
squisitamente letterarie quali Il delitto
del Miralago. Un’infanzia sotto il duce (2001, con una premessa di Cesare
Segre) e L’albero d’oro. Un’adolescenza
immaginata (2004). Non è pensabile, inoltre, leggere L’impossibile “perché” senza considerarlo alla luce di taluni
ultimi saggi che sviluppano tensioni esistenziali sempre latenti in Papi: scavano
in profondità problematiche che non esiterei a chiamare teologiche, religiose
sullo sfondo. Tali sono i saggi contenuti nel numero di “Materiali di Estetica”
(5.2.2018) dedicato a “Le parole di Dio”: tra essi segnalo innanzitutto lo
scritto sul Vangelo secondo Matteo,
ma anche, collateralmente, su I trentatré
nomi di Dio e su La morte di Dio in
Nietzsche. Ma questo suo libro è da considerare anche in continuità con l’interesse di Papi per il tema della “crisi”, nel cui ambito
si colloca Il poeta, l’Impero, la morte (da me già segnalato
su “Odissea” nel 2015): oggetti ne sono Hermann Broch, James Joyce, Italo Svevo
e Josef Roth - il cui Giobbe è al
centro anche del secondo capitolo del libro qui in oggetto. Sullo sfondo delle
sue riflessioni resta presente Robert Musil, cui Papi ha dedicato nel 2016 un testo
a sé stante: Il pensiero ironico e il
regno dell’amore. Traversata filosofica nell’opera di Robert Musil. Vale la
pena aggiungere che il tema della “crisi” è di ascendenza banfiana; non a caso nel
2013 viene ripubblicato, di Antonio Banfi, La
crisi, a cura di Fulvio Papi e Fabio Minazzi, con una prefazione che resta
quella storica di Carlo Bo; essa risale ad appunti banfiani del 1934-1935. In
quest’ambito collocherei infine, sempre di Papi, Il lusso e la catastrofe (2006). Venendo
a L’impossibile “perché”, esso
rende conto dei diversi livelli a cui si pone il
problema, e le diverse risposte che gli si danno. “Il ‘perché’ del Giobbe
biblico deriva dalla distanza infinita della creatura dal creato […]. Dio può
mettere alla prova Giobbe che tuttavia […] mantiene intatta la fede
nell’infinita imperscrutabile volontà di Dio” (49). Da subito non ottiene
risposta, certo, l’interrogativo; e tuttavia c’è la fiducia che questa risposta
vi sia, in una trascendenza inafferrabile nella nostra limitata immanenza. La
domanda resta già qui inevasa: “il mio problema, scrive Papi, è seguire la
storia di un perché che alla fine rimane senza alcuna risposta” (23). Anche il Giobbe di
Joseph Roth attraversa sventure che lo conducono a un “tragico e impenetrabile”
(34), “desolato” perché (26); la prova a cui Dio sottopone il protagonista
produce però solo rabbia e disperazione in lui. Roth, sintetizza Papi, colloca
Giobbe “in una narrazione storica, in cui il devoto maestro dei testi biblici,
di fronte alle sventure che pure appartengono alle possibilità umane, le
considera come una risposta malvagia di Dio”. Da ciò la sua “ribellione a Dio,
la sua distanza a ogni pratica religiosa”. La situazione tuttavia “in questo
caso si capovolge perché i casi della vita cessano di portare il segno della
sventura, ma, anzi, regalano al Giobbe, emigrato in America dal suo villaggio
ebraico della Russia orientale, la gioia suprema di un figlio ritrovato. In
questa vicenda si può leggere il perdono di Dio e il miracolo che riconquista
il ribelle alla fede e quindi gli fa guardare il mondo come il luogo in cui la
provvidenza divina potrebbe ancora soccorrere i dolori della sua esperienza
mondana” (50-51). Il perché trova così una, pur sempre enigmatica, risposta o,
meglio, ricompensa. Il caso narrato da Roth
si inscrive pur sempre in un ambito in cui “la sciagura, la violenza, la pena, devono
trovare sempre una Alterità nel cui potere sia provocare un’altra storia. Il
silenzio, l’impossibilità, il nulla vi sono solo quando l’immanenza condanna se
stessa, quando l’identità tra l’esistenza e la colpa è data dalla stessa
condizione umana”. Con ciò è compiuto il passo verso Kafka, il cui
“Giobbe non detto” (cioè Joseph K.) vive, nel Processo, “l’estinzione di qualsiasi senso del suo ‘perché’” (51). In Kafka “la
colpa, più che originaria, è inevitabile: l’esistenza stessa ha preso la forma
di una colpa” (43). Papi, forse per pudore (data la notorietà della cosa), non
cita qui Anassimandro, ma il suo celebre detto - lo Spruch cui Heidegger ha dedicato il celebre saggio raccolto in
“Sentieri interrotti” - potrebbe ben esser posto a epigrafe dell’ultimo
capitolo di L’impossibile “perché”. Le pagine dedicate
a Kafka recano a titolo, e pour cause, La
colpa dell’esistenza. Ne ripercorro alcuni tratti: il protagonista “oppone
la forma della sua razionalità educata socialmente alle insensate e grottesche”
situazioni e persone che la mettono a priori fuori gioco (non è così anche col
nazismo, con tutti i regimi totalitari che per certi tratti Kafka sembra
prefigurare?). “Grottesco” ricorre nel lessico di Papi, con assoluta proprietà;
e non a caso si accompagna a termini quali umiliante, volgare, sudicio,
aggressivo; inconcepibile infine, e ciò nonostante produttivo di inenarrabili
orrori. In relazione a Joseph K. nel romanzo non v’è traccia di colpa: di colpa
esplicita, provata, quanto meno: di colpa esprimibile nei termini del
linguaggio di cui disponiamo. “In tutta la narrazione non esiste una risposta
plausibile”, non c’è ragione che tenga e trovi espressione: Joseph K., giova
ripetere, “vive nell’ombra di un irriducibile ‘perché’” (52). Non solo viene
messo “fuori senso qualsiasi esame di coscienza” (53), ma insieme ogni presa di
coscienza; l’idea stessa della verità, della giustizia risultano prive di senso.
Ciò cui si dà nome di intelletto come Verstand,
ma anche di ragione come Vernunft, la
radice di ogni possibile argomentare, dialogare, discorrere, comprendersi, vengono
ostruite con violenza: l’imposizione non accetta di misurarsi con alcuna forma
di razionalità, di relazione. In atto è “un potere privo di alcun controllo” (59)
- non è questo che avviene durante la Shoah? La stessa femminilità, onnipresente
nel Processo, cui Papi dedica pertinenti
osservazioni, è complice di questo gioco; non costituisce alcuna via di fuga, tanto
meno un’isola di salvezza; non è consolatoria, né compassionevole, né
caritatevole. Tra gli accusati stessi non c’è “alcuna cooperazione”, “ognuno è
solo” (68) - come per lo più avviene nei lager e nei gulag, in cui ogni
rapporto cui si possa dare il nome di “umano” è contrastato alla radice. Mentre
i “senza perché” dei Giobbe precedenti “erano pur sempre domande di un uomo di
fronte a una legge comprensibile”, quelli di K. non hanno risposta, neppure
ipotizzabile, in assoluto: quasi che “la lettura umanistica dell’esistenza,
proprio nella sua credenza più profonda, venisse rovesciata, e ogni possibilità
che le è propria diventasse parodisticamente (e qui sta la narrazione) la sua
crudele impossibilità, la sua condanna. Il senza perché della colpa senza Dio è
il modo in cui si può pensare l’intollerabilità stessa dell’esistenza” (73-74).
Verso la fine Papi chiama in causa Bruno Schulz, il noto autore di Le botteghe color cannella, per cui
l’intollerabile, il sudicio, il tremendo del mondo kafkiano sono il modo in cui
per via negationis si manifesta la
“sublimità dell’ordine divino” (74). La fede può in questo caso diventare
l’unica risposta agli improponibili “perché” che si pongono all’uomo. A Schulz
risponde a suo modo Papi nelle ultime righe del libro: “L’ordine divino, nel
mio percorso, non è che l’immanenza che svela a se stessa la colpa della sua
forma storica. È l’enfasi umanistica rovesciata nella sua verità. Sullo sfondo
un “poter essere” che non appartiene più nemmeno al pensiero” (75). Tento di
riprendere a modo mio le fila del discorso, riferendomi n particolare a quello
che ne è il culmine: Kafka. Nel caso di Joseph K. “il documento che certifica
la colpa è nell’esistenza stessa dell’accusato” (53); la colpa è iscritta nella
forma stessa della sua vita: colpa è il mero esserci o, meglio, esser così. Ma
colpa non è un atemporale peccato originale, bensì un peculiare modo (storico
dunque) di partecipare alla vita, di affrontare le vicende che la attraversano.
Nel Processo assistiamo a una
sorta di azzeramento del problema che la vicenda pone: insensata l’istanza
stessa, il desiderio di conoscere, di chiedere e di motivare, che aveva mosso
l’uomo di campagna, e insieme Josef K. La soluzione non è in una positiva
risoluzione del problema; non sta nell’affrontarlo, nel coglierne bene i
termini e disquisirne i risvolti. Sta piuttosto nel toglierlo di mezzo. Non era
un problema, il peccato del protagonista è già esserselo posto. Si tratta solo
di lasciar valere l’insolubile come tale; senza indagare. Per questo Kafka dichiara
impossibile, anzi tale da motivare la propria condanna, il chiedersi il
“perché” della vicenda da parte del protagonista del Processo. Con le parole di Leni verso la fine del sesto capitolo:
“Non mi chieda nomi, per favore, e corregga piuttosto il suo errore, non sia
più così rigido, contro questo tribunale difendersi non si può, bisogna
confessare. Faccia la sua confessione appena può. Solo dopo se la potrà cavare,
solo dopo”. Joseph K. non ha commesso nulla; si autocondanna a motivo dell’instancabile
perseguire, accanitamente (orgogliosamente, forse), il perché della propria
vicenda. L’alternativa può essere solo il “confessare” (Geständnis machen, nelle parole di Leni), l’ammettere dunque, la
propria colpa; confessare significa accettare, e accettarsi, senza chiedere
nulla. Implica una forma di abbandono, di silenzio fiducioso forse, nei
confronti dell’inesplicabilità della vita. E questo è pur un modo dell’esistere,
che risponde al tormentoso viversi come colpevoli, al non saper uscire dall’angoscia
delle domande “impossibili”, al presumere che possano avere risposta. Il
consiglio proviene da una donna, c’è una saggezza femminile in esso?
Fulvio Papi
L’impossibile “perché”
da Giobbe al Processo
Ibis
Ed. 2018
Pagg.
80 € 10,00
ANTONIA POZZI. DESIDERIO DI COSE LEGGERE
di Gabriele Scaramuzza
Elisabetta Vergani |
Elisabetta Vergani, attrice e drammaturga, co-direttrice, insieme a Maurizio Schmidt, di
Farneto Teatro, è tra le migliori interpreti della poesia di Antonia Pozzi; e
poco importa se la sua interpretazione si consegna nella recitazione (in questo
caso anche nella scelta delle poesie) e non in specifici saggi letterari. Ad
Antonia la legano indubbie Wahlverwandtschaten, (il goethiano “affinità elettive” è qui particolarmente calzante); per lei ha
scritto e interpretato due toccanti rappresentazioni teatrali: Radici profonde nel grembo di un monte e
L’infinita speranza di un ritorno (titolo
quest’ultimo tratto a sua volta dal documentato e penetrante L’infinita speranza di un ritorno. Sentieri
di Antonia Pozzi di Fulvio Papi, Milano, Viennepierre, 2009).
Più che una generica antologia di poesie, questa
raccolta segna un suggestivo itinerario personale nel mondo pozziano, ne
configura un’interpretazione; un po’ come era stato per la scelta di Gabriella
Rovagnati, che ha tradotto in tedesco e pubblicato, con testo italiano a fronte,
A. Pozzi, Parole/Worte, Göttingen,
Wallstein, 2008.
Elisabetta Vergani dedica
non poco spazio alle poesie del ’29, per nulla banalmente “adolescenziali”,
straordinariamente mature anzi per una diciassettenne. Segnalo a riprova alcuni
versi da Pace (del ’29 appunto):
“Leggo per un gran tratto nel futuro/come un foglio che mi sta dinnanzi: /poi, la visione cade bruscamente/nel buio dell’ignoto, come questa/ pagina
bianca, che si rompe, netta,/sul panno scuro della scrivania.”
Antonia Pozzi |
Vale già per i
primi scritti quanto scrive nella sua prefazione Eugenio Borgna (richiamando
opportunamente anche le note pagine di Eugenio Montale sulla Pozzi): una
malinconia “dolorosa e profonda si è accompagnata alla breve vita di Antonia
Pozzi, e ne ha ispirato le poesie arcane e sommesse, luminose e fosforescenti,
immerse nella grazia e nel mistero di un fragile desiderio di morire che le sue
relazioni d’amore ogni volta franate e incomprese nei loro brucianti fulgori
hanno concorso nel farle scegliere la morte a ventisei anni”. E alla conclusione
delle sue righe Borgna confessa, che già “dal tempo lontanissimo del liceo
continuo a leggere e a meditare queste poesie: nelle ore liete e nelle ore
dolorose della mia vita”, senza che nulla abbiano mai perso “della loro
fragranza e della loro misteriosa fascinazione”).
La curatrice ha ripercorso tutti gli anni della
produzione poetica della Pozzi, con la sensibilità e il gusto che le
appartengono. Non ha certo trascurato i fatali e “irrimediabili” anni che si
trascinano per gli anni Trenta, il “cruciale” ’35, le emozionanti poesie del
’38: tra cui Periferia e Via dei Cinquecento testimoniano della
sua profonda sensibilità sociale. A
questo proposito mi è spontaneo ricordare il pertinente, e così attuale purtroppo,
brano da una lettera di Antonia indirizzata a Dino Formaggio da Pasturo il 27
settembre 1938: “E soprattutto, siamo stufi di prepotenze, di soprusi, di
aggressioni che sui giornali diventano ‘sacrosanti diritti’, degli urli della
folla anonima ridotta allo stato di bestia cieca, della repressione barbara e
retrograda di ogni voce umanitaria, del quotidiano capovolgimento della realtà
di fatto”; dove, aggiunge, si è perduto “il senso che domina noi giovani:
quello della libertà di coscienza”.
Mi ha fatto non poco riflettere il titolo: Desiderio di cose leggere, che riprende il
titolo e un verso di una poesia del 1° febbraio del 1934. Il mio primo pensiero
è andato a Sfiducia, la “tristezza”
di mani “troppo pesanti” e insieme “troppo leggere”: l’impossibilità di Antonia
(come del Tonio Kröger da lei amato) di tenersi alla “danza” lieve della vita e
di sottrarsi ai grumi opprimenti che la soffocano; e tuttavia il persistere in
lei di un desiderio di “leggerezza”. Qualcosa in proposito mi ha suggerito
anche la rappresentazione di Elektra
di Richard Strauss, cui ho assistito alla Scala; tanto più che essa mi ha
offerto l’occasione di rileggere il testo di Hofmannsthal. Quel “cose leggere” del
titolo mi ha richiamato quanto, opponendosi alla cupa Elektra, afferma
Crisotemide: Eh’ ich sterbe, will ich
auch leben! (“Vivere voglio prima di morire!”). Elisabetta Vergani ha interpretato
qualche anno fa Elektra di
Hofmannstahl, e a me piace immaginare che ne sia ricordata nei suoi percorsi
pozziani; non è nella prospettiva della morte che legge i versi della Pozzi, ma
dal punto di vista della sua vita, dei mille sapori della sua vita. Ha ragione
Kandinskij: “è meglio considerare vita la morte che morte la vita, anche se per
una volta soltanto”. E questo è anche particolarmente consono a una convinzione
banfiana: la cultura, e in essa la poesia, che la Pozzi considera una volta
come un destino (nella poesia appunto Un
destino, del ’35) non è un impoverimento della vita, ma una sua
intensificazione, ravviva i colori della vita. Una prospettiva in cui può
essere inclusa anche una morte che, come ha suggerito Graziella Bernabò, può essere
avvenuta “per troppa vita”.
La copertina del libro |
Antonia Pozzi
Desiderio di cose leggere.
A
cura di Elisabetta Vergani
prefazione
di Eugenio Borgna
Salani
Edizioni 2018
Pagg. 96 € 8,50
Nel solco di papa Giovanni
di Vincenzo Guarracino
La copertina del libro |
Un piccolo
mannello di lettere, 56 per l’esattezza, tra quelle che si scambiarono lungo l’arco di un trentennio (dal ’63 al 1991), padre David
Maria Turoldo (1916-1992) e mons.Loris Francesco
Capovilla (1915-2016), hanno visto la luce
recentemente, a poco più di un anno dalla scomparsa del secondo e a venticinque
da quella del primo, incentrate sul ricordo della figura tutelare di entrambi,
quel Giovanni XXIII, il “Papa Buono”, del quale Capovilla era stato segretario particolare
e il frate servita un fedele interprete e custode dell’eredità spirituale,
rappresentata soprattutto dal Concilio Ecumenico Vaticano
II, “una grazia”, un “dono”, destinati,
al dire di Capovilla, ad accendere nel mondo
“una grande speranza”, perché “chi non ha niente riceva una volta per tutte la
grande rivelazione che di ogni uomo fa un figliolo del Signore”.
Papa Giovanni XXIII morì il 3 giugno 1963, lasciando un ricordo
della sua persona e del suo pontificato, che va ben oltre gli angusti termini
del suo pontificato (poco meno di 5 anni), e che permane ancora ben vivo, come felicemente
testimoniano i riconoscimenti a lui tributati dalla
Chiesa dopo la morte, culminati
oltre che nella beatificazione nel 2000 e la canonizzazione nel 2014,
soprattutto nella venerazione di cui da allora in poi ha goduto da parte dei
fedeli.
Di quest’ultima, una
testimonianza particolarmente significativa è rappresentata dalle lettere (19 di Turoldo a Capovilla e 37 di Capovilla a Turoldo), che vanno dai mesi a ridosso
della malattia e della scomparsa del Papa, fino ai
tragici giorni della Guerra del Golfo (1990-’91), dalle quali emerge, assieme
al legame reciproco nel nome del Pontefice e del suo messaggio, la loro
capacità di cogliere e interpretare i “segni dei tempi” e di sostenersi a
vicenda nei rispettivi servizi, in un legame di fede e di affetto, nutrito di
rispetto e simpatia: Turoldo, che, non a caso, all’indomani
della scomparsa di papa Giovanni, aveva deciso di vivere a Fontanella di Sotto
il Monte, il paese in provincia di Bergamo, dove Angelo Giuseppe Roncalli aveva
visto la luce, sostenendo Capovilla nel suo impegno al servizio della Chiesa; Capovilla,
lettore ed lettore attento e appassionato di Turoldo, incoraggiandone la scelta
di fare di Fontanella un luogo aperto al dialogo e all’accoglienza, un
laboratorio per la spiritualità e il linguaggio liturgico, conciliando e
facendo convivere fede e poesia.
Raccolte
da Marco Roncalli e Antonio Donadio in una essenziale silloge, arricchita, in appendice,
da due testimonianze di grande spessore (rispettivamente del card. Gianfranco
Ravasi e di mons. Bruno Forte) sugli autori delle lettere e, di riflesso, sui
loro rapporti con il grande pontefice bergamasco, danno il senso di come due
uomini pur “chiaramente diversi” ma “che hanno scommesso la loro vita sul
Vangelo” siano stati capaci di attraversare il loro tempo, ciascuno a proprio
modo e con la propria sensibilità (Capovilla con la sua cultura teologica, Turoldo
con la sua tempra jacoponica di grandissimo poeta), partecipi delle vicende
della società e attenti ai bisogni degli “ultimi”.
David Maria Turoldo- Loris Francesco Capovilla
Nel solco di papa Giovanni. Lettere inedite
A cura di Marco Roncalli e Antonio
Donadio
Servitium Editrice, Milano 2017
Pagg. 189, 13,00 euroMI SENTO IN UN DESTINO
di Gabriele Scaramuzza
Accanto ai noti Diari di Antonia Pozzi si sono voluti
raccogliere in Mi sento in un destino
- con la consueta acribia, con la sensibilità e la lungimiranza delle due più penetranti
specialiste di Antonia Pozzi - anche altre prose: esperimenti poco noti in
prosa, passi dalla celebre tesi di laurea su Flaubert, due saggi su Aldous
Huxley, e un breve esercizio di traduzione da un suo romanzo, Point Counter Point. Ma nelle prime
sessanta pagine appaiono, ed è cosa da sottolineare, due corposi interventi
delle curatrici:“Impara a viver sola - dentro di te”. Antonia Pozzi: una vita d’amore e di poesia, di Onorina
Dino; e “Quando la tempesta sarà solo un
ricordo”. Antonia Pozzi: vita e scrittura nel Diario 1935-1938 e nei saggi critici, di Graziella
Bernabò. Si tratta di pagine preziose, intense, che in parte riprendono tesi
note delle autrici, ma per lo più ne allargano il senso, mostrando la loro
fertilità. Non mancano infine le utilissime nota biografica, norme editoriali,
note al testo, bibliografia; e l’indispensabile indice dei nomi, troppo spesso,
con rammarico del lettore, tralasciato.
Questa
mia presentazione vuole essere solo un invito alla lettura; non riprenderò
dunque temi già presenti nell’universo, tutt’altro che limitato, degli scritti
su Antonia Pozzi. Mi limiterò a segnalare un tema poco presente in essi, a
quanto ne so: quello della musica; e non tanto dal punto di vista di coloro (e
non sono mancati) che hanno messo in musica poesie della Pozzi. Quanto proprio
dal punto di vista della musica presente nella sua esperienza; di ascolto, ma
anche esecutiva. Sapeva suonare il piano (come la madre); frequentava la Scala
e i concerti (celebre la sua presenza alla Società del Quartetto la sera prima
di suicidarsi).
Ma
vorrei qui attenermi al testo che sto presentando. Già la prima notazione del
Diario, del 21 dicembre 1925 (Antonia era dunque poco più che tredicenne, ma
non mancano tracce di maturità che vanno oltre la sua adolescenza), riguarda la
rappresentazione di Madame Butterfly
alla Scala: il silenzio della sala, “qualche colpo di tosse, qualche zittio”, l’apparire
di Toscanini, “il mago”, la mano nervosa che tiene la bacchetta, l’inseguirsi
lieve delle note, lo sbocciare della melodia “vibrante e passionata”. E
l’aleggiare silenzioso di Puccini, da poco mancato (il 24 novembre 1924); e
senz’altro tra gli operisti preferiti da Antonia. A conclusione Antonia rileva
con finezza il contrasto tra la rappresentazione appena seguita e la neve che
cade tra lo “strepito” della città. Onorina Dino riprende questo passo
all’inizio del suo saggio di apertura; e lo e commenta, con acute notazioni lessicali
e stilistiche.
Poche
sere dopo, il 24 dicembre dello stesso anno, assiste ai Maestri Cantori e commenta, con una maturità che non si
sospetterebbe in lei: “Passando dalla comica gravità del primo atto alle dolci
romanze e alla magistrale e celebre fuga del secondo, dalle compassate
ammonizioni di Hans Sachs alla soave canzone del tenore, si sente ovunque la
mano del genio: che capolavoro! che capolavoro!”. E Antonia nulla ancora sapeva
del wagnerismo di Banfi, e poi di Paci, di Rognoni.
Il
24 dicembre del ’26 ritorna su Puccini e ricorda la sua visita a Torre del Lago
dell’estate precedente: la “villa vecchia e silenziosa, tra il lago frusciante
di canne e sussultante di ondine irrequiete, e la pineta verde e odorosa […].
L’immagine della stanza terrena che fu la culla di Manon, di Mimì, di Tosca e
di Butterfly”; poi il ricordo della villa in cui nacque Turandot. Un mondo che,
scrive, “non si cancellerà più, ne sono sicura, dalla mia mente, e,
soprattutto, dal mio cuore”.
Il
27 dicembre dello stesso anno Antonia ricorda l’ascolto raccolto del grammofono
azionato dal papà (che pure amava molto la musica); nella sua discoteca si
trovava tanta musica, di vari livelli, dai ballabili alla musica classica. Ma
soprattutto: “È un vero piacere ascoltare, comodamente sdraiati in poltrona a
casa propria, un sublime preludio wagneriano, di cui si possono afferrare fin
le minime sfumature, o una sinfonia di Beethoven, oppure qualche nostalgica
rapsodia. O superbi gorgheggi di una classica ‘Violetta’… sento di là che
comincia l’Ave Maria di Schubert, la mia passione: dopo pregherò il papà di
suonarmi il Cigno di Saint-Saëns” … A proposito di
Violetta, e dunque di Verdi, occorre qui ricordare il grande amore di Remo
Cantoni verso questo musicista. Non
sono che assaggi, esempi, significativi, che a volte accostano con
adolescenziale disinvoltura brani di diverso valore. Non mi consta che esista uno
studio sulla presenza della musica nell’universo pozziano, ma è la cosa che più di tutto oggi auspicherei.
Antonia Pozzi
Mi sento in un destino.
Diario e altri scritti
a
cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino,
Milano,
Ancora, 2018
***
LA NOSTALGIA
FERITA
di Gabriele Scaramuzza
Eugenio Borgna affronta
in questo succinto ma fortemente suggestivo saggio uno dei termini cardine non
solo della nostra tradizione culturale, ma anche dell’intero mondo del nostro
sentire: quello della nostalgia. Ce ne offre una snella ma in sé compiuta fenomenologia.
Affronta questo tema nelle sue radici etimologiche e storico-culturali (tra
letterarie e psichiatriche), mostrando una sensibilità squisitamente
fenomenologica per le sfumature, che insieme ne collegano e separano i diversi
aspetti; talché esso ci viene restituito in tutta la sua vivente complessità:
differenza, relazione, complessità sono termini chiave della nostra tradizione
fenomenologica, appunto. E v’è da aggiungere quanto opportunamente rileva
Stefano Crespi: “Rispetto a una tendenza psichiatrica che si muove in confini
‘organicistici’, farmacologici, Borgna è una punta significativa di una
concezione psichiatrica nella profondità, nello specchio dell’esistenza”
(L’esistenza, un tempo senza fine, “Il Sole 24 Ore”, 29 luglio 2018, p. 19,
dedicato agli ultimi due libri di Borgna, e soprattutto a questo
sull’angoscia).
Le
tessere che compongono il mosaico della nostalgia esprimono per lo più delle
positività nel panorama che Borgna ci offre; ma anche sconfinano nei territori
dell’amarezza e dell’angoscia, del dolore bruciante e della depressione, in una
parola delle malattie dell’anima (v. pp. 69-72).
Tra i termini ricorrenti in Borgna infatti, a connotare le diverse tonalità che la nostalgia assume nelle stagioni della nostra vita, troviamo, volendo esemplificare, speranza, fragilità, sommesso, dialogo, tristezza, estenuato, tenerezza, stupore, indicibile, lontananza, utopia, inenarrabile, struggimento, desiderio, lutto, salvezza, arcano, umbratile, luminosa, straziante; e non bisogna dimenticate i temi del silenzio e dello sguardo, che trascendono la mera presenza delle parole e dei fatti.
Tra i termini ricorrenti in Borgna infatti, a connotare le diverse tonalità che la nostalgia assume nelle stagioni della nostra vita, troviamo, volendo esemplificare, speranza, fragilità, sommesso, dialogo, tristezza, estenuato, tenerezza, stupore, indicibile, lontananza, utopia, inenarrabile, struggimento, desiderio, lutto, salvezza, arcano, umbratile, luminosa, straziante; e non bisogna dimenticate i temi del silenzio e dello sguardo, che trascendono la mera presenza delle parole e dei fatti.
Degne
di nota vi sono le analogie e le differenza tra nostalgia e rimpianto,
magistralmente tratteggiate da Borgna: entrambi vivono del passato, ma lo
agiscono in modalità diverse: “Nella nostalgia non risuona la climax emozionale
acuta e dolorosa, univoca e radicale, che si avverte invece nel rimpianto” (p.
16).
“La nostalgia, e non il rimpianto, è sorgente di esperienze vissute, di speranze smarrite, ma non perdute, di immagini e di paesaggi, di volti e di lacrime, di sorrisi e di gesti” (p. 33), che hanno riempito la nostra vita e ancora ritornano, vive. Della squisita sensibilità di Eugenio Borgna testimoniano anche le scelte lessicali e il delicato ritmo, la struggente melodia del discorso. Quasi che la nostalgia non ne fosse solo l’oggetto, ma anche la sostanza che lo intride, l’atmosfera che si respira leggendolo. La nostalgia della nostalgia (viva soprattutto nei tempi in cui la vita si fa a poco a poco più evanescente) sembra anzi il vero tema delle pagine di Borgna, le percorre da cima a fondo. Perché la nostalgia è una dimensione essenziale dell’esistere, se cade (come purtroppo non di rado avviene) è il senso stesso della vita a risentirne. “Non si può vivere senza attesa, e senza speranza, ma anche senza nostalgia” (p. 56). “Non dovremmo vivere senza una continua riflessione sulla storia della nostra vita, sul passato che la costituisce, e che la nostalgia fa rinascere, sulle cose che potevano esser fatte, e non lo sono state, sulle occasioni perdute, sulle cose che potremmo ancora fare, e infine sulle ragioni delle nostre nostalgie e dei nostri rimpianti” (p.68). Luogo deputato di una simile riflessione sono, ed esemplarmente, le autobiografie.
“La nostalgia, e non il rimpianto, è sorgente di esperienze vissute, di speranze smarrite, ma non perdute, di immagini e di paesaggi, di volti e di lacrime, di sorrisi e di gesti” (p. 33), che hanno riempito la nostra vita e ancora ritornano, vive. Della squisita sensibilità di Eugenio Borgna testimoniano anche le scelte lessicali e il delicato ritmo, la struggente melodia del discorso. Quasi che la nostalgia non ne fosse solo l’oggetto, ma anche la sostanza che lo intride, l’atmosfera che si respira leggendolo. La nostalgia della nostalgia (viva soprattutto nei tempi in cui la vita si fa a poco a poco più evanescente) sembra anzi il vero tema delle pagine di Borgna, le percorre da cima a fondo. Perché la nostalgia è una dimensione essenziale dell’esistere, se cade (come purtroppo non di rado avviene) è il senso stesso della vita a risentirne. “Non si può vivere senza attesa, e senza speranza, ma anche senza nostalgia” (p. 56). “Non dovremmo vivere senza una continua riflessione sulla storia della nostra vita, sul passato che la costituisce, e che la nostalgia fa rinascere, sulle cose che potevano esser fatte, e non lo sono state, sulle occasioni perdute, sulle cose che potremmo ancora fare, e infine sulle ragioni delle nostre nostalgie e dei nostri rimpianti” (p.68). Luogo deputato di una simile riflessione sono, ed esemplarmente, le autobiografie.
Non
a caso nel titolo compare il termine “ferita” a connotare la nostalgia, perché
un intento basilare di Borgna è risvegliare la nostalgia, non soffocarla (e
dunque ferirla a morte) nelle mille cure incombenti nelle nostre giornate. Suo
intento è condurre a “ritrovare la nostalgia, oggi facilmente perduta nel gorgo
dell’indifferenza e della noncuranza, della distrazione e della cancellazione
della dimensione del passato, divorata da quella del presente e del futuro”: “a
chi legga questo libro è demandata la risposta alla mia temeraria domanda se
davvero sia possibile ridar vita, e ridare senso, alla nostalgia ferita dalla
noncuranza e dal disinteresse: recuperandone le tracce perdute” (pp. 102-103).
Condurre a non ritrovarci prigionieri di un presente e di un futuro scissi dal
passato, vittime di quello che l’autore, del tutto felicemente, definisce
“stucchevole progressivismo” (p. 82): progressivismo che nel proprio cieco
slancio verso il futuro rinnega un passato ricco di senso e di colori. Se il
sentimento nostalgico non può esser dissociato dall’attesa, magari utopica, per
l’avvenire, tanto meno deve dimenticare che le sue radici affondano nel
passato.
Da
fine e avvertito psichiatra qual è, Borgna invita a non dimenticare il valore
terapeutico della nostalgia, il cui luogo è un passato che colora di sé il
presente, ma non lasciandolo com’era. Il viversi fondamentalmente come
psichiatra motiva la difesa della nostalgia (e del discorso sulla nostalgia)
che Borgna opera, rasentando in certi toni un vero inno, e un’elegia nostalgica:
“È così facile banalizzare le fondazioni etiche e semantiche della nostalgia:
considerandola una perdita di tempo, un’inutile e accidiosa reverie, un’ossessiva rimeditazione di
cose accadute nel passato, e sulle quali non vale la pena sostare nemmeno un
attimo, essendo di ostacolo a vivere una vita liberamente aperta al futuro:
all’avvenire” (pp. 87-88). “Sì, la
nostalgia, così negletta e così facilmente rimossa, è come una fonte di luce
che rischiara le oscurità e le défaillances della memoria di quello che è
stato, e non sarà più se non è nutrito dalla passione dell’interiorità” (p.89).
“Vorrei
augurarmi che questo mio discorso sulla nostalgia riesca a testimoniare i vasti
orizzonti tematici, e le profonde risonanze emozionali ed esistenziali, che
essa ridesta in noi: negli abissi della nostra interiorità. Per solito
dimenticata, e banalizzata, la nostalgia ci aiuta a vivere”, a rimuovere “la
ruggine lasciata dal trascorrere febbrile e fatale degli anni” (p. 101). Ha un
valore terapeutico, ripeto: “questo mio cammino ha risonanze che vorrei dire
nutrite di valori che si rispecchiano nei vasti territori della cura che, in
psichiatria, non può mai fare a meno di ascolto e di dialogo” ( p. 102).
Decisivo
è poi il tema della nostalgia della casa perduta, che ha accompagnato
dolorosamente (se posso permettermi un rapido excursus autobiografico) tutta la
vita di mia madre. Ma soprattutto ci riguarda da vicino la “nostalgia della
morte e del morire”. A proposito di una poesia di Emily Dickinson leggiamo,
coinvolti, di “parole friabili e struggenti”, che “ci fanno ripensare alla
nostalgia più lacerante e indomabile, che è quella della morte e del morire in
noi e nelle persone amate che ci hanno lasciato” (pp. 103-104).
Già
nelle prime pagine (3-7) del saggio colpisce la toccante apertura su uno
squarcio dell’adolescenza del suo autore; squarcio che a sua volta vogliamo
assumere come emblema di una nostalgia vissuta nella propria carne, che è poi
la spinta fondamentale che ha indotto l’autore a scrivere. Colpisce già a prima
vista la messe ingente di brani che Borgna porta a testimoni e a conferma delle
proprie parole - tratti da poesie, ma anche da romanzi, diari, autobiografie:
da Agostino a Etty Hillesum, da Gozzano a Leopardi, da Proust a Rilke, da Mann
a Virginia Woolf, da Hofmannsthal a Trakl, da Musil a Simone Weil, da Pascoli a
Karen Blixen, da Dostoevskij a Bernanos fino a Heidegger. Quasi la letteratura
fosse una fonte parallela alla psichiatria, e una fonte tutt’altro che
trascurabile, cui attingere conoscenze indispensabili a meglio cogliere la
sostanza della nostalgia. Così “lo Zibaldone, anche in una prospettiva tematica
così lontana e pratica, come è quella della psichiatria, è sorgente di
conoscenze e di riflessioni fenomenologiche e antropologiche senza fine” (p.
23); e questo vale anche per la grande poesia di ogni tempo; e ancora: “ogni
mio libro nasce in dialogo con la follia (la follia sorella sfortunata della
poesia)” (p. 91). Resta sottinteso che anche per Borgna il mondo estetico-artistico
è tra i modi in cui si articola la conoscenza dell’uomo; leggendo questo e non
pochi altri suoi scritti ci si rende ben conto che la dimensione poetica è
fondamentale in essi, e proprio per la sua portata rivelativa. Non è esatto,
infine, che in La nostalgia ferita
“Borgna indossa i panni del critico letterario”, come sostiene Mario Fortunato
nella sua recensione apparsa su “L’Espresso” del 22 luglio 2018, a p. 92. La
letteratura per Borgna non è oggetto di attenzione critico-letteraria, bensì di
una disamina che in essa ricerca una testimonianza, un riferimento, che
arricchisce un discorso che al fondo resta psichiatrico, restituendole con ciò
potenzialità che l’analisi storico-critica o filologica a torto lascia da
cadere.
Eugenio Borgna
La nostalgia ferita
Torino,
Einaudi, 2018;
Pagg. 114, €
12.
LA LAICA RELIGIOSITÀ IN FRANCO MANZONI
di Carlo Alessandro Landini
Carlo Alessandro Landini |
Un critico ha definito quella di Manzoni
una poesia dell’assenza. A tanto riducendola, si rischierebbe di fare un torto
gravissimo all’autore laddove la definizione non fosse completata da due
ulteriori e necessitanti connotazioni: il desiderio e il movimento. Si è
portati ad associare all’assenza (a quest’ultima è dedicata una poesia della
raccolta Stanze d’argilla) la stasi assoluta, il rigurgito della
morte, di ciò che è freddo e senza vita. La poesia di Franco Manzoni è, tutto
all’opposto, calda come il ferro arroventato sul quale si abbatte il maglio del
“miglior fabbro”. E proprio a tale riguardo, un esame anche superficiale delle
occorrenze lessicali evidenzia, a farla da padrone in questa bella silloge, di
fondamentale importanza per gustare appieno l’originalità di Manzoni, sono verbi
indicanti calore (in tutte le sue
forme e conseguenze) come incendiarsi,
bruciare, accendere. Il fuoco è, giusta gli etnoantropologi di estrazione
fenomenologica (Mircea Eliade, Gaston Bachelard) la prima impronta dell’umano
che si raccoglie in clan, che forgia la propria identità tribale, conferendo un
marchio alla notte (che la vampa delle torce rischiara). Si ravvisa in questo
ricorrere di Manzoni - soprattutto, però, nella prima fase della sua attività
poetica - alla determinazione organotopica, coi suoi verbi esprimenti la vivace
attività degli organi di senso (il tatto e la vista sopra tutti), una netta
predominanza della propriocezione di tipo aptico, prensile, manuale, simile a
quella che guida l’esperienza neonatale e informa la curiosità degli infanti, o
che ispira e conduce il gioco degli amanti (“potessi venire a prenderti”). Ad
essa si accompagna il ricorso continuo, reiterato, quasi estenuante, a verbi
indicanti moto a luogo (una sola volta Manzoni si contraddice voluttuosamente:
“tutto è immobile” (nella poesia Concerto).
Verbi quali rincorrere, salire, scendere,
cadere, esplorare (che è fra i primissimi stades de développement cognitif, come Piaget li definisce), precipitare,
partire. Questa vera e propria tensione centrifuga perviene al suo climax
nella poesia Il viaggio (“Si
parte...”), che, se esteriormente adombra il tema spinoso della migrazione, se
non addirittura della fuga precipitosa dalla madrepatria in cerca di destini
migliori, sub specie symboli essa
designa il senso di radicale inadeguatezza che induce il poeta, e forse tutti
gli esseri umani, a migrare, a spingersi altrove, “fra ombre e naufragi” (la
suggestione virgiliana è palese, e come non ricordare il Manzoni umanista, traduttore
dei grandi classici?). Insomma, il movimento è sì, in Manzoni, un moto verso l’altro ma è, più spesso, un moto verso
l’ignoto (il partir n’importe où di Tahar Ben Jelloun) e la spia di
un’insofferenza e di un disagio radicali, forse un involontario omaggio alle
nebbie padane che aleggiavano, negli anni Cinquanta e Sessanta, sui tetti di
una Milano esistenzialista, la grande e anonima metropoli che ruotava attorno
ai caffè di Brera e che nella fenomenologia di Enzo Paci aveva il suo fulcro
teoretico. Il viaggio, dunque. Come a suffragare l’ipotesi della divina mania che Platone espone nel Fedro, ipotesi che fa i conti con uno
stato prepotentemente alterato della coscienza (il topico fuori di sé degli alienati, degli eroi greci, dei santi di tutte le
epoche), Manzoni predilige i verbi indicatori dell’ansia e dell’urgenza
(vitale, amorosa, animale, prosociale). Come involarsi, urgere, precipitare. Culminando nel verbo assalire (“dove ogni cosa ci assalirà...”)
che accorpa il senso del movimento e quello dell’automutilazione, dell’aggressione
autodiretta (l’assalto è portato, nel testo di Felici liquidamente..., all’interno di un’immaginaria coppia). A
smentire l’appello di una carnalità plumbea, pesante come lo sono la colpa e la
successiva espiazione che essa comporta, la poesia di Franco Manzoni è colma di
un non sottacibile richiamo al divino, all’esperienza religiosa aurorale, non
mediata da confessioni e fedi particolari, ma piuttosto da ricondursi al numinosum, alla subitanea apparizione
del dio che atterra e che, allo stesso tempo, suscita e consola. Che la poesia
sia sempre anche una ierofania, una manifestazione sensibile del divino, è ben
dimostrato dalla nostra letteratura tutta, in ispecie da quella manierista e
barocca, ma non solo (lo prova la poesia, altissima, di Campana, Rebora, Onofri,
amatissimi dal Nostro). Qui Manzoni pare come sospeso fra due mondi, quello
della toponomastica legata all’infanzia del poeta, di Milano e dei ricordi ad
essa collegati, e quello di un aldilà dai contorni sfuggenti, per lo più
tenebrosi (“ora che non è più sole”, “dovrò salire nel buio...”) e non sempre
rassicuranti, qualche volta persino opprimenti (perché oltre la soglia lo
attende l’eponimo “angelo di sangue”). Nel lessico di Franco Manzoni un posto a
tutto tondo è ritagliato alla panoplia dell’estasi, alla nominazione, a volte
solo decorativa, altre volte drammaticamente essenziale, che accompagna e che
illustra il personalissimo memento mori del
poeta. Come Francisco Goya, anche Franco Manzoni tratteggia i suoi dèi in
sembianza di baluginii spettrali e la morte, non diversamente da come fa
Leopardi in uno dei suoi Canti più
belli, viene spesso accostata all’amore (ma diversamente dal Recanatese, per
Manzoni l’esperienza amorosa è salvifica nella misura in cui essa ottiene, o
può ottenere, la salvezza, peraltro non garantita appieno dalla morte). La
carne, la morte, il divino. Manzoni segue Praz nell’equivocare, intorbidando
volutamente l’idea che la civiltà occidentale si è andata costruendo
dell’ideale religioso a partire dalla formidabile smentita operata da Hegel e
dal posteriore positivismo teologico. Fino a erompere in un monito al tempo
stesso laico e pitocco, alla Baschenis: “si accetta sai / più concretamente /
di dover morire”. L’avverbio concretamente
è molto lombardo, indice forse di una supina, agostiniana accettazione del mondo
e dei suoi trabocchetti, come qualcuno osserverà, ma anche, più probabilmente,
di un pragmatismo tutto meneghino e febbrilmente industrioso (si noti che la
categoria del concreto è quella prediletta
da un romanziere anseatico ed alto-borghese come lo è Thomas Mann). Proprio
allo scopo di imprimere “una scossa all’anima” (Una piccola canzone..., v. 6), a quell’anima che “non pesa” (Sei venuta intera..., v. 5) e che perciò
si lascia agevolmente trascinare sursum,
verso l’alto, con afflato mistagogico, quasi gnostico (“è tutta una luce / in
essa affogo...”), Franco Manzoni moltiplica i suoi vocativi, in guisa di esortazione e fin di aperto comando. Punto di
forza della poesia del Nostro è il saper coniugare la funzione emotiva e
puramente denotativa (che non si limita, tuttavia, alla semplice descrizione,
ricorrendo più spesso alla callida
iunctura di accostamenti inopinati, inanellati a sorpresa) a quella
conativa dell’ingiunzione gnomica (che si direbbe quasi mutuata dagli esametri
di Focilide e dai distici di Teognide): guardami,
sfiorami, leccami, rincorrili, vivi, asciugami, apri, prendi, non voltarti.... (ma l’elenco sarebbe lungo) sono ingiunzioni
secche però accorate, spesso disperate, talora solo maliziose, tali da non
sfigurare nell’Ars amandi, ma anche
come un’eco lontana di taluni imperiosi e stravolti accenti del grande Dylan
Thomas, nel quale l’esortazione appare come il correlativo adeguato, osserva
Heaney, per la riflessività del sentimento. Ancora una volta dobbiamo porre
l’accento sulla valenza sensoriale di questi imperativi, facilitanti la fuga
del poeta, vagheggiata se non attuata (così come avviene per Leopardi), dalla
claustrofobia emotiva di un’esistenza sofferta, il più delle volte subita, ma
anche (cristianamente?) accettata. La maggior parte dei lemmi che Franco
Manzoni utilizza in questa splendida raccolta si lasciano assaporare e godere a
motivo della persistente anfibolia di senso che la pervade (a ciò contribuisce
una fraseologia liberamente paratattica, che procede per franche e avulse
associazioni e che solo a fatica si potrebbe definire ermetica, mentre essa è, invece, più vicina all’espediente surrealista
del cadavre exquis, tutto affidato al
goloso gioco d’incastro acriticamente operato dall’inconscio). Se l’equivoco è
alla base di ogni grande poesia, l’imperativo sta viceversa a bucare, a squarciare,
anzi, la sottile linea d’ombra che vela il mondo sublunare delle imitazioni imperfette
e che sostenta le mistificazioni imposteci non solo dalla nostra stessa condition humaine, ma anche dal dubbio radicale
che pervade quest’ultima e che finisce per erodere, col passare degli anni, le
nostre coscienze tremule. L’ingiunzione poetica di Manzoni (il quale, non a
caso, nel 1987 pubblicò una silloge dal rivelatore titolo imperatore!, con tanto di punto esclamativo), con l’invocazione e
la preghiera che ne sono la declinazione eufemizzante, attenuata, sta all’ispirazione
come l’exhortatio che conclude
l’intervento del retore, definitiva e dirimente, sta all’oggetto del
contendere. Montalianamente precisandosi in
absentia, più per ciò che essa esclude
e respinge da sé che per ciò che essa mostra di gradire e di voler accogliere
in sé. Tra queste affabili, insinuanti ingiunzioni v’è come uno scarto, un
salto di qualità spiccato da questo verso
un altro e più lontano piano
dell’esistere. Vi è nella poesia di Franco Manzoni una tensione irrisolta,
stridente, quasi bellicosa, fra il piano della fede e quello di una molto umana
carnalità. In realtà, una terminologia espressamente dedicata al sacro non dà, qui, un’ampia e
convincente testimonianza di sé. Locuzioni apparentemente rivelatrici quali donna di dio, febbre del dio, seme di dio,
serva di dio, sacra abitudine, cristo morente, guglie benedette, paradiso, sono tutte adoperate - con rigore che
nulla concede a facili sdilinquimenti - con l’iniziale minuscola, quasi che si
tratti di interiezioni gergali, modi di dire colloquiali, solecismi. Manzoni si
annette il sacro come un attributo della realtà, piegandola alla ragion pratica
di una laica ed ebbra inquietudine (lo fanno sempre i grandi poeti, ché
altrimenti essi avrebbero indossato l’abito talare). Diremo che il sacro è una
soglia alla quale si accede, in casa Manzoni, in punta di piedi, senza fiatare,
in silenzio, col cappello in mano. Una volumetto del 1990, Faccina, nel quale il Nostro parla della figlioletta Beatrice morta
ancora neonata, è forse quello nel quale con maggiore potenza espressiva, con
un incanto quasi rilkiano, Manzoni ingloba prospettive noetiche
apparentemente differenti e lontane nel tempo per unificarle e armonizzarle
alla luce di un dolore che non riuscirà mai a placarsi e nemmeno, a ben vedere,
potrà precisarsi a parole. La poesia Oltre
gli oggetti, del 2001, dedicato all’amico Roberto Sanesi, tocca forse la
vetta più alta di questa religiosità laica nella quale l’intuizione di un
oltremondo, di una realtà che va molto al di là di quanto la sola poesia è in
grado di esprimere (può forse la musica farlo? ne dubitiamo, benché quella di
Bach sembri provarci), è sempre in agguato.
Ben rappresentato è l’eros, al quale il Nostro dedica la parte
conclusiva dell’antologia, quella in cui sono raccolti gli inediti più recenti.
Entrambi, sia il sacro (però a dimensione d’uomo) che l’eros (però
sacralizzato, elevato a tantrico motore di conoscenza) hanno lo scopo, qui, di
sollevare gli occhi del proprio ideale interlocutore verso le altezze del mondo
spirituale, ovvero, dando credito a una felice intuizione di Pavel Florenskij,
di aprire quest’ultimo, il mondo soprannaturale, alla coscienza. In questo
senso Franco Manzoni - che proprio nel 2018 festeggia, con questa raccolta, il
quarantesimo anniversario della sua attività di autore in versi - può dirsi
oggi uno tra i poeti più significativi e interessanti del nostro tempo e la sua
poesia un tentativo, perfettamente riuscito, di alternare “la vita nel
visibile” a quella nell’invisibile. Se l’anima è il luogo della
poesia, come scrive Keats, Milano è per Franco Manzoni il genius loci della poesia civile così come Roma lo era stata per
Pasolini. Sporcarsi le mani con la vita di tutti i giorni, quella
che ci impone la fatica di vivere, di tirare avanti, di credere, di sperare, di
amare, anche di pregare, se e quando occorre. Questo è il miracolo operato
dalla poesia di Franco Manzoni. Se quest’ultima è “un’infinita accoglienza di
dolore”, si tratta di un dolore consumato e redento dalla parola che si fa
vita.
La copertina del libro |
Franco Manzoni
Angelo di Sangue/ Inger
de sânge
Edizioni
Eikon (Bucarest) 2018
Pagg.
112 Leu 25
***
A DINO FORMAGGIO
NEL DECIMO ANNIVERSARIO
DELLA MORTE
di Gabriele Scaramuzza
Dino Formaggio |
Dieci anni fa, il 6 dicembre del 2008, è
mancato a Illasi Dino Formaggio, studioso di estetica, artista, e mio
insegnante. Era nato a Milano nel mese di luglio, il 28, del 1914; perciò fin da
ora ne rievoco la scomparsa - è il mio modo di considerare la sua morte, come
voleva, nella prospettiva della vita. V’è da aggiungere che ottant’anni fa, nel
1938, sempre nel mese di dicembre, il 3, moriva a Milano Antonia Pozzi, sua
grande amica. Vale la pena ricordare, sia pur a latere, anche lei.
*
Le loro voci si
intrecciano a proposito di eventi che restano purtroppo tuttora nei nostri
orizzonti. In una lettera da Marzio datata 5 settembre 1938 scrive Formaggio
alla Pozzi: “Io sto in questi tempi rafforzando il mio pensiero sociale”,
“medito Marx e ho voglia di azione. Porci, dici? Ma non ancora fottuti. E,
Cristo, lo saranno presto”. Antonia gli fa a suo modo eco il 27 settembre 1938
in una lettera da Pasturo: “E soprattutto, siamo stufi di prepotenze, di
soprusi, di aggressioni che sui giornali diventano ‘sacrosanti diritti’, degli
urli della folla anonima ridotta allo stato di bestia cieca, della repressione
barbara e retrograda di ogni voce umanitaria, del quotidiano capovolgimento
della realtà di fatto”; dove, aggiunge, si è perduto “il senso che domina noi
giovani: quello della libertà di coscienza”.
*
Continuo per
frammenti, ricorrendo a mie memorie sparse.
Mi è rimasta impressa l’ammirazione con cui a
Toceno nella seconda metà degli anni ’50 lo ricordava uno dei suoi primi
allievi liceali (poi ingegnere, ricordo persino il cognome: Falciola), per il
coraggio che aveva mostrato nel non nascondere le sue critiche al fascismo, e
in anni in cui era pericoloso farlo.
Mi è tornato così alla memoria il racconto di
Formaggio dell’arresto: si era pericolosamente esposto esprimendo su un mezzo
pubblico a voce alta la sua convinzione, del resto più che giustificata, che
la guerra era ormai perduta. Le sue giustificazioni (avrebbe agito da semplice
storico spassionato) non lo salvarono dall’esser tradotto nelle carceri di
Verona, dove fu compagno di cella di Berto Perotti, germanista, poi autore dell’impressionante
libro su La notte dei cristalli,
pubblicato nel 1977. Non ricordo come avvenne la liberazione di Formaggio, mi è
rimasta in mente solo la sua corsa di slancio, felice, verso le Torricelle
all’uscita dalla prigione (così mi raccontava). Ma insieme ricordo le sue
narrazioni del soggiorno a Bassano, coi suoi, durante la guerra, della prima invasione
della Francia (ovviamente mal sopportata dai francesi). Sono notizie che
andrebbero tutte verificate, certo, ma è quel che mi resta. Di prima mano è
invece la testimonianza delle sue lezioni sulla resistenza: sobrie,
circostanziate, mai enfatiche.
Il suo atteggiamento
verso gli scioperi per Trieste confortò poi in me una sia pur larvale presa di coscienza
politica. Erano scioperi strumentalizzati da studenti del Movimento sociale (di
uno di essi, rosso di capelli, mi è rimasto il nome), e l’ambiente non era
certo di sinistra; solo in seguito sentii parlare degli anni del fascismo,
della resistenza, e ancora più tardi della Shoah. In quell’ambiente l’esser di
sinistra era visto come una colpa e divenne un capo d’accusa contro Formaggio;
ricordo bene scritte contro di lui sui muri esterni del liceo.
*
Ritrovo qualcosa di Formaggio nella Lettera a un giovane cattolico di
Heinrich Böll, scritta nel 1958, ma riferentesi agli anni del nazismo: “la
morale era stata identificata, al solito, con la morale sessuale. Non voglio
trattenermi a spiegarle quale immenso errore teologico sta alla base di tale
identificazione, […] Non una parola su Hitler, non una parola
sull’antisemitismo, su eventuali conflitti tra un ordine e la nostra
coscienza”.
Da quella perniciosa identificazione Formaggio si
era presto emancipato, resta un merito per lui, per tutti.
*
Fin dai primi tempi Formaggio mi ha insegnato la
libertà di coscienza, il coraggio della verità (termine che con giustizia e
ragione tornava spesso nei suoi discorsi), il rifiuto di occultare la realtà
dietro le cortine fumogene dell’ipocrisia, il tedio della retorica,
dell’edulcorazione irresponsabile e della mitologizzazione. È in nome di questo
che mi sento tuttora in diritto di prender la parola.
Le sue lezioni,
la voce, la mimica del corpo, racchiudevano promesse meravigliose. Con
entusiasmo scoprivo mondi di arte e di pensiero a me del tutto ignoti. Quel suo
modo di coinvolgere, di sollecitare risposte attive, trovava un terreno
favorevole nella mia estrema ricettività. Trasmetteva il pensiero altrui, ma
insieme, e in modo preponderante, lo rendeva vivo comunicando insieme il suo
modo di essere verso di esso. Una partecipazione, una densità affettiva colorava
il rapporto con la cultura che ci comunicava; non mortificava la cultura con obblighi
di corto raggio. Per questo non ho mai provato noia, non c’è stata pigrizia, né
mancanza di buona volontà o di capacità di concentrazione, per me, nelle cose
che davvero anche dopo di lui mi hanno preso.
Un ricordo tuttora
toccante è la sua lezione all’inizio dell’ultimo anno del liceo prima che ci
lasciasse per l’università; gli occhiali abbrunati, la voce incrinata dalla
commozione: la sua vita, affermava, non aveva senso se non nella ricerca. Questo
mi fa riandare a una conversazione una sera nella sua abitazione a Milano, in
via Anco Marzio: una lezione vera e propria anzi, sugli sviluppi della
filosofia contemporanea. Non era ormai più mio insegnante e si era gentilmente
assunto il compito di surrogare così le sue lezioni mancate. La testa reclinata
sulla poltrona, il consueto tono di voce suadente, dipingeva a tinte
apocalittiche la sconsolante situazione del mondo contemporaneo. Il racconto
riempiva di intima gratificazione, infondeva certezze interiori, tanto più
quanto più affondava lo sguardo nella catastrofe. Tutto era così disperante, è
vero, ma noi eravamo al caldo, e al sicuro, in un luogo del nostro personale
sublime.
Conservo infine
tuttora un quaderno con gli appunti dalle sue lezioni su Spinoza, assai belle; me
li sono persino trascritti in bell’ordine. Risuonava qui l’eredità di Banfi, di
cui Formaggio dovette aver seguito il celebre corso spinoziano. Tutto in questi
appunti avvalorava l’idea di una vita raccolta in se stessa, fatta di dedizioni
profonde e di rapporti umani semplici ma autentici e costanti, tutta giocata su
poche cose essenziali. Quell’idea che traspare anche da talune parole di Antonia
Pozzi.
Antonia Pozzi |
Nel mondo
universitario in cui Formaggio è capitato la sua posizione era certo
eccentrica; ma in esso ha saputo muoversi con accortezza dopotutto. Non lo ha
mai abbandonato tuttavia un senso di fondamentale estraneità ad esso, che ho
condiviso.
Personalmente ancora
gli resto grato di non aver lasciato cadere, nei fatti, domande tuttora nevralgiche. Mai avrebbe scambiato l’efficienza,
la correttezza professionale (che anche gli Eichmann possiedono, si sa, e al
più alto grado), per universalità etica. Dedizione a un compito e adeguatezza
nello svolgerlo possono stridere con le finalità cui sono volte. Un’acribia, qualsiasi
acribia, è benvenuta, ma non vale di per sé: ci si deve chiedere in relazione a
cosa, a che fini è esercitata.
Tra le cose che
più mi hanno preso c’è inoltre che, nel concreto dei suoi modi di agire (ma mai
in dichiarazioni programmatiche), Formaggio si è sottratto alla censura che
l’ambiente in cui si è formato praticava verso tutto ciò che suona soggettivo, psicologico.
Le sue lezioni, i suoi scritti (e non solo i primi, che più amavo), il suo
comportamento, recano in sé una caratteristica impronta personale, e chiare
venature autobiografiche.
*
Concluderò con
due memorie. Una sua cartolina dalla montagna innanzitutto: pini attorno,
radura, monti innevati al fondo, e parole: “la vera morale consiste non già nel
seguire il sentiero battuto, ma nel trovare la propria strada e seguirla
coraggiosamente”; e dietro, con un pensiero affettuoso, “molti auguri”.
Conteneva un’esortazione, e un velato rimprovero, ora lo so bene. A lui, infine,
devo il gusto per i mobili antichi, tanto che su sua indicazione ne ho
acquistati alcuni che ancora ho con me; e l’interesse per le litografie (me ne
ha anche regalate alcune), tutto questo era così consono alla sua personalità.
Come cifra di quanto mi è più caro ricordare è l’aura delle betulle che
Formaggio mi ha trasmesso, della loro delicata bellezza; tanto che ne ho collocate
due nel nostro giardinetto di Padova.
***
Libri
L’ITALIA
CONTESA:
LA RICOSTRUZIONE E LA CLASSE OPERAIA
LA RICOSTRUZIONE E LA CLASSE OPERAIA
di Franco Astengo
La copertina del libro |
È appena arrivato in libreria il nuovo lavoro
di Giuseppe Vacca L’Italia contesa
(edizione Marsilio). Nel testo si affronta, con la solita finezza d’esposizione
e ricchezza di ricerca storica tipica dell’autore, una tematizzazionefondamentale della storia della Repubblica
partendo dal presupposto che, per lungo tempo, questa storia è stata la storia
dei partiti che l’hanno fondata e, in particolare, di due grandi forze popolari:
il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana. L’autore
ricorda come i due partiti fossero “uniti dalla Carta Costituzionale ma divisi
dagli schieramenti internazionali di riferimento”. Il PCI e la
DC, considerati soprattutto nell’elaborazione politica progressivamente esposta
dai loro principali esponenti, sono descritti dall’autore come caratterizzati
da un intreccio di divergenze ideologiche insuperabili e di generosi tentativi
di convergenza. In particolare nel quarto capitolo “La percezione della Dc da
Togliatti a Berlinguer” e, più specificatamente nel paragrafo “ De Gasperi dopo
la morte” si affronta il passaggio riguardante la ricostruzione dell’Italia dal
disastro bellico.
***
Una
ricostruzione attuata prima con la collaborazione di governo (fino al maggio
1947) e successivamente con la DC alla guida dell’esecutivo e il PCI con il PSI
all’opposizione.
In questo
passaggio si rileva, almeno dal punto di vista dell’autore, come semplicistica
la valutazione che Togliatti fornisce
sulla figura di De Gasperi, nel suo saggio pubblicato da “Rinascita” tra
il 1955 e il 1956, in sei puntate, scritto quindi dopo la morte dello statista
trentino. La
valutazione di Togliatti era riassunta in quel saggio intendendo l’azione
degasperiana come di “ restaurazione del capitalismo”.
In realtà, precisa
Vacca, Togliatti intendeva come la ricostruzione del Paese durante i cinque
anni tra il 1948 e il 1953 fosse avvenuta (utilizzando i fondi dell’ERP in
maniera autonoma anche rispetto agli stessi intendimenti del governo USA)
ripristinando il modello di sviluppo tradizionale dell’economia italiana,
fondato su bassi salari e bassi consumi (sarebbe così composta la “struttura
economica tradizionale).
L’autore contesta questa valutazione togliattiana (ripetiamo espressa tra il 1955 e il 1956) e ne ripercorre tutto l’itinerario analitico ponendo in particolare l’accento sull’analisi che Togliatti vi svolge circa il rapporto tra il corporativismo fascista e quello cattolico. In quest’ambito, oltre al dato puramente riferito al tema della ricostruzione post-bellica, è sottoposta a giudizio anche la distinzione tra i due “antifascismi” (quello democristiano è considerato da Togliatti come “antifascismo speciale) portando così il tema sul piano squisitamente politico. All’interno di quest’analisi sviluppata nel testo di Vacca si può notare come l’autore ometta la presenza, in quel contesto storico, di un protagonista che a giudizio di chi scrive questo intervento è stato sicuramente fondamentale: la classe operaia.
L’autore contesta questa valutazione togliattiana (ripetiamo espressa tra il 1955 e il 1956) e ne ripercorre tutto l’itinerario analitico ponendo in particolare l’accento sull’analisi che Togliatti vi svolge circa il rapporto tra il corporativismo fascista e quello cattolico. In quest’ambito, oltre al dato puramente riferito al tema della ricostruzione post-bellica, è sottoposta a giudizio anche la distinzione tra i due “antifascismi” (quello democristiano è considerato da Togliatti come “antifascismo speciale) portando così il tema sul piano squisitamente politico. All’interno di quest’analisi sviluppata nel testo di Vacca si può notare come l’autore ometta la presenza, in quel contesto storico, di un protagonista che a giudizio di chi scrive questo intervento è stato sicuramente fondamentale: la classe operaia.
Insieme nel
lavoro di Vacca pare mancare anche la descrizione del delinearsi dei rapporti
di forza sul piano sociale e del determinarsi di nuove condizioni materiali di
vita e di lavoro nell’Italia di allora. Condizioni materiali di vita e di
lavoro il cui mutamento materiale avrebbe poi avuto influenza sullo sviluppo dell’insieme delle
questioni economiche e delle vicende politiche e sociali almeno fino alla
vigilia del “miracolo economico” e dell’apertura (travagliata e complessa) del
centro-sinistra.
È bene quindi cercare di fornire un contributo per qual che
riguarda l’analisi del periodo della ricostruzione post-bellica rivolto al
complesso degli agenti sociali influenzarono il quadro politico. Quadro
politico, attraversato anche all’epoca da una forte tensione rivolta alla “autonomia” nell’insieme dell’essere e dell’agire dei suoi soggetti
portanti, cioè i partiti fortemente caratterizzati ideologicamente. Proviamo
allora ad andare brevemente per ordine.
Alla fine
della guerra l’Italia si trovò di fronte ai seguenti maggiori problemi: in
primo luogo vi era la grave situazione economica; in secondo luogo vi era
l’eredità della divisione politica e militare del paese durante il periodo
della Resistenza. L’Italia del Nord aveva sviluppato al massimo il movimento di
lotta contro il nazifascismo e si trovava complessivamente, nel valutare le
esigenze di rinnovamento del Paese, su posizioni più radicali e progressiste
che non l’Italia del Sud: quest’ultima, invece, dove la mancanza di lotta
armata e la presenza della monarchia e del governo avevano assicurato la
“continuità” delle strutture dello Stato, era rimasta chiusa in orizzonti più
conservatori e moderati.
Infine,
erano ben presenti sul territorio le forze armate alleate, con un loro peso
assai rilevante in quanto esse non soltanto rappresentavano l’unico organismo
in grado di provvedere ai primi necessari aiuti a una popolazione in miseria,
ma sorvegliavano accuratamente gli sviluppi politici della situazione italiana,
con non nascoste inclinazioni per le forze più moderate e una netta ostilità
verso i partiti della sinistra. L’influenza
dell’Amministrazione Militare alleata divenne immediatamente un elemento
imprescindibile per le forze politiche, tanto più che le truppe anglo americane
diventarono subito una garanzia per i partiti di Destra e di Centro. Dal punto
di vista economico l’Italia del 1945 si trovava in condizioni che, pur essendo
di gran lunga migliori di quelle di molti altri Paesi europei (ad esempio la
Germania e la Polonia) erano di per se stesse quanto mai pesanti. Le
distruzioni belliche avevano portato alla perdita di circa il 20% del
patrimonio nazionale. L’industria si era nella maggior parte salvata, poiché i
danni bellici si aggiravano intorno all’8% degli impianti; ma le capacità
produttive complessive, scese nel 1945 al 29% rispetto al 1938, erano
gravemente compromesse, sia dalla mancanza di materie prime, sia
dall’invecchiamento tecnologico, dovuto al logoramento subito durante la guerra
negli anni trascorsi senza un adeguato rinnovamento. L’agricoltura
nel 1945 ebbe un calo produttivo assai pesante, dovuto sia alla rovina delle
coltivazioni e dei terreni nelle zone di guerra, sia all’impoverimento del
suolo, rimasto senza sufficiente concimazione.
In questa
situazione risultarono d’importanza fondamentale gli aiuti forniti dagli
alleati, con evidenti conseguenze politiche. Gravissimi danni avevano subito i
trasporti.
Anche nel
settore dell’edilizia, con la messa fuori uso di oltre il 10% del totale dei
fabbricati, la situazione si presentava abbastanza grave, specie nelle maggiori
città.
I prezzi
intanto erano saliti nel 1945 rispetto al 1939, di 18,4 volte. I disoccupati e
i sottoccupati ammontavano a un numero assai rilevante e costituivano un grosso
e difficile problema politico e sociale.
Nel 1946 i disoccupati censiti risultarono 1.654.872 e il salario medio era circa la metà di quello del 1938. In questa situazione si presentavano due alternative possibili: che lo Stato assumesse nelle proprie mani il controllo della ricostruzione oppure che questa venisse affidata sostanzialmente all’iniziativa privata.
Nel 1946 i disoccupati censiti risultarono 1.654.872 e il salario medio era circa la metà di quello del 1938. In questa situazione si presentavano due alternative possibili: che lo Stato assumesse nelle proprie mani il controllo della ricostruzione oppure che questa venisse affidata sostanzialmente all’iniziativa privata.
Alcuni
importanti elementi a sostegno della prima eventualità esistevano.
Anzitutto
era disponibili gli strumenti di controllo che il fascismo aveva messo in atto
per le esigenze dell’economia corporativa e dell’economia di guerra.
Questi
controlli, svincolati dalle esigenze dell’economia corporativa, potevano essere
utilizzati secondo nuove esigenze programmatiche. In secondo luogo esisteva la
base pubblica sia nel campo della finanza sia dell’industria: anche in questo
caso si trattava dell’eredità della politica d’intervento attuata dal fascismo
negli anni’30. Si tenga presente che lo Stato deteneva nel 1945 il possesso di
circa il 90% delle banche e una quota notevole dell’industria, specialmente di
quella pesante.
La legge
bancaria del 1936 rendeva inoltre possibile allo Stato di operare una selezione
del credito secondo finalità specifiche. Pur tuttavia prevalse la seconda
opzione: quella liberista e ciò avvenne quando era ancora in carica il governo
di solidarietà antifascista. Il cambio della moneta, che con i controlli a essa
legati avrebbe consentito di verificare gli extraprofitti dei “pescecani” di
guerra e sottoporli ad adeguata tassazione, fu combattuta con successo dai liberisti
favorevoli per contro al minimo di tasse sul capitale e alla sicurezza dei
profitti. La Dc si dimostrò, attraverso i ministri Bertone e Campilli, coerente
esecutrice della linea liberista. In ogni caso tra il 1945 – 46 la ripresa
economica e produttiva non si realizzò. Una svolta fu introdotta con la
politica economica di Luigi Einaudi, ministro del Bilancio, attraverso la
svalutazione della lira nell’agosto del 1947. La svalutazione ebbe voluto
perché in tal modo si sarebbe favorita la riduzione delle importazioni, il
rientro di capitali e il rilancio delle esportazioni, secondo una linea di tipo
deflazionistico. I risultati allora arrivarono, nel senso auspicato dai
promotori di quella linea di politica economica. La svolta einaudiana si pose,
però, di pari passo con un attacco generalizzato ai livelli di occupazione, che
nel 1948 era ancora assai basso con ben 2.124.474 disoccupati su una
popolazione di 46 milioni. Alla fine del 1948 la produzione industriale aveva
raggiunto l’89% di quella del 1938 e quella agricola dell’84%. La politica
congiunta di svalutazione e deflazione ebbe un importante effetto sulla
struttura delle imprese italiane, favorendone la concentrazione. Risultò
comunque molto significativo, all’interno di quel quadro, il fatto che l’IRI
avesse superato la tempesta antistatalista e avesse ripreso ad operare
ottenendo nel 1948 notevoli finanziamenti che dovevano costituire la base per
un prossimo rilancio dell’industria pubblica.
In
conclusione di questa parte della nostra ricostruzione si può affermare che la
politica liberista di Einaudi aveva ottenuto rilevanti risultati rispetto
all’obiettivo di rilanciare l’iniziativa privata e di contrastare una politica
di programmazione, ma non ne ebbe alcuno per quanto riguardava il carattere
monopolistico delle concentrazioni finanziarie ed industriali. L’atteggiamento
delle Sinistre di fronte ai problemi della ricostruzione fu improntato in
generale, pur con differenze tra i comunisti e i socialisti. ad uno spirito di
“solidarietà nazionale” e quindi di collaborazione “condizionata” con le forze
imprenditoriali.
Una simile
linea aveva quale presupposto un orientamento teorico generale che portava i
comunisti a ritenere che il capitalismo italiano, con le sue tare storiche, non
fosse in grado di assumere autonomamente il controllo del processo produttivo e
si trovasse pertanto nella condizione di dover accettare il controllo delle
grandi organizzazioni politiche e sindacali della Sinistra, le quali avrebbero,
a livello di rapporti di produzione, realizzato la stessa formula del governo.
Era la linea
del cosiddetto “capitalismo straccione” elaborata da Amendola che poi sarebbe
stata alla base dello scontro interno nel post Togliatti, fino all’XI congresso
del 1966.
Il fatto che
i comunisti lasciassero campo libero all’iniziativa privata portò i
capitalisti, nella fase iniziale e di loro maggiore debolezza, ad accettare
tatticamente il rapporto che i comunisti chiedevano; dopo di che, riassunte le
redini delle aziende, passarono ad un’offensiva generalizzata contro le
Sinistre e le loro richieste di controllo; vanamente, a quel punto, il PCI
chiese un inizio di programmazione economica, che pure in un primo tempo aveva
respinto come non attuabile per mancanza di strumenti.
In sostanza,
all’estromissione nel 1947 delle Sinistre dal governo si accompagnò quella dai
luoghi di lavoro.
Così la CGIL
si trovò a dover restare su posizioni difensive, senza poter contrastare il
recupero di potere delle classi dirigenti, nonostante tentativi di uscita da
quel tipo di posizione come quella tentata nel 1949 con il varo del “Piano del
Lavoro”.
In primo
luogo il sindacato non riuscì ad opporsi allo sblocco dei licenziamenti, il
quale nel gennaio del 1946 diventò totale anche se con scaglionamenti.
Nell’ottobre
del 1946 fu accettata una tregua salariale che durò un anno, venendo così
incontro alle richieste del padronato, in nome delle esigenze dalla
ricostruzione.
Una
situazione assai critica per la CGIL si delineò quando, in presenza di un forte
processo inflattivo con la conseguente erosione dei salari si creò anche una
situazione di diffusi licenziamenti a partire dagli ultimi mesi del 1947. Le
reazioni che diedero origine a forti agitazioni da parte degli strati popolari
più colpiti furono, in sostanza, “frenate” dal sindacato, che si trovava in
un’obiettiva posizione di debolezza e nell’impossibilità di dare alle proteste
della base uno sbocco diverso da quello legato alle prospettive di una futura
ripresa economica in grado di aumentare le disponibilità di lavoro.
Ben presto
la scissione nelle file del sindacato, nel quadro di un’offensiva moderata
generalizzata, doveva creare ulteriori difficoltà e un indebolimento del
movimento operaio, coinvolto anche a livello sindacale dalla sconfitta storica
nelle elezioni dell’aprile 1948.
Così il 1948
fu un anno chiave nella situazione del dopoguerra.
La vittoria
schiacciante della DC nelle elezioni del 1948 e gli importanti aiuti
statunitensi dati al Paese in base al piano Marshall costituirono la premessa
perché l’ulteriore sviluppo politico e economico italiano avvenisse in un
quadro d’isolamento sia dei partiti della Sinistra, sia della CGIL. Questo
punto deve essere ricordato con attenzione, anche rispetto alle note critiche
contenute nel volume di Vacca.
De Gasperi,
dopo che come si è già fatto rilevare nel periodo 1945-48 era stato bloccato
ogni rinnovamento politico – sociale sentiva nondimeno la necessità di un passo
avanti, sia pure parziale.
A fronte di
forti agitazioni sociali affrontate con quella repressione poliziesca che ebbe
le sue punte più drammatiche al Sud con le uccisioni di braccianti a Melissa e
a Montescaglioso e al Nord a Modena, con l’assassinio di 5 operai davanti alla
fonderie Orsi Mangelli nel 1950, fu tentato dal governo centrista una sorta di
“riformismo dall’alto” che diede risultati, a partire dalla riforma agraria
approvata nel 1950, modesti e insoddisfacenti. I risultati complessivi del
quinquennio 1948-53 apparvero positivi sotto l’aspetto quantitativo, ma se si
verificano dal punto di vista sociale gli squilibri non erano stati in alcun
modo affrontati e attenuati. questo è un
punto che deve sottolineato e ricordato).
La politica
liberista del governo aveva dunque fatto pagare costi salatissimi sia al
proletariato industriale del Nord, sia al bracciantato del Mezzogiorno.
Agli elevati
profitti stavano di fronte salari bassi e pesantissime condizioni di lavoro:
condizioni miserrime per milioni di persona a cui si accompagnava una
fortissima emigrazione verso i Paesi europei e le Americhe (emigrazione
stimolata e agevolato dallo stesso Governo).
La
ricostruzione poteva considerarsi ultimata nel 1954, quando la produzione
industriale aveva superato ormai dell’81% la produzione del 1938, ma le
condizioni reali di vita di gran parte del Paese iniziarono a migliorare
soltanto con l’avvio della modernizzazione della grande industria, avvenuta
grazie all’innovazione tecnologica che aveva fornito grande vantaggio alle
esportazioni.
Toccò
all’industria di Stato ricoprire il ruolo di capofila sia sul terreno
dell’innovazione tecnologica, sia rispetto alle esportazioni, nella siderurgia,
nella chimica e nell’industria petrolifera, con la vicenda legata all’ENI di
Mattei fino alla sua misteriosa scomparsa. Ma se aumentò complessivamente la
produttività e con essa i profitti, i salari rimasero comunque indietro e
scarsi furono i progressi dell’occupazione: nel 1955 risultavano ancora ben
2.161.000 disoccupati. In una fase di sviluppo caratterizzata da alti profitti
e da bassi salari, il padronato portò avanti (come mise in luce perfino
un’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche
svolta nel 1957) una dura politica di attacco ai sindacati. Insomma: la
ricostruzione era conclusa e ci si avviava verso il “miracolo economico” in un
clima di duro attacco alla CGIL, in condizioni di bassi salari e di alta
disoccupazione.
Appariva
chiaro, allora come adesso, quali soggetti sociali erano stati chiamati a
pagare gli altissimi costi della ricostruzione del Paese stremato dalla guerra
fascista. Si apriva a questo punto la stagione che avrebbe portato al “miracolo
economico” e ad una svolta negli equilibri politici con il Luglio ’60 e il
governo Fanfani delle “convergenze parallele”.
Un’Italia
contesa dunque ma non semplicemente tra i due grandi partiti di massa.
Un’Italia
stretta nella morsa feroce di una
aggressiva lotta di classe condotta da un padronato rimasto arretrato fin sulla
soglia degli anni’60. Nella realtà quindi una ricostruzione realizzata
attraverso enormi sacrifici umani, di lavoratrici e lavoratori e delle loro
famiglie in un clima di pesante sopraffazione sociale: quell’Italia degli anni
’40- ’50 da non dimenticare.
Aforismi ubriachi DI MIKY DEGNI
di Giovanni Bonomo
La copertina del libro |
Conosco Miky
Degni da quando partecipò ad alcune edizioni di Bacco Natale,
celebrazione del dio Bacco che allo scadere di ogni anno organizzavo presso la
mia dimora in Brera per tirare qualche sana boccata di ossigeno, oltre che
qualche sorso di buon vino, a fronte della frenesia consumistica prenatalizia
dei forzati dei regali ad ogni costo. Tra i vari ospiti, artisti, musicisti,
poeti e scrittori, che si dilettavano in agoni improvvisati, nello spirito
teatrale e cyraniano del mio salotto diventato alcolico per l’occasione, con le
migliori e premiate rime (baciate o alterne) in coma etilico, era anche questo
signore al quale non diedi all’inizio molta importanza… anche se i suoi
“Dipinti Ubriachi” disegnati con il vino (Nebbiolo di Valtellina, Sassella ma
anche Sforzato) denotavano già quel pizzico di genialità artistica che ebbi
dopo a scoprire appieno.
Ora non è un
caso, se crediamo alle impreviste ma necessarie sincronicità della vita, che
mentre stavo esaminando i primi 80 Aforismi di altrettanti autori per festeggiare
i 15 anni di vita di “Odissea”, in qualità di collaboratore della rivista, mi
arriva un suo messaggio WhatsApp: “Aforismi ubriachi, il mio nuovo libro”.
Ed eccomi qua ora con il libretto (Aforismi
ubriachi, Trenta Ed. 2018) in mano a sfogliarlo e, prima di leggere gli
aforismi, che sono 41, a osservarlo nei disegni che li accompagnano. Uno stile
che già conoscevo e che già apprezzavo, la pennellata flash incisiva,
essenziale, simbolica, che solo un vero artista come Miky Degni, altro che
“pubblicitario” come da alcuni recensori è stato chiamato, riesce a fare. Forse
era inevitabile l’approdo all’aforisma da parte di un pittore essenziale, che
coglie con pochi colpi di pennello l’essenza delle cose, ma io non me lo
aspettavo proprio, ed è stata per me una gradita sorpresa. Riuscire a esprimere
in poche parole una riflessione che richiederebbe un articolato discorso, come
quasi sempre avviene quando si parla di se stessi, è un altro segno di talento:
“Dipingo col vino perché
l’inchiostro non lo reggo”.
E questo primo aforisma, che introduce la raccolta, è la sua presentazione di
artista: non sono uno scrittore, non reggo l’inchiostro, e dipingo (e ora
scrivo senza inchiostro ma) con il vino. Eppure, nonostante questa professione
di modestia iniziale, i suoi “aforismi ubriachi” sono senz’altro degni
di tale genere letterario.
Ho sempre
considerato l’aforisma una frase “flash” sagace, e quindi non a tutti concessa,
che ci fa apparire a volte lapidari e impietosi, quando serve, ironicamente
eccessivi e provocatori, sempre, per sorprendere e trasmettere un’intuizione
che sveglia il pensiero.Devo dire che Miky Degni va oltre perché in questo
libretto troviamo anche la parodia dell’aforisma: ridotto a una sola parola “A(R)MATEVI”,
che fa il verso alle scritte sui muri dell’Università Statale ai tempi della
contestazione studentesca, e a due parole con “Partito € Consumista”, perfettamente in linea con il
disfacimento politico, tra diffusa mediocrità sociale e consumistica
insulsaggine, che sta vivendo oggi il nostro Paese.
Ma non è forse
vero che, se indugiamo troppo ai piaceri del palato fine e “artistico”, come
pretende la novelle cousine, rischiamo di morire di fame? “Una volta c’erano i cuochi, oggi ci
sono gli chef. Domani forse mangeremo qualcosa”. Si stava meglio
quando si stava meno peggio. Speriamo che l’auspicio dell’Autore, per quanto
riguarda l’artigianato culinario (ma quale arte!), si realizzi. Per ora, stando
così le cose, possiamo dire che, in questo caso, “l’arte è una bufala, come la mozzarella”. Ora ci taglieggiano
anche le pietanze se andiamo in certi ristoranti con velleità artistiche. Questo
perché “La logica del
profitto produce solo nuovi ingordi (di ignoranza!)”. E gli ingordi di ignoranza li
troviamo purtroppo in ogni campo. Siamo in un Paese con il più alto tasso di
analfabetismo di ritorno, e questo perché: “In Italia tutti scrivono ma nessuno legge”. Grazie anche ai social
che permettono a tutti di digitare e scrivere idiozie senza prima pensare, così
come viene permesso in tanti talk show di parlare senza prima connettere
la lingua al cervello.
Del resto la
prima cosa che facciamo entrando in una casa o in un qualsiai locale è di
cercare il Wi-Fi per poter continuare a ‘tweettare’ o a ‘postare’ su Facebook.
Vale allora l’esortazione dell’autore: “Attiva il cervello, non il wi-fi”. Ormai “In questo Paese tira di più un tweet
che un carro di buoi”. Non ci stupiamo se la nostra amata Italia, in
cui l’innovazione digitale è sempre in ritardo, è popolata più che da nativi
digitali, come si suol dire, da morenti cartacei. Ed io ho vissuto
personalmente tale situazione nella transizione dal cartaceo al digitale nel
processo telematico, con la tragicomica “copia di cortesia” che ancora oggi
viene richiesta da certi giudici. Non ci stupirebbe un dialogo di questo
tenore: “Sei nativo digitale? No,
sono morente cartaceo”.
Che cosa
potremmo fare per contrastare questa contemporaneità social dove il like
sembra il fine ultimo dell’esistenza? Risposta: diffondere il pensiero critico
e libero, l’amore per il sapere, la cultura. Perché il pensiero è l’unico
benefico virus che ci potrebbe salvare: “Andate per le strade e contagiate tutti. C’è bisogno che la cultura si
propaghi nell’aria come un virus letale”.
Ce ne sarebbero
di riflessioni da fare e cose da dire, andate a leggervi tutti gli altri
aforismi dell’Autore. Basta leggere, anche se l’operazione non sembra gradita
ai più in Italia, come prima dicevo. Ma non prendete l’esempio da me, perché
io, da quando ho letto che il vino fa male, ho smesso di...
leggere.
***
AFORISMI D'AUTORE
Omaggio all'aforisma
In occasione del XV anno
di vita di “Odissea”, abbiamo deciso di rendere un piccolo omaggio ad uno dei
generi espressivi più fascinosi e sintetici. Lo facciamo attraverso la penna di
autori di varie discipline e di ogni parte d’Italia che hanno accolto il nostro
invito. Alcuni di loro dedicano attenzione da sempre a questa forma estetica,
altri la praticano raramente, altri ancora hanno scritto solo stimolati dalla
spinta amichevole di “Odissea”, vale a dire per l’occasione, e dunque siamo loro
doppiamente grati. Il risultato non ci sembra malvagio: giudicate voi.
I
disegni a corredo sono stati realizzati dall’amico e collaboratore Adamo
Calabrese. L’ordine di pubblicazione rispetta quello dell’invio dei materiali. [A.G.]
1***
Ci sono intelligenze messe al servizio di pessime
cause.
Angelo
Gaccione
2***
Alla mancanza si può sempre aggiungere qualcosa.
Per questo non stanca mai.
Alessandra
Paganardi
3***
I generosi sono altruisti, ma attirano gli
avari.
Laura
Margherita Volante
4***
Mai sottovalutarsi, ma prendersi troppo sul
serio ci rende ridicoli.
Filippo
Gallipoli
5***
L’arte è l’ultimo baluardo dell’essere, dopo la fine di ogni episteme.
Alessandro
Calabrìa
6***
La bomba più intelligente è quella che non ha mai voluto venire al mondo.
Graziano
Mantiloni
7***
Mi piacciono le persone che inseguono un ideale
e un sogno
per tutta la vita, senza mai scendere a
compromessi.
Chiara
Pasetti
8***
Suicidi per debiti: sacrifici umani sull’altare
dell’Usura.
Lidia
Sella
9***
La guerra è uno stato patologico dell’uomo.
Dategli un ago e con quello farà la guerra.
Cataldo
Russo
10***
Duole dirlo, ma quell’ultima assenza
è l’essenza dell’esistenza.
Ornella
Ferrerio
11***
È solo nell’intimità che si misura appieno
l’estraneità.
Donatella
Bisutti
12***
Dire davvero quello che pensano è l’ultima
conquista dei vecchi.
Pensare fino in fondo quello che dicono è la
prima dei giovani.
Pier Luigi
Amietta
13***
Dio c’è. Sta scritto sui muri.
Pino
Aprile
14***
La natura di uno scandalo non è determinata da
chi lo dà,
ma da chi lo prova.
Amedeo
Ansaldi
15***
In tipografia, come nella vita, più del corpo
conta il carattere.
Alessandro
Zaccuri
16***
Nei giochi della mente trovo ogni cosa.
Alberto
Casiraghy
17***
L’esagerazione disarma l’eccesso.
Cesare Vergati
18***
Non è vero che il cuore si trova nello stesso
punto, in ognuno di noi.
In alcuni è a pochi centimetri dall’Ego, in
altri è a pochi centimetri dall’Anima.
Fabrizio
Caramagna
19***
Puntini
tra quadre.
Siamo messi male, anzi peggio: siamo omessi...
Giuseppe
Langella
20 ***
Tra un niente e un altro niente
nel mezzo ci abbiamo trovato la vita.
Renato
Pennisi
21***
Al dolore e alla sofferenza non si dovrebbe
chiedere il passaporto.
Anonimo
Lombardo
22***
Ci sono paesi in cui gli imbecilli occupano
tutto il palcoscenico e anche le prime file
della platea. Dopo all’ingresso mettono un
grande cartello dove c’è scritto: tutto esaurito.
Fulvio
Papi
23***
È possibile cercare l’amore, l’affetto, la
benevolenza negli occhi dell’altro,
trovare in lui la luce che non abbaglia, ci
allieta e rafforza,
capace di accoglierci nella nostra stessa
piccolezza e fragilità.
Franco
Toscani
24***
Contro gli
aforismi
L’eccessiva brevità è un alibi.
Luca
Marchesini
25***
Il drammaturgo ha la capacità linguista di
contemplare l’abisso.
Il poeta quello di alleviarlo.
Giuseppe
O. Pozzi
26***
Una carezza è sostegno nella tristezza, è
speranza nel dolore.
Giuseppe
Puma
27***
Stendersi sul letto è parafrasi di morte.
Come esorcismo, gli occhi non vogliono
chiudersi.
Poi, di colpo, le palpebre trovano l’oscuro in
un centro di luce.
Ottavio
Rossani
28***
Testarda speranza, incespicando tra ceneri di
mondo in agonia, sei mia.
Renato
Seregni
29***
Lungo la nostra brevità in cammino, noi si trema
come foglie per lo stesso vento.
Franco
Celenza
30***
L’unica dolcezza che ho avuto della vita è lo
zucchero, e non posso mangiarlo.
Lorenza
Franco
31***
Non c’è ossimoro più subdolo della “guerra umanitaria”.
Giuseppe Natale
32***
La vera comprensione delle origini delle cose va
oltre la ragione:
si chiama la ragione del cuore.
Oliviero
Arzuffi
33***
La politica è improvvisazione allo stato puro, è
azione che precede il pensiero, in questo sempre identica a se stessa nel tempo
e nello spazio.
Paolo Maria Di
Stefano
34***
Conoscere
l'irraggiungibile.
Le cose vere, superiori, attengono agli spazi
del Sogno,
ma posso conoscere l'irraggiungibile se non
ignoro il sogno divino della mia carne.
Mario Sodi
35***
Se da più in basso si parte, più in alto si
arriva.
Esempio ne sono anche: i grattacieli.
Nicolino
Longo
36***
Ormai l’auto-critica è diventata la critica
delle auto.
Giovanni
Bianchi
37***
Tutti dicono che le religioni degli altri sono
false...
E hanno ragione!
Giovanni
Bonomo
38***
Chi ama la concentrazione del linguaggio si
limiti nei messaggi, digitando sul telefonino una semplice S: la comprensione
dei suoi tanti significati possibili sia affidata alla perspicacia del
ricevente.
Tiziano
Rossi
39***
Gli intellettuali si sforzano di stabilire
certezze, mentre il loro mestiere
è seminare dubbi.
Giordano
Bruno Guerri
40***
La religione è la matematica dei poveri di
spirito.
Piergiorgio
Odifreddi
41***
L’Amore è il bene più grande tra i beni soggetti
a deperimento.
Dante
Maffìa
42***
Ex voto
Grida
grida
Ti
hanno dato
la
parte del suicida.
Amedeo
Anelli
43***
Le
cose buone necessitano di tempi larghi.
Gabriele Scaramuzza
44***
Gli
dèi mi hanno concesso ancora un giorno.
Che
fare?
Pianterò
degli alberi.
Adamo Calabrese
45***
Vivere
nella gioia, operando per il bene dell'umanità.
Arrigo Colombo
46***
Il
neo-proprietario: rogito ergo sum.
Giancarlo Consonni
47***
A proposito di civili
eutanasie
Sin
che c’è morte c'è speranza.
Carlo Gragnani
48***
Se
sei riuscito a dar corpo alle ombre e alle reticenti magie della natura, puoi
dire
-non a torto- di aver vissuto al novanta per cento. Su questo non ci
piove. L’altro dieci è l’onesto passerotto che ti porti dentro, in aperto
contenzioso tra un novanta per cento di
miglio e il colore accecante del miele inquieto e saporoso che pullula nel
sogno.
Leopoldo Attolico
49***
Non
c’è che il tempo. Ma non c’è mai tempo.
Roberta De Monticelli
50***
La
musica è, tra le Arti, la più inafferrabile ed evanescente.
Proprio
per questo la più incline a catturare istanti di verità universali.
Aldo Bernardi
51***
Chi
muore lascia il proprio corpo. Chi scrive lascia le proprie parole come spettri
vaganti sulla terra.
Mauro Germani
52***
Il
pericolo maggiore non è nel viaggio ma nel porto.
Rinaldo Caddeo
53***
Al
funerale di un amico si piange in genere non il defunto, ma la parte di noi
perduta con lui.
Piero Lotito
54***
Potere:
Il
dilemma è antico: logora o non logora?
Forse
è bene starne lontani, non ubbidire e neppure comandare.
Franco Astengo
55***
La
corruzione è come un cancro che invade il corpo umano, si diffonde in tutti gli
organi vitali, ne succhia le sostanze nutritive e quando ha compiuto la sua
missione l'organismo stremato e in disfacimento cessa di vivere.
Elio Veltri
56***
Il sogno è vita
Sogno
di sognare un sogno, che sto già sognando.
Sogno
di sognare che racconterò quel sogno come non fosse un sogno.
Macché
la vita è sogno, il sogno è vita!
Marco Garzonio
57***
Le
epoche finiscono quando si smette di ricordare.
Pierfranco Bruni
58***
Legalità ed etica
Legalità
ed etica non sono la stessa cosa:
se
si è etici si è legali, ma se si è legali non è detto che si sia etici.
La
legalità è produttiva, l’etica è generosa.
La
legalità è conformità alla norma, l’etica è sentirsi responsabili
della vita
degli altri.
L’etica
è il movimento spontaneo verso il bene.
Salvatore Natoli
59***
La
letteratura è la rappresentazione scritta della nostra esistenza,
la nostra
vera essenza. La
letteratura è vita.
Stefania Romito
60***
Aforisma
In
buone mani, un’arma micidiale la cui potenza è inversamente proporzionale
alla
sottigliezza.
Luigi Mascheroni
61***
Vita,
trauma dell’incoscienza.
Franco Manzoni
62***
La
poesia non salva la vita, altrimenti tanti poeti non sarebbero finiti al
manicomio,
troppo
presto al coemeterium e quasi sempre
nelle braccia di sora Miseria.
A
salvare la vita è l’indole, quando è buona, e il caso, quand’è favorevole.
Silvio Aman
63***
Ho
sempre pensato che bisogna essere persone serie per poter fare un film Comico.
Maurizio Nichetti
64***
Se
il girovita si allarga la vita si restringe.
Giorgio Colombo
65***
È
solo a livello dei dizionari che resiste la
parentela tra Memoria e Ricordo.
Nella
realtà, la prima sta alla mente, il secondo al cuore.
Vincenzo Guarracino
66***
Chi
non è sensibile alla preghiera non lo è nemmeno alla poesia.
Roberto Pazzi
67***
Domanda
L’uomo
si chiede perché. Per quanto ne sappiamo
questa
è la differenza che lo fa divo fra i vivi.
E
abusa di presunta onnipotenza, solo per un interrogativo.
Maurizio Meschia
68***
E
se la vita, alla fine, fosse solo un assegno scoperto?
Federico Migliorati
69***
Le
donne a questo servono: a ritardare le barbarie.
Maria Pia Quintavalla
70***
Il
credente è un’ottimista fervente, mentre l’ateo è un pessimista osservante.
Giuseppe Denti
71***
Talvolta,
se il malato stenta a guarire, il medico saggio cerca quale medicina
togliergli, piuttosto che quale nuova medicina prescrivergli.
Francesco Piscitello
72***
Il
vero poeta coltiva il silenzio per catturare il mistero della vera poesia.
Franco Esposito
73***
La
festa della Liberazione è certamente una tra le più belle feste italiane.
E
anche in questa affermazione siamo partigiani...
Fabio Minazzi
74***
La
fortezza ripida sbarra la strada, chiama all’intermittenza.
Filippo Ravizza
75***
La
menzogna abbisogna di tantissime parole, la verità quasi di nessuna.
Marzia Borzi
76***
Ogni
sorriso che ostenta magnifici denti dissimula la loro natura d’affilate zanne.
Claudio Zanini
77***
Perle
ai porci… siamo sicuri che costino più delle ghiande?
Laura Cantelmo
78***
Il cielo
Il
cielo è tutto: a volte ci cade addosso, ma non ci accorgiamo, troppo impegnati
a strisciare sulla terra: il tutto per noi è il niente.
Mario Rondi
79***
Elogiare
il passato non significa condannare il presente, ma soltanto aiutare
quest’ultimo a riacquistare la qualità dei tempi antichi.
Fare
una critica equivale ad iniziare una bonifica.
Jacopo Gardella
80***
L’unico
errore di Dio è stato dare ad Adamo il cuore e il seme della vita.
Silvio Raffo
***
Libri
IL PARINETTO DI BELLINI
di Gabriele Scaramuzza
E' assolutamente da
segnalare quest’ultima e ingente fatica di Manuele Bellini: è scritta in modo
chiaro ed efficace, e ci permette di far luce in un pensiero suggestivo sì, ma tutt’altro
che semplice, molto articolato, denso di risvolti difficili da inseguire con la
padronanza che mostra Parinetto. Si tratta inoltre della prima monografia interamente
dedicata a uno dei più affascinanti e noti docenti della nostra Università, che
rischia oggi di essere, ingiustamente, dimenticato. Bellini è ora di ruolo nei
licei, ma ha conseguito di dottorato di ricerca in
Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, e lì si è occupato di
Estetica. Tra l’altro ha pubblicato I profili dell’immagine (Milano
2003) sull’estetica di Bergson, e L’enigma dei geroglifici e l’estetica (Milano
2013). Ha inoltre curato Corpo e
rivoluzione. Sulla filosofia di Luciano Parinetto (Milano 2012); e con me
infine Verdi e la rivoluzione (Milano 2013) di Parinetto.
Personalmente sono stato molto attratto dal modo
davvero originale di Parinetto di ripensare il marxismo, e da alcune tematiche
che egli connette ad esso, quali la mistica, il taoismo, l’alchimia, la
stregoneria, oltre all’ovvia utopia e alla Sinnlichkeit. Mi è del tutto congeniale inoltre la valorizzazione
da parte di Parinetto di Verdi, il suo modo innovatore di considerarlo. Ma per
una presentazione del volume qui in oggetto non c’è sintesi migliore di quella
che ci ha offerto lo stesso Bellini. Non esito dunque a riportarla qui.
La filosofia “eretica” di Luciano Parinetto
(Brescia 1934 - Chiari 2001), docente di Filosofia morale alla Statale di
Milano, vede in Marx un’utopia della sensibilità (Sinnlichkeit) ben distante dal “sistema” del materialismo dialettico, che di Marx faceva il profeta del
movimento operaio, concepito come un corpo unico da guidare verso la
rivoluzione socialista. Parinetto rileva, invece, nel filosofo di Treviri, il
valore del singolo (e ne parla con echi kierkegaardiani), la cui diversità è il
potenziale grimaldello per l’emancipazione dell’umano. E il singolo, se si
risale alle fonti rimosse del pensiero dialettico marxiano (come a Rousseau, a
Lessing o alla tradizione alchemica), non è affatto un’essenza, ma un divenire:
non ha una natura propria (che farebbe pendant con la fissità ontologica borghese), ma è un orizzonte di possibilità
tutte aperte (che, per converso, i socialismi reali hanno cristallizzato in un
tipo antropologico cui adeguarsi).
Di qui l’attenzione per la stregoneria: la strega è
un concetto metamorfico che surdetermina tutte le minoranze culturali, tutte le
diversità perseguitate a partire dall’età moderna (dagli indios americani ai contadini tedeschi,
dagli ebrei alle donne agli omosessuali), nelle quali Parinetto (cui peraltro
si deve l’impulso ai Gender Studies e l’influenza su Mieli) individua l’esibizione della dialettica e,
d’altronde, nella dialettica vede la chiave di lettura della diversità. Del
resto la strega, che è errante nei nomi e nei luoghi, la notte emigra nel
Sabba, luogo del desiderio, e per questo si fa portatrice dell’utopia di un
totalmente altro. Non esiste a mio avviso omaggio migliore che si possa fare in
memoria di Luciano Parinetto.
Manuele Bellini,
Dialettica
del diverso.
Marxismo
e antropologia in Luciano Parinetto
Mimesis, 2018, pp. 185, € 18. ***
Libri
Neanche la pioggia ha così piccole mani
di Claudio
Zanini
Osservazioni
sul romanzo La complice di Marina
Corona
“Nessuno,
neanche la pioggia ha così piccole mani”. Questo verso del poeta americano E.
E. Cummings, che costituisce l’incipit del romanzo di Marina Corona, La complice (puntoacapo editrice), riassume il carattere della protagonista
Greta, una ragazzina alle soglie dell’adolescenza. Più della pioggia, anche lei
ha mani piccole e delicate non ancora in grado di sostenere (di difendersi da) le
prime prove che la vita le pone davanti. Piccole mani bambine desiderose di ricevere
dall’altro (e donargli) quella tenerezza di cui ha bisogno. Mani che sono
accolte da quelle grandi del padre, che scambiano calore con quelle del primo
ragazzo che le prende tra le sue, mani che accarezzano il volto della zia
ammalata e cercano tepore nel pelo del cagnolino Tomtom. E poi la pioggia, che
significa anche lacrime. Il pianto sommesso di chi scopre un mondo ostile, sentendosi
incompreso e ingiustamente rimproverato.
È un romanzo scritto con grande sensibilità; sembra quasi
che l’autrice sia entrata con passi sommessi e rispettosa partecipazione nell’anima
della piccola Greta, restituendo alla pagina turbamenti ed emozioni con grande
pudore. Turbamenti dovuti all’età ingrata ma resi più dolorosi dalla scoperta
casuale, per la strada, del padre strettamente abbracciato a una sconosciuta. A
Greta sembra che il mondo le crolli sotto i piedi. Un accadimento estraneo, per
lei ancora impensabile, le rivela una realtà inspiegabile da cui si sente respinta,
esclusa.
Una realtà di cui ha via via dolorosa percezione
attraverso la depressione della madre sempre più vulnerabile, i suoi frammenti di
conversazione al telefono e certe telefonate anonime, poi il tono ambiguo del
padre quando le si rivolge; infine, le allusioni della domestica e i
pettegolezzi riferiti dalla custode.
Dunque, il
mondo di Greta. Vi si respira un’aria grigia e pesante; quella che pervade la
casa, resa quasi irrespirabile dai genitori in costante reciproco conflitto; dove un padre egoista e superficiale, irresponsabilmente,
ora cerca la complicità della figlia. Un uomo frustrato cui si contrappone la madre,
che ha avuto la disgrazia, incinta di pochi mesi, di perdere una seconda bambina.
Una donna passiva, debole, timorosa e incapace di vedere la realtà. Entrambi
lontani dal capire minimamente sentimenti e ansie della figlia che cresce e
faticosamente si sta costruendo un’identità. Un’atmosfera di penombra fosca,
gravida di falsità e sentimenti inespressi. Una penombra, tuttavia, illuminata,
come da fugaci raggi di sole, dalla capacità della bambina di vedere e scoprire
la poesia di brevi e inattese gioie. Ci sono sempre, infatti in Greta, accanto
alle sue tristi considerazioni, inattesi lampi di fantasia, frutto d’un
pensiero fervido e attento a tutto ciò che la circonda. È lei, infatti, a
citare all’inizio, le parole dei versi di Cummings (sentiti vedendo un film) al
suo amico Andrea. Tra l’altro, questo poetico fantasticare accomuna Greta al
bambino protagonista de La storia di
Mario, il romanzo precedente di Corona.
Greta è una bambina estremamente sensibile e
intelligente. I genitori credono (o meglio, preferiscono credere) che lei non
capisca i loro discorsi “adulti” e il loro comportamento; invece Greta li
comprende, li “sente” direi, con l’intera persona. Non li sa spiegare, ma ne coglie
la sostanziale falsità e crudezza; e, altrettanto, chiaramente, sente quanto la
respingano in una dimensione d’infantile minorità. Lei soffre anche per loro,
ma loro questo non lo capiscono. Le parlano (raramente) come fosse ancora una
bambina molto piccola.
Tant’è vero che il suo rapporto con loro è sostanziato da
continue e inspiegate imposizioni, causando una contrapposizione, muro contro
muro, nei suoi confronti. Pensando che da tali insensate direttive derivi la
loro autorevolezza, le rimproverano, tra l’altro, di dire bugie, mentre non
hanno la consapevolezza di vivere, loro, nella menzogna. A parte il fatto che
la bambina non racconta bugie, ma esprime un’immagine fantastica (poetica)
della realtà, trasfigurandola. Anche lei imparerà a mentire, con la cognizione,
tuttavia, di compiere qualcosa di sporco e d’inautentico.
Una breve osservazione. Leggendo, la figura di Greta
viene via via prendendo le sembianze dell’adolescente ritratta da Edward Munch
nel dipinto Pubertà (1895). Vi si
rintracciano nell’atteggiamento spaurito, le stesse solitudine e angoscia che
turbano la nostra protagonista.
Gli adulti
del mondo di Greta. Oltre ai genitori, vi fanno parte anche il prete che, senza
partecipazione confessa la bambina, quasi dovesse assolvere a una pratica
noiosa; gli insegnanti ottusi e meschini,
i parenti e amici dei genitori presi nel vortice dei loro grigi problemi
d’incomprensioni, rancori e ipocrisie. Uniche eccezioni sono la nonna che si
accorge del turbamento di Greta – in un’età in cui “non si è né carne né
pesce”, come dice - e la esorta a dire la verità, e, infine, ha l’accortezza di
mettersi da parte; e la zia Giovanna, una donna malata angariata da un figlio egoista.
A questo mondo, chiuso su se stesso, si contrappone quello dei bambini; dove,
tuttavia anche qui, Marco, un ragazzo appena più grande di Greta, con cui lei
vorrebbe iniziare un timido rapporto, assume gli atteggiamenti spavaldi del
ruolo del maschio adulto che sta diventando, mentre le amichette sono fatue e
superficiali. Resta Andrea, il compagno di banco riservato e sensibile, che
cerca di capire, la spinge a non rendersi complice, a infrangere quel velo di
menzogne; le vuole bene. Ma, è ancora un bambino; mentre Greta è cresciuta, ha
compiuto il rito di passaggio, diventando donna. Ha perso l’innocenza ma,
affrontando la dolorosa verità ne ha preso coscienza, pronta ad affrontare
la vita con maggiore consapevolezza.
Questo intenso bildungsroman
si svolge con una narrazione, che direi quasi sommessa, ben scandita
nell’alternanza dei vari capitoli, raccontata con una scrittura accurata, in
cui s’intrecciano malinconia e momenti di gioia, stupore e smarrimento; e dove
s’incontrano, come dicevo, lampeggiamenti di luminosa poesia. Ma, e questo è
noto, l’autrice, Marina Corona è poeta di valore.***
Libri
COME NASCE UN POETA
Il carteggio Pazzi – Sereni
di Angelo Gaccione
Roberto Pazzi nel suo studio a Ferrara (Foto: Marzia Borzi) |
“(...) Guardi, anche
tutta questa mia goffa ansia di pubblicare per cui mi sono rivolto a Lei per
quattro anni (non creda che non
sappia che è ridicola, che è immatura e indecorosa, oltre che inopportuna),
è dovuta anche – non solo, so che c’è
anche l’ambizione – a questo desiderio di poter comunicare di più quelle
‘sublimazioni’ di stati d’animo miei che possono diventare di tutti (...)”
[Bocca di Magra, agosto 1969]
“(...) Penso a Lei e
alla Sua poesia: Lei ha fatto in tempo ad esprimere la propria realtà di vita
con il metro, il tipo di sublimazione estetica compatibile con tale realtà, ma
io? (...)” [Ferrara, 28 aprile 1972]
“(...) forse più non sa che la mia impazienza di una volta è limitata ora in
qualcosa di pericolosamente fatalistico ed amaro, qualcosa come una coscienza
di sé ferita. La mia poesia da dieci anni – Lei ha assistito a questo farsi – è
la costante e continua verifica di me con me e di me con gli altri (...)”
[Ferrara, 26 novembre 1974]
“(...) Lei può immaginare l’amarezza di non essere
riuscito a collocare quanto scrivo in una casa editrice più grande ma è troppo
importante per me che quello che scrivo – a qualsiasi costo – circoli.
(...)” [Ferrara, 6 novembre 1975]
Vittorio Sereni |
L’ansia spasmodica, l’impazienza, e la stessa
amarezza che traspaiono da questi brandelli di lettere, fanno parte di un
corposo epistolario che dal Capodanno del 1965 giunge fino al 26 giugno del 1982.
Ad esprimerle è un giovane divorato dal dèmone della poesia che ha avviato il
suo difficile, frustrante e tormentato apprendistato, e si chiama Roberto
Pazzi. Il destinatario a cui il giovane si rivolge con pronomi di riguardo,
dalle iniziali rigorosamente maiuscole, è Vittorio Sereni: noto poeta e nel
contempo influente uomo di potere nei gangli della grande editoria italiana. Sereni
incoraggia sin dall’inizio il suo giovane protetto di cui intuisce potenzialità
e talento, e come può cerca di spianargli la strada, mettendolo in contatto con
le personalità, le riviste, i critici, gli editori con cui intrattiene
rapporti. Gli dà consigli su come muoversi nell’ambiente, su come approcciare i
personaggi da contattare, gli suggerisce letture, ma non gli nasconde le
difficoltà, le insidie del percorso, i tempi lunghi. E pur invitandolo alla
pazienza, a considerare le possibili delusioni (e Pazzi ne dovrà subire
diverse, come il lettore vedrà), già in una lunga lettera del 9 giugno del 1968
(Pazzi all’epoca ha 22 anni) così generosamente gli scrive: “Io la terrò d’occhio e sarò io ad aiutarla
se ne avrò modo e se avrò modo di non farlo a vuoto”. Ne avrà sì, il modo, Sereni, e mai gli
lesinerà l’aiuto. Pazzi è giovane, e nei giovani le passioni sono sempre totali,
divoranti. Come il bisogno tremendo di mettersi a confronto, di spalancare la
propria anima ad un’altra anima che con noi possa entrare in risonanza, e
allora vorrebbe di più, essere capito in profondità, che fosse colta l’urgenza
del suo malessere, che i suoi versi fossero analizzati, scarnificati perfino,
vagliati lemma per lemma, ed il suo insistere, il suo pressare, hanno per un
lungo tratto temporale, quasi l’urgenza di un grido disperato lanciato al suo
mentore. Sereni tenta come può di arginarne l’impeto. È
sommerso, come egli stesso dice in una delle lettere, “da un diluvio di carta”,
dai tempi, dalle scadenze, da quella che Pazzi, riferendosi al ruolo di
direttore editoriale che l’amico svolge, definisce con una punta di amarezza “deformazione professionale”.
E se ne
lamenterà con lui in occasione della scelta di un gruppo di poesie per la
rivista “Prospetti” diretta da Petrucciani in questi termini: “Mi perdoni, ma tutto è avvenuto come fosse
una sorta di impegno contrattuale”.
Una veduta dello studio di Pazzi a Ferrara (Foto: Federico Migliorati) |
Il grido non è stato accolto nella sua
profondità, come il venticinquenne Pazzi avrebbe voluto (la lettera è del 1971);
Sereni stempera, raffredda, forse non è un uomo di passioni e il suo riserbo
suona eccessivo alle orecchie di Pazzi, ma agisce, segue passo passo
attivamente anche la strutturazione del libro che il suo giovane amico vuole
realizzare, ed ecco la gratificazione in un brano della risposta che arriverà a
Pazzi qualche mese più tardi (9 dicembre 1971): “ (...) e non creda che io mi sarei occupato
delle sue cose se a suo tempo non l’avessi sentito”. Sereni si riferisce al
tocco magico, al quid che deve
circolare nei versi, a quella cosa
impalpabile che non sappiamo definire, ma che consegna al linguaggio della
poesia il suo misterioso statuto. C’è per Sereni il quid nei versi di Pazzi, e la prova evidente sta nel suo
occuparsene concretamente; Pazzi vorrebbe sentirlo esplicitamente, leggerlo in
scrittura fuoruscito dalla penna di Sereni, magari con una nota articolata,
chiarificatrice, spietatamente critica, ma fissata sulla carta. Pazzi sa bene
quanto sia importante l’aiuto che Sereni disinteressatamente gli dà, e molti
passaggi delle sue lettere lo testimoniano. Lo sarà altrettanto negli anni a
venire, quando finalmente andrà consolidandosi la sua riconoscibilità di poeta
negli ambienti ufficiali dell’universo letterario, ed egli potrà scrivere al
suo benefattore: “Non può immaginare la
felicità che Lei mi ha dato con questa nuova possibilità di cui mi ha parlato
al telefono. Vorrei dirLe tante cose sul valore di riscatto della mia esistenza
che ha il fatto di esprimerla così, in poesie”. (Lettera del 24 dicembre
1978). Due anni più tardi, 14 dicembre 1980, in quella che per me resta la
lettera più bella dell’intero epistolario, Pazzi definirà il suo incontro con
Sereni “come un segno del destino”.
Un destino che a rarissimi adolescenti è capitato. Quanti hanno avuto il
privilegio e la fortuna di un incontro così fatato? Se penso al deserto che
alcuni di noi hanno dovuto attraversare, al nido di vipere che è divenuto
l’ambiente letterario italiano, alla colpevole distrazione, all’indifferenza e
spesso all’ostilità verso quanti non possono vantare appoggi di alcun genere, alla
difficoltà di fare almeno arrivare in certe mani materiali su cui ci si è
dannati, all’impossibilità di confrontare un dubbio, un sentiero che si è
intrapreso... Se penso a quel periodo solidale del dopoguerra di cui mi hanno
parlato Carlo Bo, Gaetano Afeltra, Bonura, Consolo, Fernanda Pivano e tanti
altri per il libro Milano la città e la
memoria, ai ricordi di Crovi ricostruiti per il libro L’immaginazione editoriale...
Pazzi con il curatore dell'Epistolario nel suo studio (Foto: Marzia Borzi) |
Ma torniamo al carteggio. Questa del 14 dicembre 1980 a cui
ho appena accennato, non è una semplice lettera; è una toccante confessione di affetto
e di stima, verso una guida preziosa, che ha segnato a fondo il poeta Pazzi: “Io vorrei che Lei sapesse che in quel tanto
di positivo che brucia nella mia vita, Lei c’è”. Non abbiamo la risposta di Sereni a questa lettera; a partire da
questo momento l’epistolario registra solo missive di Pazzi, ma l’essersi
costituito in udienza, l’essersi
fatto platea e pubblico nei confronti
del giovane esordiente, assistere alla sua crescita,
come scrive nella nota pubblicata su “Arte e Poesia” del 1969, sin dai primi
anni in cui avviene il loro incontro a Bocca di Magra ed aver mantenuto vivo
nel tempo questo interesse, dà la misura di un affetto che Sereni sentiva vero
verso questo giovane inquieto e che di continuo lo sollecita. Lo aveva preso a
cuore perché per anni si incontravano nel piccolo borgo ligure dove Sereni villeggerà
per oltre un trentennio. L’amicizia si era consolidata nel tempo perché il noto
letterato era amico dei genitori di Pazzi e d’estate fittava la casa dei
cugini, ma può darsi che nel fondo ci fosse anche qualcosa di più paterno,
Sereni aveva avuto solo figlie femmine.
Come
nasce un poeta. Epistolario
1965-1982, è questo il titolo del libro, si compone di 91 lettere: 50 sono
di Pazzi, 41 di Sereni. Di Sereni ne sono riportate alcune autografe
completamente scritte a mano. Una conversazione di Pazzi con il curatore
Federico Migliorati apre il volume, e una sezione di testi poetici di Pazzi lo
chiude. Dentro ce n’è abbastanza di materia, per capire alcuni risvolti di quel
mondo dell’editoria e della poesia che tra la fine degli anni Sessanta e gli
inizi degli anni Ottanta, sono stati insieme conflittuali e proficui.
Soprattutto c’è Pazzi con la sua caparbia ostinata passione, il suo bisogno
insopprimibile di costruirsi come poeta, la formazione di un Io che si dibatte
fra esaltazioni e delusioni, intima e solitaria ricerca espressiva e necessità
di uscire dalla clandestinità, per confrontare nello spazio pubblico gli esiti
di questa ricerca e di questo “fare”. Ci sono i suoi miti e le sue letture, le
preferenze e gli autori di riferimento, le sue convinzioni estetiche e le sue
ragioni. E ci sono, come capita spesso ai poeti, quegli inspiegabili deliri
creativi, quelle epifanie che ti inchiodano per ore e ore allo scrittoio, a
scrivere a volte per due giorni di seguito, senza fermarsi, senza dormire, come
ci informa un brano della lettera del 23 maggio del 1978.
Sereni sul Naviglio a Milano |
Ha fatto bene Pazzi a pubblicare questo epistolario, potrà
tornare molto utile a quanti decidono di intraprendere l’esaltante e insano
mestiere dello scrivere. A guardarsi dentro, a capire più chiaramente le
proprie insopprimibili pulsioni, a prendere coscienza di quanto fiele si dovrà
ingoiare, a chiedersi come suggeriva Rilke al suo giovane aspirante poeta: Devo io dunque scrivere? A me ha
suggerito molti altri spunti su cui ci sarebbe ancora tanto da dire. L’autore
me ne aveva accennato in occasione della presentazione di un altro epistolario,
quello di Cassola, proprio nella sua magnifica città, a Ferrara, nella Casa di
Ariosto. Pazzi era stato generoso e disponibile, ed aveva accolto volentieri
l’invito di venire a parlare di quel libro e a ricordarne lo scrittore. Mi
disse che il carteggio di Cassola lo aveva convinto a riordinare quello che era
intercorso fra lui e Sereni. Il coinvolgimento dell’amico Migliorati nella
curatela e il recupero delle lettere inviate da Pazzi a Sereni conservate nel
Fondo di Luino sul lago Maggiore, hanno conferito ora a quella felice
coincidenza, una gioia in più.
La copertina del libro |
Roberto Pazzi – Vittorio
Sereni
Come nasce un poeta.
Epistolario
1965-1982
A
cura di Federico Migliorati
Edizioni
Minerva 2018
Pagg.
176 € 15,00
***
L’ESPRIT DE FAMILLE.
77 positions libanaises di Fraçois Beaune
77 positions libanaises di Fraçois Beaune
di Mila Fiorentini
François Beaune |
Un kamasutra della
famiglia scritto da un giovane scrittore francese originario dell’Auvergne e
residente a Marsiglia, una sorta di reportage narrativo che restituisce un
affresco gustoso e contraddittorio di quel caleidoscopio chiamato Libano.
Pubblicato in francese con le edizioni tunisine
Elyzad nella collana Histoires vraies de la Méditerranée (letteralmente “storie
vere del Mediterraneo!), questo autore che ho avuto il piacere di conoscere nel
corso della settimana francese di Scandicci, sobborgo di Firenze, promossa
dall’Institut Culturel Français, ha scelto di parlare di Mediterraneo, al Mediterraneo
e con il Mediterraneo, optando per una casa editrice del sud. Dopo il romanzo La lune dans le puit (letteralmente la
luna nel pozzo, non ancora tradotto in italiano), pubblicato con Gallimard, mi
ha detto che ha cercato di sintonizzarsi con la sponda sud che racconta. Ed ora
è tradotto in arabo proprio da una casa editrice libanese. L’esprit de famille, letteralmente “Lo spirito di famiglia”,
restituisce attraverso 77 quadri, ironicamente definite “posizioni”, il mosaico
che compone il Paese mediorientale che della varietà e della contraddizione ha
fatto la sua cifra caratteristica. Con una scrittura rapida, che procede per
impressioni, François ci accompagna in un dialogo a due voci con una serie di
personaggi: una sorta di reportage giornalistico che ha però la vena della
narrazione introducendoci nella multiforme società di questo piccolo paese dove
ci sono ben 16 confessioni diverse e dove vige un vero e proprio tri-linguismo
tra arabo, francese e inglese. Elegante e smart ad un tempo il formato ben si
accorda con questo piccolo saggio sul Mediterraneo dal punto di vista di una
delle dimensioni peculiari di questo continente liquido: la centralità della
famiglia. Come spiega nei ringraziamenti finali, il fatto di non conoscere
l’arabo lo ha limitato nel proprio viaggio nella società, facendogli
privilegiare le famiglie cristiane, di lingua francese. Per altro i cristiani
in Libano sono generalmente più francofoni che arabofoni e anglofoni. In ogni
caso emerge la presenza, oltre dei cristiani di confessione maronita, dei
druidi che credono nella reincarnazione e dei musulmani sia sunniti sia sciiti
e non ho trovato che si avverta l’angustia di una sola prospettiva anche perché
difficilmente i libanesi, se non forse i più osservanti, vivono chiusi in una
cerchia monocolore, anche se abitano in quartieri, per così dire, “tematici”. Salta
all’occhio in queste brevi storie tracciate con pennellate veloci, da uno
scorcio o un racconto al massimo di due-tre pagine, la contraddizione tra due
estremi, la concezione della famiglia in modo tradizionale, ancor più che
religiosa -spesso soprattutto nell’educazione sessuale pesa più la tradizione
che l’aspetto religioso, come dimostrano alcuni precetti che si ritrovano in
tutte le confessioni ma anche in persone non strettamente praticanti- e la
ricerca della libertà individuale, in modo spesso trasgressivo. In effetti
probabilmente in questo angolo di mondo come anche in molte regioni del nostro
sud -si tratta in fondo di un comun denominatore mediterraneo- la
contraddittorietà è una nota tipica perché ovunque si impone il divieto, il
controllo, il senso del peccato, si alimenta altresì la trasgressione e
ribellione, il senso di colpa come anche il gusto per il peccato. Soprattutto
nell’ambito sentimentale e sessuale la vita relazionale dei giovani libanesi è
contraddittoria e non solo in contraddizione con la propria famiglia con la
quale si cerca quasi sempre di mantenere un rapporto perfino intimo, quando non
simbiotico; il conflitto è dentro la persona ed è una scelta, il desiderio di
appartenere a entrambe le dimensioni. Tra i tanti racconti quello di un ragazzo
che in Libano conduce una vita sessuale libertina, con incontri collettivi che
raccontano addirittura mode sessuali diffuse tra i giovani; eppure decide di
sposare una donna vergine e religiosa, molto tradizionale. Se per alcuni
aspetti si tratta di un percorso evolutivo della persona e di una dimensione
duplice che c’è in ognuno di noi, in tutte queste storie, ogni particolare e
ogni scelta è portata all’eccesso: il digiuno e l’abbuffata, per usare il
simbolo tipico della quotidianità della vita del musulmano durante il Ramadan,
il mese sacro. Da sottolineare come sullo sfondo resti sempre l’idea di un
paese in guerra, minacciato, che per certi versi somatizza questo stato di
crisi ed emergenza permanente e, dall’altro, ne sia assuefatto. Questa
condizione permanente di precarietà sviluppa infatti in molti libanesi, e ne ho
conferma da persone che conoscono bene il Libano e da tanti colleghi giornalisti
che lo hanno frequentato, un’inclinazione al carpe diem, come se non ci fosse più domani e a prendere la vita
come degli eterni adolescenti. In ogni caso una lettura frizzante e attenta
allo stesso tempo a cogliere le sfumature di una società interessante e con non
pochi disagi.
La copertina del libro |
Fraçois
Beaune
L’esprit
de famille - 77 positions libanaises
Éditions Elyzad, 2018
Pagg. 180 € 16,00
***
Libri
La vie devant
soi
Romain Gary alias Émile
Ajar
di Mila Fiorentini
Romain Gary |
Un romanzo quasi senza
trama, un affresco di vita sociale e un quadro di solidarietà tra poveri per
certi aspetti di grande attualità e per altri inattuale, che si richiama a
molta tradizione letteraria, diventando al contempo un testo estremamente
moderno. Una vecchia signora accoglie in un clima agro-dolce ma sincero
“ragazzi di strada”. Il libro è la storia di un amore tra Momo, Mohamed, musulmano di incerta provenienza,
allevato quasi come un ebreo e Madame Rosa, curva sotto il suo peso che diventa
una metafora della vita. Rosa è una donna che non si lamenta ma che ha paura,
anche senza ragioni, perché non occorrono dei motivi per avere paura nella vita
ed è questo l’insegnamento più grande che il bambino riceve. Un racconto di
quotidianità spicciola che diviene metafora della difficoltà del vivere e
dell’unico valore: bisogna amare, sono le parole che chiudono il libro. Un
testo con una punta noir e qualcosa di disturbante, appena morboso, e di grande
interesse per il profilo stilistico della lingua, l’uso dell’argot che è
insieme popolare e colto, affondando le proprie radici nel francese medioevale
di prostitute e marinai, ben diverso dallo slang, il français branché del nouveau
roman che mima il linguaggio sgrammaticato dei giovani di oggi.
La vie devant soi è un romanzo d'Émile Ajar,
così si firmava in alcuni casi Romain Gary, a sua volta Pseudonimo
di Romain Kacev, libro pubblicato il 14 settembre 1975 con Mercure de
France che riportò lo stesso anno il premio Goncourt. L’autore
era nato nel 1914 in Lituania e nel 1928 si trasferì a Parigi. A trent'anni,
Gary è un eroe di guerra (gli viene conferita la Legion d'honneur) e scrive il
suo primo romanzo, Formiche a Stalingrado (1945), ispirato alla resistenza
polacca contro i tedeschi, che Sartre giudica il miglior testo sulla
resistenza. Comincia poi a lavorare come diplomatico per la Francia senza
abbandonare la scrittura tanto che nel 1956 vince il Gouncourt con Le
radici del cielo, ambientato in Africa, sulla lotta generosa di pochi
volonterosi contro la decimazione degli elefanti, cui seguono, tra gli altri, La
promessa dell’alba (1959), dedicato alla memoria della madre; Cane
bianco (1970), di contenuto antirazzista; e appunto La vita davanti a
sé; quindi Gli aquiloni (1980).
Fu
il marito della scrittrice Lesley Blanch e dell'attrice americana Jean Seberg,
dalla quale divorziò. Poco più di un anno dopo il suicidio di questa (settembre
1979, per ingestione di barbiturici), si diede la morte nella sua casa a
Parigi.
Il
romanzo La vie devant soi, pubblicato
in Italia come tutti i suoi romanzi da Neri Pozza, costituisce un’eccezione
nella storia del Goncourt per averlo conquistato già in precedenza, fatto
singolare così come lo pseudonimo. La sua vera identità fu svelata solo alla
morte dello scrittore malgrado i dubbi non fossero mancati. Romain Gary prese
questo nom de plume in un momento nel quale era molto criticato, anche per
ritrovare una certa libertà d’espressione. Curioso il fatto che la rivista Lire
criticherà aspramente Gary ma loderà Ajar.
Per timore che la questione finisca in tribunale Gary rifiuterà il
Goncourt fatto che d’altronde solleverà critiche aspre soprattutto sul Figaro e L'Aurore.
Il
premio in ogni caso era legato al libro più che all’autore. Il romanzo ha
conosciuto una certa fortuna anche se il personaggio è praticamente sconosciuto
in Italia ed è stato adattato per il cinema da Moshé Mizrahi nel 1977 con Simone
Signoret nel ruolo di Madame Rosa. L’attrice ottenne, tra
l’altro proprio per questo film, l’Oscar come migliore attrice nel 1978 e
il lungometraggio ottenne l’Oscar come miglior film straniero a Hollywood.
Altro adattamento per il grande schermo fu quello di Mommy de Xavier Dolan;
così come il libro si ritrova in qualche modo nel film Mon Roi de Maïwenn,
letto da Toni e interpretato da Emmanuelle
Bercot. Nel 2010 è stato adattato anche per la televisione e il
teatro.
Come
accennato, il libro presenta un mood drammatico, senza tragicità, esprimendo
infatti una solidarietà tra umili, con un lato un po’ disturbante e morboso,
quasi noir. Ricorda per alcuni aspetti I miserabili di Victor Hugo, citato
all’interno e anche La Trilogia della città di K di Agotha Kristof. Il racconto
è infatti sviluppato dallo sguardo del bambino
che non sa neppure se è algerino o marocchino e che racconta di vivere in un clandé, termine dell’argot che indica
una casa di prostituzione, un bordello. Allevato come un ebreo, ma con amore,
pur riconoscente a Madame Rosa, nata in Polonia, ebrea che conosceva anche
l’arabo e aveva riparato in Marocco, lascia trapelare una punta agro-dolce,
dicendo che per chi era “arabo”, vigeva in ogni caso il ramadan durante il
quale oltre il digiuno diurno erano escluse alcune pietanze prelibate per tutto
il mese. E la tenutaria sembrava goderne. La vicenda si svolge tra Belleville e
Barbès, a Parigi, quartiere di immigrazione dove arabi, ebrei e neri convivono
e racconta una storia che sembra quella dei nostri giorni in quanto
all’ambiente sociale sebbene la dimensione semi-clandestina dell’accoglienza e
in fondo la sua tenerezza ne denunci la distanza nel tempo. Madame Rosa come ebrea ha conosciuto Auschwitz e
si è difesa nella vita con la prostituzione a rue Blondel dove poi ha aperto
“una pensione per ragazzi senza famiglia che sono nati di traverso”. C’è
qualcosa di malinconico e di sinistro, un po’ grottesco in questa donna enorme
che di tanto in tanto si mette rossetto e parrucca rossa per uscire e sentirsi
ancora femminile e, insieme, estremamente materna. Il coprotagonista, voce
narrante, chiamato affettuosamente Momo, ha ormai quattordici anni anche se lei
gli fa credere che ne abbia solo undici, timido e animato da qualche curiosità,
non si sente troppo giovane per capire la vita e mostra una maturità di affetti
per la sua madre adottiva che accompagna fino alla fine e oltre. La solidarietà
diventa riconoscenza e il ragazzo non vuole che questa donna, che avrebbe
meritato un ascensore per sopportare sei piani di scale, come si dice nell’incipit
folgorante e di un’ironia sottile, finisca i suoi giorni all’ospedale dove gli
esseri umani vendono tenuti in vita a forza. Madame Rosa infatti non si lamenta
mai ma ha paura e per questo, come gli insegna, non c’è bisogno di avere delle
ragioni. Si tratta piuttosto di un’angoscia esistenziale che Momo dice essere
segno di intelligenza, probabilmente di consapevolezza e di grande sensibilità.
Racconto semplice eppure di grande spessore riveste a mio parere un interesse
soprattutto per la lingua con la quale è scritto, inframezzando nell’eloquio
molto argot e rendendosi così parte della tradizione del romanzo francese che
unisce l’analisi psicologica a quella sociale, com’è il caso del grande Honoré
de Balzac e del già citato Victor Hugo. Il profilo è in qualche modo popolare e
raffinato, insieme e offre un panorama di grande ricchezza linguistica.
La copertina del libro |
Roman Gary
alias
Émile Ajar
La vie devant soi
Collection
folio
Mercure
de France, 1975
Premier
dépôt légal dans la collection 1982
***
POETISILVIO AMAN
Silvio Aman |
NOTTE IN CITTÀ
Quando la notte veglia
appare ovunque un giallo incandescente,
inizio di una scena senza attori –
palazzi stranamente soleggiati
da una ribalta ambigua –
il sonno segregato dentro gli incavi,
tagliato a precipizio dai profili.
Oppure può trattarsi di un black out
per la bufera,
e il mezzo di scoprire – oltre i tetti –
il flusso galoppante delle nubi,
il guizzo del lampeggio
che mi apre lunghe gole al suo bengala.
Allora è l’entusiasmo,
e il sogno folleggiante che le invio,
da questa mia cornice,
subito esclama:
“Vieni, o città dipinta,
giungi con vasche ed alberi!”
***
LA LUCE DEI TUTÙ
(Eresia luminosa)
Nel quadro di De Gas
le piccole in tutù
rivelano ventagli di accensioni
con danze d’ombra sull’assito,
riverberi infiammati di un foyer
o come un ondeggiare di fogliami.
Senza di loro le bianche finestre
parrebbero voyeur
di lente e insterilite meridiane –
l’astro da solo è niente.
***
NARCISI, MA NON SOLO
(Tranfert)
Il mazzo dei narcisi
espande intensamente un desiderio –
c’è un senso di finito e d’infinito…
e a un tratto io lo sento in quel profumo:
è l’ansia di aspettarmi
quello che lei si aspetti anche da me…
Reciproco non è
che in moti di dissimile avventura:
cercare in noi, nascosto,
il sogno che ci muove.
***
Più tardi, quando l’onda cala
e il suo residuo è il limo,
l’orrore cui le cose si rassegnano,
non so cos’aspettarmi –
il mare è così grigio
e tanto solo in questi suoi pensieri…
O è forse per l’ambiente dimidiato?
Resta, non so se per lusinga o meno,
l’acquatica empatia delle vetrine…
qualcosa in cui il tramonto – in abat-jour –
parrebbe anticipare nel diverso
l’umore mattutino dell’aurora.
Poi penso a Villa D’Este e a quell’abate
che mi trasforma in acqua,
ai tocchi gocciolanti del suo piano
e a quelle fontanelle da cui sprizza,
alterno e melodioso,
il suono scintillante della pace.
***
Libri
La vita in scacco.
Ancora sul libro di Zanini
di Marina Corona
Scacchiera
Nell'angolo severo i giocatori
muovono i lenti pezzi. La scacchiera
li avvince fino all'alba al duro campo
dove si stanno odiando due colori.
Su di esso irradiano rigori magici
le forme: torre omerica, regina
armata, estremo re, cavallo lieve,
pedoni battaglieri, obliquo alfiere.
Quando si lasceranno i due rivali,
quando il tempo oramai li avrà finiti,
il rito certo non sarà concluso.
In Oriente si accese questa guerra
che adesso ha il mondo intero per teatro.
Come l'altro, è infinito questo gioco.
li avvince fino all'alba al duro campo
dove si stanno odiando due colori.
Su di esso irradiano rigori magici
le forme: torre omerica, regina
armata, estremo re, cavallo lieve,
pedoni battaglieri, obliquo alfiere.
Quando si lasceranno i due rivali,
quando il tempo oramai li avrà finiti,
il rito certo non sarà concluso.
In Oriente si accese questa guerra
che adesso ha il mondo intero per teatro.
Come l'altro, è infinito questo gioco.
Debole re, pedone scaltro, indomita
regina, sghembo alfiere, torre eretta
sul bianco e nero del tracciato cercano
e sferrano la loro lotta ramata.
sul bianco e nero del tracciato cercano
e sferrano la loro lotta ramata.
Non sanno che il fortuito giocatore
che li muove ne domina la sorte,
non sanno che un rigore adamantino
ne soggioga l'arbitrio e la fortuna.
Ma il giocatore è anch'esso prigioniero
(Omar lo dice) d'una sua scacchiera
fatta di nere notti e bianchi giorni.
Dio muove il giocatore, e questi il pezzo.
Che dio dietro di Dio la trama inizia
di tempo e sogno e polvere e agonie?
che li muove ne domina la sorte,
non sanno che un rigore adamantino
ne soggioga l'arbitrio e la fortuna.
Ma il giocatore è anch'esso prigioniero
(Omar lo dice) d'una sua scacchiera
fatta di nere notti e bianchi giorni.
Dio muove il giocatore, e questi il pezzo.
Che dio dietro di Dio la trama inizia
di tempo e sogno e polvere e agonie?
La copertina del libro |
Il libro di Claudio Zanini Il posto cieco, mi ha ricordato questa bellissima poesia di
Jorge Luis Borges. La vicenda del libro,
infatti, si muove su più piani: ci sono le strade di una città spazzata dal
vento dove si incamminano il giovane Carlo e la sua attraente zia Clara e poi, dopo un modesto
portone e una lunga serie di scalini, si apre una sala di teatro dove si
prepara uno spettacolo di varietà, ma ancora più in alto c'è una soffitta abitata
da inquietanti personaggi da dove si può guardare la sala del teatro osservando
tutti gli spettatori e gli attori come se si trattasse di pezzi del gioco degli
scacchi e in particolare da questa altezza si può vedere chi, fra il pubblico,
ha occupato il “posto cieco” quel posto sfortunato dove la visione dello
spettacolo è inibita dalla presenza degli altri che impediscono la visuale.
Da questa descrizione si può subito capire come
il romanzo di Zanini, che è peraltro capace di tratteggiare personaggi
caratterizzati e psicologicamente connotati, si muova su un piano di
riflessione metafisica che osserva, da un punto di vista globale, l'esistenza e
il senso del vivere degli esseri umani. Questo però nel romanzo non viene mai
detto, neanche nei dialoghi tra i singoli personaggi, non ci sono mai momenti
di riflessione teorica o di osservazioni esistenziali, tutto viene suggerito
dalla struttura del romanzo stesso che colloca il lettore in un luogo con più
prospettive.
Non a caso Zanini è anche pittore, infatti,
questo intersecarsi di diversi piani di visione ricorda molto da vicino le
combinazioni formali della pittura moderna con i suoi punti di fuga e le sue
diverse linee d'orizzonte.
La vicenda del romanzo si svolge nel trascorrere
di una sola giornata nel corso della quale i due protagonisti: il giovanissimo
Carlo e la sua seducente zia Clara decidono di recarsi ad assistere appunto allo
spettacolo teatrale. Questo si tiene ad un piano elevato di un vecchio palazzo,
i due attraversano dapprima i camerini
degli artisti che il lettore conoscerà da vicino con le loro caratteristiche di
guitti ma anche con la loro vicenda umana la quale tocca i diversi
registri che possono richiamare La
commedia Umana di Honoré de Balzac.
Preso posto fra il pubblico, Carlo e zia Clara si
trovano tra diverse persone che vengono via via presentate al lettore e che
costituiscono un variegato panorama dei vizi e delle doti umane messe in luce dagli atteggiamenti che i
singoli assumono nel corso dell'attesa e poi dello stesso svolgimento dello
spettacolo; fra questi personaggi ce n'è uno solo che occuperà appunto “il
posto cieco”, il posto dal quale la visione prospettica è inibita, a lui la
sorte ha riservato questa tutta singolare “cecità”.
Se finora abbiamo nominato Jorge Luis Borges e
Honoré de Balzac c'è un altro grandissimo che non possiamo fare a meno di
richiamare alla mente leggendo questo romanzo ed è Franz Kafka. Carlo e sua zia
si muovono, infatti, in un palazzo fatiscente e labirintico che ricorda molto
da vicino gli angoscianti meandri del castello kafkiano, ma inoltre essi fanno
singolari incontri lungo questi corridoi e queste scale, si imbattono per
esempio nei Polovesiani personaggi “Macrocefali, minuscoli per natura e
gentili” ma assolutamente enigmatici e sfuggenti, ma ancora oltre, quando Carlo
si troverà nella soffitta che consente una visione panoramica della platea e
del palcoscenico, si imbatterà in creature piccole e ambigue a metà tra il
mondo umano, il mondo animale e il mondo fantastico, sorta di crisalidi dal
fascino inquietante che si sono rintanate tra la polvere e le travi della
soffitta. Questi personaggi larvali hanno un fascino triste e nello steso tempo
vagamente minaccioso per la loro singolarità e, inseriti nei grigi androni del
casamento, richiamano i respingenti abitanti dei palazzi kafkiani.
La trama è composta quindi da voci diverse e da
protagonisti multiformi anche se tutto si muove davanti allo sguardo gentile e
innocente di Carlo, dando così a tratti al romanzo il tono di un romanzo di
formazione per le diverse esperienze che si susseguono alla vista del ragazzo
che ancora non conosce il mondo e lo viene via via esplorando. Non manca, in questa panoramica con tanti diversi
punti focali, l'elemento tragico, dove la miseria, l'avidità e la brutalità si
rovesciano in un crescendo violento e pericoloso e dove unico punto fermo, non
sempre però sufficiente, è l'amore. L'umile e dimesso sentimento in questo
brulicare di vita tenta un salvataggio del senso e del legame affettivo.
Alla luce di questo appassionante romanzo
possiamo così rispondere all'interrogativo finale della poesia di Borges: quale
dio muove i fili dei personaggi di questo mondo vivace e multiverso, questo
piccolo universo del vivere e del rappresentare? Se nella stesura del romanzo è
certamente l'autore colui che genera e poi dirige personaggi e vicende, nel
susseguirsi di queste all'interno delle pagine troviamo come deus ex machina un
caso nutrito molto spesso dalla miseria pratica ma soprattutto spirituale dei
personaggi tenuto però a bada dall'ingenuità, in un certo senso dall'innocenza
di chi guarda senza lasciarsi contaminare dall'ombra. Se c'è un personaggio nell'oscurità del
“posto cieco” c'è però anche un osservatore luminoso, curioso e candido che
mentre osserva fa sì che si svolga la trama di questa umana avventura.
Libri
Le parole e le lacrime
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro |
Mi sono rimaste molte impressioni alla
fine della lettura di questo libro. Provo a sintetizzarle qui, così come
vengono, frammentariamente.
Innanzitutto colpisce la tenuta stilistica, sempre coerente, della scrittura; ci si sente un lavoro accurato, paziente.
Lo scritto ha una sua originalità rispetto a quello che comunemente si legge, a quanto posso dire io, da profano. Ci sono riprese efficaci, veri leitmotiv. Il soggetto che scrive non parla in prima persona, ma diventa il personaggio principale di cui si parla (c’è una sorta di soggetto prima del soggetto?); vi è un gioco di punti di vista e la loro mutevolezza dà profondità alla scena. Il soggetto che scrive si stacca da sé, si raddoppia nel soggetto di cui scrive, si prende alle spalle. Scrive e insieme si osserva scrivendo, riflette sul proprio scrivere, e questo prende. Chi scrive si interroga sul se stesso che scrive, sul senso del proprio scrivere - è una della cose più coinvolgenti per me.
Innanzitutto colpisce la tenuta stilistica, sempre coerente, della scrittura; ci si sente un lavoro accurato, paziente.
Lo scritto ha una sua originalità rispetto a quello che comunemente si legge, a quanto posso dire io, da profano. Ci sono riprese efficaci, veri leitmotiv. Il soggetto che scrive non parla in prima persona, ma diventa il personaggio principale di cui si parla (c’è una sorta di soggetto prima del soggetto?); vi è un gioco di punti di vista e la loro mutevolezza dà profondità alla scena. Il soggetto che scrive si stacca da sé, si raddoppia nel soggetto di cui scrive, si prende alle spalle. Scrive e insieme si osserva scrivendo, riflette sul proprio scrivere, e questo prende. Chi scrive si interroga sul se stesso che scrive, sul senso del proprio scrivere - è una della cose più coinvolgenti per me.
Il rapporto
elemento materno-scrittura è naturalmente fondamentale. Per qualcosa mi ricorda
Kafka (leggo con emozione a p. 62 “perduta dietro l’incanto della prima volta
che aveva letto Il processo”) alle
prese col padre, cui dà scritti che questi sottovaluta e mette distrattamente
da parte – fino alla lettera al padre (che però il padre non avrà, anche per
l’intervento della madre). Il problema del riconoscimento assume in questi
contesti giustamente un grande rilievo. Vi sono pagine dense, che danno molto
da pensare, non è un libro di facile consumo Le parole e le lacrime. Ci si mette un po’ a entrare nella storia,
a prima vista è lo stile che attrae; ma quando ci si è, tutto diventa più agevole.
Prende lo spessore “esistenziale” (non saprei trovare un altro termine): al
fondo sta il variegato tema della scrittura, l’intreccio scrittura-vita, il
tema della solitudine. Effetti umoristici serpeggiano per tutto il libro. Non
mancano però momenti di vero e proprio pathos. Tra i punti con cui mi sono
sentito in consonanza c’è il tenersi in disparte e insieme la nostalgia del far
parte: “Due versanti ha questo sentimento, quello del dispiacere e della
nostalgia di non esser proprio parte del gruppo, e quello dell’orgoglio per il
sentirsi differente e distante pronta a lasciare perdere tutti” (p. 27). Il
tema della morte (cui è dedicato il cap. 2): “… per la prima volta sa che
morirà come tutti, infelice e con dolore e sofferenza e senza trovare il senso,
e che magari faranno a gara a tenersi compagnia il più possibile, lei e il
marito, ma che non c’è rimedio e dunque non è nemmeno da temere che sarà
brutto, perché brutto sarà senz’altro. Brutto e basta” (p. 43). Poi tanti altri
particolari: le canzoni, Rembrandt, quello che le può esser rimasto di
Wittgenstein, su cui l’autrice si è laureata con Piana… Tutto assume una
luce diversa in questi giorni per Marialuisa Cavallazzi luttuosi.
Marialuisa Cavallazzi
Le parole e le lacrime
Ed. Mimesis 2015
Pagg.
129 € 12,00LIBRI
GIOCARE A MANGIARSI
di Giulia Contri*
come forma dell'odio divoratore.
Narrare, gioco serio del
pensiero. Recensione di Giulia Contri
del romanzo di Mariano Bargellini,
del romanzo di Mariano Bargellini,
Giocare a mangiarsi, [Effigie Editore, 2014]
Gioco al massacro. Bargellini gioca seriamente quando narra perché narra senza consentire,
e invitando a non consentire, nelle forme e nei temi, alla logica dell’editoria
che oggi, nella narrativa in specifico, supporta e promuove, come rispondente
ad una supposta domanda dei lettori, la banalità delle relazioni, e con essa la
teoria che non c’è rapporto soddisfacente. La banalità delle relazioni è la
forma dell’odio che le governa: non resta che mangiarsi, divorarsi.
Dove impera l’odio, cola il sangue. Si vedano i media che ostentano con le telecamere,
come quadro ormai inevitabile dei rapporti umani, “pozze di sangue negli
interni della gente normale”, “corpi stritolati
da avvinghiamenti spinosi, da abbracci irti di d’aculei”, “vittime
sfigurate gonfie livide per i baci maritali filiali fraterni”(1). Si veda il ‘sogno della piramide’, ove si parla di ‘’assuefazione
alla solitudine” di chi si relega “in una casa disabitata’, dove la “vita è
finita”, e le persone che l’abitavano, un tempo “corpi familiari”, sono ora
“immagini d’ombra” cui non si ha più ”accesso”. È “una vita che non fa storia,
senza frutto, senza senso”(2). Senza meta (il senso), e
senza frutto per questa meta, (il profitto), per i conviventi la convivenza è
gioco al massacro.
Cultura dell’odio. Con un romanzo che definisce sperimentale, innovativo rispetto alla
tradizione narrativa dell’’800 e del ‘900, Bargellini fa appello al lettore a
non indulgere alla cultura dell’odio, della banalizzazione dei rapporti: la
forma non è quella di una storia per eventi, l’assetto è immaginale per singole
metafore, iperboli ed allegorie reiterate, attraverso le quali un soggetto
narrante, “fabulatore”, si rappresenta, visivamente e razionalmente, per la
logica sociale che lo guida, agli occhi propri e altrui.
Con quella
rappresentazione il narratore coinvolge i lettori a porsi domande sul proprio
rappresentarsi, se per consenso alla, o per critica della, civiltà del farsi
fuori. Oltre a metafore, iperboli
ed allegorie, Bargellini avanza paradossi: così gli scrittori (e insieme
ciascuno di noi?), ad esempio, sanno paradossalmente (sappiamo?) di
accondiscendere alla logica del massacro della cultura, e nel contempo pensano
(pensiamo?) di non condividerla? Sanno (sappiamo?) di avere a che fare con una
contraddizione intorno alla quale si gioca la nostra posizione civile? Siamo,
cioè, scrittori o comuni cittadini, autonomi da fonti esterne che ci “dittan
dentro”, o siamo asserviti volontariamente ai loro dettami? “C’è una volontà di
occultamento trasmessa dall’alto, dalle superne sfere o stanze del potere” che
ci soggioga, o “è mio costume di scrittore la penna sul foglio o...i tasti del
computer usarli esclusivamente per la ricerca della verità?”(3).
Siamo tutti imputabili? Una metafora illuminante che il narratore propone per
provocarci è quella paradossale relativa al “fabulatore” della storia. Egli ci
racconta -afferma- “una storia vera”, di trasformazione reale, che egli ha
subito dalla comunità: una metamorfosi in cavalletta dal volto cheratinoso e
inespressivo, che ha perso, nella sua omologazione massificante ad altri altrettanto
trasformati in insetti senza più volto umano, i caratteri individuali da homo
sapiens. E però, a differenza di altri che hanno consentito a quella
trasformazione massificante, sa criticare come errore del pensiero la rimozione
della propria configurazione dai tratti umani, del proprio volto-pensiero
singolare, per occultarsi dietro una maschera neutra: “Nel buio della nostra
mente uno specchietto di chiaroveggenza
di solito opaco”(4) è
rimasto. O: “Dietro la maschera entomologica ci siamo noi, al postutto”(5). Siamo tutti imputabili?
Padreterno o Satana? La metafora principe del romanzo, però, che provoca il
lettore a ripensarsi per l’idea di legame sociale che ha in testa, è quella
degli insetti che, fattisi divoratori nella loro omologazione omicida,
fuoriescono dal videogioco virtuale per invadere la realtà reale. Il narratore
intende con essa suggerire che quegli insetti virtuali sono il corpo vivo di
una cultura che intende cooptare gli individui all’idea del massacro come inevitabile, facendone degli “uomini
dimissionari”(6), rinunciatari cioè rispetto al pensiero di una civiltà
del rapporto? Di quella cultura del massacro così prepotentemente dominante nel
mondo è ipotizzabile un “invisibile programmatore”, un “Padreterno” che “dietro
le quinte, giovandosi dei trucchi e degli effetti speciali dell’optoelettronica”(...)“da un’oltranza implacabile”(7)
impartirebbe i suoi “comandi” al pensiero, impedendogli di elaborare in libertà
un proprio positivo criterio di legame sociale?
O ad impartire i suoi
comandi sarebbe una “Meccanica Satanica”, un Diavolo “Principe delle tenebre”(8)
cui il pensiero umano non avrebbe la forza di resistere?
L’altare trema?
Il narratore si riserva, con questo romanzo, di raccontare in forme immaginali
potenti il versante folle di guerra su cui l’uomo è incamminato. Ne nullifica,
svuotandoli di senso, gli argomenti. Ne scopre gli altarini a sostegno
dell’idea che esista un altare (quelle “stanze del potere”, quelle “superne
sfere” presupposte) su cui sacrificare l’autonomia di giudizio di chi ama la
pace nei rapporti. Non c’è bisogno di invocare, suggerisce ironicamente il
narratore, né padreterni né diavoli a giustificare la servitù volontaria alla
teoria del massacro come forma inevitabile del legame sociale cui ci si è
votati: è il romanzo intero che muove a concepire una sovranità del pensiero in
grado di battere criticamente l’errore di pensiero in cui consiste quella
teoria.
[*Psicoanalista
Società Amici del pensiero Sigmund Freud di Milano]
Note
1.pag. 7
2.pag. 61
3.pag. 10
4.pag. 239
5.pag. 12
6.pag. 57
7.pag. 213
8.pagg. 106 - 107
***
LIBRI
Le
Passioni fragili
di Gabriele
Scaramuzza
Eugenio Borgna |
Passioni fragili
sono in particolare quelle adolescenziali, tenui, evanescenti, esposte a ogni
vento, ma proprio per questo da tenere nella massima considerazione e da
seguire con la sollecitudine di cui necessitano, dato che i loro effetti
resteranno vivi tutta la vita. Il testo di Eugenio Borgna ha in questo il suo
centro, caratterizzante e nuovo; ma coinvolge anche temi psichiatrici ed
esistenziali che investono tutta la vita, e l’esistenza di molti.
Il
suo modo di procedere è squisitamente fenomenologico, e ispirato alla
psichiatria fenomenologica di Minkowski e di Binswanger. Se, come ha
efficacemente scritto Moritz Geiger, “scorgere le differenze è la passione
della fenomenologia”, Borgna esercita questa virtù con tutta la perspicacia e
la delicatezza che lo caratterizzano. È attento alle differenze, tuttavia è
anche sensibile al tessuto di relazioni che segnano lo sfumare dell’uno
nell’altro dei temi in gioco. Importante è cogliere la separazione, ma
altrettanto lo è la sensibilità per le zone d’ombra, in cui le cose sconfinano,
sfumano l’una nell’altra. Così malattia e dolore, silenzi e parole, emozioni e
passioni, normalità e follia, ansie e depressioni… sono da cogliere nelle loro
peculiarità, ma anche nei loro intrecci.
Un grande rilievo
assume nel testo di Borgna il tema del linguaggio e della parola. E soprattutto
è massicciamente presente la parola della poesia: colpisce e fa molto piacere
il ricorso intenso, costante, alla poesia: “La Psichiatria ha come sua ricerca
tematica gli sconfinati orizzonti della interiorità, della soggettività, che sono
anche quelli della grande letteratura, e della grande poesia, che aiutano la
psichiatria in questa ricerca”. L’arte della parola non è solo un campo di
conferma o di verifica di certezze acquisite altrove, ma anche un ambito di
scoperta in proprio, e di espressione, di verità insondabili, che non è
semplice mettere in luce in altri modi; è chiamata a testimone di strati del
vissuto cui su altri piani non si saprebbe dar voce. La letteratura ha
insurrogabili doti veritative, aiuta a capire meglio e a far emergere realtà
che altrimenti resterebbero misconosciute, o trascurate. Il mondo artistico per
Borgna costituisce un ambito affine, e una fonte di ispirazione e di
conoscenza, cui attingere, anche per allargare le esperienze cliniche.
È
difficile riassumere qui l’intera problematica, ampia, articolata che Borgna
tematizza. Mi limiterò a segnalare alcuni temi che mi sono i più congeniali, e
che mi paiono a tutt’oggi decisivi. Di formazione medica, psichiatra per
vocazione e per professione - vuoi nella ricerca vuoi in una lunga esperienza
clinica: la psichiatria, scrive, è “la disciplina che è stata la ragione della
mia vita”, - Borgna unisce alle sue competenze specifiche un interesse
raffinato per la poesia, il cui mondo mostra di padroneggiare magistralmente.
I temi della morte
e del suicidio, della malinconia e dell’angoscia sono visti attraverso il
filtro di grandi poeti che io stesso amo: da Georg Trakl a Guido Gozzano, da Emily
Dickinson a Rainer Maria Rilke… Clemente Rebora fu amico anche di Antonio
Banfi, nelle sue poesie Borgna scorge un peculiare “modo di vivere e di
rivivere l’esperienza lacerante del dolore”, espresso “con parole di alta e
profonda ispirazione lirica, e non solo cristiana ma umana”; le sue ultime
poesie vanno “ricondotte nella loro genesi al dolore e all’angoscia della
morte”. Allieva di Banfi fu Antonia Pozzi, cui Borgna ha dedicato non pochi
toccanti saggi. Scrive: “nella adolescenza Antonia Pozzi è ferita da paure e da
angosce, da esperienze interiori, che direi sconvolgenti, e che ne dicono la
sensibilità e la fragilità, il male di vivere e la radente disposizione a
guardare dentro di sé”. “La fragilità e la smarrita stanchezza di vivere, la
sofferenza e la nostalgia della morte, la malinconia come forma di vita, sono
state le premesse” ai suoi versi. Le sue poesie sono “scandite da una
malinconia intrecciata ad una smarrita e temeraria nostalgia della morte”, e
per questo associate all’angoscia.
Particolarmente
toccanti, ma anche tali da offrire ampia materia su cui meditare, sono le
pagine dedicate a quella che Borgna chiama la “psichiatria elegiaca” di Mario Tobino.
Si coglie bene la profonda simpatia che Borgna nutre verso questo grande
scrittore e medico. Egli tuttavia non gli risparmia qualche riserva,
soprattutto laddove entra in gioco il confronto con Franco Basaglia: “I suoi
libri sono immersi in una climax poetica che gli ha consentito di descrivere i
pazienti nella loro gentilezza e nella loro spontaneità, nella loro sensibilità
e nella loro nostalgia di vicinanza umana. Certo, egli non ha saputo
riconoscere la grande importanza dei fattori ambientali e sociali nel causare e
nel curare la sofferenza psichica”.
Della
scrittura di Eugenio Borgna, infine, colpiscono innanzitutto i modi, il ritmo
delicato, avvolgente, le scelte lessicali, le tonalità affettive. Quasi fosse,
lo scrivere, una continuazione con altri mezzi della terapia cui l’autore, da
psichiatra, ha dedicato tutta la vita. Qualcuno, non toccato in prima persona
dai mali dell’anima, ne trarrà un incitamento alla partecipazione, alla comprensione
verso gli altri, a una disponibilità che sta diventando sempre più rara.
L’animo di un lettore che sia stato anche solo sfiorato dal disagio psichico e
dal dolore ne uscirà confortato, troverà conferme del proprio vissuto, e anche
delle proprie attese. Chi dal disagio psichico è stato colpito nella propria
carne vedrà riconosciute, con sollievo, le proprie inquietudini.
Su più persone di
quanto si sospetti la scrittura di Borgna avrà comunque un effetto terapeutico,
quasi il lettore fosse lui stesso sottoposto, leggendo, alla cura che Borgna ha
sempre perseguito come proprio ideale. “Dovremmo esser consapevoli della enorme
responsabilità che le parole hanno in vita”, e Borgna lo sa bene. Se le parole
possono avere un uso curativo, questo vale anche per le parole dei saggi di
Borgna, per noi che le leggiamo, con intima adesione. “Al di là di ogni altra
possibile motivazione, anche questo libro ha come suo fine ultimo quello di
dilatare gli spazi alla comprensione della sofferenza umana, alle esigenze di
solidarietà e di comunione verso le persone che stanno male, e che hanno
bisogno di essere riconosciute nella loro fragilità e nella loro solitudine,
nelle loro nostalgie e nelle loro speranze, nel loro desiderio di ascolto e di
vicinanza umana”. E questo non riguarda solo persone malate; non meno riguarda
persone considerate “normali”.
La copertina del libro |
Eugenio Borgna
Le passioni
fragili
Feltrinelli,
2017, pp. 238, € 18.00
***
Libri
LAZZARO
Il nuovo romanzo di Roberto Pazzi
di Angelo Gaccione
Roberto Pazzi |
Gli
sparerà? Alberto Cantagalli, romagnolo, maestro di campagna, la sua
bella Beretta calibro 7,65 a nove colpi l'ha fatta revisionare. Di
esercitarsi si è esercitato: a casa del suo amico Andrea, romagnolo
come lui, e la mira è notevolmente migliorata. Da tempo cova contro
di lui un odio feroce: il tiranno, il mostro, lo stupratore della
democrazia, il pagliaccio che ha ridotto il Paese a zimbello del
mondo con la sua immoralità, il suo cinismo, la sua corruzione, la
sua mignottocrazia; che ha trasformato in puro spettacolo il
dibattito pubblico, a vaniloquio, grazie al dominio di una
videocrazia invasiva e pervasiva; che ha fatto dell'uso del potere la
via maestra dell'arricchimento personale e della propria supremazia,
intessendo rapporti loschi con le cricche di ogni dove, deve morire.
Leo Bonsi, è questo il nome del tiranno, e il paese ha bisogno di un
nuovo Gaetano Bresci che lo liberi dalla sua presenza e dal morbo
maligno che lo ha invaso.
In verità Vitulia non merita niente
perché dell'incantatore di serpenti che ora li domina e li
blandisce, gli italiani, per la gran parte, sono divenuti lo specchio
fedele.
Ma ora il dado è tratto e a Cantagalli
non resta che partire, con in tasca la Beretta, alla volta di Roma
dove l'odiato capo dello Stato vive, circondato da dodici “angeli
custodi” che ne assicurano la difesa giorno e notte. Ma gli
sparerà? Perché questo insistente interrogativo? Perché mentre
cresce nel lettore la sete di giustizia che l'atto eroico
dell'attentatore dovrà appagare, Cantagalli tergiversa, divorato da
dubbi e ossessionato da uno strano e inquietante sogno in cui il
cadavere di Lazzaro rifiuta la resurrezione, mentre un Cristo
inzuppato di pioggia tenta invano con le sue esortazioni di
risvegliarlo alla vita. E non solo. In una sorta di delirante
proiezione fantasmatica, Cantagalli che in realtà non vuole agire,
non vuole uccidere: “Se venisse qualcuno a ridestare anche me, a
innamorarmi della vita... un altro Cristo, che invitasse anche me a
risvegliarsi (…) per
tornare a volare...”
(come la farfalla dorata posata sulla testa bendata di Lazzaro nel
sogno), “Se venisse qualcuno a liberarmi da me stesso, a
innamorarmi ancora... ad arrendermi alla vita normale...”,
a quella beata normalità
tanto aborrita e insieme tanto cercata; qualcuno che
venga magari “a tentarci nella forma di un dialogo”,
perché gli uomini hanno bisogno di parole, della forza vivificante
della parola, del dialogo che vale più della luce, come ci insegna
Goethe nella sua favola, Cantagalli questo dialogo lo intraprende
davvero, lo intraprende nella maniera più confidenziale, con quella
entità (il suo doppio?) che dalla cacciata dall'Eden la tradizione
biblica individua nell'angelo ribelle, il Lucifero, il portatore di
luce. È
un dialogo, questo con Satana, con il Signore delle mosche, in cui i
confini fra bene e male si fanno incerti, e dove solide verità
vacillano o vengono ribaltate. Vengono ribaltate le nature stesse dei
dialoganti, in uno scambio di ruoli, in una metamorfosi in cui
Cantagalli finisce per tramutarsi nel Cristo eremita nel deserto alle
prese con il Diavolo tentatore che lo blandisce con le sue mille
suadenti lusinghe, e il Cristo stesso vorrebbe scambiarsi nel ruolo
di Satana seppure per il tempo di una mezza giornata.
Intanto
un altro Satana, rinserrato nel suo palazzo dell'Esquilino, il
dittatore sanguinario Leo Bonsi, riflette sulla sua condizione e
sulla sua solitudine. Solo come lo sono in fondo tutti i tiranni,
algido e separato come lo è il potere. La degradazione verso cui è
avviata la parabola oscena del suo declino sessuale di guardone,
mette il sigillo finale ad una impotenza sancita dall'inesorabilità
del tempo. Un successivo infarto ne minerà le capacità verbali per
una beffarda legge del contrappasso. Il puttaniere impenitente
ridotto all'impotenza, l'illusionista fantasmagorico dall'eloquio
suadente ridotto alla balbuzie.
Di
metamorfosi in questo romanzo di Roberto Pazzi ce n'è più di una.
Nel capitolo sesto della terza parte il Signore delle mosche apparirà
al Cantagalli sotto questa forma, e da mosca lo trasformerà per
portarlo in volo nella stanza del dittatore per mostrarglielo nella
sua natura di depravato. Nella stanza in cui troneggia un enorme
lampadario di Boemia, Cantagalli vedrà con i suoi occhi da mosca Leo
Bonsi alle prese con il sesso di due delle sue guardie del corpo. Nel
capitolo tredici della quarta parte Cantagalli sarà trasformato in
farfalla dal Diavolo. Una farfalla come quella del sogno, quella
rimasta a far compagnia a Lazzaro. È
una metamorfosi che gli permette di vagare per Roma, approdare in
piazza San Pietro e ascoltare una predica del papa a pochi centimetri
da lui. Ma soprattutto svolazzare sul bastione turrito di Castel
Sant'Angelo dove la statua dell'Arcangelo, che in realtà altri non è
che l'arcidiavolo Belfagor, si lascia convincere dal Demonio, a
prestare il suo aiuto nell'impresa di rapire con un atto di forza il
tiranno dalla sua stanza, ora che il suo tempo e scaduto e che un
colpo di mano militare lo ha spodestato dal potere e la Corte
Costituzionale lo ha dichiarato colpevole di alto tradimento. In
cambio il Diavolo gli garantirà la definitiva libertà e potrà
lasciare lo spalto del torrione in riva al Tevere, dove da secoli è
stato murato sotto forma di statua. Dunque alla fine Cantagalli non
sparerà a Leo Bonsi, ci penseranno Diavolo e Arcidiavolo a farlo
sparire. A lui sarà riservato di assistere alla scena, fino a quando
Teresa di d'Avila, la folle di Dio, la sposa del Signore, la mistica
che il Bernini ha impresso nel marmo carica di tutta la sua estasi
erotica e che vaga per la città eterna, non l'accoglierà nelle sue
calde mani tramutandolo in uomo.
Roberto Pazzi |
Tutta
questa materia, in parte scopertamente contemporanea e cronachistica
facilmente decodificabile nei suoi personaggi e nel suo climax, nelle
sue pieghe e nei suoi accadimenti (Berluskaiser ed il berlusconismo
in primis), divenuta sostanza dell'antropologia della nazione
(biografia degli italiani, come si è poi detto fotografando il
periodo), si intreccia ad un'altra più complessa e solo in apparenza
metafisica. L'oscura vicenda di Lazzaro che a fine romanzo si
scioglie svelando una verità inquietante: Lazzaro in realtà era una
giovane donna, sorella di Marta e di Maria Maddalena, l'amante
carnale di Cristo, morta consumata dal troppo amore non corrisposto,
per il suo Signore. Quel suo non voler ritornare alla luce,
quell'ostinato rifiuto di ubbidire al miracolo della resurrezione,
quel corpo bendato dalla testa ai piedi, non doveva che preservare
questo mistero agli occhi del mondo, perché agli amori totali è
preclusa qualsiasi felicità. A far volare
ancora
la farfalla di Lazzaro, quella che si era impressa sul suo capo
bendato, miracolosamente identica alla farfalla in cui Cantagalli era
stato mutato; a riconciliare
quest'ultimo
con l'esistenza come aveva bramato, a innamorarlo
ancora
della
vita, penserà Teresa. Teresa con la sua passione totale, il piacere
che non aveva conosciuto e di cui era stata privata.
Il
romanzo di Pazzi, come si vede, mescola al verminaio oggettivo
della politica, elementi favolistici dalle forti rispondenze
allegoriche. Il teatro è la Roma attuale, ma attraversata e
richiamata attraverso i suoi luoghi più evocativi e simbolici. C'è
la Roma imperiale e c'è la Roma dei fasti papali; la Roma delle
chiese cinquecentesche e barocche cariche di memorie pittoriche,
musicali, architettoniche e c'è la Roma amata dai letterati di cui
sono rimasti segni nelle lapidi e nelle incisioni. Perché Lazzaro
è
anche un romanzo dalle continue allusioni alla storia, alla
letteratura, all'urbanistica, ai personaggi più vari che la cultura
ha sedimentato nella sua immaginazione di scrittore.
La copertina del libro |
Roberto
Pazzi
Lazzaro
Bompiani
Ed. 2017
Pagg.
214 € 17,00
***
Libri
Un'insostenibile
voglia di vivere
di
Fulvio Papi
Il
libro di Gabriele Scaramuzza “Un' insostenibile voglia di
vivere. Frammenti di
memorie e riflessioni” è, nel
quadro della letteratura italiana contemporanea, un'opera del tutto
“inattuale”. L'aggettivo è rubato, come si capisce subito, a
Nietzsche e anche al suo senso. Non c'è bisogno di molte analisi per
giustificare l'aggettivo, è sufficiente ricordare in breve il
racconto: una progressiva esperienza affettiva che ripete in forme,
solo sulla superficie diverse, il disagio profondo del vivere di un
ragazzo e poi di un giovane che nasce (ma qui si dovrebbe essere più
analitici) dello stile sostanzialmente repressivo che l'io nascente
trovò nell'ambiente familiare, ripetuto nella scuola. La legge della
prestazione identitaria ha l'effetto in una natura incerta e
delicata, l'io nascente, di una solitudine incapace di costruirsi con
quel minimo di sicurezza che nasce proprio dalla relazione con
l'esperienza dell'alterità. Il ragazzo percepisce una insufficienza
di sé che nello sguardo degli altri appare come un giudizio di
conferma. Attraverso il tessuto di regole simili a quelle militari,
la madre apre al ragazzo una situazione educativa, la dimensione
maschile chiede invece il rifugio nel dolente silenzio del sé.
Potrei dire, con qualche incertezza sul mio sapere, che da qui nasce
una immaginazione del femminile come possibile riconoscimento e
quindi salvezza del sé. Credo sia una distorsione che si manifesterà
nei rapporti affettivi che emergono dal racconto.
Siamo
al liceo dove avviene nel giovane una parziale liberazione tramite la
consuetudine con l'insegnante di filosofia e storia (poi, aggiungo
io, un celebre estetologo universitario) che gli apre, si sarebbe
detto “la vita dello spirito”: letture letterarie e poetiche,
mostre d'arte, musica, architettura. Tuttavia l'equilibrio della
personalità era sbilanciato rispetto alla più generica educazione
del vivere comune. Tuttavia nella circostanza positiva di una
sublimazione che può diventare la forma stessa della vita, e,
tuttavia, è sempre esposta alla prova di quella occulta destinazione
di sé che è il rapporto con l'alterità, dove il se stesso della
sublimazione ha il desiderio di un riconoscimento che non è una
valutazione, ma ben più impegnativo un'attenzione e un affetto
femminile. Questa licenza inizia con un fallimento con una cara
compagna di banco. Sono storie da seguire al millimetro, e su cui c'è
poco da sorridere, ma qui ci accontentiamo di citare l'autore: “ho
collaborato attivamente a lasciar cadere un affetto”. Forse era
troppo forte l'assuefazione a una identità incapace di un passo al
di là di sé stessa. Poi l'autore vince un posto al Collegio
Ghislieri di Pavia. Un privilegio. E invece l'esordio è negativo:
prepotenze, sgarbi, talvolta vere violenze, qualche sfiorata amicizia
e infine, scrive l'autore, la “parentesi di Carla”. E qui
dissento del tutto dalla parola “parentesi”. Carla diventa
l'immagine di una centralità affettiva, di una ricerca di sé,
nell'approvazione amorosa della ragazza del proprio percepirsi come
soggetto mancante. A me questa storia, che non posso qui raccontare
nei suoi dolorosi episodi, ha fatto venire in mente l'ostinazione
amorosa dell' “io” protagonista nel bellissimo libro “Il
segreto” (di Giorgio Voghera)
“So il colore dei tuoi occhi, di quale biondo i tuoi
capelli, il tono della tua voce. Non i gusti, le preferenze, le
inquietudini”. Così accade
che l'icona estetica della ragazza diviene un'immaginaria terapia
affettiva di un “io” che si percepisce mancante. Carla non so se
percepisca esattamente questa situazione, ma certamente la interpreta
correttamente come un desiderio che di fatto, al di là della sua
immagine, esclude la sua vita ricca o povera che sia, in ogni caso
per Carlo “normale”. L'autore a suo modo ne è consapevole: “la
mia malattia si chiama Carla”. In questo ci si ammala perché non
esiste uno scambio, la ragazza dovrebbe parlare il linguaggio che
l'autore intrattiene con se stesso. La ragazza vive nella sua realtà,
si fidanza e il nostro autore recupera l'abitudine psicologica alla
rinuncia: le parole di Faust: “rinunciare tu devi
rinunciare”.
E
qui per l'autore si apre una frattura che è destinata a configurare
una natura psicologica: resterà una vita segnata da fallimenti
reiterati cui però si contrappone “una vitalità che stenta a
spegnersi”. Forse troppo nell'ombra nel libro, tanto da dare
l'impressione di una verità punitiva. Ora non posso riassumere gli
innamoramenti di una vita giovane che attraverso il reticolo degli
affetti cerca di crescere laddove più percepisce la sua mancanza.
Marta a Milano, Giulia a Padova, Hanna a Monaco. Naturalmente ogni
episodio ha le sue variazioni e i suoi casi, sempre psicologicamente
molto fini, sottili, eleganti che trovano, nella narrazione un
lessico scelto e maturo, pagine raffinate. E tuttavia, a mio
giudizio, in forme diverse si ripete la scena originaria con Carla.
Nel testo appare ora la storia di “Marco” che un lettore anche
non molto esperto, capisce come l'autore abbia voluto dare un doppio
drammatico di se stesso. Non credo che ne fosse bisogno. È
come una confessione che esagera il peccato. Ora toccherebbe a me.
Una scrittura limpida, talmente matura da far pensare a una distanza
della narrazione da quello che viene narrata. La scrittura, bene o
male, ha un suo tempo. L'autore è capace di analisi così minuziose
che la letteratura corrente ha quasi dimenticato. L'incertezza di sé
che si dipinge nel rapporto con le figure femminili, si ripete anche
nel lavoro universitario a Padova (felice invece la pausa a Venezia)
dove assiste alle aggressioni estremiste, senza peraltro riuscire a
sentirsi in una comunità: la sua strategia è quella di una persona
solitaria che, a mio parere, è sempre una relazione che interpreta
una oggettività.
Un
bel libro, raffinato, inattuale nell'epoca dei successi pubblici di
individualità apparenti e finalizzate all'applauso corale (con
eccezioni di valore). Se in una nota critica, posso avanzare
un'osservazione personale: non c'è troppo desiderio di punizione in
una vita che pure ha saputo dare a se stesso e ad altri, valori,
esperienze, educazione tutti positivi?
Gabriele
Scaramuzza
Un'insostenibile
voglia di vivere.
Frammenti
di memorie e riflessioni
Mimesis
Ed. 2017
Pagg.
200 € 18,00
***
Libri
Dino
Formaggio. Amo la tua anima. Lettere ad
Antonia Pozzi
di Gabriele Scaramuzza
La copertina del libro |
Ho ricordato
altrove, e lo riprendo qui, che in una mia ultima telefonata pochi giorni prima
della sua morte - a Convegno pozziano del novembre 2008 appena concluso -
Formaggio si rammaricò di non aver potuto esserci, e di non aver potuto dire
finalmente la sua verità sul caso Pozzi. Quasi non avesse ancora toccato lui
stesso il fondo delle cose, quasi la sua ultima parola non fosse ancora stata
detta, malgrado quanto lui stesso aveva scritto e più volte dichiarato.
Conservo tuttora il rammarico che la sua voce non si sia espressa fino in
fondo. Fosse avvenuto, ne avremmo tratto giovamento tutti, noi non meno di lui;
fare i conti onestamente con se stessi, anche di fronte agli altri, restituisce
dignità, e rispetto. Amo la tua anima
viene incontro alle mie attese, e insieme risponde a domande che la raccolta
delle lettere di Antonia a Dino pone ai lettori. Colma una lacuna (per quanto è
possibile, dato che insieme solleva altri interrogativi: lati di non-detto sono
inevitabili nei rapporti umani, soprattutto in quelli più impegnativi, come mi
fa notare Tiziana Altea), ed è perciò tanto più apprezzabile che venga ora
pubblicato; è encomiabile che la moglie, Adriana Zeni, con il valido aiuto di
Giuseppe Sandrini, lo abbia messo a disposizione del pubblico. Personalmente ne
ho tratto conferme, in una luce tuttavia in parte nuova, dell’immagine di
Formaggio che mi si è costruita dentro. Le lettere di Antonia Pozzi sono state
pubblicate sei anni fa (Soltanto in
sogno. Lettere e fotografie per Dino Formaggio, con la cura attenta sempre
di Sandrini, Verona, Alba Pratalia, 2011); mancava il punto di vista
dell’interlocutore, essenziale per comprendere l’intera vicenda. Ed ora eccolo.
Le traversie che hanno accompagnato lo scambio delle lettere e dei materiali
tra i genitori di Antonia e Dino poco dopo la morte di lei sono state
ricostruite da Sandrini (p. 99 e sgg.). Per nostra fortuna Dino (contravvenendo
al diktat del padre di Antonia) ha gelosamente conservato alcune lettere e
fotografie. Sarebbe ottimistico ritenere che lo scambio epistolare tra Antonia
e Dino sia ora completo. Le lettere che ci sono pervenute sono quelle sopravvissute
a contrastanti volontà, alla pressante richiesta a Dino di restituzione da
parte dell’avv. Pozzi, e alla sua successiva opera di distruzione o di
manipolazione: si può presumere abbia agito qui come ha agito con le poesie
della figlia.
Ed
ora vengo a taluni tratti rilevanti, nella mia ottica, del libro. Le lettere
sono molto dense sul piano affettivo; stilisticamente il tono di Formaggio è
alto, si può presumere consono alla lettura di poeti contemporanei da lui
amati, da certo D’Annunzio a una vena di futurismo. Lo lega a D’Annunzio una
sorta di vitalismo, ma più naturalmente e immediatamente corporeo, e più
hausmanniano. Vi sono elementi futuristi, anche sul piano lessicale: esiste una
contiguità tra certo futurismo e D’Annunzio. Qualche attrattiva D’Annunzio dovette
esercitarla (malgrado le ovvie differenze) su Formaggio: ricordo che fu lui a
portare mia moglie e me a vedere il Vittoriale, da Padova; ricordo il suo
atteggiamento curioso, attratto anche se critico, in quella visita.
Non
mancano poi nelle lettere cenni al mondo politico, temi esistenziali e
religiosi (sia pur di una religiosità per nulla confessionale): a un certo
punto Dino parla “del libro meraviglioso che si intitola ‘Vangelo’”. Colpisce
l’insistenza con cui torna la figura della madre, sempre intensamente amata da
Dino; e il rispetto per i genitori di Antonia. Già affiorano infine alcuni
punti cardine del suo futuro pensiero: dove dichiara che la sua “attività
centrale” certo sarà “nel campo estetico, ma di un’estetica che […] è troppo
umana per essere imbagolata tra i pettegolumi della critica d’arte” (71).
Traspare
anche chiaramente da queste lettere che al mondo degli studi (in cui pur operò
e più tardi si affermò) giunse tuttavia con difficoltà: non gli veniva naturale
da giovane, se lo imponeva come uno sforzo improbo e sterile. Basti pensare al
modo in cui si esprime con Antonia circa il lavoro per gli esami, per la tesi;
l’insofferenza che prova per questo. “Ora mi ha punto la spina della tesi e il
sangue che n’é uscito ha rigato di malinconia tanta felicità” (38). In questo
era diverso da Antonia (come attesta la bellissima lettera che gli inviò il 28
agosto del 1937 - la si può leggere in Soltanto
in sogno), che lo aiutò molto nel lavoro della tesi, con incoraggiamenti e
soccorsi concreti, anche con traduzioni dal tedesco, tra cui da Utitz (cfr. ad
es. le pp. 45, 65-66).
Ma
è il titolo (che riporta peraltro parole di Formaggio) per prima cosa a
colpire: sembra sottintendere una scissione dell’anima dal corpo. Ma davvero le
due cose sono così scindibili, anche per Formaggio? Non appartiene la
separazione a un’ideologia vetusta, e che comunque verrà poi superata nella sua
filosofia? Lo dimostra il suo successivo interesse, fenomenologico, per il tema
del corpo. In gioco qui è la personalità intera (in cui anima e corpo vivono
fusi) della Pozzi; in essa Dino sembra riconoscersi senza residui: “Amo la tua
anima Antonia – ma come un fiore vero – come i biancospini che stellano la
siepe della casa di mia nonna – come le folate pazze di sole dei papaveri del
grano, come una realtà viva con tutte le sue vene, una per una”(40). E poco
oltre: “io ti ritrovo Antonia, e ti sento carne e canto” (41): E ancora:
“grazie creatura Antonia. Io ho un ricordo di te che ti salva tutta” (77).
Bisogna
tuttavia aggiungere che certamente Antonia non appartiene al novero delle
figure di donne in seguito amate da Dino, di quelle almeno che ho conosciuto.
Tutte più avvenenti, quanto ad apparenza fisica. Certo, abbiamo solo foto di
Antonia, o brevissimi filmati; nulla sappiamo della sua presenza viva, vissuta
da Giovanni Maria Bertin come “dolcissima” (Noterelle
di un condiscepolo, in “Il canto di Seikilos. Scritti per Dino Formaggio
nell’ottantesimo compleanno”, Milano, Guerini, 1995, p. 99). Certo è possibile
che, malgrado il loro intenso legame spirituale, a Dino fisicamente l’amica
“non piacesse” (come egli stesso ha confessato una volta). Antonia non sapeva
valorizzare la propria femminilità, anche nel suo modo di vestire (indossava
vestiti costosi senza grazia, a detta di amiche sue – e anche questo è un
sintomo del suo modo di viversi). Possiamo dire che il modo di essere della sua
intera personalità non fosse tale da superare agli occhi di Dino altri aspetti
di Antonia, non gli rendesse plausibile l’idea di un matrimonio. A esso
peraltro Dino si dichiarava refrattario all’epoca, ed era sincero: “Mettermi
ora davanti al dilemma – o marito o nulla? - Ora? - Ma è almeno antistrategico.
Nulla, io debbo rispondere” (78). “Abbiamo una fratellanza di spirito
indiscutibile ed io vorrei indistruttibile. Non infrangere questi cristalli,
Antonia. […] E se io mi lego a te, a qualcuno, a chiunque, la mia vita è finita
nei suoi impulsi più alti, e la strada che mi ha accompagnato sin qui, mi
abbandonerebbe” (79). Ricordo bene quanto Formaggio si dichiarasse
recalcitrante a rapporti “per sempre”, almeno in un certo periodo della sua
vita. Agiva allora (a 24 anni, e a fascismo trionfante) sul fondo della sua
personalità una sorta di “anarchismo estetico”, che gli impediva di fissarsi in
una sola dimensione, di assolutizzarsi e di assolutizzare. Ricordo poi (ed
erano gli anni del fallimento del suo primo matrimonio), in una lezione liceale,
un suo accenno a Goethe, fatto valere a conferma della prospettiva di fuggire
da ogni amore che si prospettasse come unico, assoluto, eterno. In un momento
di sincerità (davvero molti anni fa) mi disse che, oltre all’arte, amava le
donne, al plurale, sopra ogni cosa. Contraddittoriamente, Formaggio contrasse
tuttavia due matrimoni: il primo (tardo-giovanile) con esito infelice, il
secondo nella maturità riuscito e tenuto caro, anzi valorizzato come esempio da
seguire.
Altrove
Dino, con ragione, parla (è Sandrini che lo riporta) di un “equivoco”, di “una
confusione di piani” tra sé e Antonia: “Questo nostro mondo era stato
fragilmente tessuto sui fili d’oro della nostra più pura spiritualità. È un
mondo d’infanzia, di sogno , di campagne fiorite, di carri, di siepi, di albe e
di tramonti, di campane, di strade bianche […] fuori da ogni possibile forma
comunemente umana” (104). E certo sorsero malintesi fra loro - di qui certi
rimproveri di Dino: “Sempre dell’acredine. Sempre delle malignità. Sempre voler
farmi dire e pensare a cose e fare cose che non faccio né penso”(74). Agivano
evidentemente in loro modi radicalmente diversi di vivere e progettare il loro
rapporto, un’idea diversa dell’amore, della donna. Nei suoi anni giovanili
sentiva certo come sua la dimensione estetica della vita, più che non quella
etica, se vogliamo rifarci alla nota distinzione kierkegaardiana. Antonia al
contrario tendeva ad assolutizzare ogni suo amore, a dargli durata e solidità.
Doveva esserle estranea la “leggerezza” di Così
fan tutte.
Era
in una dimensione “estetica”, per nulla intellettualistica, che Dino si viveva
da giovane. Per lui la vita sensibile aveva un’esistenza intensa, preminente:
“Io vivo molto più di sensazioni che di ragionamento” (48). Amava l’“avventura”
esistenziale e culturale (un punto di incontro con Antonia, ma da punti di
vista non identici evidentemente, fu il romanzo di Manfred Hausmann, che Antonia
aveva iniziato a tradurre): “Vagabondare vuol dire immergersi nella densità
aromatica e sonora della vita”(47).
Dino
Formaggio
Amo
la tua anima. Lettere ad Antonia Pozzi
a cura di Giuseppe Sandrini
con la collaborazione di Lucia Pretto
Verona, Alba Pratalia, 2016, pp. 128, s. p.
***
Quel signore del ’53
CASSOLA. NEL CENTENARIO DELLA NASCITA
di Gian
Carlo Ferretti
Per
ricordare lo scrittore Carlo Cassola, nel centenario della nascita, 1917-2017 abbiamo
chiesto al critico Gian Carlo Ferretti questa testimonianza.
Carlo Cassola |
Il mio primo incontro con Carlo Cassola risale all’inizio del 1953,
quando mi ero appena laureato a Pisa. Qualche anno prima insieme ad alcuni miei
coetanei studenti e operai, avevo fondato a Pontedera (dove vivevo) un circolo culturale,
come reazione a una provincia tanto vivace politicamente quanto culturalmente
torpida. Ci muovevamo tra il PCI e la «terza forza» su una comune piattaforma
laica (nella «terza forza» si riconoscevano, per dirla sommariamente, coloro
che in Italia non si schieravano né con le sinistre né con i partiti
centristi), ma all’inizio dovemmo accettare l’offerta di una sede da parte
delle ACLI, che ci costrinse a una serie di autocensure sia nei programmi sia
nella scelta delle riviste per la sala di lettura: dove per esempio non poteva
figurare «Belfagor», la rivista del mio maestro Luigi Russo, che fin dalla sua
testata demoniaca veniva considerata estremamente pericolosa dalle autorità
democristiane e religiose locali. Ben presto allora ci trasferimmo nella sede
della costituenda Biblioteca comunale, messa a nostra disposizione da una
giunta socialcomunista che non ci condizionò mai. Fu un’esperienza
straordinaria, per noi e per quegli anni pontederesi, attraverso un fitto
programma di conferenze, dibattiti. Memorabile una serata con Danilo Dolci.
Il carteggio di Cassola con Gaccione |
Il circolo fu molto
osteggiato dai benpensanti e dalla parrocchia di Pontedera. Ci consideravano
una sorta di gioventù perduta, e noi per scherzosa e polemica sfida cantavamo
«Noi siam come le lucciole, viviamo nelle tenebre...». Un giorno arrivò a
Pontedera un signore, che raccolse informazioni sulla vita sociale e politica
della città, e sulla nostra attività culturale. Era Carlo Cassola, che qualche
giorno dopo pubblicò sul «Mondo» di Mario Pannunzio, giornale da noi molto
amato, un servizio di prima pagina, nel quale il nostro circolo veniva indicato
a esempio. Ci sentimmo tutti onorati e commossi. L’intera vicenda del circolo
culturale sarebbe diventata quasi leggendaria nella storia della città, e avrebbe
trovato un continuatore e uno storico in Romano Luperini, più tardi docente di
Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Siena.
Carlo Cassola |
In quello
stesso 1953 mi trasferii a Milano per lavorare prima al “Calendario del popolo”
e poi all’ “Unità”, pubblicando articoli di critica letteraria e di analisi
dell’editoria libraria anche su “Belfagor”, “Rinascita”, “Il Contemporaneo” e
altre riviste. Nel 1964 pubblicai il mio libro di esordio Letteratura e ideologia, composto dalle prime monografie complete
di Bassani, Cassola e Pasolini. Di Cassola ho sempre amato i racconti degli
anni quaranta e cinquanta, mentre ho avuto crescenti riserve verso la
successiva produzione di romanzi, perché la vedevo viziata da un processo di «dilatazione»
con effetti di ripetitività. Dalle sue pagine maggiori emerge tra l’altro una
figura di donna gelosa del suo nucleo sentimentale ricco e segreto, ferita
continuamente dal mondo degli uomini (e dalla storia), ma armata di una strenua
autosufficienza. Un personaggio di indubbia novità e coerenza nel Novecento
italiano. Con Cassola,
dopo la memorabile e fugace venuta a Pontedera per conto del «Mondo» nel 1953, non avevo avuto più
contatti. Finché dalla seconda metà degli anni cinquanta, prima in relazione ad
alcuni miei scritti critici e poi per la preparazione e pubblicazione della
monografia, ebbi con lui un ampio carteggio e molti incontri. Era un
conversatore acuto e spiritoso, anche quando parlava di sé. Ricordo che una
volta mi disse: «Vedi, per uno scrittore toscano non si scompone
nessuno, mentre uno scrittore triestino lo prendono sul serio tutti».
Cassola giovane |
In generale poi nei nostri rapporti si dimostrò sempre «un vero
signore », come si diceva una volta. La sua correttezza, gentilezza,
disponibilità, simpatia mi avrebbero colpito sempre: insieme alla capacità di
accettare o discutere critiche anche severe con equilibrio, distacco, e senza
l’ombra di un risentimento polemico. Me
ne resi conto ancor più nel 1983 con il mio pamphlet Il best seller all’italiana, dove il Cassola dei romanzi era uno
dei principali bersagli, come rappresentante di una letteratura di consumo
medio-alto. In seguito ho maturato un progressivo ripensamento autocritico
sulla consapevolezza che Cassola ha avuto della propria collocazione e del
proprio ruolo, nell’editoria e nel mercato letterario italiano, anche se ho
mantenuto le mie critiche sull’involuzione letteraria di molte sue opere. Mi
sono venuto cioè convincendo, grazie a certe sue lettere, a certe sue
dichiarazioni e al suo comportamento complessivo, che a partire dalla Ragazza di Bube (1960) la sua produzione
narrativa sempre più serrata e la crescita del suo personaggio pubblico, non derivarono da una personale e intenzionale
strategia di successo. Cassola in realtà subì inconsapevolmente la logica di un
mercato che in fondo non capiva, e che viveva come ossessivo bisogno di lettori
e di pubblico. Cassola insomma fu sì un protagonista, ma anche una vittima
innocente dei fasti e dei clamori del « mercato delle lettere » tra gli anni
sessanta e settanta. Una riprova è stata, dalla fine degli anni settanta, la
sua progressiva e poi definitiva rinuncia a quel ruolo, e la scelta di un «
impegno » antimilitarista estremo che lo ha emarginato e isolato, al punto che ai suoi funerali nel 1987
non si è presentato nessun rappresentante di quell’editoria che grazie a lui
aveva realizzato ottimi fatturati.
[Questa testimonianza è basata su alcuni
stralci, in parte riscritti e integrati, della mia autobiografia Una vita ben consumata. Memorie pubbliche e
private di un ex comunista, Aragno, Torino, 2001]
***
Pasolini
e l’avanguardia
di Gian Carlo
Ferretti
Pier Paolo Pasolini |
Questo libretto curato da Angelo Gaccione
e Giorgio Colombo Intervista a Pier Paolo
Pasolini. Torino 1961, nasce da una bella iniziativa: dal recupero cioè di
una registrazione fatta a Torino nel 1961, in occasione della presentazione di Accattone da parte di Pasolini,
accompagnata da un articolo di Carlo Levi. Una edizione che è anzitutto la
conferma della inesauribile miniera pasoliniana. Come è ben noto da
anni continuano a uscire in Italia e all’estero le pubblicazioni di
inediti spesso preziosi. Lo si può
spiegare con almeno due motivazioni: la straordinaria complessità delle
esperienze intellettuali di Pasolini: poeta, narratore, critico letterario,
linguista, teorico del cinema, regista, giornalista, artista e anche politico
di una sua anomala e originale politicità; e la molteplicità dei suoi
interventi, presentazioni, dibattiti, partecipazioni pubbliche. Questa sua
intervista è caratterizzata (come tante altre) da un tono vivace, discorsivo,
diretto, e al tempo stesso da una varietà e ricchezza di problemi. Vi si parla
molto di cinema naturalmente, per l’occasione da cui nasce. Interessanti per
esempio le riflessioni sulle analogie e differenze tra romanzo e film, tra
scrivere e girare, che ci fanno entrare nel suo laboratorio creativo. Ma nell’intervista vengono affrontati
importanti temi generali, tra fasi superate e anticipazioni di fasi future. C’è
un’evocazione del suo Friuli contadino e della poesia dialettale degli anni
quaranta, che vedono nascere l’eresia del peccato innocente. C’è la contrastata
tensione razionale, che sottintende il motivo centrale delle Ceneri di Gramsci (1957), con la celebre
terzina rivolta alla tomba di Gramsci appunto: “lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te
nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere.” E c’è un motivo insistente,
quasi ossessivo, sollecitato anche dai suoi giovani interlocutori, e cioè la
ricerca di una formulazione nuova della categoria di “avanguardia”, che
anzitutto esclude l’ “avanguardia sperimentalistica” anticipando così la sua
condanna del Gruppo 63.
Pasolini cerca di ipotizzare, di definire e di far
propria l’idea di un’avanguardia impegnata, civile, democratica, con uno sforzo
che si rivela poco producente, per la carenza teorico-critica del suo discorso
e per un’oggettiva difficoltà: la natura intrinsecamente elitaria di ogni
avanguardia rispetto alle istanze popolari.
La sua ricerca (paradossalmente e sorprendentemente) lo porta a sottovalutare
la dirompente carica innovativa di Ragazzi
di vita (1955), e a sopravalutare la struttura tradizionale e la
programmaticità ideologica di Una vita
violenta (1959).
Molto più significativa la lucida analisi della
contraddizione interna alla crescente diffusione della cultura in Italia, negli
anni del boom economico. Diffusione che, dice Pasolini, reca in sé due fenomeni
opposti: la democratizzazione ed emancipazione delle masse con un ruolo attivo
dell’intellettuale di opposizione, e il consumismo del mercato neocapitalistico
con una sostanziale integrazione della sua produzione. Questa contraddizione Pasolini
si trova a viverla fino alla morte, nella sua stessa personale e complessiva
esperienza intellettuale, che lo vede muoversi sempre più tra persecuzione e
successo, tra ritornanti attacchi,
censure, processi giudiziari, aggressioni contro di lui, e una contemporanea
affermazione e fortuna delle sue opere e del suo personaggio pubblico nei mass media, nella società e sul mercato. In
questo senso il suo scandalo è al
tempo stesso provocazione, contestazione, trasgressione, e accettazione (se non
ricerca) di una attenzione, enfatizzazione, successo da parte del mondo
dell’informazione, del pubblico e della critica. Ci sono del resto due autorevoli e
insospettabili testimonianze, che colgono questi due risvolti fondamentali, pur
sottovalutando la partecipazione di Pasolini
alla costruzione del suo personaggio, documentata da tanti
scritti ed esperienze, e smentite solo formalmente da certe sue dichiarazioni
contro il successo e contro il mercato. Gli scriveva Gianfranco Contini (il
grande critico che lo aveva scoperto e valorizzato) nel febbraio 1962: “ Tempo
fa sono passato da Casarsa […], e ho pensato al P.P.P. che Lei rimpiange, ma io (nonostante qualche
tentazione psicologistica) non altrettanto, perché dopotutto il pedaggio anche
gravoso l’ha pagato per sicuri guadagni. Solo io credo che Lei dovrebbe
difendersi meglio, non dalla “notte brava”, ma dalla “dolce vita” che
l’assale (e peggio se per via amica),
perché, se noi pasolinisti della prima ora non possiamo affatto presumere che
il vero Pasolini fosse quello […], avremmo forse qualche diritto a che non diventasse
un mito di paparazzi.” E il suo amico, cugino e studioso Nico Naldini così
scriverà nel capitolo 1964 della sua biografia del 1989: “La figura pubblica di
Pasolini, che si è andata via via costruendo anche contro i suoi desideri,
continua a esporlo ad ogni sorta di attacchi, dai quali non si ripara mai
prudentemente, ma anzi egli stesso li provoca con insistenza. Sia che si tratti
del dibattito su un libro o della presentazione di un film, scende
letteralmente dalla cattedra per
controbattere con lucidità ossessiva le provocazioni di quella parte del
pubblico che lo confuta con un delirio di tensioni e di violenza. Qualsiasi
occasione basta a scatenare l’aggressività di questo pubblico […].”
La copertina del libro |
Intervista a Pier Paolo Pasolini
(Torino 1961)
A cura di Angelo Gaccione e
Giorgio Colombo
Ed. Orizzonti Meridionali,
2016
Pagg. 64 € 5,00
***
Libri
di Vincenzo
Guarracino
ANITA GUARINO SANESI
Anita e Roberto Sanesi nel loro giardino a Milano |
Un libro su un
poeta e sulla (sua) poesia, Di te, di me,
dell’albero, edito da ExCogita di Milano. Un libro di poesia, abitato da un
grande fuoco, quello dell’amore-poesia, che fa di quest’opera, veramente
commovente e coinvolgente, ben più di ciò che sembrerebbe a prima vista
promettere, un saggio cioè biografico-critico. Il poeta è Roberto Sanesi,
scomparso troppo prematuramente all’alba del nuovo millennio, il 2 gennaio del
2001: uno che ha incarnato agli occhi di molti (quorum ego) la capacità di dar voce, polimorficamente, in modo plurimo e prismatico, alla poesia
intesa come ricerca ed esperienza di senso, come messa in gioco di sé in
territori vastissimi, dalla poesia, alla critica d’arte, alla traduzione, sulla
scena della nostra inquieta contemporaneità.
L’Autrice
ne è Anita Guarino Sanesi, che, sua compagna di una vita, ha goduto
dell’impareggiabile privilegio di esserne stata depositaria di pensieri, sentimenti,
confidenze, progetti, sogni, che qui vengono disseminati come perle in un testo,
che ha l’andamento intermittente e irregolare dei meccanismi della memoria
accendendosi a tratti di commozione soprattutto nella conclusiva riconferma
dell’impegno a “mantenersi degna” di un lascito intellettuale e morale
assolutamente eccezionale, riannodando attraverso la scrittura i fili di una
vita, di una “storia”, unica e tutt’altro che “immaginaria”.
Concepito
come “una lettera
mancata che non ha fine” indirizzata idealmente al marito, Di te, di me, dell’albero, dal titolo
bellissimo, tratto da un testo di Roberto, ha il pregio di mettere da subito in
evidenza ciò che il libro contiene, una storia che, ancorché privata e
personale (“di te, di me”), fatta di solidarietà e complicità sentimentale, si
allarga ad abbracciare un sistema vastissimo di rapporti familiari e
intellettuali (letterati e artisti tra i più
prestigiosi del ‘900, da Eliot, a Berio, a Cecchi, e via via Dorfles, Michaux, Paci,
Pivano, Pomodoro, Quasimodo, Schwarz, Guanda, Strehler, Sutherland, Tilson,
Vittorini, e tanti altri), che ne fanno il quadro di un’epoca nell’arco di
mezzo secolo.
Il risultato è il diario di una vita, costruito per frammenti, con
i materiali incandescenti della memoria, cui non nuoce l’assenza di un rigoroso
ordine cronologico, agiti come sono, ad espansione, da una sorta di meccanismo
metonimico.
A farla da padrone, in tutto questo, è logicamente il
protagonista, Roberto, ma un ruolo assolutamente non secondario lo gioca
l’autrice, che si rivela “una protagonista, una vera partecipe dell’arte e
della poesia in fieri del marito”, come sottolinea nella Prefazione per Anita Gilberto Finzi, e
come lei stessa proclama in apertura, rivendicando con orgoglio il suo spazio
accanto a “un uomo”, “che ho
accompagnato per tutta la vita”. Anche se in una posizione in apparenza
defilata e marginale, “spettatrice inconsapevole di se stessa”, Anita si rivela qui interamente calata nella sua parte di
moglie e compagna, svolta con amorevole devozione, come gli era stato
riconosciuto dallo stesso Roberto in una delle ultime uscite pubbliche al
Teatro Arsenale nel novembre del 2000. Preziosa custode di memorie, ci illumina
su fatti fondamentali della sua vita: ci informa sugli anni giovanili, sulle
incertezze e difficoltà degli inizi, sui successi e le delusioni che ne hanno
costellato la vita e soprattutto su certi fondamentali episodi, come l’incontro
con T.S. Eliot, un vero punto di svolta di una carriera intellettuale straordinaria.
Il tutto con l’amarezza a stento dissimulata di non poter incidere più di tanto
nel contrastare il tempo perduto, un fatto questo che ci fa ritenere questo
libro come un essenziale tassello alla scoperta, oltre che di un Poeta tra i
maggiori che abbiamo avuto la ventura di conoscere, di una Donna di umanissima
sostanza.
La copertina del libro |
Anita
Guarino Sanesi
Di
te, di me, dell’albero
ExCogita Editore, Milano 2014
Pagg. 263, € 18,50
***
LIBRI
L’ODORE ACIDO
DI QUELL’ANNO
di Carla Battistini
Paolo Grugni |
Leggendo il romanzo di Paolo Grugni “L’odore acido di quei giorni” (giunto
ora alla quarta edizione in concomitanza con i 40anni del ’77) risulta
difficile non ‘innamorarsi’ del protagonista Alessandro Bellezza. Un antieroe
che riesce ad ammaliare sin dalle prime pagine, forse per suo vissuto contorto,
forse per la singolare professione che svolge: quella di recuperare i cadaveri
degli animali uccisi lungo le strade dell’Emilia che collegano Persiceto a San
Giacomo del Martignone. Un lavoro solitario svolto in quelle ore della notte in
cui il mondo sembra fermarsi e nel silenzio assoluto di un mondo addormentato,
Bellezza diviene metaforicamente un salvatore di anime in una provincia
sonnacchiosa, dove si vive di riflesso la tragicità di sanguinosi eventi
politici che stanno cambiano la storia della Repubblica italiana. Il
protagonista è in bilico fra il suo vivere quotidiano, inquieto e sofferto,
sempre in lotta con i fantasmi del suo io (fu coinvolto suo malgrado in
un’operazione delle Brigate Rosse), e i fantasmi che si aggirano in quella
realtà di provincia, dove si dice e non si dice, dove tutto si sa ma si
dimentica anche presto. Dapprima il ritrovamento di una donna nelle neve e
successivamente l’omicidio di un insegnante sono il bandolo di una intricata
matassa di eventi che si allargano a macchia d’olio: la città di Bologna e la
sua provincia vengono così unite da una travolgente trama noir, dove le vicende personali sono strettamente correlate alle
vicende politiche (la caccia a un terrorista di Ordine Nuovo) in un crescendo
di tensione che spinge il lettore a immedesimarsi con il narrato e a farsi esso
stesso ricercatore di “verità”. Ciò che colpisce maggiormente in questo romanzo
è quindi il vivido ricordo degli anni ’70, anni difficili, anni di piombo, anni
di terrorismo rosso e nero. Mantenere la memoria del passato, in questo caso
del ’77, tre mesi (da gennaio a marzo) intricati, ribelli, creativi, la cui
opposizione a un asse politico come quello DC-PCI fu stroncata dai carri armati
mandati da Cossiga, allora ministro dell’interno. Proprio per questo a Grugni
va riconosciuto il merito di averne mantenuto la memoria, perché il passato è elemento integrante della
crescita dell’essere umano e, in maniera più ampia, della società, dimenticarlo
o rinnegarlo sarebbe un grave ed imperdonabile errore. A Grugni va anche il
merito di scrivere in maniera lineare, mai pomposa od artefatta, le sue
descrizioni sono piccoli componimenti poetici di riconoscibile valore lirico,
le parole dosate e mai eccessive riescono a restituirci un affresco letterario
di quei giorni acidi (l’odore dei lacrimogeni), i suoi scritti li sentiamo
vicini, in qualche maniera ci appartengono. E non è poco.
La copertina del libro |
Paolo Grugni
L’odore acido di quei giorni
Laurana
Editore, 2017
Pagine 312; euro 15,90
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LIBRI
Belluomini.
Nel campo dei fiori recisi
di Vincenzo
Guarracino
Francesco Belluomini |
È un autore,
Francesco Belluomini (Camaiore, classe 1941), aduso a guardar in faccia la
realtà e dir la sua, in prosa e in versi, con fierezza e franchezza tutta
toscana, senza concessioni al sentimentalismo, fedele sempre a un principio che
fa del rispetto della memoria la sua peculiare misura morale, il suo fulcro
espressivo e concettuale.
Solo
per restare ai suoi libri più recenti, Sul
crinale dell’utopia (2013), Intimi
riflessi (2015), romanzo, il primo, e poema, il secondo, cortocircuiti
sentimentali ed espressivi danno vita a una complessa elaborazione del proprio
esserci nel reale, nel primo caso di fronte ai disastri ideologici del recente
passato (nello specifico, il “tradimento” di ogni utopia, di ogni attesa
palingenetica della Rivoluzione sovietica), nel secondo nella scoperta della
propria nudità di fronte alla morte delle figure fondanti del proprio sistema
sentimentale più profondo. Una sorta di elaborazione personale e civile del
lutto, non diversamente da quanto aveva fatto nei versi forti e civili di Nell’arso delle sponde per le vittime del tragico incidente della stazione
ferroviaria di Viareggio, nella notte del 20 giugno del 2009, un’autentica
Spoon River civile come pochi altri sanno fare (esattamente come anni prima
aveva fatto per le vittime dell’eccidio nazista di Sant’Anna di Stazzema, con Le ceneri rimosse. L’eccidio di
Sant’Anna, 1989).
È questo stesso
spirito che riscontriamo ora nel romanzo più recente Nel campo dei fiori recisi, Aracne, Roma 2017), che ripercorre
“scampoli di Olocausto”, come dice il sottotitolo, mettendo in scena un
episodio oscuro, quello di Sonia Contini, rimasto ai margini della storia della
deportazione ebraica e fatto riemergere oggi dal suo storico letargo come atto
di civile sovversione nei confronti dell’inumanità della vita, per mano di chi
nella memoria fermamente crede come in una risorsa energetica e vitale e non
vuole dimenticare. Vengono, infatti, ripercorsi tragici eventi: le giornate di
quel marzo del 1944, in cui la famiglia Contini, al pari di molte altre, fu
strappata dalla propria casa livornese per intraprendere un lungo viaggio senza
ritorno, verso i campi di sterminio, a salvarsi dal quale saranno solo due
sorelle, Sonia e Daniela, che, nonostante la giovane età, riusciranno a
sopravvivere con matura tenacia scampando al genocidio dell’Olocausto.
A raccontare
questa lunga odissea del dolore è Sonia, che, a distanza di anni, rompendo il
doloroso silenzio di una vita, si presta a rievocare in uno straziante
“memoriale” il lungo percorso che l’ha portata dal campo di concentramento fino
ai lontani paesi polacchi, facendo riemergere ricordi sepolti, ma non rimossi e
cancellati, ridando spessore a figure lontane attraverso la storia della sua
adolescenza, spesa dietro il filo spinato del lager di Birkenau.
Un
atto di giustizia, dunque, questo libro, che tocca con la forza della sua
verità e del suo linguaggio, non meno di quanto avviene in un altro
“memoriale”, quello della comasca Ines Figini (“Tanto tu torni sempre. La
vita oltre il lager”, a cura di G. Caldara e M. Colombo, Melampo Ed. 2017)
che qui mi sembra utile citare.
È
a questa esigenza, di rispetto della verità, che Belluomini presta la sua
penna: non per trovare “la ragione del piangere”, i fatti sono di per sé
eloquenti, ma per ridare dignità alle vittime di ogni violenza, al di là di
ogni perdono, per “guardare avanti” con serena fierezza e fiducia.
La copertina del libro |
Francesco
Belluomini
Nel campo dei
fiori recisi
Aracne
Editrice, Roma 2017
Pagg.
265, € 15,00
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LIBRI
LA PITTURA DI FRAGIACOMO
di Gabriele
Scaramuzza
Pietro Fragiacomo |
È davvero encomiabile
il lavoro compiuto da Andrea Baboni per l’edizione di questo denso volume
dedicato a Pietro Fragiacomo, uno dei più sensibili e accattivanti pittori
della seconda metà del nostro Ottocento. Il libro è frutto dell’opera di Andrea
Baboni, ed è articolato in più parti. Lo scritto da Baboni ci aiuta
innanzitutto a penetrare nella biografia di Fragiacomo e nelle diverse fasi
della sua pittura, ma insieme ha un respiro ampiamente culturale che permette
di collocarlo nel periodo storico in cui visse. Toccanti non sono solo le
pagine dedicate alla vita, ma anche quelle recanti a titolo Pietro Fragiacomo, cantore delle “luci di
mezzo” (che riguardano la formazione, la maturità e l’ultimo drammatico
decennio del pittore). Baboni tocca innanzitutto con maestria la sostanza della
pittura, ma al tempo stesso non trascura il contesto in cui Fragiacomo si formò
e la risonanza che ebbe ai suoi tempi e negli anni successivi. Massimo pregio
del libro è il catalogo delle opere, corredato da note esaustive, frutto di una
fatica da parte di Baboni che non deve sfuggire. Per chi semplicemente ama
sfogliare il volume, riprenderlo in mano da non specialista e goderne, le
pagine più attraenti sono com’è naturale le molte tavole illustrate, a colori,
molto ben fatte a mio avviso, e comunque emozionanti. Solo la confidenza con queste
ultime può dar carne al mondo di impressioni, di ragguagli, di interrogativi
suscitati dalla lettura delle pagine scritte. Non è da dimenticare che il libro
presenta una rapida premessa di Massimo Paniccia e una breve prefazione di
Giuseppe Pavanello (recante a titolo, sintomaticamente, “Un paysage est un étât
d’âme”). È corredato da una Antologia Critica, da un compiuto resoconto delle Esposizione
e da una nutrita Bibliografia. Ha visto la collaborazione alla catalogazione e
agli apparati di Matteo Ziveri; e, per le note biografiche, di Francesca Baboni. A conclusione del suo saggio Andrea Baboni
così riassume il senso della pittura di Fragiacomo: “restando sempre fedele
alla sua ispirazione, amò comunque soprattutto il mare e nel renderlo nessuno
come lui ne seppe interpretare lo spirito.
Più che un colorista, fu un pittore della luce realizzando nelle sue
opere l’eredità di quelle raffinate lagune in cui il Guardi aveva raggiunto
alti esiti poetici. Si colloca quindi come valido continuatore della tradizione
pittorica veneta così come anticipatore dei muovi fermenti; un artista di
riferimento non solo nella storia della pittura veneta”.
P.S. – per ragguagli sull’ingente lavoro di storico di Andrea Baboni e
sulla sua figura di conoscitore della pittura italiana del XIX secolo, si
invita a visitare il suo sito www.andreababoni.it - ma si può anche contattarlo direttamente
all’indirizzo baboniandrea@libero.it . Una buona recensione del volume è reperibile su “Il Piccolo” di
Trieste: Fragiacomo, l’artista che fece
della pittura poesia, di Marianna Accerboni.
La copertina del volume |
Andrea Baboni
Pietro Fragiacomo
Fondazione
CRTrieste, 2016
Pag. 414 € s.i.p.
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Libri
La copertina del libro |
Il romanzo Il posto cieco di Claudio Zanini è tutto
strutturato in un interno di teatro, una costruzione geometrica situata in un
edificio decadente, in piena città, ma remoto e fuori dal tempo. Edificio che è
metafora della vita, interno del cervello, visione del mondo meccanicistica e
ristretta, ma non del tutto. La base larga è luogo dell’azione, anzi, delle
azioni incrociate, la sommità è “abitata” dai superstiti di un popolo
misterioso dalle qualità affinate, che vegliano sui piccoli spostamenti e
minuti eventi, permettendo un raggio d’azione, una deroga al determinismo. I
personaggi in campo sono dei prototipi, delle marionette, ma il ragazzo Carlo e
la sua amata zia sono custodi dell’ultimo umanesimo.
Il posto cieco in platea
sarebbe la psiche segreta che non si può controllare né costringere. Lì si
infrange l’azione programmata e prestabilita secondo un imperio indiscusso.
L’edificio del teatro del direttore Gorgo è anche l’interno della testa, come
veniva raffigurata nelle stampe cinque-secentesche e oltre, contenenti
meccanismi e figure esemplari di uomini di animali agenti. Lo stesso fatto che nel
teatro si svolgano giochi d’illusionismo contribuisce a conferire una scena di
artificio. E tutta la sofferenza, il bene e il male dell’individuo sono portati
in un universo altro, a effetto straniamento dalle viscere e dalla psiche
troppo pulsanti di ognuno.
La figura chapliniana del
giovane Elisio, angelo caduto, equilibrista su una corda tesa, sembra
riflettere una morale: si sfugge a un destino inumano, volgare, normalizzato,
solo sottraendosi, in questo caso, cadendo dall’alto, schiantandosi e morendo a
scena aperta.
Alla narrazione precisa, meccanica come un
orologio ad alta precisione corrisponde il nascondimento (fino a che punto?) del
vero sentire e dei veri pensieri di ognuno. Questo credo che sia l’effetto
della narrazione.
Lo stile è congegnato per
sostenere pensieri istantanei, subitanei, non psichici, anzi la psiche è messa
in ombra, come nei disegni di Escher o in certe simbologie alchemiche prima
ancora di Leonardo, che delineano la figura umana al centro di geometrie a
volte immaginarie, o nei disegni del Cardano delle teste strutturate in
conformità al destino personale.
Scrittura franta, che
poco concede all’effetto, all’urgenza del sentimento, che ha il pregio di
omettere materiali aggiunti ad effetto, perché l’effetto e il senso (i sensi?)
sono l’obiettivo stringente della narrazione. Mi è sembrato che soltanto verso
la fine si lascino liberi sapori, aromi, memorie olfattive, sensi sottili che
oscurano, per esempio, la volgare e pacchiana frequentazione del macellaio e
della contessa, due automi o marionette programmati per un’avventura galante a
base di carne, nella parola italiana che copre i due sensi, di carne umana, e
sesso, e di carne della bestia che si macella e della quale si fa bocconi.
Il discorso diretto, i
brevi dialoghi fulminanti non sono costruiti per portare avanti l’azione, ma si
presentano funzionali all’espressione dell’insoddisfazione, dell’irritazione,
del discernimento, dell’inganno, insomma, di accettate funzioni, diciamo,
dell’animo.
Claudio Zanini
Il posto cieco
Ed. Bietti, 2017
Pagg. 375 € 17,00
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“SIGNORE, FA’ CHE QUALCOSA RIMANGA” di Vincenzo Guarracino
Il difficile lascito di Roberto Sanesi
Roberto Sanesi |
C’è un’intuizione di Walter Pedullà, contenuta in
una riflessione critica sulla raccolta L’incendio di Milano, secondo il
quale a proposito delle immagini di Sanesi si deve parlare più che di “una
eloquente visività”, soprattutto di “visionarietà”, che il critico intende come
“traduzione... in figuratività” dell’informe dei “sogni” e degli
“incubi”.
È da qui che bisogna partire, da questo termine visionarietà,
per inquadrare e capire l’opera di Sanesi, non solo quella “visiva” ma anche
quella “lineare” e “versuale”.
Visionarietà vuol dire che l’esperienza di un oltre e
di un altrove si fa progressivamente visibilità, scrittura,
scegliendo di volta in volta la parola o il colore (il segno e gli inchiostri
colorati), sempre comunque attenta all’effetto, all’”emozione” di cui parlava
Giacinto Spagnoletti, alla necessità di tradurre sulla carta l’informe in
figuratività.
Si tratta di un processo proteso a riprodurre il movimento di
un pensiero (o di un sogno-incubo che sia) verso la sua apparizione e la
concretizzazione in immagini e personaggi, figure in grado di suggerire più che
di dire, di sedurre e fuggire con perfetta autonomia rispetto al soggetto, per
rendersi disponibili in un altrove di pagine e libri a nuove
imprevedibili metamorfosi nell’intrico inquieto e avvolgente dei versi.
Restando, comunque, sempre ostinatamente “contemporanee” a se stesse, come
aveva precisato già Tadini (1958), e a se stesse soltanto somigliando, per
oscure e “incompiute” che possano apparire.
È questo il lascito “difficile” ma fecondo di Sanesi ed è a
questo forse che alludeva, oltre che in una nota dell’’82, di Carte di
transito (“noi siamo più strettamente legati con l’invisibile che con il visibile”,
affermava non a caso parafrasando Novalis), in un testo contenuto nella
raccolta L’improvviso di Milano (1969), Esperimenti sul metodo:
Visibile e invisibile: è facile
a dirsi: così come
ti vedo
accadi in me e mi modifichi, sono
una semplice nota
fra le parole indistinte
/.../
negare
anche la mia somiglianza, espellere da me
me stesso e le mie immagini: accettare
una nuova
distanza.
Si faccia attenzione anche al titolo del testo appena
citato, Esperimenti sul metodo. Contiene un’idea di appressamento e
insieme di incompiutezza, di rigoroso e di empirico e insieme qualcosa che
programmaticamente esclude ogni coinvolgimento personale, ogni emozione essendo
rigorosamente bandita, in linea con quanto aveva affermato Eliot (“La poesia
non è un libero sfogo di sentimenti ma un’evasione da essi; non è espressione
della personalità ma una evasione dalla personalità”, Traduzione e talento
individuale, in Il bosco sacro, Milano 1985, p.79).
Più tardi questo concetto di “fuga dall’emozione” troverà
ulteriore e più energica conferma: “Non mi fido / delle emozioni, / della
coscienza che cade bruscamente / nell’invisibile” (Autoritratto con attori e
verde, in La cosa scritta, 1977).
Perché? Perché la realtà in cui il poeta si trova immerso è ostile,
aggressiva (“Signori miei, lo confesso: da anni / questa realtà che porta di
traverso / un cappello ridicolo e assomiglia / a un personaggio di Brecht,
ansiosamente / mi fa cenno dagli angoli, ma è raro / che parli il mio
linguaggio, e mi assicuri / di non essere identica a me stesso”, Questa
realtà, in Rapporto informativo, 1966) e impone risposte non
evasive. Impone rigore, determinazione: di “negare / tutte le negazioni”, come
aveva detto nella sezione V di Rapporto informativo.
In uno scenario che diventa sempre più astratto, una città
“pensata non vissuta”, Milano, diventata “luogo della solitudine pubblica”, al
poeta non resta altra risorsa di persistenza che il rifiuto inteso come
autentico progetto di vita: “Bisogna / attenersi a un progetto. Proporlo.
Seguirlo. Drammatizzare” (L’improvviso di Milano ovverossia La solitudine
pubblica ha una scimmia in tasca, 1967).
“Parole in movimento” (non “parole nel caos”), come le aveva
definite già nel lontano 1970 Elio Filippo Accrocca a proposito de Il feroce
equilibrio: parole che si inventano liberamente misure e intonazioni
a seconda della mobilità stessa dell’emozione, di quello che leopardianamente
si potrebbe definire “sentimento al presente”, salvo il fatto che qui
emozione e sentimento si situano nelle cose, negli oggetti, insomma fuori
paradossalmente dal soggetto, che si scopre così oggetto fra gli oggetti,
segno, “semplice nota fra le parole indistinte”, con l’ambizione non tanto di
decifrare (cosa impossibile) quanto di descrivere e rappresentare l’informe.
Non
voglio
rinunciare agli
oggetti
ma abitare gli
oggetti nello stesso modo
in cui si è
visitati dai concetti
dichiara ancora in Esperimenti sul metodo, ed è una
vera e propria dichiarazione di poetica, valida almeno per quegli anni di
confronto-scontro col reale, oltre che in sede privatamente poetica di
“auscultazione e obbedienza nei confronti dell’inconscio”, come lucidamente
precisa Ruggero Jacobbi (La solitudine pubblica, 1976, p.30).
“Abitare gli oggetti”, non meno urgente e necessario che
essere “visitato dai concetti”: è dentro questo duplice ordine di intenzioni e
volontà che si situa l’avventura conoscitiva ed espressiva del poeta e il
risultato è un’esperienza di scrittura, di trascrizione di un dettato profondo
che può farsi perfino lirico consenso alla bellezza ordinaria del reale,
“collage di desideri”, certo, ma nel cui centro si nasconde sempre “un uomo”.
Insisto su questo passaggio, perché mi sembra che, per
quanto marginale, contenga il segreto di questa esperienza divisa tra immagine
e parola. Proprio a questo mi pare che possa applicarsi come didascalia o
corollario l’appunto riesumato da Giuseppe Langella tra le moltissime carte
inedite ritrovate e proposte in appendice a L’interrogazione infinita e
qui disposto sotto il titolo Il testo poetico e le sue interpretazioni.
L’appunto, che appare senza data, recita testualmente nel primo dei quattro
paragrafi (o aforismi) numerati di seguito al significativo assioma “Mi
dispiace di essere prevedibile”: “1) mi piace una poesia capace di seguire le
divagazioni della mente, i vagabondaggi del pensiero, le associazioni
imprevedibili”.
È questo un concetto su cui Sanesi ritorna anche in un testo
in prosa molto significativo, ossia ne La polvere e il giaguaro (1972,
poi 1990), resoconto in forma narrativa su un’esperienza di viaggio, in cui a
un certo punto organicamente argomenta sul tema:
“Lasciare che i pensieri se ne vadano per conto loro, che
fluiscano pure secondo la loro apparente scombinata natura – e poi
acchiapparli, bloccarli con uno spillo, zac, sulla tavoletta, ripuliti e
organizzati; perché è solo scrivendo, comunque, che si scrive (è solo vivendo
che si vive, non è vero?) e quello che volevi fare lo saprai solo dopo averlo
fatto”.
È un metodo, questo, più che un discorso definito: una
prassi da rispettare e che richiede costanza e applicazione, come ripeterà
molti anni più tardi, nel 1994, anche testo più intenso e significativo dei suoi
umori civili e poetici, L’incendio di Milano, 1994, (“Bisogna /
attenersi a un progetto. Proporlo. Seguirlo. Drammatizzare”). Perseguirlo,
benché lo si riconosca impossibile da realizzare e portare a termine:
interminabile, insomma, come l’analisi e l’elaborazione freudiana del sogno.
A proposito di questo testo, da cui prende il titolo
l’antologia che raccoglie buona parte della sua produzione poetica dal 1957 in
poi, val la pena, per inciso, ricordare quanto in nota Sanesi stesso precisa
ricordando occasioni e motivazioni della sua composizione: “Fra il gennaio e il
febbraio del 1989 avevo scritto alcuni frammenti che avevo poi interrotto con
il titolo provvisorio di Architetture del fuoco. Mi aveva spinto a
riprenderli, ampliarli e organizzarli, l’invito di Antonio Porta a fornire un
testo su Milano per le edizioni Rizzardi. L’attuale titolo L’incendio di
Milano nasce da questa occasione, e Porta lo aveva preferito “per essere
più diretto”, e non per questo meno metaforico”.
In un testo della raccolta Mercurio (1994), il
concetto della necessità di un metodo e di un “progetto” ritorna
esplicitamente:
Travestito da sogno, disseminato
per infinite pianure,
perseguitato da troppi indizi per essere
capace di orientarmi, a volte immagino
di prevedere luoghi precedenti, spingendo
sempre più avanti il segnale
che definisce il campo, il fossato, il filare,
come seguendo nell’ombra che si sposta
la sferza della trebbia, il fuoco fatuo
del grano che precipita in pulviscolo. E penso
in questi casi al ritorno, essendo la pianura
un turbine di vuoto attraversato
da una sola figura, che non mi assomiglia.
(Per
infinite pianure)
C’è un’evidente angoscia in tutto questo. Una sorta di
coazione a ripetere gesti, parole, situazioni, attraverso cui un io
“disseminato” e “perseguitato” cerca il suo centro, un luogo da riconoscere e
in cui riconoscersi.
Ma tutto questo perché, a che scopo? La risposta sembra
essere contenuta in una nota apposta ancora ad alcuni frammenti aggiunti al
testo prima citato, ossia L’incendio di Milano, a proposito dei quali
dice che “non hanno ancora trovato una collocazione certa all’interno” del
poemetto stesso, e questo perché la sua natura è tale da poter essere
“considerato aperto ad ogni aggiunta e variante possibile”. Un’opera
aperta, dunque, in fieri e tale le sue disiecta membra possono
vivere anche autonomamente, senza patire alcuna mortificazione e diminuzione, e
anzi protendendosi verso una futura, impossibile ricongiunzione e unità.
Fa venire in mente un autore che per tutta la vita, per sua
esplicita ammissione, non ha fatto altro che “preludiare”, disporre cioè la sua
voce, la sua “lingua mortale” a intonare un canto forte, capace di esorcizzare
ogni paura. È Leopardi che dice ciò. Chi non l’ha riconosciuto? È Leopardi che
così risponde a un giovane, Louis Lébreton, che con ammirata ingenuità lo
interpella sul segreto della sua poesia.
Un canto contro i fantasmi della paura, un esorcismo delle
ombre: “chi teme canta”, aveva detto in una celebre annotazione dello Zibaldone
(3527), suggerendo una chiave di comprensione non solo della propria
esperienza di canto.
La parola, il canto, come un appressamento e un invito ai
fantasmi della mente e del cuore, perché si tramutino, se non in una consolante
armonia e in un “ameno inganno”, almeno in una teoria più o meno ordinata di
suoni, di eventi che si fanno linguaggio (“la poesia è quei fatti nel
linguaggio”, marzo 1977, in Carte di transito, 1989), in grado di
aiutare a metabolizzare e neutralizzare il nero della notte e della vita.
Come le virgiliane “umbrae” del Libro VI dell’Eneide e i
“simulacra luce carentum” che aspettano di ritrovare la forza del corpo e
dell’apparenza a dispetto della loro illusorietà, Sanesi fa affidamento sulla
parola della scrittura come su una parola molto “umana” portatrice di pensiero,
strumento di un’avventura essenziale nell’Acheronte della vita: una parola
cosciente della propria qualità, niente affatto incline al sublime o innamorata
dei propri orpelli, ma anzi umilmente protesa ad ogni anche contrastante
apparizione.
“Vi sono poeti che cantano”, dice in un appunto
datato marzo 1977, in Carte di transito. “Altri semplicemente parlano.
Per quanto mi riguarda, mi sono proposto da sempre di ragionare. Ciò non
impedisce che talvolta il ragionare venga afferrato dal canto”.
Un ragionare, a tratti contorto, paradossale,
apoftegmatico, che, incontrandosi con la scrittura, dà corpo a “un oggetto
mobile e senza riscontri immediati, che sfugge a ogni apprensione e per questa
fuga, facendosi impenetrabile, disvela non solo una totale e utile libertà...
ma anche, per contrapposizione, il totalitarismo di quei sistemi che vorrebbero
far proprio il processo creativo”: è questa la poesia, un corpo a corpo con le
ombre, incurante di qualsivoglia fatuità estetizzante, una sorta di “battaglia
d’amore in sogno”, come Polifilo che insegue la sua Polia, per parafrasare il
titolo dell’opera, l’Hypnerotomachia Poliphili, dell’umanista eteroclito
Francesco Colonna, che tanto suggestionava Sanesi e cui tanto nell’intimo sentiva
di somigliare come suggerisce, se non altro la straordinaria Elegia della
già citata raccolta La differenza (1988).
“Mi piace una poesia capace di seguire le divagazioni della
mente, i vagabondaggi del pensiero, le associazioni imprevedibili”, diceva
l’appunto in appendice a L’interrogazione infinita già prima citato.
È un corteggiare ed elaborare l’informe, quello che vi si
auspica: l’invito a seguire in assoluta libertà le “divagazioni della mente”
attraverso un “ragionamento”, nel suo senso più etimologico di allineare e
porre in ordine, disponendosi per esso alla rapina del “canto”, alla cattura
dell’istante, prima di esporsi all’alea dell’interpretazione e del commento.
Non a caso il quarto paragrafo (o aforisma) recita: “Una poesia la immagino
come la somma di tutte le interpretazioni possibili”. Libertà del poeta ma
anche libertà del lettore, dunque: entrambi disposti di fronte alla parola
poetica con assoluta disponibilità e umiltà.
Si tratta di un concetto che si ritrova ribadito anche in un
passo di Elegia (“Allora, perché non discutere dell’imminenza?”), con
l’aggiunta che ciò è possibile solo a patto di servirsi di “immagini dipinte” e
di “oggetti veri, parole”, gli unici strumenti “umani” attraverso cui costruire
un discorso di libertà in un processo di “associazioni imprevedibili”:
“Allora, perché non discutere
dell’imminenza?
Con immagini dipinte.
Con
unguenti preziosi, elaborati.
Quattro. O forse tre. Con odore d’incenso.
In una specie di fumicosa spelonca ecclesiale.
Essendo sempre difficile determinare il numero.
Per
sovrapposizione. Per sdoppiamento.
.....
I libri sbriciolati. La finzione
che finge la finzione.
Gli oggetti veri, parole. Perché?...”
Un canto dell’imminenza, dell’attesa (o forse ancora
meglio “dell’immanenza”, di ciò che è intrinseco alle cose, alla vita): un
canto che evoca e interpella pensieri che sono dentro, che vivono
perfettamente consustanziali a ciò che appare, attraverso immagini dipinte
e oggetti vari.
Imminenza e immanenza, dunque, si incontrano e collidono
sulla scena di un realtà metropolitana (spesso una plumbea e nebbiosa Milano,
città emblema dell’Occidente, non meno di quanto lo fosse Londra per Eliot
della Terra desolata), di un reale di disarmante squallore: c’è
sintetizzata la sua esperienza intellettuale, l’attraversamento delle putride
acque stagnanti che imprigionano la “minuscola barca” della sua avventura
esistenziale e creativa nella molteplicità dei suoi campi di interesse.
Isola nera e triste, misera terra, voce
rotta nel ritmo placido del remo, qualcuno
sulla minuscola barca mi mormora, vento
perduto in mezzo ai loti, respiro, non più
che una farfalla
di vento fra le alberature, forse
un’altra
annunciazione...
In altra occasione avevo evocato, a sostegno, immagini di
leziosità settecentesca, impossibili imbarchi a Citera, viaggi per isole
fortunate e favolose. Oggi, a rileggere questi versi di Elegia, questa
attacco soprattutto, colpisce e sgomenta l’immagine inquietante di quest’”isola
nera e triste”, che fa pensare a certi incubi di Johann Heinrich Fussli o al
Caspar David Friedrich del Monaco in riva al mare, ma ancora allo
scenario marino della improbabile Milano della shakespeariana Tempesta,
già altrove affiorato tra le melme e i miasmi dei Navigli delle Poesie per
Athikte (1959), come appare evidente da questo passaggio di Proposizione:
Io ti contemplo qualche volta, Ariele,
quando percorri l’acque risonanti, e il cielo
cupo della città lungo il Naviglio, e i ponti,
e dici che se il mondo non avesse – e il ferro
dei ponti irrita il fiume – altra sostanza, allora
il fatto che il tuo canto soavemente
senso volando affermi, e Duca ora mi creda
e veda Ariele sopra i tetti, è certo
solo dipenderebbe da un più vero incontro
della realtà con te. Pure ti vedo e ti contemplo,
a volte, e so dell’impossibile figura
nata da ritmi e sillabe: il tuo canto
fugge impietosamente oltre le rive e muore
vivo per altri fiumi. La città è di pietra.
Certo, quella clausola “La città è di pietra” fa venire in
mente un’altra clausola di molti anni dopo, “la bellezza è morta?” (L’incendio
di Milano, 1989), ma soprattutto
un’altra celebre e drammatica formula conclusiva della nostra poesia
contemporanea, a quel “la città è morta, è morta” di Milano, agosto 1943
di Salvatore Quasimodo, un poeta cui Sanesi era rimasto fedele per tutta la
vita, a partire da quando ne aveva curato per Guanda un’antologia di Poesie
scelte, all’indomani del Premio Nobel, premettendovi un saggio di notevole
ampiezza e rigore (ripubblicato poi in Omaggio a Salvatore Quasimodo,
“Inventario”, anno XVI, 1961). Una fedeltà, per esempio, che detterà più
tardi, oltre a innumerevoli più o meno esplicite citazioni, anche un testo
poetico a lui chiaramente dedicato, In memoriam, contenuto in Altergo
& Altre Ipotesi (1974), in cui il poeta “incontrato in sogno”,
all’interno di un paesaggio rannuvolato e inquieto, gli conferma la propria
presenza e persistenza (“Hai / solo piegato il labbro, sì, ombre / dietro di te
leggere, e / “non ho paura, sono”, forse / ti è salito negli occhi col
silenzio”), oltre il tempo della dimenticanza e della memoria.
Ma qui, in Proposizione, siamo un passo già oltre
l’amicale sodalizio per altri versi straordinario con l’autore di Giorno
dopo giorno (1947): siamo nella zona di un canto, che, pur “vivo per altri
fiumi”, frequenta già acque di un’”altra” modernità, aspira per esse a “un più
vero incontro / della realtà”, quale è la sfuggente dimensione di un io che
ormai si colloca sul difficile discrimine tra visibile e invisibile, tra
imminenza e immanenza. Frequenta senza imbarazzo, per dire, Dylan Thomas e
T.S.Eliot, Vernon Watkins, Archibald MacLeisch (quello di “Poetry is”),
Edward M. Forster e Robert Frost (che nell’introduzione alle sue opere complete,
come viene ricordato in una nota di Carte di transito scrisse che “la
poesia comincia dando piacere, e finisce in saggezza”): un mondo “altro”,
insomma, “differente”, che, “a nord dei trent’anni”, gli fa “disprezzare l’endecasillabo
facile” e attraverso “la luminosa oscurità delle parole”, pone “l’essere” e la
sue “contraddizioni” a contatto con “l’ombra” dell’io, con il Sé “che
lievemente ascende, seduto nel giardino” (A nord dei trent’anni, in Oberon in catene, 1962).
Come sfuggire, soprattutto sapendo come è poi andata a
finire, ad avvertirvi un chiaro presentimento della fine, la sensazione che in
lui già agisse l’occhio profetico di una tragica premonizione, in questi versi
di Elegia?
... Le acque
frusciano come calabroni
lungo la chiglia solenne,
abbiamo fatto
tardi,
si è sgretolato il
legno delle mani,
caduto il remo,
precipitato il
silenzio,
gridato il riso
dell’albatro,
recuperato il
molteplice,
il centro...
Sanesi e Gaccione |
È un’avventura, lo sentiamo ma a posteriori, che
s’approssima alla fine, al suo “centro”, e lo avvertiamo da come appare più
tesa e luminosa per noi che la osserviamo “da una certa distanza”, e quanto più
inquietante e inestricabile si era fatta per lui.
Questo lo ha notato acutamente anche un giovane critico,
Marco Merlin, che in un saggio uscito sulla rivista “Testuale” (XV, 1999,
26-27) e poi riproposto nell’Interrogazione infinita, ha riconosciuto e
argomentato la tendenza dell’ultimo Sanesi a “un nuovo equilibrio espressivo,
che mantiene le acquisizioni di tutto il suo percorso, ma ricuperando un
dettato meno nervoso e una visibilità più densa”, conservando con “prodigiosa
coerenza” anche nell’”accumulo oggettuale e nominale” la sua più riconoscibile
cifra espressiva, consistente nella “capacità di controllare non solo
l’immagine che si presenta, come un’apertura di senso, al poeta,...ma lo stesso
sguardo che l’accoglie”.
Minaccia, ecco la parola che emerge con semantica
evidenza e prepotenza proprio nel testo eponimo dell’ultima raccolta, Il primo
giorno di primavera (“Ma chi, perché, in che senso / mi state
minacciando?”).
Come dire che di fronte all’agguato delle forme,
all’intimidazione di una realtà insostenibile, l’io si sente oscuramente
aggredito e “perseguitato” (come ammetteva in Travestito da sogno della
raccolta Mercurio), e non trova altra risorsa che l’attesa e
l’abbandono all’informe del caso, modulando con circospezione paratattica una
ferma deprecatio delle proprie paure.
Che altro è l’inquietante e struggente Poesia per quattro
aggettivi se non l’estremo appello alle proprie forze e alla propria voce
poetica, davvero “voce sbigottita e deboletta” di cavalcantiana memoria, perché
da un grumo grammaticale e sintattico sgorghi alto ed energico (energetico),
per noi, un messaggio e un testimone di speranza?
Val la pena citare di nuovo, per la sua pregnanza ed
emblematicità, un testo già prima ricordato:
“La pianura implacabile dei corvi.
Il nero denso che
racchiude i corpi.
Il gracchiare
pensoso della vita.
Tutta questa
bellezza inenarrabile”.
(Poesia per
quattro aggettivi)
Ecco delineato, in parole chiare e prosciugate, dicibili e
ferme nella loro drammatica referenzialità ed esattezza, un paesaggio di attesa
e di paura, lo scenario di una allucinata percezione di sé sulla scena
dell’esistenza. Implacabile, denso, pensoso, inenarrabile:
condensato in quattro aggettivi, c’è il senso di una vita che ha creduto nella
parola poetica e fino alla fine si è ostinata a farne “il centro”, il fulcro di
emozioni e pensieri.
“Perché portare a termine
quando nessuno, in
giardino,
ha mai visto il
mio glicine concluso.
Se allora fosse il
fiore il fallimento,
questa, diremmo, è
la bellezza del mondo,
la sua esperienza
visibile”.
(Senza data)
A lui, all’autore, ha dato la certezza di aver dato voce e
concretezza attraverso la scrittura a una “bellezza” apparentemente effimera e
gracile, quale è quella di un fiore, del “glicine concluso” del suo giardino, a
lui soltanto visibile, quasi incarnazione della forza tenace e vilipesa di una
leopardiana ginestra tra il nerume del vulcano e della vita. A noi, un lascito
di emozione duratura e “inenarrabile”, talismano nelle tempeste della vita.
Una considerazione, infine, sul verso che intitola il
capitolo, “Signore, fai che qualcosa rimanga”. Lo si ritrova in Moltiplicando
le porte che si aprono, contenuto nell’Omaggio a Roberto Sanesi (2001,
curato da Franco Cajani), un testo inedito e senza data, ma che si ha
ragione di ritenere appartenente agli anni ’90, per tutta una serie di
riferimenti che rimandano al poemetto L’incendio di Milano (1989 e ’91). Quell’umanissima preoccupazione che “qualcosa rimanga”,
pronunciata com’è alle soglie del silenzio, ha una forza tale da impegnare
tutti, critici e lettori, a prendere atto che il discorso sulla poesia, su questa
poesia, non può ridursi a una “disputa elegante”, a una questione da risolvere
soltanto in un inutile “vento” di parole.
***
LEOPARDI
AL CINEMA
di Vincenzo
Guarracino
Vincenzo Guarracino |
A dispetto del
suo carattere solitario (“Hermite des Apennins”, l’Eremita degli Appennini,
s’era definito in una lettera del 4 marzo 1826, a Giampiero Vieusseux), Giacomo
Leopardi nell’immaginario degli animi sensibili, de tous les hommes qui sentent, come ebbe profeticamente a dire il
giovane parigino Charles Lebreton nel 1836, oltre che nel fascino del suo
pensiero e della sua poesia, in certi versi di vertiginosa profondità (“Arcano
è tutto / fuor che il nostro dolor”), vive in certe patetiche invocazioni
(“Silvia, rimembri ancora…?”), in certe sconsolate, drammatiche conclusioni
(“Perì l’inganno estremo, / ch’eterno io mi credei. Perì…”). Anche se la sua
vita non ha cessato da sempre di stimolare la fantasia e il cuore, come hanno
dimostrato certe esplorazioni biografiche recenti, come quelle di Renato Minore
(Leopardi. L’infanzia, le città, gli
amori, 1987), di Pietro Citati (Leopardi, 2010) e di Raffaele Urraro (“Questa maledetta vita”. Il ‘romanzo autobiografico’ di
Giacomo Leopardi, 2015).
È
su questo duplice binario, dunque, la poesia e la vita, che si è incentrato
l’interesse dei lettori, anche se certi testi più degli altri hanno attirato su
di sé l’attenzione. Tra questi forse è l’Infinito
quello che può ambire a rappresentarlo e per varie ragioni: come “apertura
musicale di una nuova era”, secondo una nota definizione di Francesco De
Sanctis, come un’esperienza di conoscenza, assoluta ed essenziale, quale può
esserla quella di un giovane alle soglie della vita, o come “canto rapito” da
un’esigenza spirituale, tanto da apparire “una delle poesie più religiose di
tutta la nostra letteratura”, a dar retta a un poeta come Davide Maria Turoldo.
Non
sorprende, dunque, che proprio intorno a quest’idillio e alla tematica in esso
poeticamente trattata si siano appuntate riflessioni e interpretazioni che in
vario modo hanno tentato di scandagliare e rappresentare l’ “enigma” Leopardi.
E l’hanno fatto con linguaggi e angolature diversissime.
Ne
cito, come esempio, almeno tre: nel mondo della musica leggera (con una canzonetta
del 1968 di Jonny Dorelli intitolata L’immensità),
nel campo della pubblicità (con
l’ultimo, celebre verso “e il naufragar m’è dolce in questo mare”, utilizzato
in chiave promozionale per una marca di dolciumi) e per ultimo, last
but not least,
nel cinema.
Un dipinto di Leopardi |
Tralasciando
innumerevoli trasposizione sullo schermo di singole Operette Morali (per tutte, il
Dialogo di un
venditore di almanacchi e di un passeggiere, realizzato da
Ermanno Olmi nel 1954 e visitabile in youtube), la fortuna di Leopardi al
cinema può essere rilevata in due opere essenzialmente, i film Idillio del 1980 di Nelo Risi e Il giovane favoloso di Mario Martone del
2014, e tra i due, Pisa donne e Leopardi,
del 2011, un’opera molti singolare, frutto di un Collettivo diretto da Roberto
Merlino. Accanto a questi, meritano di essere almeno segnalati, perché davvero
molto significativi, una citazione della figura del poeta e del suo canto più
famoso, L’infinito, all’interno di un
film di Marco Tullio Giordana, intitolato I
Cento Passi del 2000, e un film di Luchino Visconti del 1965, che trae il
titolo dal primo verso del canto Le
ricordanze, ossia Vaghe stelle dell'Orsa, indirizzandosi verso
strade comunque diverse rispetto alla poesia leopardiana.
Partiamo dal primo, Idillio, dicendo dapprima
due parole su Nelo Risi, poeta prestato al cinema, autore già di altri film che
prendevano spunto e avvio da vicende e figure letterarie, quali Una stagione all’inferno, 1971, sulla
storia del poeta “maledetto” Arthur Rimbaud con Paul Verlaine, e La storia della colonna infame, 1972,
che trasferiva sulla scena il saggio di Alessandro Manzoni dello stesso titolo,
dedicato alla famosa peste milanese del 1630, quella dei Promessi Sposi.
In questa linea, quella cioè della visitazione
filologica e al tempo stesso poetica e creativa, Idillio è un film che
rilegge la figura del Recanatese, interpretato egregiamente dall’attore Mattia
Sbragia, con un taglio molto particolare. Nel rispetto infatti della sua
biografia tende a mettere in risalto gli stretti legami tra vita e opera, attraverso
una serie di quadri, in cui acquista un ruolo centrale il momento ispirativo
del canto in questione. A questo scopo, più che su una trama di fatti, si punta
dunque sulla resa di certe atmosfere attraverso la rivisitazione di luoghi
reali (il Palazzo dei Conti Leopardi, a Recanati, il Monte Tabor) fissati in
una sorta di istante eterno, di perenne presente, tanto da apparire rarefatti e
simbolici, metafisici ed allusivi.
Frutto di un autore come Nero Risi, che è stato definito “poeta del cinema”, Idillio è tanto più
apprezzabile in virtù proprio di questa duplice qualità, per il fatto cioè di
suggerire in chi guarda una sorta di identificazione tra il
soggetto e l’autore, che, poeta anche lui, è tutto attraversato nella sua
poesia da echi leopardiani, con versi esplicitamente dedicati al Recanatese,
come questi: “La vita… / è la corrente che come passa si riduce / fino a
estinguersi, nel nulla ‒ e qui ti seguo / signor conte”.
Il risultato è un singolare gioco di rispecchiamenti
tra parola poetica e immagine, tra riflessione e resa filmica, in cui la vita è
colta e rappresentata nel suo incessante accadere, in presenza comunque di una
costante consapevolezza del nulla sotteso, leopardianamente, all’esistente, e
in cui l’esistente tende, ed è anzi destinato, a confluire.
In questo incrocio, l’immagine filmica vive in una
luce effimera e al tempo stesso vitale, transitoria ed eterna, illusoria eppure
essenziale, emergendo dal buio, e al buio tornando, come uno spettro lieve, che
danza su quel nulla.
Elio Germano il bravo interprete del fil di Martone |
Dal
canto suo, Mario Martone, che già nel 2011 si
era dedicato a una trasposizione scenica per il teatro delle Operette
Morali e prima ancora nel 2005 aveva curato la regia di un’opera di Enzo
Moscato L'opera segreta, con la parte finale dedicata al soggiorno napoletano
del poeta, con Il giovane favoloso mette in scena un ritratto originale e ironico
di Giacomo Leopardi, con il risultato di mostrarlo non più solo come
il poeta infelice e malinconico, cui molti si sono abituati fin dai banchi di
scuola, bensì come una sorta di “Kurt Cobain dell’epoca”, una sorta cioè di
icona di trasgressività e ribellismo di un’intera generazione, come esplicitamente
ha dichiarato il regista. Oltre ciò, con un
pregio veramente eccezionale, quello di essere costruito tutto con parole del Poeta o di gente che comunque ha
gravitato intorno a lui (lettere, testimonianze...). Un lavoro veramente unico,
singolare (se si eccettua qualche eccesso nella parte conclusiva, come la scena
del bordello e dei femminielli).
“Una sfida, una nobile scommessa”, come dice con convinzione
il poeta Roberto Mussapi su ‘Avvenire’ del 2 settembre 2014, l’opera di Martone
risulta così uno struggente film sulla giovinezza, sullo scontro generazionale,
sul bisogno di utopie, in cui l’obiettivo esplicitamente perseguito è la
scoperta del mondo, di sé, dell’amore, dell’amicizia.
Interpretato nel film dall’attore Elio Germano, davvero superbo nella parte (“riesce a far ascoltare l’assoluta poesia dell’Infinito e della Ginestra come soltanto il miglior Carmelo Bene di tanti anni fa”, ha riconosciuto Curzio Maltese, su ‘la Repubblica’ del 2 settembre 2014), Leopardi è delineato così come “un ribelle”, un uomo nato casualmente alla fine del Settecento ma il cui pensiero è un pensiero mobile, che non appartiene al suo tempo, dalla “natura antica che però sa guardare molto in avanti”, ha spiegato ancora Martone. “È un poeta che parla a chiunque senta l’urgenza di rompere le gabbie che dall’adolescenza in avanti tutti noi percepiamo intorno: la famiglia, la scuola, la politica, la società, la cultura. Le mediazioni, le ipocrisie con cui siamo costretti a fare i conti, lui non le tollerava e finiva per rompere queste gabbie una ad una, rendendosi la vita inevitabilmente molto scomoda”.
Interpretato nel film dall’attore Elio Germano, davvero superbo nella parte (“riesce a far ascoltare l’assoluta poesia dell’Infinito e della Ginestra come soltanto il miglior Carmelo Bene di tanti anni fa”, ha riconosciuto Curzio Maltese, su ‘la Repubblica’ del 2 settembre 2014), Leopardi è delineato così come “un ribelle”, un uomo nato casualmente alla fine del Settecento ma il cui pensiero è un pensiero mobile, che non appartiene al suo tempo, dalla “natura antica che però sa guardare molto in avanti”, ha spiegato ancora Martone. “È un poeta che parla a chiunque senta l’urgenza di rompere le gabbie che dall’adolescenza in avanti tutti noi percepiamo intorno: la famiglia, la scuola, la politica, la società, la cultura. Le mediazioni, le ipocrisie con cui siamo costretti a fare i conti, lui non le tollerava e finiva per rompere queste gabbie una ad una, rendendosi la vita inevitabilmente molto scomoda”.
Un’interpretazione,
questa, non nuova e originale, avendola a suo tempo autorevolmente lanciata
addirittura il filosofo tedesco Walter Benjamin (1928), in una recensione alla
traduzione tedesca dei Pensieri
(“angelo” dalla spada sguainata, lo definisce, e “arte di prudenza per
ribelli”, l’opera); da noi, più recentemente, è stata ripresa da studiosi del
calibro di Walter Binni (La protesta di
Leopardi, 1973) e Ugo Dotti (Il savio
e il ribelle, 1986).
Non nuova,
dicevo, ma che qui acquista risalto in virtù del mezzo tecnico che la fa vivere
agli occhi degli spettatori, in un film che ha ottenuto ampi consensi e in cui
l’idillio, inteso come il canto
L’infinito, ha un ruolo importante, sì, ma non centralissimo, mirando piuttosto
a far emergere il percorso della vita del personaggio con le sue scelte e i
suoi limiti.
Dopo
un’infanzia vissuta sotto l’occhio implacabile del padre e oppressa da
un’educazione quanto mai bigotta e retriva, incarnata nella figura della madre,
Giacomo cerca disperatamente contatti con l’esterno
e a 24 anni finalmente lascia Recanati. Ma non è che fuori Recanati gli riesca
di realizzare il sogno di emancipazione e libertà. Nonostante i suoi sforzi, non
gli riesce di adattarsi alle ipocrisie che governano la società e i circoli
letterari e vive una vita piena di aspettative e di desideri, ma segnata dalla
malinconia, dappertutto inseguendo nelle tappe del suo peregrinare (Firenze,
Roma, Napoli) ciò che potrebbe dare uno sbocco alla sua ansia di vita e di felicità.
Sempre comunque conservando, a sorreggerlo, la fede nella poesia come un
linguaggio essenziale e veramente umano, come appare anche dalla recitazione
sia dell’Infinito che della Ginestra, tra i momenti veramente
memorabili del film, cui Germano dà voce “vera”, niente affatto declamatoria, ma intima, sincera.
Il
film Pisa, donne e Leopardi del 2011,
nato da un’idea di Paola Pisani
Paganelli e che ha coinvolto oltre 150 persone, tra tecnici, attori e comparse,
è stato definito da Matteo Veronesi “un piccolo miracolo toscano”, per la povertà
dei mezzi adoperati, e per la capacità di sfatare, attraverso un linguaggio
straniante e un montaggio per così dire ironicamente scolastico di testi e
situazioni, l’immagine convenzionale del Poeta di uomo contratto in una
condizione di musoneria e misoginia, presentandoci un Leopardi attento e curioso,
ricercatore di se stesso e degli altri e disposto a lasciarsi contagiare e
fecondare dalle novità.
Il risultato è un Leopardi diverso, anche questo, da quello che ci è
stato consegnato dalla tradizione scolastica: un Leopardi, che, a dispetto di
antiche frustrazioni, nel soggiorno pisano nella primavera del 1828 trova modo
di intravedere una carica umana e sentimentale mai prima sperimentata, che si
traduce nel miracolo del canto A Silvia
(non a caso, in una lettera alla sorella Paolina, proprio nel declinare
dell’aprile del ’28, parla di “versi veramente all’antica”, scritti con il
“gran cuore di una volta”), e questo grazie ad un ambiente ricco e fervido di idee
e presenze quanto mai stimolanti, soprattutto femminili (per tutte,
quella della misteriosa Teresa Lucignani, bellezza sfuggente,
fresca e spontanea ma insieme disdegnosa, di cui nel film si insinua una
qualche, ancorché non provata, suggestiva responsabilità nell’ideazione della
protagonista del canto).
Una parola infine per concludere sulla presenza del poeta e dell’Infinito, all’interno del film di Marco
Tullio Giordana, I Cento Passi del
2000, dedicato alla figura di Peppino Impastato, l’attivista di Democrazia
Proletaria assassinato il 9 maggio 1978 per le sue denunce contro Cosa Nostra. Nel film, la citazione dell’idillio, per bocca di un giovanissimo Peppino, interpretato
da Lorenzo Randazzo, acquista un rilievo straordinario per il contesto in cui
avviene e per lo spessore morale del personaggio, destinato a scontrarsi e a
soccombere dinanzi all’esperienza di un limite invalicabile, lo stesso messo in
scena da Leopardi nel suo canto:
“Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.”
Posto così all’inizio del film, con i versi recitati al
termine di un banchetto dinanzi a un pubblico disattento e incapace di
coglierne qualsiasi spessore e messaggio, l’idillio è in un certo senso la nota
dominante e simbolica di una vicenda che fin dall’inizio segna l’incolmabile
distanza tra i valori umani e civili incarnati nell’eroico e sfortunato
protagonista e il mondo degli intrighi e del profitto della “famiglia mafiosa”.
***