CURA, ASCOLTO, SOSTEGNO, TUTELA
di
Alessandro Mario Malnati
Alessandro Mario Malnati |
L’Associazione
di promozione sociale CAST aps, la cui missione statutaria è quella di offrire
tutela alle persone vittime di trattamenti sanitari incongrui o di danni da
assunzione di farmaci, vede la luce nel novembre del 2022 ma nasce ben prima
come frutto di un lento, progressivo maturare di consapevolezza a fronte della
quotidiana vicinanza alla sofferenza, allo smarrimento, allo sgomento
all’angoscia di tanti pazienti, tanti assistiti, tante persone che si sono
ritrovate sole e perdute, ignorate ed invisibili agli occhi di un mondo che non
li riconosce più e nel quale loro non riescono più a riconoscersi. Ne fanno
oggi parte come soci fondatori Alessandro Mario Malnati, che ne è presidente,
Claudia Faggi, vicepresidente, Samuela Besana, Donatella De Nardo, Antonietta
Linzi, Donatella Mecca.
C.A.S.T.
costituisce l’acronimo delle quattro nostre missioni Cura, Ascolto, Sostegno,
Tutela nella convinzione che solo unendo sensibilità, volontà e competenze di
diverse figure professionali ed umane si possa dare a coloro che ne abbiano
bisogno una vera risposta; perché l’individuo non è solo corpo da curare, anima
da ascoltare, persona da sostenere, danneggiato da tutelare ma, l’individuo, è
tutto questo e molto di più.
Le
attività associative abbracciano quindi quattro aree di intervento:
la
Cura, per mezzo di attività diagnostiche e terapeutiche, anche a scopo preventivo,
volte a favore i danneggiati anche per mezzo di sostegno ed incentivo alle attività
di ricerca, divulgazione, informazione;
l’Ascolto,
attraverso azioni di accoglienza e di conforto psicologico a favore di quei
soggetti che a seguito dei danni riportati abbiano sviluppato anche situazioni
che necessitino di aiuto specialistico;
il
Sostegno, guidando ed indirizzando i danneggiati nei rapporti con le
Amministrazioni e/o gli Enti di riferimento, coadiuvandoli nel disbrigo degli
incombenti amministrativi, burocratici o di altra natura utili e/o necessari al
fine di preservarne gli interessi in relazione ai pregiudizi patiti; offrendo
loro forme di sostegno al reddito e contributi economici;
la
Tutela, a mezzo di attività di difesa dei diritti e degli interessi legittimi
dei danneggiati e del riconoscimento di tali posizioni sia singolarmente intese
sia attraverso opera di consulenza ed orientamento svolta nei riguardi delle
Autorità.
Tutto
ciò per mezzo di un sistema di convenzioni con professionisti medici, sanitari,
psicologi e psicoterapeuti, consulenti del lavoro, avvocati, sociologi e
volontari ed assumendo un ruolo di attiva partecipazione e di sostegno
nell’ambito di iniziative di divulgazione, di informazione, di formazione e di
ricerca scientifica.
Un
progetto che nasce innanzitutto dal cuore, che si distingue da altri per la ferma
volontà di offrire aiuto e riferimento a tutto campo ma che si caratterizza,
rispetto a tante altre realtà, per la determinazione e l’attenzione che viene
spesa nel garantire che l’operare associativo sia ispirato a criteri, principi
e regole rigorosamente scientifiche: di vera scienza, si badi, quella scienza
che è insofferente ad ogni indebito condizionamento, consigliata al metodo
sperimentale, indipendente dagli interessi partigiani, aperta al confronto ed
alla costante messa in discussione di ogni “verità” fideisticamente enunciata.
La
C.A.S.T. aps si distingue, infatti, per le attività di sostegno e di
finanziamento di progetti di ricerca scientifica e di sperimentazione clinica,
nonché per l’eloquente presenza di un Comitato scientifico, ancora in fase di formazione
e di ampliamento, che costituisce e costituirà sempre più l’elemento pulsante
della Associazione per indirizzarne, ispirarne e spronarne l’attività e che,
già al momento attuale, annovera fra i suoi membri professionisti di indubbia
competenza e reputazione: il dott. Alfredo Borghi, internista, medico di
medicina generale; il dott. Teodosio de Bonis, medico anestesista rianimatore, direttore
scientifico sanitario Daphne Lab, Master II livello ossigeno-ozono terapia, PhD
in Clinical Research; il Prof. Mauro Mantovani, medico docente di immunologia
cellulare e molecolare, componente della British Society for Immunology; il
prof. G. Paolo Soru, psicologo psicoterapeuta, docente di Psicologia presso
l’Università di Camerino, Direttore del Dipartimento di Psicologia Clinica e
del Dipartimento di psicologia Sociale e Applicata della LIUM di Bellinzona.
[Pubblicazione 12 marzo 2023]
*
CI RIPROVIAMO
di
Angelo Gaccione*
Ci
riproviamo per la seconda volta e a distanza di un po’ di anni. Il primo
tentativo è stato infruttuoso: dopo appena un solo articolo firmato da un
medico di cui conservo molta stima per la sua umanità, dovemmo chiudere la
rubrica che anche allora portava questo nome. Pressioni in ospedale, ostilità
dei colleghi. Brutto segno. Eppure non esiste altro campo come quello della
medicina in cui la ricerca, la sperimentazione, l’apertura mentale, il dubbio,
la curiosità, il rifiuto di ogni dogma, la libertà di esplorazione, la
collaborazione fra saperi, la sinergia fra colleghi, il supporto reciproco, lo
scambio di informazioni, le competenze tecnologiche, l’arte della pratica
chirurgica, la sapienza clinica, quella chimica, l’esperienza fatta sul campo,
siano ad essa tanto necessari. Nessun’altra disciplina è chiamata ad essere
tanto legata al criterio di umanità, al senso etico, al sentimento morale, alla
solidarietà fra esseri appartenenti alla medesima specie. La medicina agisce
sul corpo vivo di un essere umano e si pone su un crinale che sta in bilico tra
la vita e la morte; il dolore e la sua assenza; il benessere e il malessere; la
gioia più luminosa o la disperazione più tetra. Il successo terapeutico non
salva una vita sola, salva famiglie intere, legami preziosi, comunità. Un
insuccesso medico precipita all’inferno e nel lutto un numero significativo di affetti
che a quel singolo individuo sono legati. Mai potrò cancellare dalla mia
memoria il gesto di una madre che baciando le mani al medico che aveva guarito
la sua giovane figlia, gli disse con parole di riconoscenza: “Chi vu’
fiuriri!”, Che tu possa rifiorire!
A
quanti medici oggi una madre potrebbe rivolgere parole così delicate? Eppure la
nostra fiducia in questa pratica e negli uomini che la esercitano (abbiamo
volutamente scritto uomini, prima che professionisti o scienziati), rimane
intatta perché siamo convinti che essendo di carne e sangue anche loro, sono
soggetti allo stesso destino di chiunque: hanno sentimenti, hanno legami
affettivi, hanno un corpo e una mente soggetta al decadimento, si ammalano come
il più miserabile dei mortali, hanno un tempo limitato di vita e sono transeunti
come tutto ciò che esiste in natura. Al senso del dovere noi aggiungiamo il
senso d’umanità, ed a questo li invitiamo come uomini sapienti e versati nella
loro disciplina, malgrado la brutta piega che un uso esageratamente mercificatorio
ha impresso alla medicina in questo ultimo mezzo secolo. È con questa
convinzione e con questa speranza che facciamo il secondo tentativo di chiamare
a raccolta il meglio della categoria, in un confronto che ci auguriamo scevro
da ogni pregiudizio, aperto e leale. Ne avrà giovamento la medicina e ne avrà
giovamento la collettività.
*Scrittore
[Pubblicazione dicembre 2020]
*
MEDICINA E UMANITÀ
di
Angelo Gaccione*
https://libertariam.blogspot.com/2021/04/medicina-e-umanita-diangelo-gaccione.html
*Scrittore
[Pubblicazione
mercoledì 14 aprile 2021]
*
SALUTE
di
Marco Vitale*
Marco
Vitale (“Odissea” martedì 23
marzo 2021)
https://libertariam.blogspot.com/2021/03/salute-dimarco-vitale-silvio-garattini.html
*Economista
[Pubblicazione
martedì 23 marzo 2021]
*
FARMACI E SALUTE
Conversazione
con il prof. Silvio Garattini
Silvio Garattini
Odissea: Professore, le mamme al
primo cenno di febbre danno la tachipirina ai loro figli. Molte donne, nei
primi tre mesi di gravidanza, spesso, fanno uso di questo antipiretico. Ci può
spiegare quando vada usato questo farmaco? Gli effetti sul feto e sul sistema
immunitario dei bambini, è reale o ipotetico? Ci sono studi randomizzati che ne
codificano in sicurezza l’uso?
Garattini: Il principio attivo è il
paracetamolo, sintetizzato per la prima volta nel 1878, che ha un’attività
antifebbrile ed un’attività antidolore. E’ presente in molti prodotti da solo o
in associazione, a varie dosi somministrabili per via orale, rettale o
intravenosa. Ha una emivita di 1-4 ore il che vuol dire che spesso va assunto
più volte al giorno. Viene eliminato per via renale e quindi le dosi devono
essere ridotte in caso di insufficienza renale. È relativamente ben tollerato,
eccetto che nei casi di epatopatia. Infatti nel fegato viene trasformato in un
metabolita che è tossico per il fegato. Tuttavia si tratta di casi rari, perché
non è controindicato in gravidanza, né in età pediatrica. L’effetto
antifebbrile è molto rapido, mentre l’azione antidolorifica è modesta. La dose
singola non deve superare 1 grammo e la dose giornaliera non deve superare i 3
grammi nell’adulto. Una dose di 10-15 grammi può essere fatale. L’antidoto in
caso di avvelenamento è l’acetilcisteina o il glutatione.
Odissea: Professore, un
miglioramento della qualità ambientale: suolo, aria e terra; una medicina
preventiva che valuti l’equilibrio psicofisico dell’individuo, la PNEIS
(psico-neuro-endocrino-immuno-sistemica) potrebbe ridurre se non eliminare i
futuri “attacchi dei virus “cattivi”?
Garattini: Certamente l’ambiente ha
una grande importanza per la salute. Le buone abitudini di vita che contemplano
un’alimentazione varia e moderata, un peso normale, esercizio fisico, attività
intellettuale, almeno 7 ore di sonno, abolizione di tabacco, alcol e droghe,
sono fattori importanti per evitare almeno il 50 percento delle malattie
croniche, diabete, insufficienza cardiaca, renale, respiratoria e tumori.
Silvio Garattini
Odissea: L’arabesco unico delle
impronte digitali (non c’è individuo che ne abbia uno uguale ad un altro); i
gruppi sanguigni ci dicono che l’uomo ha una sua specificità. Nella
formulazione di nuovi farmaci, si tiene presente di questa realtà? E molti dei
farmaci che l’industria immette periodicamente sul mercato è realmente
efficace?
Garattini: La medicina
personalizzata tende ad utilizzare i farmaci in base alle caratteristiche
individuali. Sono molti i dati che non conosciamo, ad esempio le dosi e la
durata di trattamento ottimali, le differenze di genere. Mancano studi
comparativi per farmaci che hanno le stesse indicazioni terapeutiche. Si
dovrebbero realizzare più studi clinici indipendenti per ottenere informazioni
che non interessano all’industria.
La
legislazione europea permette di approvare un farmaco sulla base di tre
caratteristiche: “qualità, efficacia e sicurezza”, il che non ci dice se un
farmaco è meglio o peggio di quelli già esistenti. Se si dicesse “qualità,
efficacia, sicurezza e valore terapeutico aggiunto”, il 70 percento dei farmaci
non verrebbe approvato.
Odissea: Corrisponde al vero che l’Italia,
dopo Cina ed India, sia la terza produttrice di farmaci al mondo? Sono, quelle
italiane, industrie che producono su licenza o su propri brevetti?
Garattini: L’Italia ha una buona
tradizione di ricerca chimica e quindi produce anche farmaci. Tuttavia sono
farmaci scoperti da altri o il cui brevetto è scaduto. L’industria farmaceutica
italiana non contribuisce in modo significativo all’innovazione anche perché i
nostri Governi pensano che la ricerca sia una spesa anziché un investimento.
Infatti abbiamo la metà dei ricercatori rispetto alla media dei Paesi
europei.
Silvio Garattini
Odissea: Prevenire è meglio che
curare, recita un efficace messaggio mediatico. Si potrà ritornare a questa
medicina un po’ più ippocratica e meno finanziaria?
Dal
medico (fatte le dovute eccezioni) si deve andare quando si è sani, non quando
il male è già acuto e manifesto.
Garattini: Occorre un grande
cambiamento culturale. Oggi la medicina è un grande mercato e quindi non si
occupa delle prevenzioni che riduce il mercato. I Governi speculano sulle
cattive abitudini di vita incassando soldi su fumo, alcol, giochi d’azzardo e
così via. La malattia deve essere considerata un fallimento della medicina.
Siamo una popolazione con una lunga durata di vita, 81 anni per i maschi e 85
per le femmine, ma se consideriamo la durata di vita “sana”, scendiamo nella
classifica perché abbiamo 6-8 anni di cattiva qualità di vita a causa di
malattie.
Istituto Mario Negri
[Nato a Bergamo il 12 novembre del 1928,
Silvio Angelo Garattini è scienziato e farmacologo di chiara fama. È
presidente e fondatore dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche "Mario Negri" con sede a Milano]
*Intervista a cura del dr T. De Bonis
[Pubblicazione sabato 6 marzo 2021]
***
Conversazione con il prof. Silvio Garattini
Silvio Garattini |
Garattini: Certamente l’ambiente ha una grande importanza per la salute. Le buone abitudini di vita che contemplano un’alimentazione varia e moderata, un peso normale, esercizio fisico, attività intellettuale, almeno 7 ore di sonno, abolizione di tabacco, alcol e droghe, sono fattori importanti per evitare almeno il 50 percento delle malattie croniche, diabete, insufficienza cardiaca, renale, respiratoria e tumori.
Silvio Garattini |
Silvio Garattini |
L’ATTUALITÀ DEL GIURAMENTO DI IPPOCRATE
di Maria Concetta del Beato*
Maria Concetta Del Beato
Fin dall’antichità il ruolo del medico, essere umano sapiente con una
rigida etica e con alti principi di umanità e solidarietà, è stato quello di
garantire il benessere del paziente. Ogni medico deve avere rispetto della
vita e della dignità del malato ed applicare nell’esercizio della professione
perizia e diligenza. Deve relazionarsi con il malato in maniera comprensibile e
completa attraverso l’ascolto e la comunicazione seguendo il principio della
fiducia e rispettando i diritti della persona. Questi e altri principi
sono riportati nel giuramento d'Ippocrate che per i medici della vecchia scuola
rappresenta il testo sacro da cui prendere ispirazione tutti i giorni.
Negli anni ’80 il mio
maestro dr. Eugenio Suardi mi trasmetteva questi concetti e l’applicazione
degli stessi era facilitata dal grande rispetto che i pazienti avevano per la
figura del medico.
Come medico di medicina generale presente sul territorio da 38
anni, ho dedicato la mia vita alla cura delle persone, al confronto con i
pazienti, allo studio continuo per migliorare diagnosi e terapie, rispettando i
principi della buona pratica e cercando di mantenere il rapporto di fiducia che
si è instaurato nel tempo.
Il nostro lavoro è fatto soprattutto di contatto, di condivisione
e complicità con le persone. Conosciamo le problematiche cliniche ma anche il
vissuto, le sensazioni e le emozioni dei nostri pazienti e tutto questo rende
la nostra professione speciale. Con il
cambiamento del sistema sanitario, con l’avvento della tecnologia e con il
ruolo più attivo dei pazienti nel conoscere i percorsi di cura attraverso Internet
alcuni principi del giuramento professionale hanno perso il loro significato e
anche il rapporto con il malato si è affidato ai social, trascurando invece
quello interpersonale.
Il paziente oggi non è più
visto come un individuo unico con i suoi bisogni, ma è stato sostituito dalla
singola malattia. Inoltre, la medicina moderna, se da un lato ha
migliorato e personalizzato i percorsi di cura, dall’altro ha reso il medico
più tecnologico e meno comunicativo verso il paziente, che si rivolge sempre
più spesso al web, da dove riceve anche false informazioni. Bisogna sottolineare che la
tecnologica deve rappresentare un aiuto all’attività medica, ma non deve mai
sostituire il rapporto tra medico e paziente.
Con l’arrivo della
pandemia da SARS Cov
2 il lavoro
del medico è ulteriormente cambiato e molte criticità si sono accentuate.
I medici del territorio,
che io rappresento, si sono trovati ad affrontare un nemico sconosciuto e
invisibile senza difese (carenza di DPI) e senza armi (linee guida, presidi
come l’ossigeno, mezzi di diagnosi come i tamponi), ma, nonostante tutto,
abbiamo lottato rischiando noi stessi il contagio. Abbiamo potuto
comunicare con i pazienti solo attraverso i social. Il contatto fisico è
mancato e, presi dalla paura, abbiamo trascurato in alcuni casi anche la
condivisione del dolore e delle fragilità del malato. Non abbiamo avuto il
tempo di capire ciò che accadeva, tuttavia abbiamo agito curando al meglio ogni
paziente, senza discriminazione alcuna. Con molta difficoltà abbiamo
affrontato questa guerra cercando comunque di difendere la vita, tutelando il
paziente e rispettandone la dignità, anche davanti alla morte.
Io credo che con la
pandemia sia arrivato anche il momento di riflettere, di rileggere il nostro
passato, di ridare valore ai sani principi e recuperare ciò che abbiamo perso
senza rendercene conto.
Magari il nostro
giuramento di Ippocrate ritornerà attuale?
*Medico di Medicina Generale di Martinengo (Bg)
[Pubblicazione venerdì 5 marzo 2021]
*
L’INDUSTRIA
DELLA SALUTE
PROSPERA
SULLA MALATTIA
Conversazione con Roberto Alfieri, docente di politiche dei servizi sanitari e sociali presso l’università di Bergamo.
Il
ripensamento dei servizi territoriali di prevenzione, cura e accompagnamento.
Odissea.
Perché la crisi scatenata dalla pandemia deve offrire l’occasione di
un ripensamento del sistema sanitario?
Alfieri.
È necessario, soprattutto, riflettere. Spesso, e non solo in sanità, vengono
proposte delle soluzioni ancora prima di avere pensato alla natura del
problema e all’identità e finalità delle istituzioni deputate a dare
risposta a quel problema. Ci si deve domandare, ad esempio, che cosa sono
e a cosa servono i servizi sanitari. Occorre, quindi, prima di tutto,
ragionare sul modo di intenderli. Li concepiamo come importanti settori
dell’economia di mercato, ad alta intensità tecnologica, su cui
è conveniente investire? Oppure, li pensiamo come un elemento essenziale
di un sistema di sicurezza sociale: qualcosa che promuove la salute e
cerca di restituircela quando la perdiamo?
Ecco,
dovremmo partire dalla esplicitazione di questa domanda e dalle risposte che
diamo perché le soluzioni che in seguito andremo ad adottare dipendono
direttamente da queste premesse che il più delle volte restano implicite.
Odissea.
Puoi farci qualche esempio di soluzioni che non condividi proprio perché,
secondo te, sono derivate da una concezione sbagliata dei servizi sanitari?
Alfieri.
La storia della sanità di questi ultimi decenni è costellata di momenti di
crisi, ben prima dell’avvento del Covid-19, e non solo nel nostro
Paese. Uno
dei problemi più assidui è stato quello della sostenibilità del Servizio
Sanitario Nazionale. I finanziamenti che venivano stanziati a favore della
sanità non riuscivano a tenere il passo con l’aumento dei bisogni, coi
progressi tecnologici e l’invecchiamento della popolazione. Negli
anni ’90 sono state pensate queste principali soluzioni per rispondere al
problema della sostenibilità finanziaria: la aziendalizzazione, la
privatizzazione e la libera scelta dei cittadini. Si credeva, infatti, che
il problema di una spesa eccessiva rispetto ai finanziamenti potesse
essere superato grazie all’efficienza propria delle aziende e del settore
privato. Non si è pensato ai difetti nella prevenzione, nella
appropriatezza e nel sotto-finanziamento. Ma
queste soluzioni originavano da un’assunzione più o meno implicita, mai
dichiarata apertamente. Si riteneva che i servizi sanitari appartenessero
alla sfera dell’economia di mercato e ne costituissero un settore
particolarmente importante. Anche per questi motivi non hanno funzionato.
Le liste d’attesa e la qualità molto eterogenea dei servizi sanitari nelle
diverse Regioni e ospedali stanno a testimoniarlo.
Odissea.
Cosa c’è di sbagliato nel ritenere che i servizi sanitari appartengano alla
sfera dell’economia di mercato?
Alfieri.
Non si può negare che i servizi sanitari debbano prestare attenzione ai
problemi dei costi e dell’efficienza, così come a quelli della domanda e
dell’offerta. Su questi versanti l’aziendalizzazione poteva
servire. Ma l’efficienza, ossia la capacità di minimizzare i costi di una
data prestazione, va sempre subordinata all’efficacia, ossia alla capacità
di quella prestazione di restituire guadagni di salute. In altre parole, al
contrario di quello che succede, in sanità si deve fare solo ciò
che serve. Non si devono creare bisogni fittizi per migliorare la
performance economica di un ospedale. Piuttosto, le domande dei pazienti
vanno spesso riorientate affinché coincidano coi loro veri bisogni di
salute. La finalità dei servizi, a differenza di quella delle aziende, non
è massimizzare i profitti, ma tutelare la salute.
I
servizi sanitari non possono essere assimilati alle aziende perché al loro
interno deve prevalere un agire “discorsivo”, arricchito costantemente dalla
parola che accompagna la prestazione. La relazione non può essere assimilata
all’attrito. L’agire discorsivo deve fare uso anche della “techne”, ossia
dell’abilità ad usare strumenti, ma si avvale, soprattutto, della
“phronesis”, ossia della capacità di riconoscere le circostanze contestuali
specifiche e di trovare le risposte più appropriate per le singole persone. L’autorità,
inoltre, in ambito sanitario, scaturisce dall’autorevolezza. Le relazioni
tra colleghi restano fondamentalmente di tipo consulenziale. Non sono
gerarchiche come nelle aziende. Possono diventare gerarchiche quando il
clima lavorativo degenera, ma questa è solo una deriva negativa,
l’eccezione che conferma la regola.
L’assegnazione
di un ruolo di maggior rilievo, riservato al privato in sanità, trascina con sé
un cambiamento di scopo. Il profitto diventa il marchio del successo e prende il
posto che dovrebbe essere riservato a salute, efficacia e
appropriatezza. La libera scelta e la responsabilizzazione individuale,
che rappresentano il mantra del mercato, diventano un miraggio illusorio in
sanità perché le questioni sono troppo complesse per essere comprese fino
in fondo. Lo squilibrio informativo e cognitivo tra professionisti e
pazienti è incolmabile. Occorre, perciò, fidarsi, ma può diventare difficile
in contesti caratterizzati da una crescita dei conflitti di interesse. I
continui progressi tecnologici, infatti, fanno circolare una grande
quantità di denaro che può finire per corrompere: si può arrivare a
forzare le indicazioni di un trattamento, a dimettere anticipatamente un
malato, a fare troppo o troppo poco. Il mercato ha un potere
corrosivo, inquina i beni che manipola perché li trasforma in merci, in
strumenti di profitto e consumo.
Odissea.
Si può capire, quindi, seguendo il tuo ragionamento, che concepire i servizi
sanitari come settori importanti dell’economia di mercato possa avere
impatti rilevanti sui modi di curare.
Alfieri.
Può influire, ad esempio, sul rapporto medico paziente, insinuando il sospetto
che l’interesse del malato venga subordinato a quello del medico.
Può
influire, anche sul clima lavorativo, scatenando una serie di angherie e abusi
dagli esiti umilianti per chi li subisce. Ciò accade soprattutto quando
vengono attribuite le maggiori responsabilità non alle persone più competenti
dal punto di vista umano e professionale, ma a quelle che non si pongono
fastidiose remore morali e si dimostrano più accondiscendenti rispetto
alle volontà di un partito del governo regionale. La cura, allora, finisce
per assumere un altro significato. A causa degli attuali meccanismi di
tariffazione dei diversi interventi sanitari, coincide con un insieme di
prestazioni di cui vengono calcolati minuziosamente i margini di
profitto. Dovrebbe, invece, significare un’attività di aiuto che si adatta
alle mutevoli condizioni del malato, con dedizione e senso di
responsabilità.
Odissea.
E passando ad un altro argomento, come dovrebbe essere ripensata, invece,
la prevenzione?
Alfieri.
Esistono 3 tipi di prevenzione. La prevenzione primaria è l’unica degna di
questo nome e consiste nel rimuovere o, perlomeno, attenuare i fattori di
rischio di malattia. Il risultato è che la gente si ammala di
meno.
Poi,
esiste la cosiddetta prevenzione secondaria, che non ha per bersaglio i rischi,
ma si propone di diagnosticare più precocemente certe malattie che si
prestano allo scopo, assumendo che in questo modo se ne migliori il
decorso. Lo fa attraverso programmi di screening, ad esempio quello del cancro
del collo dell’utero, del seno e del colon-retto. Purtroppo, però,
l’assunto che si migliori la prognosi non è così scontato come si tende
a credere. Infine, esiste la prevenzione terziaria che consiste nel
migliorare gli stili di vita in persone che si sono già ammalate, affinché
le loro condizioni non si aggravino ulteriormente. Si vuole correre ai
ripari, ma lo si fa tardivamente. È un po’ come chiudere le porte dopo che i
buoi sono già scappati dalla stalla.
Nonostante
il valore assolutamente preminente della prevenzione primaria, il SSN
si occupa in modo quasi esclusivo di quella secondaria e terziaria. Non è
un caso, infatti, che l’industria della salute prosperi sulla malattia,
non certo sulla promozione della salute. Ed anche per quel poco che
riguarda la prevenzione primaria, c’è una sottovalutazione pressoché totale
degli aspetti socio-economici e culturali di cui ci si dovrebbe occupare.
Le malattie, infatti, sono fenomeni eminentemente sociali. Tutt’al più si
cerca di migliorare gli stili di vita attraverso l’informazione, come se
bastasse sapere che, ad esempio, la sedentarietà fa male per muoversi di più. E
lo stesso si potrebbe dire per l’alcol, il fumo, l’alimentazione, le dipendenze
patologiche. Purtroppo non sono problemi rimediabili tramite una migliore
informazione. Vanno, piuttosto, identificati come problemi dotati di
un “gradiente sociale”, perché compaiono tanto più frequentemente e
intensamente quanto più disuguali sono le nostre società e quanto più
bassa è la classe socio-economica cui apparteniamo.
Odissea.
E allora, se non serve informare per migliorare gli stili di vita, che cosa si
dovrebbe fare per prevenire le malattie?
Alfieri.
Bisogna convincersi che la salute ha molto a che fare con la politica. Dipende,
infatti, soprattutto dalle condizioni socio-economiche e culturali in cui
scorre la nostra vita. Dipende dal modo in cui si nasce, si cresce, si
studia, si lavora e si invecchia. Sono queste condizioni a influenzare, in
larga parte, sia la longevità di una popolazione che la frequenza delle sue
malattie e disabilità. I servizi sanitari contano meno. Contano nella
gestione più o meno appropriata delle malattie, una volta che si sono
manifestate. Contano nella riduzione della gravità e della durata delle
malattie e delle disabilità che ne conseguono. I servizi sanitari hanno, però,
un impatto quasi nullo per quanto riguarda, ad esempio, la comparsa di una
malattia tumorale, cardiovascolare, respiratoria o neuro-degenerativa.
Contano ancor meno nei riguardi del disagio sociale. Eppure, il disagio
sociale ha ingenti ripercussioni sulla salute. Condizioni
socio-economiche insoddisfacenti influenzano, infatti, la frequenza di
molte malattie acute e croniche, degli infortuni, delle dipendenze
patologiche (alcol, droghe, gioco d’azzardo, anoressia, bulimia,
obesità...), della violenza e criminalità, dell’abbandono scolastico,
delle gravidanze adolescenziali...
Ciò
che conta veramente sono le politiche che adottiamo. Valgono quelle di largo
respiro e di lungo termine, capaci di influenzare in modo organico gli ambiti
più diversi della vita: dalla famiglia alla scuola, all’alloggio,
all’ambito fiscale, lavorativo, economico, urbanistico, energetico,
ecologico, agro-alimentare, dei trasporti e via dicendo.
Nonostante
ciò, la percezione dell’importanza della politica, per quanto riguarda la
salute, è sempre difettosa. Della salute, infatti, ci accorgiamo solo nel
momento in cui la perdiamo. Perciò apprezziamo molto le cure che
contribuiscono a restituircela, dopo averla persa. E attribuiamo alle cure
tutto il merito di restare sani. E, sulla base di queste percezioni distorte,
arriviamo addirittura a convincerci di qualcosa di completamente
falso: che quanto più spendiamo per la sanità e quante più prestazioni
otteniamo, tanto più alto è il livello di salute cui possiamo aspirare. In
realtà fare troppo diventa sempre nocivo. Alla luce di tutto questo,
credere che i servizi sanitari, per quanto riguarda la salute, abbiano una
minore importanza delle condizioni socio-economiche e culturali, risulta, perlomeno,
contro-intuitivo. Non riusciamo a capire che la salute complessiva di
una popolazione è molto più influenzata dal rischio di ammalarsi più o
meno frequentemente piuttosto che dal fatto di essere curati
appropriatamente dopo che ci ammaliamo.
Odissea.
Effettivamente sembra abbastanza contro-intuitivo quello che dici, come se i
servizi sanitari possano davvero contare poco.
Alfieri.
I servizi sanitari contano, ma come dicevo prima, solo dopo che ci si ammala
per gestire appropriatamente le malattie, guarirle quando è possibile e
ridurne gravità e durata. Ma è meglio non ammalarsi piuttosto che essere
curati, magari anche bene, dopo che ci si è ammalati. Tanto più che le
malattie che ci affliggono sono, per la maggior parte, cronico degenerative e
sono destinate ad accompagnarci per tutta la vita. E questo vale
anche ora, in epoca di Covid-19. Bisogna sapere che esistono
differenze notevoli nella frequenza delle malattie nei diversi Paesi del
mondo: è questo il punto importante. Le differenze persistono anche
quando limitiamo il confronto solo all’interno dei Paesi ad alto
reddito.
Per
la mortalità infantile e i disturbi mentali le differenze di incidenza possono
essere di 2 o 3 volte. La sofferenza mentale nelle sue forme di ansia
patologica, depressione, autolesionismo, dipendenze, disturbi
ossessivi-compulsivi, sta crescendo con ritmi allarmanti in tutti i Paesi
del mondo industrializzato. Ma è molto diverso confrontarsi con situazioni
in cui è il 30% della popolazione adulta ad esserne colpito, così come
avviene negli Stati Uniti o nel Regno unito o, viceversa, confrontarsi con
situazioni in cui è afflitto da questi disturbi il 10% della
popolazione.
Se
prendiamo, poi, il problema dell’obesità, che è legata al diabete di tipo 2, a
malattie cardiovascolari, tumorali, osteo-articolari e respiratorie, le
differenze tra un Paese e l’altro sono anche superiori a 10 volte. Si
passa, ad esempio, da tassi corrispondenti al 30% della popolazione negli
Stati Uniti al 2,5% in Giappone. Anche per i problemi sociali, infine,
come il rendimento scolastico, il tasso di omicidi, il tasso di incarcerazione,
il bullismo e le gravidanze nelle adolescenti le differenze di frequenza
salgono fino a 10 volte tanto.
Odissea.
A cosa sono dovute differenze di frequenza di questa portata tra un Paese e
l’altro?
Alfieri.
Fin dagli anni ’70 del secolo scorso studiosi di diverse discipline
accademiche, e tra questi diversi epidemiologi, hanno accumulato evidenze
crescenti sulla relazione che lega le disuguaglianze socio-economiche con
la salute e i problemi sociali. Si sapeva da tempo, e appariva anche
intuitivo, che le persone appartenenti alle classi socio-economiche
inferiori per reddito, lavoro, istruzione e abitazione avessero anche
condizioni di salute peggiori rispetto alle classi sociali più agiate. Ma
ciò che è emerso con progressiva chiarezza è che, nei Paesi afflitti da
una maggiore disuguaglianza, questi problemi sono notevolmente più
frequenti rispetto ai Paesi meno sperequati.
Può,
infatti, accadere, come si verifica per la mortalità infantile, che nella
classe socio economica più bassa, ad esempio, in Svezia, che è un Paese poco
sperequato, la mortalità infantile sia a un livello inferiore rispetto
alla mortalità infantile che affligge le classi socio-economiche più
elevate del Regno Unito, un Paese caratterizzato da una disuguaglianza ben
maggiore, rispetto alla Svezia.
È
molto importante tenerne conto, perché si capisce, così, come le
eccessive disuguaglianze non fanno male solo alle persone relegate nei
gradini più bassi della scala sociale, ma nuocciono anche alle persone
più ricche che stanno in cima. E si è anche potuto appurare che la
relazione tra disuguaglianze sociali e malessere sanitario e sociale non
si limita ad essere un’associazione statistica, ma rappresenta un vero e
proprio rapporto di causa-effetto. Questo è importante perché significa
che attenuando la gravità della disuguaglianza possiamo assistere nel
tempo a una attenuazione dei suoi effetti negativi.
La
conclusione degli studiosi, quindi, è che esistono società “disfunzionali”
perché attraverso eccessive disuguaglianze presenti tra i loro cittadini
creano le condizioni per generare un’ingente mole di problemi sanitari e
sociali che investono la società nel suo complesso, senza risparmiare
nessuno, nemmeno tra i più agiati. La disuguaglianza eccessiva è
assimilabile a qualcosa che ammorba l’aria che tutti respirano, genera
risentimento, diffidenza, invidia e vergogna dall’altra. Da un punto
di vista biologico provoca stress cronico, accompagnato dalla secrezione
di cortisolo, un ormone che influenza negativamente lo sviluppo e le
funzioni del sistema nervoso, endocrino e immunitario.
Odissea.
Ma a quali livelli di disuguaglianza una società può definirsi “disfunzionale”
e quale potrebbe essere un livello di disuguaglianza “accettabile”?
Alfieri.
L’Onu usa misurare il livello di disuguaglianza dei diversi Paesi utilizzando
come indicatore il rapporto tra il reddito del 20% della popolazione più
ricca e quello del 20% della popolazione più povera.
Se
si applica questo rapporto nei Paesi ad alto reddito si può constatare che esso
varia tra un minimo di 3,4 e un massimo di 9,7. L’Italia ha un rapporto di
6,7. Per tutto quello che abbiamo detto i problemi peggiorano progressivamente
man mano ci avviciniamo al rapporto più alto e, viceversa, migliorano in
prossimità del rapporto inferiore. Per quanto riguarda il livello di
disuguaglianza “accettabile” non si deve tendere a un egualitarismo bieco
in cui non ci sia alcun riconoscimento per l’iniziativa, l’impegno e lo spirito
di sacrificio. Ma, nello stesso tempo, non bisogna esacerbare quelle
disuguaglianze che permettono ad alcuni di soddisfare qualsiasi capriccio
e impediscono ad altri di sviluppare le loro potenzialità, privando la
società di enormi risorse. I Paesi più disfunzionali risultano essere gli
Stati Uniti, il Portogallo e il Regno Unito. Quelli che funzionano meglio,
invece, da questo punto di vista, sono Giappone, Svezia, Norvegia e
Finlandia. Potremmo accontentarci di tendere verso i livelli di disuguaglianza
che caratterizzano questi ultimi Paesi, anche senza azzardare cambiamenti
più drastici nella direzione dell’uguaglianza. Sulla base di queste
esperienze, infatti, potremmo ritenerci al sicuro e confidare nell’alta qualità
di vita vissuta dai cittadini di questi Paesi.
Odissea.
Sembra comunque strano che le disuguaglianze, quando sono eccessive, possano
avere degli effetti così dirompenti. Puoi spiegarti meglio?
Alfieri.
Effettivamente, la vera novità introdotta nei nostri saperi sanitari e sociali
riguarda l’importanza della povertà “relativa”. Da che mondo è mondo ci
siamo interessati alla povertà assoluta. È, infatti, lo scandalo della
fame e della impossibilità di soddisfare bisogni essenziali a turbare,
soprattutto, le nostre coscienze. Ma accanto a questo problema immane c’è
quello della povertà “relativa” che siamo soliti trascurare. È una
condizione che origina dal confronto del nostro reddito con
quello posseduto dagli altri. Quando scende sotto una data soglia cadiamo
in povertà relativa. In Paesi ad alto reddito può accadere che persone in
povertà relativa possiedano un alloggio, un’automobile, conducano una vita normale
e si vestano decentemente. Passano inosservati e non tendono, perciò, a
suscitare alcuna compassione. Sono, però, sottoposti a una continua
esposizione allo stress perché non possono soddisfare le esigenze
di consumo tipiche delle società cui appartengono. La loro bassa
condizione socio-economica, comunque, per chi li conosce, viene vista, nelle
società più sperequate, come il segno di un fallimento, un marchio
vergognoso di pigrizia e incompetenza. Può succedere, paradossalmente,
che, superati i livelli della povertà assoluta, si trovino allo stesso
livello di povertà relativa 2 famiglie molto diverse tra loro: una appartenente
a un Paese a basso reddito, con latrina esterna, pavimento in terra
battuta, senza acqua e luce elettrica; l’altra appartenente a un Paese ad
alto reddito con pavimento di piastrelle, cucina, bagno, camera, gas ed
energia elettrica.
È
questa condizione a provocare un’enorme mole di malessere sanitario e sociale
che riusciremmo ad evitare del tutto. Dovremmo, però, essere più attenti
anche alle indicazioni dei saperi economici che si integrano con quelle
dei saperi sanitari e sociali. Un tempo, le disuguaglianze erano considerate
dagli economisti l’effetto indesiderato di un bene supremo: la crescita,
che andava perseguita a tutti i costi. Oggi, invece, le
eccessive disuguaglianze sono ritenute, da premi Nobel come J. Stiglitz e
P. Krugman, ma anche da organismi internazionali come il Fondo monetario
internazionale e l’Ocse, biasimevoli errori di pianificazione, fonti di
instabilità e stagnazione in ambito economico. E proprio per questo è
stata allestita da decenni una ricca cassetta di attrezzi per rimediare a
questi errori.
Abbiamo
quindi la possibilità pratica di impegnarci a ridurle, sapendo che, ad esempio,
nel nostro Paese esistono circa 10 milioni di persone che vivono in povertà
relativa e soffrono delle conseguenze negative che questa comporta.
Odissea.
Passando all’ultimo argomento incluso nel titolo della tua relazione,
cosa puoi dirci a proposito dell’accompagnamento? Anche questo va
ripensato?
Alfieri.
Va ripensato perché è cambiata la patologia che ci troviamo di fronte. Deve,
perciò, cambiare anche il tipo di assistenza che prestiamo. Da qualche
decennio a questa parte, ci confrontiamo con uno scenario inedito. La
traiettoria della salute, che prima disegnava, per le persone di età
avanzata afflitte da malattie croniche, un brusco decadimento e precipitava
rapidamente verso la morte, ha assunto una forma diversa. Si è trasformata
in un lungo saliscendi fatto di aggravamenti e riprese temporanee che
suole durare diversi anni. Questa trasformazione non si è presentata
all’improvviso, si è delineata a poco a poco nel corso degli ultimi
decenni. Eppure la formazione dei medici non ha ancora preso atto di
questo cambiamento.
Il
nostro ruolo resta saldamente ancorato al dovere di salvare vite. Il compito di
prendersi cura dei bisogni più elementari - come mandare giù un boccone,
respirare con più agio, riuscire a chiudere occhio, andare di corpo,
urinare - sono delegati, se mai, al personale infermieristico. Di fronte a
questi nuovi bisogni, che riguardano una parte via via maggiore di
popolazione, sono disorientate ancora di più le persone vicine al malato:
figli, sorelle, parenti e amici... Avvertono il dovere di assistere i loro
cari, ma si sentono impauriti, oltre che impreparati. Davanti a loro si
presenta un percorso difficile, irto di incognite. Temono di non essere
all’altezza, di essere lasciati soli, di trascurare qualcosa di essenziale.
Di fronte a questo diverso scenario, il problema, allora, diventa quello
di trovare i modi più giusti per dare un senso a una lunga fase di
accompagnamento delle persone malate, senza lasciarsi sopraffare dallo
sconforto. Bisogna, però, che i servizi siano in grado di aiutare e creare
un giusto equilibrio tra le risorse dell’ospedale e quelle del territorio.
Occorre anche adottare diverse strategie di cura.
Odissea.
Cosa intendi per diverse strategie di cura?
Alfieri.
Le malattie croniche, specialmente quando superano una certa soglia di gravità
e non si presentano isolatamente, come avviene nella maggior parte dei
pazienti di età avanzata, non si prestano alla definizione di un piano di
trattamento, di cui si possano prevedere tempi, metodi e interventi. Ogni
eventuale piano rischia di essere stravolto perché subentrano continuamente
altri problemi che si aggiungono a quelli preesistenti e alterano l’ordine
delle priorità. Più che di piani, bisognerebbe parlare, allora, di approcci e
strategie da condividere, insieme coi propri cari e il medico di fiducia.
La strategia dell’assistenza domiciliare dovrebbe essere adottata più
diffusamente, quella dell’assistenza ospedaliera dovrebbe essere
selezionata con maggiore attenzione. Ma esistono delle difficoltà. Bisogna
sapere che in sanità è soprattutto l’offerta di servizi a indurre la domanda.
Se si investe molto sugli Ospedali e poco sull’assistenza domiciliare,
sulle case della comunità e sulle cure palliative, anche a domicilio, esisterà
sempre un’elevata probabilità di correre al pronto soccorso di fronte a un
imprevisto o a un aggravamento. E questo può nuocere.
La
scelta del luogo di cura ha, infatti, un grande impatto, nel bene e nel male,
sulla traiettoria che andrà a caratterizzare le ultime fasi della vita del
malato. E si sa che il finale conta, perché il significato della nostra
storia complessiva è influenzato da come le cose vanno a finire. In questa
prospettiva, l’ospedale non è di grande aiuto per il malato cronico.
Provoca un certo disorientamento, legato all’estromissione da contesti
ambientali e sociali che gli sono familiari. La voglia di lottare e
continuare a vivere viene meno quando ci si separa dalle certezze di un
contesto familiare amico, dalle proprie cose, dalle abitudini e ritmi
quotidiani. Dal punto di vista delle istituzioni sanitarie, poi, il ricovero di
pazienti cronici rischia di diventare inappropriato perché l’ospedale ha,
soprattutto, il compito di affrontare problemi “acuti”. L’ospedale non è
adatto a gestire, nel tempo, un problema ingravescente, né a migliorare le
modalità di convivenza del paziente coi suoi acciacchi. Anche perché, in
questi casi, è la situazione psicologica a condizionare, più che altro,
l’esito delle cure. Per di più, la standardizzazione spinta tipica delle
procedure ospedaliere mal si concilia col bisogno di personalizzare il più
possibile l’assistenza nei confronti dei malati cronici, spesso multiproblematici
e con storie di vita e malattie del tutto singolari. Il contesto
domiciliare è più adatto ad eventuali esigenze di flessibilità.
Il dott. Alfieri
Odissea.
Puoi fare un esempio sulla flessibilità cui possono essere chiamati i
servizi?
Alfieri.
Un esempio critico riguarda la decisione di cambiare la priorità delle cure
mediche che non vengono più finalizzate alla guarigione o al prolungamento
della sopravvivenza, ma al miglioramento della qualità della vita. È una
decisione che può riguardare molti casi di patologia cronica, dai tumori
metastatici alle demenze in fase avanzata, alle insufficienze d’organo
progressive… A questo proposito, si deve capire che, in presenza di
determinate condizioni, la medicina deve resistere alla tentazione di
strafare e perseguire obbiettivi più realistici. Le priorità cambiano e
diventano quelle tipiche delle cure palliative, della terapia del dolore, la
sedazione. Si è soliti riferirsi a questi approcci in termini riduttivi,
come se si trattasse di riconoscere i limiti della medicina, in opposizione
alla forza delle sue potenzialità. In realtà, i progressi avvenuti nel
campo delle cure palliative sono una dimostrazione dei traguardi
raggiunti nella ricerca scientifica multidisciplinare, integrata con i
saperi umanistici. Non si tratta, quindi, propriamente di limiti, ma del
riconoscimento dei confini relativi alla appropriatezza delle terapie e,
nel contempo, dell’ampliamento delle potenzialità della medicina.
Una medicina che è arrivata a porsi la finalità di aiutare i singoli malati
a soddisfare i bisogni più importanti verso il termine della loro vita.
Per le cure palliative, infatti, la priorità è aiutare i malati a vivere
una vita la più gratificante possibile, comunque possa svolgersi, date le
circostanze avverse in cui ci si trova. Oggi esistono anche nella nostra
provincia esperienze interessanti di cure palliative a domicilio. Ci si deve
impegnare per diffonderne la cultura e potenziarle.
Odissea. Mi sembra che sia venuto il momento di
concludere. Vuoi aggiungere ancora qualcosa?
Alfieri.
Vorrei concludere citando un famoso aforisma di Einstein che dice pressappoco
così: non si possono affrontare i problemi adottando la stessa mentalità
che ha contribuito a crearli. Questa raccomandazione deve essere applicata
anche alla sanità. Se, infatti, pensiamo che i servizi sanitari si
identificano con settori importanti dell’economia di mercato, si tenderà a
ingigantire i bisogni a dismisura, indipendentemente dalla loro
autenticità.
Se,
invece, li consideriamo elementi essenziali di un sistema di sicurezza sociale,
allora riscopriremo il valore della politica, della solidarietà e dell’equità,
per rispettare fino in fondo la dignità di ogni essere umano.
La
prevenzione assumerà un ruolo cruciale nel promuovere la salute; la cura
e l’accompagnamento guadagneranno in efficacia e appropriatezza, e il
benessere sanitario e sociale potrà diffondersi a vantaggio di tutti.
[Pubblicazione
domenica 21 febbraio 2021]
Intervista
raccolta da Oliviero Arzuffi
Roberto Alfieri |
*Roberto Alfieri si è laureato in
Medicina presso l’Università di Pavia,
e si è specializzato in Igiene, Medicina Preventiva, Analisi statistiche,
ed Epidemiologia.
*
MINERALI: SALUTE E ALTRO
Conversazione
col prof. Romano Rinaldi
Romano Rinaldi
“Odissea” gli
ha rivolto alcune domande su temi di attualità e di interesse generale relativi
al suo campo di competenze (la mineralogia) in materia di minerali, ambiente
e salute.
Premessa
Amigdala di selce del Paleolitico
Rinaldi. I minerali nel complesso non sono né buoni
né cattivi per la salute o la prosperità dell’uomo. In effetti, dall’età della
pietra in poi, hanno accompagnato lo sviluppo o se si vuole, l’evoluzione
dell’uomo, a partire dal Neanderthal al Sapiens-Sapiens e fino ai nostri
giorni. Le varie età, della pietra, del rame, del bronzo, del ferro e ultimamente, del
silicio, ne sono eloquente testimonianza. Dunque i minerali sono fondamentali
componenti nello sviluppo dell’umanità in quanto da essi si ricavano gli
elementi fondamentali da utilizzare per le applicazioni tecnologiche e quindi
per lo sviluppo economico e sociale del genere umano. Ultimamente, per esempio,
c’è grande interesse per le cosiddette “terre rare”, elementi indispensabili
per gli schermi dei dispositivi (tascabili o da parete) che imperversano nella
nostra quotidianità. Così come per il litio, un leggerissimo metallo alcalino
(il terzo elemento nella tabella periodica), recentemente divenuto il
protagonista della “rivoluzione verde” della mobilità per la produzione di
batterie ricaricabili leggere. Per rendere l’idea, i minerali che studiavo per
la mia seconda laurea, in Canada, una cinquantina di anni fa, erano ricchi in litio
ma a quel tempo rappresentavano una semplice curiosità scientifica (a parte
l’utilizzo terapeutico del litio nella sindrome bipolare). Lo stesso valeva, in
termini di curiosità naturalistica, per i minerali contenenti le terre rare
(l’unico dispositivo video era allora il tubo catodico al fosforo). Viceversa,
i minerali contenenti silicio sono la stragrande maggioranza dei componenti più
comuni della crosta terrestre, i silicati, quindi non ci sarà mai penuria di
silicio e con esso si realizzeranno i semiconduttori per l’industria
elettronica ancora per un bel po’. Dobbiamo anche tener presente che quando si
parla di minerali, in relazione alla salute dell’uomo, si tende a confondere il
significato dei termini minerali ed elementi. I composti naturali
denominati minerali contengono, in massima parte, più elementi chimici legati
tra loro in proporzioni costanti, dettate dalle leggi della stechiometria e
della simmetria cristallina. Sono in genere sostanze raggruppabili per
caratteristiche chimiche (es.: silicati, carbonati, fosfati, solfati, solfuri,
ecc. oppure ossidi e idrossidi o anche sali, come i cloruri e i fluoruri o, più
raramente, elementi nativi) in cui sono predominanti o comunque presenti
diversi elementi nel medesimo gruppo. Il nostro organismo è poi in grado di
“digerire” alcuni minerali ed utilizzarne gli elementi costituenti per le
funzioni metaboliche. Questo è essenzialmente il motivo per tollerare la
confusione che viene fatta tra i due termini.
Amigdala di selce del Paleolitico |
Volendo rimarcare la centralità dei minerali come componenti fondamentali
per la nostra stessa esistenza, basti pensare al ruolo che il calcio
(assimilabile dal nostro corpo sia come carbonato, sia come fosfato) svolge
nelle funzioni metaboliche del nostro organismo, oltre ad essere un componente
fondamentale dello scheletro, oppure al ruolo del ferro e la sua essenziale
funzione nei processi di ossido-riduzione legati alla respirazione e trasporto
del sangue “ossigenato” alle cellule attraverso l’emoglobina. Oppure il
potassio e il magnesio, per la funzionalità muscolare. Ma questi sono solo alcuni
dei tantissimi esempi. Poi ci sono gli elementi presenti solo in minima
quantità ma indispensabili. Si pensi per esempio allo iodio, che viene da anni
immesso nel sale da cucina per prevenire malattie tiroidee tipiche delle
popolazioni che vivono a distanza dal mare. Oppure il fluoro, necessario,
seppure in piccolissime quantità, per prevenire la carie dentaria. E si
potrebbe fare un lungo elenco anche di questi elementi (sempre di provenienza
dai minerali) che comunque risulterebbe incompleto perché gli studi sulla
presenza di oligoelementi in molte delle funzioni vitali del nostro organismo,
sono tutt’ora in corso.
Poi ci sono alcune leggende. Chiunque si rechi in farmacia o in
erboristeria, troverà integratori alimentari che offrono la possibilità di
mantenere un equilibrio ottimale di minerali (o oligoelementi) utili per le
funzioni del nostro organismo. Si va dal calcio al selenio, allo zinco, e tutti
quelli sopra menzionati, più tanti altri ancora. Ma se interpellate il medico
di famiglia, probabilmente vi dirà che un’alimentazione varia e soprattutto
ricca di frutta e verdura è in grado di fornire a un organismo sano, tutti gli
elementi necessari nelle opportune quantità e proporzioni, regolate dal
metabolismo. Tuttavia, quando si tratti di elementi non dannosi alla salute, la
vendita non può essere proibita. Chiaramente tanti altri elementi, che si
trovano nei minerali naturali, dovranno essere accuratamente evitati in quanto
pericolosi per la salute. Si tratta per esempio dei cosiddetti metalli pesanti (es.:
piombo, mercurio, ecc.) ma anche cromo e vanadio, arsenico e antimonio e tanti
altri molto dannosi anche in piccolissime quantità.
Dunque la quantità, anche degli elementi e minerali utili, può fare molta
differenza. Così come si verifica macroscopicamente negli accumuli di minerali all’interno
del nostro organismo che rappresentano situazioni patologiche anche gravi.
Basti pensare alla litiasi delle vie urinarie e biliari. Oppure le calcolosi
che si possono esprimere in tante altre sedi, ad esempio nelle ghiandole
salivari e persino nelle ghiandole endocrine, quali la pituitaria.
Insomma coi minerali e con gli elementi che li compongono, non solo dobbiamo
fare i conti, ma essi sono parte integrante della nostra esistenza, come del
resto lo sono per tutte le forme viventi su questo pianeta (animali e piante).
Insomma dalla terra veniamo e con la terra dobbiamo convivere.
Tra l’altro solo recentemente si vanno affermando studi approfonditi di
biomineralogia ovvero lo studio delle relazioni tra le sostanze biologiche
fondamentali (DNA, RNA, virus e cellule) e i minerali al livello delle
reciproche strutture atomiche e molecolari, con risvolti applicativi che vanno
dall’individuazione di reazioni e interazioni chimico-fisiche utili per la
salute e per l’ambiente, alle teorie sull’origine della vita sul nostro pianeta.
Odissea. Si parla tanto di montagne amiantifere,
soprattutto a proposito del tunnel Torino-Lione per la realizzazione della
linea ad alta velocità. Quali sono i rischi concreti di questo minerale?
Rinaldi. L’amianto, anche detto asbesto, non è in effetti un solo minerale.
Sotto questa denominazione si raggruppano almeno sei diversi minerali con
caratteristiche e strutture cristalline (disposizione reciproca e natura degli
atomi che le compongono) molto differenti ma accomunati da alcune proprietà
merceologiche, principalmente la natura fibrosa e la inalterabilità, che li
rendono tutti adatti per i medesimi scopi tecnologici e soprattutto per la
manifattura del cemento-amianto (Eternit è il nome commerciale, dalla omonima società produttrice). Un materiale che ha contribuito notevolmente alla “rinascita
industriale” dell’Italia nel dopoguerra ed anni successivi, con la realizzazione
di un gran numero di manufatti (se ne contano oltre 3000 tipologie) poco
costosi, leggeri, versatili, ignifughi e molto durevoli tra i quali spiccano
ancora (purtroppo) nel nostro paesaggio molte coperture di capannoni
industriali e agricoli. Prima che venisse accertata la pericolosità di questi
minerali per la salute dell’uomo con la relativa messa al bando in Italia nel
1992 (L. 257), la produzione di questi manufatti dipendeva dalla presenza di cospicui
giacimenti di amianto in zone prealpine (es.: Balangero in Piemonte) con
produzione in Monferrato (Casale) per cui l’Italia ne era uno dei principali
produttori al mondo. Pur nella loro vastità, questi giacimenti costituiscono in
effetti delle eccezioni in senso geologico, come del resto lo sono tutti i
giacimenti. Ovvero adunamenti di un particolare composto, o gruppi di composti
naturali (minerali), formatisi per particolari condizioni chimico-fisiche
omogenee all’interno di determinate formazioni rocciose, nei tempi geologici e
nelle condizioni che hanno portato alla messa in posto delle formazioni stesse.
In questo caso si tratta di rocce metamorfiche, formatesi per una metamorfosi,
appunto, da rocce preesistenti (sedimentarie o ignee), per effetto di
particolari condizioni di elevata temperatura e/o pressione in cui si sono
venute a trovare per effetto delle vicende geologiche (orogenesi, vulcanismo,
ecc.) che hanno presieduto alla loro messa in posto. Quindi, in questo caso una
eccezione all’interno di un’altra eccezione. Le attività di estrazione dell’amianto
dalle rocce incassanti sono chiaramente cessate da una trentina d’anni,
tuttavia gli effetti sulla salute dei lavoratori di quelle attività estrattive,
così come della produzione dei manufatti (Eternit), sono tutt’altro che risolti
in quanto alcune delle patologie più gravi possono manifestarsi anche a
distanza di alcuni decenni
dall’esposizione. A questo proposito si sono svolte molte udienze processuali (con alterni risultati) per accertare le eventuali responsabilità delle aziende coinvolte, per i danni alla salute (e le morti) causate negli anni agli addetti delle lavorazioni. La pericolosità di questi materiali fibrosi consiste principalmente nella loro caratteristica di potersi suddividere in particolato tanto fine da risultare aerodisperso. In pratica la capacità di dar luogo a particelle fibrose talmente piccole da poter rimanere in sospensione nell’aria per tempi anche lunghi (ore-giorni) ed essere quindi inalate (o ingerite). La natura fibrosa, e l’attività chimica di tali particelle (con differenze tra i vari minerali) sono in grado di produrre danni cellulari che non possono essere rimediati (almeno in parte) dalle difese naturali del nostro organismo, anche in ragione del fatto che questi composti, come accennato, hanno una stabilità ed inalterabilità notevoli. Da queste caratteristiche dipende la loro pericolosità. Quindi, solamente le lavorazioni che producono polveri sottili che possono essere disperse nell’ambiente di lavoro rappresentano un fattore di alto rischio per la salute. Il manufatto, in sé e per sé, quando non sia disturbato nella sua integrità e non produca polvere, non è pericoloso. Viceversa, anche la degradazione naturale, pur se lentissima, delle opere (es.: le coperture dei tetti), può causare il rilascio di particolato ma non certo in quantità confrontabili con le attività estrattive o di lavorazione del materiale.
Entrando più nel dettaglio si deve anche considerare il fatto che, così come sono diversi i minerali appartenenti a questa classe di composti, diversa è la loro pericolosità per la salute. Per esempio, il classico amianto fibroso, propriamente denominato crisotilo (una varietà di serpentino, dall’aspetto e consistenza della stoppa e comunemente chiamato amianto bianco) è meno pericoloso della crocidolite (una varietà di anfibolo, anche detta amianto blu) ed è a sua volta più pericoloso di altre varietà di anfibolo più comunemente ritrovate nelle rocce di origine metamorfica, quali ad esempio, tremolite e actinolite (o actinoto). È dunque necessaria una accurata identificazione delle formazioni rocciose attraversate dallo scavo e la conseguente determinazione mineralogica delle specie dei minerali costituenti tali rocce. Un lavoro preliminare che richiede l’utilizzo di mezzi e metodi di routine, ampiamente documentati nei protocolli appositamente predisposti e che sono alla portata di un semplice diplomato di istituto minerario o di un laureato di un corso triennale in Geologia. Per ciascuno di questi minerali esistono quindi linee guida di comportamento per la gestione delle lavorazioni e dello smaltimento, compresi gli scavi. I vari disciplinari, obbligatori per legge, sono stati messi a punto da specialisti della materia in modo da garantire il massimo livello di sicurezza, ovvero la minor probabilità di danni per la salute. Considerando dunque il fatto che qualunque attività lavorativa comporta un certo rischio, il rischio dovuto all’eventuale esposizione a minerali di amianto incontrati negli scavi per il tunnel in questione, può essere ridotto al medesimo livello di un lavoro usurante qual è quello della cantieristica pesante, a patto che siano attuate tutte le precauzioni del caso. Quanto al materiale di risulta dello scavo, anch’esso è sottoposto alla normativa in vigore e deve rispondere a criteri di messa in sicurezza secondo regole ben definite, con analisi accurate del materiale e l’osservanza delle esistenti disposizioni per il trattamento di eventuali contaminazioni da amianto.
Insomma, quando si voglia procedere alla realizzazione di un tunnel
sotto montagne costituite (almeno in parte) da rocce metamorfiche, quali quelle
che si trovano nella zona in questione, un accurato rilevamento geologico è in
grado di fornire una mappatura tridimensionale con le indicazioni necessarie
per conoscere anticipatamente quali e quante tipologie litologiche si possano
incontrare nel tracciato e quale probabilità hanno di contenere minerali del
gruppo dell’amianto e, nel caso, di quali minerali si possa trattare. Una volta
assunta questa base di partenza, possono essere prese le decisioni preliminari.
Successivamente, durante lo scavo, il continuo monitoraggio, sia delle rocce in
posto, sia del materiale di risulta potrà fornire indicazioni precise ed
attendibili sulla natura e quantità dei minerali pericolosi eventualmente
presenti. A questo punto, le disposizioni presenti in materia dovranno essere
scrupolosamente seguite per poter procedere alla realizzazione dell’opera in
relativa sicurezza. A questo proposito, il sito ufficiale dell’INAIL fornisce
chiare delucidazioni in merito alla prevenzione e sicurezza sul lavoro in
ambiente con presenza di fibre di amianto: https://www.inail.it/cs/internet/attivita/prevenzione-e-sicurezza/conoscere-il-rischio/polveri-e-fibre/amianto.html
Si tratta dunque, a mio avviso, di una questione che riguarda
l’utilizzo delle conoscenze e competenze che sono o comunque devono essere, a
disposizione delle persone addette a queste imprese oggigiorno. Competenze e
conoscenze che ci aspettiamo quando, per costruire una qualsiasi opera di
questa entità, ricorriamo a specialisti della materia che devono operare
secondo le regole dello stato dell’arte. Non certo secondo i criteri utilizzati
per lo sfruttamento della “risorsa amianto” nel nostro rinomato periodo del
“boom economico” e negli anni successivi, del secolo scorso.
Odissea. Tra i minerali presenti nell’ambiente,
quali sono i più diffusi, e come incidono sulla nostra salute?
Rinaldi. Da quanto detto nella premessa e soprattutto
nella risposta sul “problema amianto” risulta evidente che la domanda è troppo
generica per poter trovare una risposta univoca. Innanzitutto, l’ambiente
naturale dipende da quali rocce sono presenti e qual è lo stato di eventuale
copertura vegetale o coltivazione presente nella zona in questione.
L’esposizione ai minerali dannosi per la salute sarà sempre un misto di
concentrazione di minerali dannosi e attività dell’uomo per il loro
sfruttamento industriale. Lo stesso principio si può applicare per le piante
pericolose (per esempio i funghi velenosi). Anche le piante possono causare
problemi di salute quando utilizzate impropriamente per l’alimentazione o per
preparare composti farmacologici o pozioni velenose. Per provare a rispondere,
almeno in parte alla domanda, posso ricorrere ad un esempio. In alcuni villaggi
di una regione della Turchia, la Cappadocia, è stata riscontrata una incidenza
molto superiore alla norma dello stesso tipo di tumori maligni riscontrati
nelle comunità dei lavoratori dell’amianto. La ricerca di minerali asbestosi
nell’area però non ha fornito alcun risultato. Tuttavia, uno studio
approfondito delle rocce vulcaniche presenti nell’ambiente ed ampiamente
utilizzate come materiale da costruzione per le abitazioni e quant’altro, ha
rivelato l’abbondante presenza di una particolare e rara varietà di un tipo di
minerali comunemente presenti nelle rocce vulcaniche. Si tratta di un minerale di
neoformazione appartenente al gruppo delle zeoliti, frequentemente presenti in
questo tipo di roccia ma in questo specifico caso la zeolite in questione
(erionite), peraltro molto rara in natura, ha particolarità chimiche e
strutturali assolutamente uniche rispetto a tutte le altre zeoliti note a
tutt’oggi. Anche in questo caso si tratta di un minerale che cristallizza in
forma di sottilissime fibre e questo fatto lo accomuna ai minerali
“asbestiformi” e la sua accertata grande pericolosità, tutt’ora oggetto di
studio, è stata attribuita in via preliminare alla presenza di piccole quantità
di ferro nella sua struttura cristallina.
Le rocce in questione sono dei semplici tufi vulcanici, un
materiale naturale da costruzione, il tufo, arcinoto fino dalla più remota
antichità per la facilità con cui si può cavare in blocchi perfettamente
squadrati, utilizzati in tutte le aree geologicamente ricche di queste rocce.
L’Italia centrale ne è ricchissima e il materiale è tutt’ora utilizzato, anche se
non è più concorrenziale rispetto ai materiali da costruzione più moderni e
quindi sta andando in disuso. Tuttavia il tufo italiano o per quanto ne
sappiamo, di qualsiasi altra parte del mondo, non contiene erionite, almeno in
quantità apprezzabili e comunque non della varietà riscontrata in quelle
particolari località della Turchia. Se vogliamo trarre una conclusione generale da questo esempio, si tratta di un'altra eccezione, quindi non risponde alla domanda (quali sono i minerali più diffusi, però questo minerale può essere considerato, a pieno titolo, molto diffuso in quei villaggi della Cappadocia. Questo significa che la Geologia e soprattutto la Mineralogia dei luoghi deve essere studiata a fondo prima di emettere un giudizio su quali siano i minerali più diffusi (o pericolosi) presenti nell'ambiente che ci interessa. Poi si tratterà di stabilire se questa diffusione abbia o meno qualche correlazione con eventuali patologie che si sviluppano nell'area in questione in numero suoeriore alla media della popolazione. Solo allora saremo in grado di individuare qualche eventuale colpevole di problemi causati alla salute umana, dai minerali. Altra cosa sono, logicamente, gli adunamenti di minerali che già si sono dannosi alla salute, ma di queste presenze c'è oramai un buon grado di consapevolezza, almeno da quando esistono mappe geologiche e minerarie accurate dei luoghi.
Come regola generale penso si possa affermare che non esistono
minerali ubiquitari in natura e che presentino una particolare minaccia per la
salute umana. Tuttavia, quando le attività estrattive interessano grandi
quantità di minerali di varia natura, possono essere create situazioni di
pericolo per la salute. Come del resto avviene per tutte le attività
industriali. Basti pensare al caso di Taranto, dove la lavorazione del minerale
di ferro per la produzione dell’acciaio (per loro natura entrambi innocui),
produce tali e tante emissioni nocive alla salute, da essere un esempio di mala
gestione di impianto industriale nel mondo.
Odissea. Come li introiettiamo nel nostro corpo e come possiamo difendercene?
Rinaldi. Come già detto, la produzione di polveri
sottili di minerali per effetto di lavorazioni industriali o di procedimenti
estrattivi, può causare gravi danni alla salute, sia per inalazione che per
ingestione. Questo può avvenire anche se i minerali in questione sono
praticamente innocui quando siano lasciati indisturbati nel loro stato e
ambiente naturale. Basti pensare alla silicosi. Una grave malattia polmonare
causata dall’inalazione di polveri di silice, ovvero il composto (SiO2)
corrispondente al quarzo come minerale fondamentale ma presente in varie
proporzioni in tutti i costituenti fondamentali delle rocce più comuni della
litosfera (i silicati), come accennato in premessa. La silicosi era (ed è
tutt’ora, in paesi dove mancano precauzioni) una tipica malattia professionale
dei minatori ma anche dei lavoratori dell’industria della ceramica e del vetro.
Resta il fatto che le polveri sottili di cui è carica la bassa
atmosfera, soprattutto nelle grandi città, ha solitamente una porzione
mineralogica molto scarsa mentre è costituita perlopiù da residui di
combustione di motori e impianti industriali che usano i cosiddetti
combustibili fossili (carbone, petrolio e derivati) prodotti questi che hanno
un notevole impatto sulla nostra salute, così come può avere il fumo del
tabacco.
Probabilmente l’uso delle mascherine al quale ci sta abituando la
pandemia da Covid-19, avrà un effetto benefico sulla nostra salute nel
trattenere una considerevole porzione delle polveri sottili disperse
nell’atmosfera, oltre ad evitare l’inalazione del famigerato virus SARS-Cov-2
disperso nell’aria dall’alito dei nostri simili.
Odissea. Ci può illustrare come i minerali e le
rocce vengono inquadrati dal punto di vista dell’importanza economica e delle
implicazioni sulla salute umana e sui rischi ambientali?
Rinaldi. Tutte le attività estrattive vengono
chiaramente attuate per motivi economici. Quanto sia economicamente conveniente
l’estrazione di un minerale utile dipende dalla concentrazione nella roccia e
dal costo della lavorazione. Per fare un esempio, un tenore di 2 grammi per
tonnellata di oro o platino, è già sufficiente a garantire una buona
economicità (guadagno) per l’estrazione, a patto che i luoghi di escavazione
non siano troppo impervi. Chiaramente, per estrarre i 2 grammi di metallo utile
si dovrà triturare mediamente una tonnellata di roccia. Poi questa roccia
triturata dovrà essere sottoposta a un trattamento chimico per l’estrazione del
metallo. Alla fine questa tonnellata di materiale trattato chimicamente con
composti parecchio dannosi per l’ambiente (per esempio il mercurio) dovrà, a
sua volta, essere lavorato adeguatamente per non costituire un rischio per
l’ambiente e per la salute. Si tratta di predisporre una zona in cui si possa
stoccare il materiale in sicurezza (in modo, per esempio, che non produca
percolati dannosi per la falda acquifera o per le acque superficiali). Quindi
si dovranno contemplare costi anche per la messa in sicurezza del deposito del
materiale di risulta.
Anche per queste attività estrattive esistono comunque specifiche
normative in tutti i Paesi sviluppati intese ad evitare, per quanto possibile e
con le presenti conoscenze, rischi per l’ambiente e per la salute, esattamente
come per il caso dei minerali dell’amianto di cui si è già discusso.
Logicamente anche in questo caso non mancano gli esempi di mala
gestione. Diverse aree minerarie della Sardegna, della Liguria e della Toscana
ne sono purtroppo triste testimonianza.
Odissea. C’è
corrispondenza tra mineralogramma e mineralogia? L’accumulo di minerali nel
corpo umano attraverso i cibi e l’acqua e dovuta all'alterazione “geologica”
delle terre coltivate?
Rinaldi. L’accurata analisi di un piccolo
quantitativo di capelli, per mezzo della spettrofotometria atomica, può fornire
lo spettro degli elementi (il mineralogramma; ecco che ritorna la confusione
tra elementi e minerali) che il nostro organismo ha accumulato ed utilizzato nel
tempo per svariate funzioni metaboliche e che possono essere dannosi (o meno)
alla salute. La tecnica nasce dall’esperienza forense, quando si scoprì che la
presenza di arsenico anche in piccolissime quantità, poteva essere agevolmente
rivelata nei capelli già una cinquantina di anni fa con lo stesso metodo.
Attualmente il metodo è anche utilizzato per verificare la funzionalità del
sistema endocrino ed altre funzioni metaboliche, oltre che per rivelare la
presenza di elementi dannosi alla salute.
Gli elementi in questione possono sicuramente avere un’origine
mineralogica. Tuttavia, la loro presenza nell’organismo può essere ascritta a
molti fattori, compresa l’efficienza metabolica e quindi non necessariamente
collegati alla natura dei terreni, quanto a composizione mineralogica delle
rocce originarie dalle quali si è originato il suolo agricolo. Inoltre,
l’agricoltura si serve purtroppo, di tali e tanti prodotti per le colture; dai
diserbanti ai pesticidi ai fertilizzanti che contengono o possono contenere
molti composti e quindi svariati elementi, anche dannosi alla salute. Per dipiù
i prodotti agricoli non sono generalmente consumati in luoghi vicini alla
produzione. Quindi dubito seriamente che si possa trovare una relazione di
causa effetto tra la presenza di certi elementi nel mineralogramma e la
composizione mineralogica delle terre coltivate nella zona.
Nota
Biografica
Il
prof. Romano Rinaldi è l’ex titolare della Cattedra di Mineralogia
dell’Università degli Studi di Perugia (dal 1990 al 2014). In precedenza è
stato docente e ricercatore presso gli Atenei di: Cagliari, Modena, Berkeley
(USA), Chicago (USA) e Manitoba (Canada). Ha coordinato e partecipato a gruppi
e progetti di ricerca nel suo campo e in campi affini in molti Paesi oltre che
in Italia (UK, SE, DK, CH, FR, DE, ES, PT, US, JP). Nella sua carriera si è
occupato di mineralogia e cristallografia di minerali utili e di componenti
fondamentali della litosfera, di metodologie fisico-chimiche per la
determinazione delle proprietà dei minerali e dei composti di interesse
naturalistico, tecnologico e ambientale. È autore di oltre 200 pubblicazioni
scientifiche ed editore di alcuni trattati. Attualmente vive in Umbria.
[Pubblicazione
sabato 20 febbraio 2021]
A
cura di T. De Bonis
*
LE FRAGILITÀ DEL SISTEMA SANITARIO LOMBARDO:
ESPERIENZE E RIMEDI
di
Giuseppe Carreri*
Giuseppe Carreri
Premessa
Nell’ordinamento
sanitario nazionale la parola “Sistema” non esiste. Abbiamo bisogno, infatti,
di “Servizi” con funzioni e responsabilità precise. Eliminerei quindi ogni
riferimento a ciò che non esiste ed è confondente.
La
Giornata del Ricordo
Nella
giornata del ricordo il nostro pensiero è tornato a tempi dove sono accaduti
fatti inauditi contro l’umanità. Il ricordo comunque può aiutare a leggere
meglio anche la realtà e a progettare un futuro migliore. Qualche tempo fa
l’arcivescovo di Milano monsignor Mario Delpini, in un’intervista sul “Corriere
della Sera” (sabato 5 Dicembre 2020), ha parlato di umanesimo lombardo, del
vivere insieme, del vivere la solidarietà. Ma anche di prendersi cura della
famiglia, del lavoro, del pendolarismo, degli spostamenti logoranti, delle
periferie dormitorio, della corruzione, della politica nazionale e delle Regioni.
La pandemia virale ha reso esplicito in modo drammatico il nesso profondo tra
salute e sviluppo sociale ed economico. La memoria, dunque, ci deve guidare
anche nel concorrere a realizzare una reale sicurezza sociale. Agli specializzandi
in igiene e medicina preventiva ricordavo tempo fa che le radici della riforma
sanitaria nascono nel 1943 durante la Resistenza, all’Università degli studi di
Padova per merito dei professori Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti e Augusto
Giovanardi. A cura del Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto nel
settembre 1945 a Padova, dopo la Liberazione, viene presentato il “Progetto
di Riforma dell’Ordinamento Sanitario Italiano”. Decisive furono la
istituzione delle Regioni a Statuto Ordinario (1970), la lotta e gli scioperi
generali dei Sindacati dei lavoratori (CGIL, CISL, UIL) per la riforma della
casa, della scuola, della sanità nella seconda metà degli Anni ’70 del secolo
scorso. L’accordo dei grandi partiti popolari (DC, PCI, PSI) portò finalmente
alla approvazione della legge 833/78, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale
(SSN). Sono stati necessari ben 33 anni dal 1945 al 1978.
Cinquant’anni
di Regioni
Nell’anno
2020 abbiamo ricordato il cinquantesimo anno dalla istituzione delle Regioni a
Statuto ordinario (1970). Questo periodo storico può essere scisso almeno per
la Lombardia, in due quarti di secolo: 1970- 1995 e 1996-2021. I primi 25 anni
sono stati caratterizzati da iniziative nella sanità costruttive ed innovative.
Basate sul decentramento istituzionale, sulla partecipazione e sul controllo
democratico coinvolgendo gli Enti Locali, specie i Comuni. La Regione Lombardia
ha svolto compiti legislativi, di programmazione, di indirizzo, di controllo.
Con adeguati finanziamenti.
La
prevenzione e la Sanità Pubblica
Fin
dai primi anni sono stati istituiti su tutto il territorio regionale i Comitati
e i Consorzi Sanitari di Zona (CSZ), con funzioni e compiti prevalenti di
prevenzione e sanità pubblica (1972). Nel 1974 viene votato con legge, il Piano
regionale ospedaliero che insisteva su 5 anni. Fu il primo e ultimo piano
ospedaliero della Regione. Ora serve un riordino della rete ospedaliera. Nel
1985 vengono istituiti 15 Dipartimenti di Prevenzione (DP). Con il Decreto
Legislativo 502/1992, i DP diventano obbligatori nelle USL dell’intero
territorio nazionale. Sulle Urgenze e le Emergenze sanitarie anche ai fini
della protezione civile, la Lombardia si distingue: evento Seveso del 1976;
soccorso alle popolazioni colpite dal terremoto dell’lrpinia nel 1980;
contrasto degli effetti ambientali e sanitari a seguito dell’incidente nucleare
di Chernobyl nel 1986; la lotta all’AIDS anni ’80-’90. Nostro consulente per
l’AIDS per la Regione il grande medico americano Anthony Fauci per l’AIDS. I
problemi sono cominciati a crescere e non solo per la prevenzione, con la legge
regionale 31 del 1997, promossa dalla Giunta presieduta da Roberto Formigoni.
Le USSL diventano Aziende Sanitarie Locali (ASL) nel numero di 15 e vengono
istituite numerose Aziende Ospedaliere (AAOO) ben 27. Si rompe l’unitarietà
della prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. In seguito la Giunta
Regionale presieduta da Roberto Maroni, promuove una nuova legge sanitaria
(L.R. 23 del 2015). Il “Sistema socio sanitario lombardo” si caratterizza con 8
Aziende di tutela della salute (ATS) di cui quella per la Città metropolitana
milanese con oltre 3 milioni di persone e un solo Dipartimento di Igiene e
Prevenzione Sanitaria, e 27 Aziende Socio Sanitarie Territoriali e Aziende
Ospedaliere (ASST). È una legge di dubbia costituzionalità, approvata
erroneamente dal Governo nazionale (Renzi-Lorenzin) come legge sperimentale e a
tempo (5 anni). Finalmente il 16 dicembre 2020, il Ministro della salute
Roberto Speranza, invia una lettera al presidente della Regione Lombardia con
allegato un documento della Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali
su “La Riforma del Sistema Socio sanitario lombardo (L.R. 23/2015)” di 73
pagine, con il quale si fanno puntuali osservazioni e critiche severe alla
legge regionale in oggetto e si dispone una sua revisione entro 120 giorni.
Ritengo che la legge regionale n. 23 del 2015 sia la causa di molte difficoltà
anche prima della pandemia e la concausa efficiente del disastro della pandemia
da Covid-19 nella nostra Regione. Serve dunque un nuovo “Servizio Socio
sanitario regionale” basato essenzialmente su tre pilastri: I Dipartimenti di
Prevenzione, i Distretti, gli Ospedali. Il tutto di norma deve stare nelle
Aziende Unità Locali Socio Sanitarie (AULSS). Esse debbono essere insediate
nelle Province, salvo per quelle di Milano e di Brescia. Bisogna potenziare con
urgenza i Dipartimenti di Prevenzione. Dagli attuali 8 si deve tornare a 15 con
relativi Laboratori di sanità Pubblica. I Medici di Medicina Generale (MMG) e i
Pediatri di Libera Scelta (PLS) debbono obbligatoriamente associarsi. Si deve
garantire assolutamente una moderna Assistenza sanitaria primaria, la
continuità assistenziale e un efficace rapporto territorio ed ospedale.
L’assistenza sanitaria privata deve essere integrativa e non sostitutiva di
quella pubblica. Servono le rilevanti risorse economiche finanziarie del Mes
peraltro destinate esclusivamente alla sanità. Serve infine un piano-programma
pluriennale della Regione e delle Università lombarde per la formazione degli operatori
del SSR, per la Ricerca Scientifica, specie per quella applicata alla
programmazione sanitaria e socio sanitaria. Prioritariamente vanno predisposti
e approvati: il Piano pandemico regionale (2021-2023) e il Piano Regionale
Prevenzione (2021-2025).
Migliorare
la soddisfazione delle persone
In
conclusione va ricordato che l’Indice di Performance Sanitaria (IPS) 2020
dell’Istituto Demoskopika sulla base di 8 indicatori, colloca la Regione
Lombardia al sesto posto. Mentre per il livello di soddisfazione delle persone
in relazione alla erogazione dell’offerta sanitaria ospedaliera per l’anno 2019
(ISTAT), pone la Regione Lombardia all’undicesimo posto tra le Regioni e le
Province Autonome di Trento e di Bolzano. Le più in salute nel nostro Paese
sono ritenute essere la Regione Emilia-Romagna e il Trentino-Alto Adige. Il
Servizio Socio Sanitario della Regione Lombardia era già fragile anche prima
della pandemia virale, come giustamente ha fatto notare il prof. Marco Vitale.
*Medico chirurgo è
specializzato in igiene. Ha diretto il Servizio Igiene pubblica della Regione
Lombardia dal 1973 al 2003. Responsabile dei progetti di bonifica delle zone
inquinate dalla diossina (Seveso, 1976). Presidente della Società italiana di
Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica (SItI) 2001-2002. Medaglia d'oro
al Merito della Sanità Pubblica (Presidente della Repubblica C. A. Ciampi,
2003). Docente Universitario alla Bocconi (1984-1985). A lungo docente alle
Università di Milano e di Pavia. Ha istituito nel 2017, il Movimento culturale
per la difesa e il miglioramento del SSN. Coordinatore onorario del Collegio
degli Operatori di Prevenzione, di Sanità Pubblica e delle Direzioni Sanitarie
della SItl.
[Pubblicazione mercoledì 10 febbraio 2021]
*
LA CATARATTA
di Sonia Palmieri*
Sonia Palmieri
L’intervento di
cataratta rappresenta una delle procedure chirurgiche maggiormente eseguite in
ambito oculistico in tutto il mondo.
La tecnica di asportazione della cataratta attualmente in uso risulta fortemente
consolidata e contraddistinta da un elevato grado di sicurezza; ogni anno in
Italia vengono eseguite migliaia di procedure in ospedali, cliniche e strutture
private con eccellenti risultati.
L’opacizzazione del
cristallino (cioè la cataratta) che impedisce un’adeguata visione è nota fin da
tempi antichissimi, così come l’idea di cercare di rimuoverlo chirurgicamente. Anche
se il termine cataratta comincia ad essere usato dal medico persiano Avicenna intorno
all’anno mille d.C., le prime tecniche (che prevedevano di lussare il
cristallino) risalgono agli antichi Egizi.
Abbiamo inoltre testimonianze che i Romani
fossero in grado di operare di cataratta con grande professionalità: un articolo
della BBC News (2008) ha documentato il ritrovamento di strumenti chirurgici e
colliri in uso in Britannia, asserendo che i Romani sono stati i primi ad
effettuare operazioni di cataratta mediante l’introduzione di aghi all’interno
dell’occhio.
Tornando ai giorni
nostri si sono adottate prima tecniche extra e intracapsulari che hanno
migliorato progressivamente la qualità della prestazione professionale per
approdare successivamente alla facoemulsificazione, che è la tecnica ad
ultrasuoni attualmente in uso. Dagli anni ’80 ad oggi anche le dimensioni delle
incisioni si sono ridotte fino ad evitare quasi totalmente l’uso dei punti di
sutura.
Negli ultimi anni il
recupero visivo (la qualità e la quantità di visione) è diventato il principale
obiettivo dell’intervento (e non solo l’asportazione del cristallino ormai
diventato opaco per l’età o per patologie che ne hanno accelerato il processo
degenerativo). A fianco di lenti IOL monofocali (più comunemente in uso) sono
state introdotte e sperimentate ormai su vasta scala lenti endoculari
maggiormente performanti (toriche per correggere astigmatismi, multifocali o a
profondità di campo per consentire un migliore recupero visivo) puntando ad
eliminare/minimizzare l’utilizzo di occhiali correttivi post chirurgia.
Nell’intento di rendere più preciso l’atto chirurgico in sé è stato introdotto il
Femtolaser, uno strumento utilizzato in alcune delicate fasi della procedura
chirurgica: consente di effettuare incisioni ad altissima precisione
(sostituendo i microbisturi) e di impiantare con maggiore accuratezza innovative
IOL customizzate, in grado di correggere specifici difetti refrattivi
dell’occhio e adattarsi alle necessità dei singoli soggetti in modo sempre più
specifico. Queste innovative lenti endoculari sono indicate soprattutto per
soggetti ancora in età lavorativa o per coloro che hanno uno stile di vita
particolarmente attivo nonché per tutti coloro che non vogliono più portare gli
occhiali.
La dottoressa Palmieri |
Allo stato attuale sia queste lenti sia questa innovativa tecnologia chirurgica laser (per questioni di costi e tempi) non sono disponibili tramite SSN e quindi eseguibili solo privatamente.
Novità in arrivo anche nella terapia antibiotico/cortisonica postoperatoria: con i nuovi farmaci si può prevedere una riduzione (fino ad un dimezzamento) del tempo dei trattamenti (colliri) nel postoperatorio.
L’asportazione della cataratta, ove non vi siano altre patologie oculistiche rilevanti, consente con una chirurgia rapida, precisa e ad elevato grado di sicurezza, di tornare ad avere una qualità di visione soddisfacente.
*
LA TUTELA DELLA SALUTE
di
Guido Peter Broich*
Guido P. Broich
La salute venne definita dalla
neonata Organizzazione Mondiale della Sanità come lo “stato di completo
benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia”.
Passata la immane catastrofe della Seconda Guerra Mondiale si credeva possibile
una pace mondiale duratura in una visione razionale della convivenza tra i
popoli. In un tale momento di sogno oltre alla pace mondiale anche lo stato di
“completo benessere” di pace, sociale, fisico e mentale avevano diritto di
cittadinanza. La realtà fece presto a tornare e venne la guerra fredda con i
sollevamenti popolari in Germania Est, in Ungheria e Cecoslovacchia, la crisi
di Cuba e le guerre calde di Corea, Vietnam e Afghanistan ed infine il palese
ritorno dell’oscurità dell’intelletto con il terrorismo mistico e religioso che
l’uomo moderno, viziato da trecento anni di illuminismo, non era pronto a
riconoscere in tutta la sua valenza. In campo sanitario il grande sviluppo
delle conoscenze mediche aveva fatto sognare che fosse possibile raggiungere, e
idealmente garantire a tutta l’umanità, uno “stato di completo benessere
fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia”. Si poteva
immaginare che ci fossero solo limiti dettati da problemi economici, culturali
e di evoluzione della scienza, e non strutturali e naturali. Per raggiungere
questo sogno nascono allora i sistemi sanitari universalistici ed equi per
tutti, si ritiene che sia lo Stato, la comunitas di tutti i cittadini, a
doversi accollare la gestione delle risorse da destinare alla sanità. È necessario
ricordare che già esistevano sistemi di distribuzione del rischio sanitario con
le mutue, ma mancava il concetto tanto semplice quanto potente: per tutti,
ugualmente. Proprio per superare le differenze tra le varie mutue e coprire con
assoluta certezza anche chi per vari motivi non fosse coperto da uno dei
sistemi previdenziali esistenti, venne elaborata la legge di riforma del
sistema sanitario 833 del 1978. La legge istitutiva del Sistema Sanitario
Nazionale italiano entra così in vigore il 1° gennaio del 1980. Il principio di
fondo era ed è molto semplice: la Stato garantisce con proprie regole, uguali
per tutti i cittadini, l’accesso alle prestazioni sanitarie, sia di prevenzione
che diagnosi e cura. Tali prestazioni vengono pagate dal sistema tramite la
fiscalità generale. Va subito detto che tale principio semplice e lineare nella
teoria, mostra da subito alcuni punti critici importanti nel modo in cui venne
realizzato. Erano gli anni in cui dominava una visione della società che dava
preferenza della uguaglianza alla qualità. Lo Stato di fatto avvoca a sé la
gestione degli ospedali, lasciando al privato solo aree residuali prive di una
normazione organica, ma tollerate nella speranza di poterne instradare la
dismissione e chiusura.
Vennero chiusi i reparti “solventi” e iniziò una lunga operazione di restrizione e contrasto alla attività privata dei medici, cosa che fu sempre, fino ad oggi, causa di resistenze notevoli e significative. Il rapporto tra Sanità pubblica e privata nasce così da subito con una conflittualità ideologica influenzata più dalle convinzioni politiche dominanti al momento che da riflessioni di organica coesistenza produttiva, aprendo la strada ai profondi squilibri che osserviamo oggi. Resta poi il problema di fondo di ogni sistema mutualistico: il soggetto beneficiario della cura, il soggetto erogatore della stessa e quello pagatore, sono diversi, vanificando la possibilità di una regolazione spontanea nell’equilibrio tra domanda ed offerta. Inoltre questi tre poli non godono di uguali poteri, come sarebbe richiesto da uno schema di libero mercato. Da una parte ci sono realtà imprenditoriali, di proprietà pubblica o privata, dall’altra lo Stato che paga secondo regole autodefinite. In mezzo si trova il soggetto beneficiario, privo di potere diretto ed autonomo: il cittadino che richiede la salvaguardia della propria salute. Quando poi il servizio pubblico da una logica di erogatore puro, passa ad una di contabilità aziendale con il D. Legg. 502/92, il concetto filosofico di “benessere” della persona, caratteristica difficilmente misurabile e strutturalmente soggettiva, si trova in decisa crisi. Per passare ad una visione “costi/ricavi” nella sanità bisogna tenere conto analitico dei costi e quantificare il risultato dell’azione sanitaria sulla popolazione, cosa assai complessa. Allora per le prestazioni di ricovero si mutua dalle grandi assicurazioni private statunitensi il sistema dei cosiddetti “DRG”. Senza voler entrare negli schemi di calcolo di tale sistema si può sottolinearne alcuni aspetti chiave: 1. nasce in ambiente assicurativo e non di servizio sociale; 2. è imperniato sul rapporto costo/beneficio misurabile, molto efficace nella cura di patologie acute, ma strutturalmente inadatto per valutare aree non monetizzabili come la prevenzione, la condizione mentale e l’inserimento sociale; 3. legando i rimborsi alla patologia fisica già manifesta, spinge inesorabilmente verso una selezione dell’offerta che marginalizza le azioni preventive. Essendo i rimborsi fissati autonomamente dal pagatore pubblico, si assiste ad un progressivo e sempre più pesante spostamento verso una logica di riduzione della spesa. Ma la sanità come servizio sociale è assimilabile a scuole, infrastrutture e forze dell’ordine, non riconducibili a semplici calcoli di costo su produzione. La polizia migliore è quella che con azioni di contrasto e difesa della sicurezza civile evita i delitti, la scuola migliore è quella che forma talmente bene i giovani da non avere bisogno di lezioni supplementari. Così la migliore sanità è quella che con la prevenzione e vigilanza sulle condizioni fisiche e sociali di vita delle persone, riesce a ridurre ad un minimo scientificamente possibile le malattie. Noi invece abbiamo abolito il medico scolastico e i “check-up” periodici sono diventati un fatto privato.
Dove una volta c’erano risposte di offerta collettiva, ora si rimanda all’attenzione dei soli genitori. Dove una volta lo Stato si impegnava a spingere le persone a sottoporsi a visite di controllo e preventive, oggi domina il “governo della domanda”, modo nemmeno tanto elegante per descrivere la pressione a dissuadere il cittadino ad accedere ai servizi sanitari. Cosa fare? Esistono vari spunti di riflessione positivi da discutere e condividere, il problema della sostenibilità dei sistemi sanitari è generale e non limitato al nostro paese. La sanità di cura deve essere un sottoinsieme della Salute individuale e globale, affiancandovi sanità di prevenzione e salute sociale, cioè azioni finalizzate sia al controllo sanitario di gruppo che della valutazione della salubrità degli ambienti, delle condizioni di vita e del controllo dello stato di salute, sia fisico che mentale e sociale. Credo che il Sistema Sanitario Nazionale abbia fatto finora un egregio lavoro. Esso ci ha donato una delle aspettative di vita più lunghe al mondo, ma è arrivato al suo limite operativo. Si deve affermare con forza che si possono ridurre i costi della sanità tramite la prevenzione, ma non tramite la limitazione dell’offerta, altrimenti eccessive diseguaglianze organizzative territoriali come l’imposizione di “ticket”, veri e propri limitatori di prestazioni, uccidono il sistema. Siamo arrivati, almeno nelle regioni virtuose, al limite della “razionalizzazione” nel suo significato di tagli e riduzione della spesa. Dobbiamo tornare a vedere nella salute un costo sociale puro, come lo sono la scuola, la sicurezza e le infrastrutture del Paese, un investimento che la collettività sostiene non solo per affrontare un problema specifico emerso, ma per impedire il verificarsi dello stesso. Dobbiamo salvaguardare i princìpi di buona amministrazione e gestione lasciando l’ingegneria gestionale e aziendale a compiti a loro più consoni. Dobbiamo restituire la gestione della sanità a chi è competente, limitando l’influenza delle ragioni e dei meccanismi di “palazzo”. L’operatore di Sanità, nelle sue varie articolazioni di Medico, Infermiere e Tecnico, è anche sempre un educatore, un compagno di riflessioni. Esso sa suggerire la prevenzione, curare le malattie e sostenere lo spirito della persona qualora la scienza non offra più cure. Inoltre è parte della collettività e come tale sa segnalare situazioni di criticità sociale, di disagio non ancora emerso, di bisogni reali ma non ancora percepiti. In sintesi: in sanità non va contrastata la domanda, che al contrario va fatta emergere il più possibile anche se aumenta la spesa. Lo Stato deve concentrarsi sulla gestione del sistema più che sulla organizzazione dell’erogazione. La salute è un bene non solo dei malati, ma collettivo.
*Medico. Nato in Germania,
laurea in Medicina e Chirurgia “con lode” presso l’Università di Pavia. Ricerca
prima al House Ear Institut di Los Angeles, poi alla State University of New
York at Stony Brook e alla Otolaryngology Clinic della Università di
Cincinnati, Ohio. È membro onorario della Societas Medico-Physica Erlangensis
dell’Università di Norimberga e componente del Board of Editors della rivista
indicizzata “Anticancer Research”, pubblicata dalla International Institute of
Anticancer Research di Atene. Grande Ufficiale (2018) dell'Ordine al Merito
della Repubblica Italiana, è stato Direttore Sanitario del Policlinico di
Milano.
[Pubblicazione
giovedì 24 dicembre 2020]
*
TORNARE A IPPOCRATE
di Oliviero
Arzuffi*
Oliviero Arzuffi
Ospitare in
questa Rubrica anche la voce degli scrittori, dei poeti, dei filosofi, degli
artisti, degli educatori, mettendola in risonanza con quella dei medici e degli
scienziati, in un comune spirito ippocratico, ci pare un’ottima pratica. In
fondo il Rinascimento è nato dall’apporto di tante intelligenze e di tante
diverse competenze.
Nell’antico giuramento di
Ippocrate, che i discepoli del padre della medicina occidentale pronunciavano
davanti all’altare degli dèi nell’isola di Kos, oggi Turchia, ci sono già tutti
gli elementi costitutivi della scienza medica così come noi la conosciamo e la
concepiamo. Meglio, così come l’avevamo concepita fino a qualche decennio fa.
Oggi, infatti questo forte riferimento etico-valoriale è sfumato dietro l’orizzonte
e ci troviamo con una medicina fortemente condizionata dalle logiche
dell’economia di mercato e da una ricerca scientifica che sembra impazzire
dietro ad un sapere ridotto a pura curiositas sperimentativa e molto
tecnologicamente contrassegnato. Così come la venerabilità di questa
disciplina, collocata con un solenne giuramento agli dèi nel recinto del sacro
da parte della scuola Ippocratica, si è svilita in una ricerca empirica di
natura puramente strumentale, dimentica delle finalità precipue di essa: curare
l’uomo e salvaguardare la vita, dal grembo materno fino all’ultimo respiro.
Quel non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale,
né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darà un
medicinale abortivo, la dice lunga sull’eclisse della dimensione etica
nell’esercizio della medicina odierna, al di là di ogni specifica professione
di fede religiosa. C’è di che riflettere su questo salto culturale
all’indietro. Ma vediamo gli elementi costitutivi di questo antico modo di
concepire la medicina, per trarne dei possibili insegnamenti.
L’umiltà del sapere
La vita è breve, l'arte lunga,
l'esperienza ingannevole, il giudizio difficile. Da questo aforisma tratto dal corpus ippocrateum e
riferito ad Ippocrate stesso, possiamo dedurre che l’esercizio della disciplina
medica, secondo il pensiero di Ippocrate, doveva essere caratterizzato da un
atteggiamento di grande umiltà. Una parola poco gradita al delirio di
onnipotenza che pervade ogni ambito scientifico ai nostri giorni. Eppure questo
atteggiamento è quanto mai saggio ed opportuno, perché nessun essere è così
complesso e misterioso quanto l’uomo. Niente come il corpo umano riserva
sorprese. Nulla come lo spirito dell’uomo è sottoposto alla contraddizione di
grandi abbattimenti e di grandi entusiasmi, con le conseguenze somatiche di
questo altalenare di sentimenti profondi e di passioni anche violente. Poco poi
nella conoscenza è completamente sondato. Perciò l’esperienza è ingannevole
e il giudizio difficile. Tale atteggiamento di umiltà di fronte alla
complessità del reale e della limitatezza nostra intelligenza nei suoi
confronti ci consente un approccio meno disumano e meno tecnicistico con la
malattia, la disabilità e la cura.
La medicina come arte
Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e
la mia arte. Vita ed arte. Forse nessun’altra disciplina come
la medicina lega così strettamente stile di vita e professione esercitata.
Meglio, legava. Perché oggi sembra prevalere il lavoro di équipe e
l’impersonalità della prestazione. Il servizio sanitario, anche nel linguaggio
burocratico, viene infatti “erogato”, più che offerto o prestato. È venuto meno
l’aspetto relazionale ed esemplare del rapporto terapeutico che fa di un
intervento scientifico una vera e propria arte, nel senso etimologico del
termine. La medicina, per Ippocrate, è un’arte: un mettere insieme in modo
armonico e ordinato cose diverse. Non quindi pura tecnica, essenziata da un
insieme di nozioni prive di finalità e di intenzionalità. I dati tecnici e i
risultati scientifici costituiscono, per il terapeuta, gli elementi
indispensabili sì per la conoscenza ma non sufficienti per il giudizio. È infatti
necessaria anche l’interpretazione di quei dati collocandoli nelle diverse
situazioni e nei diversi contesti per fare una diagnosi e per intervenire
terapeuticamente in modo efficace, unitamente a modello di vita che il paziente
deve poter vedere nel medico affinché la stessa parola di quest’ultimo sia in qualche
modo credibile e sia orientativa, terapeutica appunto. La terapia così
configurata si propone come una sorta di recupero della bellezza e integrità
originaria dell’uomo. In questa prospettiva si comprende il senso di quel custodire
con innocenza e purezza la mia vita, come requisito indispensabile per
chi deve esercitare l’arte di guarire un uomo.
La trasmissione delle conoscenze come atto
pedagogico
È interessante come nel giuramento si insista
molto sulla figura del maestro e sul come quest’arte debba essere trasmessa. La
presenza di un maestro e la trasmissibilità della disciplina connotano
pedagogicamente la professione medica. Non si trasmettono infatti solo dati di
conoscenza ma anche modalità di comportamento e scelte di vita, proprio quelle
che danno origine al giuramento, vissuto come un ingresso ad un modo di vivere
e di operare che fa di ogni appartenente alla classe medica un maestro di vita,
prima ancora che un tecnico della salute. La medicina così intesa è un percorso
ascetico nella conoscenza e nell’applicazione delle medesime, che esige la
segretezza nel comunicare nozioni e metodi che appartengono alla storia di
intere generazioni. Viene da chiedersi se una delle grandi carenze terapeutiche
di oggi non sia riconducibile all’assenza di connotati pedagogici e di spirito
educativo nello scambio di informazioni proprio nell’ambito dove è in gioco non
solo la malattia, come menomazione di un organo, ma il senso stesso della vita
e della morte.
Il risvolto relazionale
e sociale dell’arte curativa
In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il
sollievo dei malati e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e, fra le
altre cose, da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini,
liberi e schiavi. Questa formidabile intuizione della
finalità solidaristica della cura, fondata sulla compassione, viene indirizzata
indistintamente a liberi e a schiavi, anticipando di molti secoli il concetto
di deontologia e insieme di democrazia, qui desunta dalla comune appartenenza
al genere umano. Che cosa pensasse Ippocrate della democrazia è poi noto da uno
dei suoi più sorprendenti detti: la democrazia produce corpi sani, la
tirannide corpi malati. Quasi a dire che l’osservazione della realtà ci
certifica che un corpo sociale sano, quale è quello democratico, non può che
giovare alla salute del corpo e viceversa, mettendo in stretta relazione la
salute privata con la salute pubblica, in un’osmosi non secondaria per il
benessere complessivo dei cittadini. Questo risvolto sociale e politico
dell’arte medica è oggi, per certi aspetti, messo sotto accusa da una presunta
neutralità della medicina, che si illude di poter guarire malanni anche di
origine sociale e relazionale senza affrontarne le cause, quasi che la malattia
e la terapia non facessero parte di un vissuto comune dei componenti di una
società, nel bene come nel male.
La riservatezza
Quello che viene oggi chiamato
“segreto d’ufficio” è stato enunciato proprio da Ippocrate onde preservare il
diritto alla riservatezza del malato e impedire che altri, con meno nobili
intenzioni della sua guarigione, usassero della sua debolezza. Una
straordinaria conquista di civiltà che non si è ancora realizzata dopo quasi
duemila e cinquecento anni di storia. Forse, più che di segreto di ufficio, che
sa tanto di atto burocratico, sarebbe più appropriato parlare di rispetto,
perché questo ultimo termine sottolinea maggiormente la tutela dell’intimità
profonda che si instaura tra paziente e medico in un’alleanza terapeutica
fondata sulla reciproca fiducia. Il giuramento pronunciato al cospetto di tutti
gli dèi sul dovere della riservatezza sanziona in modo non equivoco questa alleanza
e la cementa con un vincolo indissolubile.
Alcune osservazioni
Già nel giuramento moderno di Ippocrate,
che nessun medico ormai pronuncia più quasi a significare
l’uscita della medicina dall’ambito del sacro e la riduzione della terapia a
puro mestiere e dato tecnico, la forte carica etica si è di molto affievolita.
Mancano in esso, infatti, i riferimenti fondanti dei doveri etici, se non un
rimando ai principi etici della solidarietà umana, senza dire in che
cosa consistano e su che cosa si fondano, e un accenno alle norme
deontologiche della professione, senza specificare quali e donde
traggano la loro legittimità. L’arte è già diventata qui semplice professione e
l’Autorità competente il riferimento normativo dell’operare del medico.
Non c’è inoltre alcun accenno alla trasmissibilità del sapere e al risvolto
pedagogico della professione che costituiscono il senso ultimo della
professione sanitaria. Quando è stato scritto questo ultimo giuramento, il
bisogno di laicizzare la medicina era certamente un’operazione doverosa per
poterla rendere compiutamente una scienza rigorosa e alla portata di tutti, per
strapparla alla manipolazione dei ciarlatani e per farla diventare
“democratica” come si dice, tuttavia in questo modo si è perso qualcosa che successivamente
non è più stato recuperato.
Infatti, anche nella medicina, la “misurazione del
fenomeno” ha preso il sopravvento su ogni altra considerazione e l’economia ha
ridotto il sapere e la pratica clinica a mercimonio al pari di ogni altro
“manufatto” umano. È necessaria, perciò, una ricomprensione della specificità
dell’arte medica e della natura stessa dell’uomo, se vogliamo recuperare il
senso profondo di ciò che il grande Ippocrate ci ha lasciato come mandato di
umanizzazione e di civiltà della nostra specie.
*Scrittore
[Pubblicazione lunedì 21 dicembre 2020]
*
LA TERAPIA DEL DOLORE
di
Cesare Bonezzi*
Cesare Bonezzi
Il
sottile cordone ombelicale che lega la “Terapia del Dolore” alla Anestesiologia
Va
innanzi tutto chiarito che la definizione di “Terapia del dolore” indica una
disciplina clinica e non solo un dovere terapeutico che ogni medico deve saper
assolvere. Ogni medico deve prescrivere i farmaci analgesici appropriati di
fronte al dolore di un paziente e non solo curare la malattia che ne è responsabile,
sperando che la sua soluzione comporti la scomparsa del dolore. La disciplina
di “Terapia del dolore” affronta il dolore cercando di individuare i meccanismi
fisiopatologici che lo generano, offrendo tecniche chirurgiche mininvasive e
terapie farmacologiche basate sugli elementi identificati nella diagnosi,
gestendo il percorso di cura del paziente sofferente. L’obiettivo della cura è
il ritorno ad una vita attiva.
Dobbiamo
innanzi tutto cogliere la differenza tra analgesia e anestesia. L’analgesia è
una riduzione del dolore senza che siano coinvolte le sensibilità dei tessuti
ovvero è una condizione in cui l’origine degli impulsi, la loro conduzione e
trasmissione, vengono modulate e controllate. La seconda indica una condizione
di totale assenza di dolore e di altre sensazioni vuoi perché la via che
conduce gli impulsi sensitivi dai tessuti del corpo al cervello viene
interrotta vuoi perché il cervello stesso non è in grado di elaborare questi impulsi
che giungono per generare il dolore e le altre sensazioni. La prima forma di
anestesia viene chiamata anestesia locale o loco-regionale mentre la seconda
forma è nota come anestesia generale. La scuola di Specializzazione in
Anestesia insegna come mantenere il paziente in una condizione di anestesia
locale o generale permettendo al chirurgo di espletare il suo lavoro sul corpo
e nello stesso tempo controllando le condizioni generali affinché non vengano
compromesse. In altri termini l’Anestesista è colui che genera una condizione
di assenza di dolore e che sa come “addormentare” le vie nervose periferiche o
il cervello utilizzando anestetici locali o generali. Addormentare le vie
nervose sensitive e motorie significa togliere per il tempo necessario la
sensibilità e la motricità di tutto il corpo o di una sua parte. La condizione
di anestesia comprende quella di analgesia e non viceversa.
Ottenere
l’analgesia significa ridurre o togliere il dolore senza interferire non solo
con lo stato di coscienza e di veglia ma anche con le capacità funzionali che
sottendono alle attività della vita quotidiana. Esiste quindi una sostanziale
differenza tra la condizione del paziente in sala operatoria e quella del
paziente che nonostante il dolore vuole vivere una vita attiva.
Esistono
farmaci anestetici locali e generali e farmaci analgesici; questi ultimi
agiscono in vario modo riducendo l’infiammazione che genera il dolore,
modulando la trasmissione e la conduzione dell’impulso nervoso. Tra i farmaci analgesici
giocano un ruolo importante gli oppioidi naturali e sintetici.
Ritorniamo
alla figura dello Specialista che esce dalla Scuola di Specializzazione di “Anestesia
Rianimazione, Terapia intensiva e del dolore” dopo aver passato cinque anni di
corsi teorici e soprattutto di pratica clinica nelle sale operatorie delle
diverse discipline ospedaliere e nei reparti di terapia intensiva e
rianimazione. In molte Scuole di Specializzazione non sono presenti, allo stato
attuale, reparti di Terapia del dolore in grado di preparare sul campo gli
specializzandi in questa disciplina.
Perché
è necessaria una preparazione specifica teorica e pratica in terapia del dolore?
Non basta l’esperienza anestesiologica?
L’anestesista
impara perfettamente a identificare mediante ecografia ed a interrompere
farmacologicamente le vie nervose sensitive dalla periferia fin dentro il
canale vertebrale con appositi aghi e strumenti. Egli è perfettamente in grado
di gestire ogni evento avverso, che senza alcuna ragione può insorgere come
reazione ai farmaci o altro. In altre parole, egli è un abile e sicuro
esecutore di molte tecniche che vengono utilizzate per il controllo del dolore.
Questa abilità è utilissima ma non basta affatto e cercherò di spiegare il
perché.
Nella
legge 38 del 2010 in cui viene sancito il diritto a non soffrire ed in cui
contemporaneamente vengono identificate due discipline, apparente simili ma
molto diverse nella pratica clinica, le Cure Palliative e La Terapia de Dolore,
si sottolinea l’importanza di valutare la presenza o meno di dolore e di
identificarla con un numero da zero a dieci, dove 10 è il massimo valore
attribuibile al dolore. Questo numero dovrebbe indicare, nel preciso momento in
cui viene rilevato, la condizione di sofferenza del paziente o meglio
l’esperienza sgradevole che sta vivendo a causa di una serie di impulsi che
arrivano dal suo corpo malato. Il numero è risultato di una complessa
elaborazione del sistema nervoso che vede coinvolte aree cerebrali
sensitive-discriminative ed aree affettivo-emozionali. Non esiste un’area
corticale dove gli impulsi afferenti dal corpo vengono letti e identificati. Il
dolore, che è fondamentale in condizioni normali per la nostra omeostasi,
coinvolge tante aree del cervello generando sensazioni, emozioni, reazioni, e
lascia sempre il ricordo della sua presenza.
Queste
considerazioni ci portano a due obiettivi di indagine delle Terapia del dolore:
l’origine degli impulsi destinati a generare dolore e la condizione
psicosociale del paziente che elabora gli impulsi e genera la sgradevole
esperienza dolorosa. Nascono due esigenze formative ovvero la conoscenza della
anatomia del sistema nervoso, della fisiopatologia del dolore e del metodo
diagnostico volto alla ricerca dell’origine degli impulsi da una parte e
dall’altra la capacità di instaurare una relazione con il paziente per
comprendere la sua condizione di sofferenza. La prima può essere insegnata da
una cattedra ma la seconda va appresa in un lungo tirocinio sul campo. Dopo di
che si possono imparare tutte le tecniche antalgiche vecchie e nuove.
Le
scuole di Specializzazione dovrebbero quindi attrezzarsi per permettere all’allievo
una formazione sul campo oltre che in aula. Nel mondo anestesiologico il paziente
o una sua parte corporea “dorme”, in quello della Terapia del dolore, il
paziente non solo vuole vivere e lavorare, ovviamente senza dolore, ma cerca
una relazione d’aiuto per affrontare i lunghi periodi della sofferenza.
Non
è tanto il passaggio da colui che addormenta, perché il chirurgo sia in grado
di curare, a colui che opera in prima persona, ma il difficile passaggio all’antica
figura del “clinico” che diagnostica e che si prende cura. L’obiettivo
diagnostico non è solo quello della patologia, che è la responsabile diretta
del dolore, ma dei meccanismi fisiopatologici con cui il dolore viene generato
e modificato nel percorso dal tessuto leso al cervello. Il Terapista del dolore
deve quindi agire a volte sulla causa-malattia, a volte sulla via sensitiva per
modulare gli impulsi, a volte sui centri superiori per mitigare la sofferenza e
la sgradevolezza. Accanto a queste pratiche diagnostiche-terapeutiche deve
costruire una relazione con il paziente per capire l’esperienza che sta vivendo
al di la di una superficiale ed inutile valutazione numerica. La Terapia del
dolore ha il compito di curare il dolore in tutte le forme in cui si presenta,
acuto o cronico che sia, riducendolo per restituire il paziente ad una vita attiva.
A volte le terapie, benché opportunamente applicate, non sono rapidamente
efficaci o richiedono un continuo controllo, chiedendo al “clinico” un
ulteriore compito ancor più complesso dei precedenti. Egli deve saper gestire
una relazione terapeutica di lunga durata costellata da parziali successi e
temporanei insuccessi, trovando di volta in volta una soluzione appropriata.
Tutto questo richiede una lunga preparazione per colui che vuole esercitare
questa disciplina specialistica non ancora conosciuta e riconosciuta.
*Medico. Consulente presso l'Unità di Terapia del Dolore
Istituti Clinici Scientifici Maugeri - Pavia
[Pubblicazione venerdì 18 dicembre 2020]
*
OSSIGENO-OZONO TERAPIA
di
Teodosio De Bonis*
Un
presidio medico-terapeutico prezioso e sicuro
L’Ossigeno-Ozono
Terapia è una terapia medico-fisica basata sull’erogazione di una certa
quantità di ozono nell’organismo attraverso varie tecniche.
Questa
pratica medica migliora il trasporto e l’utilizzo di ossigeno arricchito (vero
carburante cellulare) in tutto il corpo o in parte di esso. L’ozono, una delle
sostanze gassose più studiate, è un derivato dell’ossigeno, per l’esattezza è
la molecola triatomica dell’ossigeno che si forma in seguito ad una scarica
elettrica (da 5 a 13 megavolt)
3O2
+ 68.000 cal. 2 O3
È
un gas instabile con breve emivita (40 min. a20°C) dall’odore caratteristico
pungente. (Ozein-mandare odore). La paternità della scoperta dell’ozono è
attribuita a Cristian Friedrich Schonbein, chimico nato Metzingen, vicino
all’odierna Stoccarda, il 18 ottobre 1799. Schonbein è ricordato come la prima
persona che studiò i meccanismi di reazione fra materia organica e ozono.
L’invenzione
brevettata nel 1847 da parte di Werner von Siemens del cosiddetto tubo di
superinduzione, cioè del sistema per la preparazione estemporanea dell’ozono,
apre la via all’utilizzo dell’ozono in ambito chimico-clinico-sperimentale. Lo
stesso scienziato scrisse un libro sull’applicazione dell’ozono in acqua. Il
merito di evidenziare il potere disinfettante dell’ozono va ascritto al dr
Kleinmann. Il fisico-chimico-matematico Joachim Hansler nel 1957, grazie alle
sue vaste conoscenze di scienze di base, mise a punto il primo generatore di
ozono valido per l’uso medico.
Date
importanti
Nel 1924 G. Dobson costruì
il primo spettrofotometro dal quale discese il fotometro con il quale a
misurare in tempo reale l’esatta concentrazione di ozono.
L’uso di ozono negli Stati
Uniti risale al 1940
Nel
1961 il dott. Hans Wolff ha introdotto le tecniche della autoemoterapia
maggiore e minore (non entro in particolari tecnici, è sufficiente sapere che
le suddette non vanno confuse con il termine di trasfusione. Il sangue è solo
del paziente. A questa tecnica possono sottoporsi anche i Testimoni di Geova,
tanto per chiarire).
Nel 1977 il dr Renate
Viegahn fornisce una panoramica tecnica
di
azione dell’ozono nel corpo.
Nel 1979 il dr George
Freibott ha iniziato a trattare il primo paziente di AIDS con l’ozono.
Nel 1980 il dr Horst Kief
segnala la positività dell’ozono nella cura dell’AIDS.
Nel 1987 il dr Rilling e
il dr Viebahn pubblicano “L’uso di ozono
in Medicina” il testo standard
sull’argomento.
Nel 1998 la US Environmental
Protection Agency, in collaborazione con il Safe Drinking Water Act del 1991,
ha confermato l’efficacia nel liberare l’acqua dagli agenti patogeni e dal
Cryptosporidium cloro resistente. Molte città, fra cui Los Angeles, stanno
usando l’ozono per disinfettare le loro riserve di acqua.
Gli
Italiani attraverso la SIOOT, la Nuova FIO, l’OSA, la Scuola di Napoli del prof.
Luongo, di Pavia e di Siena del compianto prof. Velio Bocci hanno dato un
validissimo contributo alla ricerca clinico-sperimentale dell’ozono.
La
patria dell’ossigeno- ozono terapia è Cuba, là sono stati condotte meticolose
ricerche; gli studi e i riscontri clinici che son seguiti, hanno permesso la
validazione dei primi protocolli terapeutici.
L’Italia,
invece, è la patria dell’ossigeno-ozono terapia per il trattamento dell’ernia
del disco, delle ulcere e decubiti vascolari e, recentemente, dei disturbi del neurovascolari
(ictus e demenza).
Nel 2006 il Consiglio
Superiore di Sanità promuove e viene depositata una Consensus Conference “Ossigeno-ozono terapia nel trattamento delle lombosciatalgie
da ernia discale con tecnica iniettiva intramuscolare paravertebrale”. Ne è scaturito un particolareggiato
protocollo nel quale si indicano i tempi, i dosaggi, le modalità di applicazione
e i costi dell’ozono nel trattamento dell’ernia discale e/o protrusioni che
portano alla risoluzione del problema nel 90-94%. Efficacia e costi contenuti giustificherebbero
l’impiego dell’ossigeno-ozono terapia in pazienti non operabili in cui si
avrebbe una consistente riduzione dell’ernia. Per le patologie batteriche e virali, infiammatorie e circolatorie
si raggiungono valori percentualmente superiori.
Oggi
l’Ozono-terapia è un presidio medico riconosciuto in molte nazioni: Germania,
Francia, Italia, Russia Romania, Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Bulgaria,
Israele, Cuba, Giappone, Messico, Cina e negli Stati Uniti, e senza ombra di
dubbio l’ozono ha dimostrato di essere il più sicuro farmaco mai concepito in
terapia medica.
La
miscela viene prodotta da particolari apparecchiature, validate dalle società
scientifiche e dal ministero della salute, ed è preparata a secondo delle
patologie. È una terapia prettamente medica e viene effettuata da medici che
abbiano un iter formativo che prevede vari stati: Master di I e di II livello;
Corsi di Perfezionamento e Corsi Base e di Aggiornamento.
A
differenza dei comuni farmaci, che agiscono con un meccanismo recettoriale
secondo i criteri dell’azione di massa, l’O3 si comporta come un pro-farmaco
che attiva una miriade di eventi sub-cellulari, molto dei quali in gran parte
già delineati ma molti altri non ancora ben definiti.
L’ozono
non è un radicale libero, non ha
elettroni spaiati sull’orbita esterna ma è un forte ossidante al terzo posto
dopo il fluoro (fluorina) e il persolfato.
Presenta
le seguenti caratteristiche:
Si
scioglie nell’acqua e rimane stabile per 24 h (quindi il suo utilizzo come
disinfettante orale, vaginale, rettale e cutaneo). L’ozono a contatto con il
plasma e con le componenti lipoproteiche forma H2O2 e LOP 2O2- +2H- maggiore H2O2+
O2 L’H2 O2 assicura l’azione batteriostatica e battericida dei leucociti
polimorfonucleati Respiratory burst (effetto antimicrobico dell’ozono). I LOP
(prodotti finali dell’ossidazione lipidica) hanno attività inducente e di
riattivazione delle varie funzioni metaboliche, tra cui l’azione
antiinfiammatoria ed antalgica.
Le
vie di somministrazione sono:
per
contatto e fumigazione, tramite l’uso di cilindri, campane di vetro o sacchetti
di plastica resi opportunamente stagni, riempiti con una miscela gassosa ricca
di ozono.
Sistemica:
iniezioni intramuscolari, sottocutanee, intradermiche ed intra-articolare;
grande autoemoterapia e piccola autoterapia. Nella grande auto-emoterpia, si
preleva sangue venoso che viene convogliato in un contenitore e dopo
ozonizzazione viene riimmesso per via endovenosa in circolo. Nella piccola auto-emoterapia,
invece, si utilizza una piccola quantità di sangue del paziente che, dopo l’ozonizzazione,
viene con una intramuscolare somministrata al paziente.
Insufflazione:
tramite un minuscolo tubo una miscela gassosa ricca di ozono viene insufflata
nelle cavità naturali.
Acqua
ozonizzata: bere l’acqua iper-ozonizzata, prodotta da apparecchi ozonizzatori,
preferibilmente lontano dai pasti serve per disintossicare il corpo,
riequilibrare la flora batterica, migliorare la funzionalità intestinale e
rafforzare le difese immunitarie.
Non
esistono effetti collaterali di rilievo se il trattamento è correttamente
eseguito. L’ossigeno-ozono non causa reazioni allergiche di nessun tipo.
Come
ebbe a dire il prof. Payr: “Ciò che non può il farmaco e/o l’ossigeno, può
l’ozono”.
*Medico chirurgo,
specialista in Anestesia e Rianimazione.
Esperto
di Medicina Sistemica – Master di 2° livello in
Ossigeno-Ozono
Terapia. Fondatore e primo presidente
Della
O.S.A. – Ozone Scientific Academy
[Pubblicazione giovedì 17 dicembre 2020]
*
LA DEONTOLOGIA IN TEMPI DI CORONAVIRUS
di Giuseppe
Landonio*
Giuseppe Landonio (Pino)
L’attuale pandemia, con le sue
disastrose conseguenze, ha posto in luce alcune delle contraddizioni del nostro
servizio sanitario nazionale, e lombardo in particolare, meritevoli di essere
valutate, approfondite e, soprattutto, modificate. E ha molto stressato il
ruolo di alcune figure professionali, a cominciare dai medici che, non a caso,
hanno pagato uno dei prezzi più alti alla pandemia.
Il
numero dei medici che hanno perso la vita durante la prima e la seconda ondata
del contagio (ben oltre 200) rappresenta un’accusa pesante per l’intero
sistema: i medici di medicina generale, la categoria più esposta, ma anche
molti medici ospedalieri, sono stati lasciati soli e a mani nude,
nell’affrontare soprattutto la prima fase della pandemia. Ricordo una lettera
pubblicata sul New England Journal of Medicine da un gruppo di medici
dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo già nel marzo scorso, dunque nel
pieno della “prima ondata”, che lanciava un grido di dolore per quanto stava
accadendo in Lombardia, e nella loro realtà in particolare. Concludeva: “Questa non è solo una emergenza sanitaria,
ma una vera e propria catastrofe umanitaria, che coinvolge l’intera sanità pubblica.
Richiede il contributo di sociologi, epidemiologi, esperti in logistica,
psicologi, operatori sociali… Il lockdown è una misura certamente
indispensabile: in Cina ha ridotto di circa il 60% la trasmissione del virus.
Ma un altro picco è ancora possibile quando si ridurranno le misure restrittive
e si riprenderanno le attività lavorative. Per questo è necessario un piano di
lungo termine per contrastare la presente e futura pandemia. Il coronavirus è
l’Ebola dei ricchi, e richiede un impegno coordinato a livello transnazionale.
Non è particolarmente letale, ma è altamente contagioso. La catastrofe della
Lombardia può accadere ovunque”. Parole sensate e perfino profetiche,
col senno di poi.
A
questa lettera rispondeva Monica Imi, un medico bergamasco, che da 15 anni vive
e lavora in Uganda, terra di ebola, malaria, Hiv, tubercolosi, febbre gialla,
colera, ecc, dicendo:
“È sconcertante vedere
quello che sta succedendo in Lombardia, a Bergamo. Nessuno se lo aspettava: si
pensava probabilmente che essere ricchi e “sviluppati” tenesse al sicuro e che
le epidemie fossero un problema dei Paesi poveri… Ma qualcuno ha mai pensato che forse il
sistema sanitario non è così eccellente come tutti (per lo meno quelli che
parlano ai media) amano ripetere e pensare? Covid-19 non è un problema clinico, è un
problema di salute pubblica, di organizzazione dei servizi, di uso razionale
delle risorse. Che sono tante, ma non infinite: è ora che qualcuno lo dica, e
che i famosi “tagli” alla sanità siano fatti con razionalità e giustizia, non
in base a chi urla di più. Molte risorse sono state concentrate sugli ospedali, ma la vera
battaglia è sul territorio, che è stato lasciato a sé stesso. La
sanità sul territorio va riorganizzata. Il medico singolo, indipendente e
autonomo, non funziona più: la medicina è troppo complessa e ampia. Ospedale e
territorio vanno integrati, la
medicina di famiglia deve diventare il punto di riferimento, con l’ospedale
come livello secondario di cura. Servono strutture sul
territorio che gestiscano servizi di base, ambulatori, piccole urgenze,
prevenzione, con medici di famiglia in équipe, supportati eventualmente da
specialisti a patto di mantenere la responsabilità della cura”.
Giuseppe Landonio (Pino) |
Parole
lucide, assolutamente condivisibili, che la politica dovrebbe osservare con
grande attenzione. Alcune domande, d’altra parte, sono assolutamente legittime,
e devono scuotere non solo le nostre coscienze, ma l’inerzia della classe
politica, che deve tornare a discutere e a fare scelte che salvaguardino un bene
primario come la sanità (e la scuola, aggiungerei).
Innanzitutto:
ci possiamo permettere, come è emerso in modo evidente in questa pandemia,
venti diversi servizi sanitari? Per
anni si è parlato di "devolvere" pezzi crescenti di potere sulla
sanità, lasciando al governo solo la definizione del fondo sanitario nazionale
e dei livelli minimi di assistenza (i LEA), mentre il potere organizzativo,
amministrativo e gestionale è tutto in carico alle Regioni. Anche recentemente Lombardia,
Veneto ed Emilia hanno molto premuto su Governo per accentuare la leva
autonomista. Oggi le
conseguenze tragiche della epidemia, e lo spettacolo offerto dalle contorsioni
dei vari “governatori” regionali, suggeriscono con forza la necessità di una devoluzione
di segno contrario. Ossia tornare a un maggiore centralismo, non limitato alla
definizione dei LEA, in modo da attenuare le differenze esistenti tra regioni
del nord e quelle del sud, e in genere tra regione e regione. Almeno nelle
situazioni di grande emergenza la cabina di regia deve essere unica, e non
affidata a decisioni “locali”.
In
secondo luogo: molte regioni, a cominciare dalla Lombardia, hanno costruito
modelli sanitari che, nei fatti, hanno privilegiato il privato rispetto al
pubblico. Oggi è necessario tornare ad assegnare al pubblico il ruolo che è
indispensabile per realizzare un sistema davvero generalista ed equo. Lasciando
al privato un ruolo di reale sussidiarietà e non di competizione col pubblico
(oltretutto partendo, come oggi succede, da condizioni di favore nella scelta
dei pazienti da trattare e nelle modalità di acquisizione e di trattamento del
personale, medico e non).
Terzo:
la prevenzione, soprattutto in alcune Regioni, è stata molto sacrificata:
mentre deve rappresentare un asse portante del servizio sanitario, in termini
di risorse e di unitarietà dei servizi. In particolare la Lombardia che si era
distinta per le sperimentazioni più avanzate già prima dell’avvento della
riforma sanitaria (SMAL, consultori, CSZ) e che ha sprecato in questi anni un
patrimonio di esperienze e di professionalità, deve risalire la china e darsi
un assetto diversamente efficiente.
Opera di Roberto Marras |
Proprio la carenza dei medici è venuta pesantemente alla luce in questa pandemia: quanti sono i medici di medicina generale andati in pensione e che non possono essere sostituiti? Quanti i medici ospedalieri, soprattutto di alcune specialità come l’anestesia e la rianimazione, oggi carenti? Pesa la politica pluriennale dei tagli sulle piante organiche, ma anche i limiti assurdi posti alla formazione: tetto sulle iscrizioni a medicina; esami molto selettivi per l’accesso alle specialità; disincentivazione di alcuni ruoli, come ad esempio quello dei medici di medicina generali trattati, sostanzialmente, come “medici di serie B”. Le responsabilità di tutto questo pesano su (quasi) tutti i governi che si sono succeduti, di destra o di sinistra che fossero, e hanno causato un vulnus che non potrà essere sanato se non nel giro di qualche lustro.
Ma altri problemi hanno pesato sul ruolo e sulle scelte dei medici in servizio nell’attuale pandemia (e su quelli reclutati surrettiziamente dalla pensione per tappare i buchi più evidenti), e chiamano in causa la deontologia professionale, messa a dura prova nelle fasi più acute e critiche del contagio. Qualcuno l’ha chiamata la “solitudine del medico”.
Emily Dickinson |
Emily Dickinson, la grande poetessa americana, diceva, in una poesia folgorante: “I chirurghi stiano molto attenti / quando prendono il bisturi! / Sotto le loro abili incisioni / si agita l’imputato: la vita!”. Ho ripensato a lei leggendo della dottoressa Lorna Breen, pure americana, che a 49 anni si è suicidata non potendo sopportare il carico psicologico, deontologico, umano delle troppe persone da assistere e cui non poteva garantire le cure necessarie. La stessa drammatica condizione hanno vissuto gli infermieri del triage e i medici delle terapie intensive nei giorni più tragici della emergenza sanitaria, a Bergamo come a Milano. Chi trattare, e come, e a chi dare la precedenza? Non penso, non voglio pensare che il criterio sia stato quello della età anagrafica. Penso che valutazioni come il performance status, la coesistenza di patologie, la speranza di vita, la possibilità concreta di reggere terapie invasive, abbiano informato le scelte, comunque non facili e dolorose, di chi in quei momenti si è trovato a decidere. L'insegnamento che dobbiamo trarre dalla pandemia è che dobbiamo prevenire la necessità di queste scelte: più letti di terapia intensiva, più respiratori, più dispositivi di protezione individuali sono elementi indispensabili di una organizzazione sanitaria adeguata. Ma anche più prevenzione, più servizi territoriali, migliore organizzazione e valorizzazione del ruolo dei medici di medicina generale.
Ma c’è di più. Proprio nei giorni più acuti della prima fase mi è giunta la lettera della moglie di un mio antico paziente, morto in oncologia circa vent’anni fa. Diceva, tra l’altro: “ma più di tutto ricordo quel pomeriggio in cui è entrato in camera, si è seduto sul letto di Franco e mi ha detto vada a farsi un giretto che io chiacchiero un po’ con lui, e quando sono rientrata, franco mi ha detto testualmente, riferendosi a lei “quello è un uomo”. Devo dire, onestamente, che non ricordo l’episodio, e che mi ha fatto ovviamente piacere l’apprezzamento contenuto nella lettera. Ma non ha fatto che rimarcare la differenza abissale tra la modalità di cura e di assistenza allora possibile e quella attuale. La parola, il contatto umano, la possibilità di esprimere una vicinanza reale: tutto questo oggi è confinato a uno sguardo, alla possibilità di incrociare gli occhi del malato o, per il malato, quelli del medico o dell’infermiere. Davvero una perfidia estrema del virus, grave quasi come la difficoltà di respiro. Questa privazione della solidarietà umana, questa condanna alla solitudine, il modo in cui molti, troppi, sono morti senza neppure avere il conforto di una parola, perfino la sacralità delle esequie, è la testimonianza che questo virus è una delle sciagure maggiori che abbiano colpito l’umanità, al pari di una guerra, e senza vedere in faccia il nemico.
Roberto Marras "This is love" |
La cosa che più mi ha colpito è proprio la distanza tra il modo di fare il medico che ho conosciuto e quello che si può praticare in questa pandemia. A parte i medici di medicina generale, oggi “costretti” a curare da remoto, solo telefonando ai pazienti, per i medici, e gli infermieri, che stanno nelle intensive o nelle sub intensive c’è l’obbligo di bardarsi con tute-scafandro, che lasciano intravedere solo gli occhi, come fossero dei burka sanitari. Ed è con gli occhi, e solo con quelli che può nascere l’empatia con i malati. Che, a loro volta, costretti dalle mascherine o dalle campane, o addirittura dai respiratori, solo con gli occhi possono esprimere le loro paure e le loro preghiere.
Per non essere solo pessimisti e disfattisti, ma per ricavare un insegnamento anche dall’attuale disastro, dobbiamo ripensare con attenzione al ruolo degli operatori che lavorano in sanità. A partire dalla figura dell'Infermiere di comunità, che possa operare nel territorio, a contatto coi medici, e che possa recarsi al domicilio delle persone, soprattutto anziane e magari non autosufficienti. Il modello della "ospedalizzazione domiciliare" in atto nel trattamento dei pazienti oncologici in fase avanzata può essere uno strumento utile su cui lavorare. Ma soprattutto rivedendo alcuni aspetti salienti della professione medica.
Oltre
alle modifiche auspicabili dei sistemi formativi, dobbiamo riflettere sul fatto
che i Medici di
Medicina Generale sono stati trasformati, nel tempo, in burocrati e
prescrittori invece che veri presidi di controllo e intervento sanitario. È il
caso di ripensare, proteggere e dare nuova dignità al loro lavoro. La medicina
di gruppo, opportunamente rafforzata e tutelata, deve diventare il presidio
fondamentale a livello territoriale per diagnosticare, curare, prevenire.
Per
quanto riguarda poi lo specialista ospedaliero, e soprattutto le figure
chiamate ad assumere le responsabilità più rilevanti, che ho prima richiamato,
occorre combattere lo stigma della “solitudine”: la prima
indicazione dovrebbe essere quella di non lasciare solo il medico nella scelta,
e soprattutto di non caricare il peso della decisione sulle spalle del medico
che deve trattare. Un triage di esperti dovrebbe garantire la
selezione; lo stesso rispondere a un comitato etico; infine le norme di
selezione dovrebbero essere riviste non solo in base all'emergenza, ma adattate
alle nuove acquisizioni scientifiche. Il
criterio fondamentale dovrebbe essere quello di rendere
trasparenti e condivise le decisioni. Solo così si potrà superare il muro della
diffidenza e dell'angoscia - dai medici cinesi impediti a parlare, a quelli
americani coinvolti in false promesse, a quelli italiani limitati dalle carenze
di mezzi - L'impreparazione è la culla del panico; e solo essendo adeguatamente
preparati potremo uscire dall'attuale pandemia.
Questo, credo, sarà la migliore risposta per ridare vita,
senso e compiutezza al nostro “giuramento di Ippocrate”.
*Giuseppe Landonio (Pino),
medico, specializzato in Ematologia ed Oncologia. Ha lavorato all’Ospedale
Niguarda (MI) dal 1975 al 2005. Ha scritto, tra l’altro, Modello Milano (Laurana, 2018) e Modello Lombardia? La sanità
regionale tra eccellenze
e criticità (Ornitorinco, 2020).
[Pubblicazione lunedì 7 dicembre 2020]
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