UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

IL GIURAMENTO DI IPPOCRATE

CURA, ASCOLTO, SOSTEGNO, TUTELA
di Alessandro Mario Malnati


 

Alessandro Mario Malnati

L’Associazione di promozione sociale CAST aps, la cui missione statutaria è quella di offrire tutela alle persone vittime di trattamenti sanitari incongrui o di danni da assunzione di farmaci, vede la luce nel novembre del 2022 ma nasce ben prima come frutto di un lento, progressivo maturare di consapevolezza a fronte della quotidiana vicinanza alla sofferenza, allo smarrimento, allo sgomento all’angoscia di tanti pazienti, tanti assistiti, tante persone che si sono ritrovate sole e perdute, ignorate ed invisibili agli occhi di un mondo che non li riconosce più e nel quale loro non riescono più a riconoscersi. Ne fanno oggi parte come soci fondatori Alessandro Mario Malnati, che ne è presidente, Claudia Faggi, vicepresidente, Samuela Besana, Donatella De Nardo, Antonietta Linzi, Donatella Mecca.
C.A.S.T. costituisce l’acronimo delle quattro nostre missioni Cura, Ascolto, Sostegno, Tutela nella convinzione che solo unendo sensibilità, volontà e competenze di diverse figure professionali ed umane si possa dare a coloro che ne abbiano bisogno una vera risposta; perché l’individuo non è solo corpo da curare, anima da ascoltare, persona da sostenere, danneggiato da tutelare ma, l’individuo, è tutto questo e molto di più.
Le attività associative abbracciano quindi quattro aree di intervento:
la Cura, per mezzo di attività diagnostiche e terapeutiche, anche a scopo preventivo, volte a favore i danneggiati anche per mezzo di sostegno ed incentivo alle attività di ricerca, divulgazione, informazione;
l’Ascolto, attraverso azioni di accoglienza e di conforto psicologico a favore di quei soggetti che a seguito dei danni riportati abbiano sviluppato anche situazioni che necessitino di aiuto specialistico;
il Sostegno, guidando ed indirizzando i danneggiati nei rapporti con le Amministrazioni e/o gli Enti di riferimento, coadiuvandoli nel disbrigo degli incombenti amministrativi, burocratici o di altra natura utili e/o necessari al fine di preservarne gli interessi in relazione ai pregiudizi patiti; offrendo loro forme di sostegno al reddito e contributi economici;
la Tutela, a mezzo di attività di difesa dei diritti e degli interessi legittimi dei danneggiati e del riconoscimento di tali posizioni sia singolarmente intese sia attraverso opera di consulenza ed orientamento svolta nei riguardi delle Autorità.
Tutto ciò per mezzo di un sistema di convenzioni con professionisti medici, sanitari, psicologi e psicoterapeuti, consulenti del lavoro, avvocati, sociologi e volontari ed assumendo un ruolo di attiva partecipazione e di sostegno nell’ambito di iniziative di divulgazione, di informazione, di formazione e di ricerca scientifica.
Un progetto che nasce innanzitutto dal cuore, che si distingue da altri per la ferma volontà di offrire aiuto e riferimento a tutto campo ma che si caratterizza, rispetto a tante altre realtà, per la determinazione e l’attenzione che viene spesa nel garantire che l’operare associativo sia ispirato a criteri, principi e regole rigorosamente scientifiche: di vera scienza, si badi, quella scienza che è insofferente ad ogni indebito condizionamento, consigliata al metodo sperimentale, indipendente dagli interessi partigiani, aperta al confronto ed alla costante messa in discussione di ogni “verità” fideisticamente enunciata.
La C.A.S.T. aps si distingue, infatti, per le attività di sostegno e di finanziamento di progetti di ricerca scientifica e di sperimentazione clinica, nonché per l’eloquente presenza di un Comitato scientifico, ancora in fase di formazione e di ampliamento, che costituisce e costituirà sempre più l’elemento pulsante della Associazione per indirizzarne, ispirarne e spronarne l’attività e che, già al momento attuale, annovera fra i suoi membri professionisti di indubbia competenza e reputazione: il dott. Alfredo Borghi, internista, medico di medicina generale; il dott. Teodosio de Bonis, medico anestesista rianimatore, direttore scientifico sanitario Daphne Lab, Master II livello ossigeno-ozono terapia, PhD in Clinical Research; il Prof. Mauro Mantovani, medico docente di immunologia cellulare e molecolare, componente della British Society for Immunology; il prof. G. Paolo Soru, psicologo psicoterapeuta, docente di Psicologia presso l’Università di Camerino, Direttore del Dipartimento di Psicologia Clinica e del Dipartimento di psicologia Sociale e Applicata della LIUM di Bellinzona.  

[Pubblicazione 12 marzo 2023] 

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CI RIPROVIAMO
di Angelo Gaccione*


 
Ci riproviamo per la seconda volta e a distanza di un po’ di anni. Il primo tentativo è stato infruttuoso: dopo appena un solo articolo firmato da un medico di cui conservo molta stima per la sua umanità, dovemmo chiudere la rubrica che anche allora portava questo nome. Pressioni in ospedale, ostilità dei colleghi. Brutto segno. Eppure non esiste altro campo come quello della medicina in cui la ricerca, la sperimentazione, l’apertura mentale, il dubbio, la curiosità, il rifiuto di ogni dogma, la libertà di esplorazione, la collaborazione fra saperi, la sinergia fra colleghi, il supporto reciproco, lo scambio di informazioni, le competenze tecnologiche, l’arte della pratica chirurgica, la sapienza clinica, quella chimica, l’esperienza fatta sul campo, siano ad essa tanto necessari. Nessun’altra disciplina è chiamata ad essere tanto legata al criterio di umanità, al senso etico, al sentimento morale, alla solidarietà fra esseri appartenenti alla medesima specie. La medicina agisce sul corpo vivo di un essere umano e si pone su un crinale che sta in bilico tra la vita e la morte; il dolore e la sua assenza; il benessere e il malessere; la gioia più luminosa o la disperazione più tetra. Il successo terapeutico non salva una vita sola, salva famiglie intere, legami preziosi, comunità. Un insuccesso medico precipita all’inferno e nel lutto un numero significativo di affetti che a quel singolo individuo sono legati. Mai potrò cancellare dalla mia memoria il gesto di una madre che baciando le mani al medico che aveva guarito la sua giovane figlia, gli disse con parole di riconoscenza: “Chi vu’ fiuriri!”, Che tu possa rifiorire!  
A quanti medici oggi una madre potrebbe rivolgere parole così delicate? Eppure la nostra fiducia in questa pratica e negli uomini che la esercitano (abbiamo volutamente scritto uomini, prima che professionisti o scienziati), rimane intatta perché siamo convinti che essendo di carne e sangue anche loro, sono soggetti allo stesso destino di chiunque: hanno sentimenti, hanno legami affettivi, hanno un corpo e una mente soggetta al decadimento, si ammalano come il più miserabile dei mortali, hanno un tempo limitato di vita e sono transeunti come tutto ciò che esiste in natura. Al senso del dovere noi aggiungiamo il senso d’umanità, ed a questo li invitiamo come uomini sapienti e versati nella loro disciplina, malgrado la brutta piega che un uso esageratamente mercificatorio ha impresso alla medicina in questo ultimo mezzo secolo. È con questa convinzione e con questa speranza che facciamo il secondo tentativo di chiamare a raccolta il meglio della categoria, in un confronto che ci auguriamo scevro da ogni pregiudizio, aperto e leale. Ne avrà giovamento la medicina e ne avrà giovamento la collettività. 

*Scrittore
[Pubblicazione dicembre 2020]


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MEDICINA E UMANITÀ
di Angelo Gaccione*
https://libertariam.blogspot.com/2021/04/medicina-e-umanita-diangelo-gaccione.html 

*Scrittore
[Pubblicazione mercoledì 14 aprile 2021]


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SALUTE
di Marco Vitale*
Marco Vitale (“Odissea” martedì 23 marzo 2021)
https://libertariam.blogspot.com/2021/03/salute-dimarco-vitale-silvio-garattini.html

*Economista
[Pubblicazione martedì 23 marzo 2021]

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FARMACI E SALUTE
Conversazione con il prof. Silvio Garattini


Silvio Garattini
 
Odissea: Professore, le mamme al primo cenno di febbre danno la tachipirina ai loro figli. Molte donne, nei primi tre mesi di gravidanza, spesso, fanno uso di questo antipiretico. Ci può spiegare quando vada usato questo farmaco? Gli effetti sul feto e sul sistema immunitario dei bambini, è reale o ipotetico? Ci sono studi randomizzati che ne codificano in sicurezza l’uso?
 
Garattini: Il principio attivo è il paracetamolo, sintetizzato per la prima volta nel 1878, che ha un’attività antifebbrile ed un’attività antidolore. E’ presente in molti prodotti da solo o in associazione, a varie dosi somministrabili per via orale, rettale o intravenosa. Ha una emivita di 1-4 ore il che vuol dire che spesso va assunto più volte al giorno. Viene eliminato per via renale e quindi le dosi devono essere ridotte in caso di insufficienza renale. È relativamente ben tollerato, eccetto che nei casi di epatopatia. Infatti nel fegato viene trasformato in un metabolita che è tossico per il fegato. Tuttavia si tratta di casi rari, perché non è controindicato in gravidanza, né in età pediatrica. L’effetto antifebbrile è molto rapido, mentre l’azione antidolorifica è modesta. La dose singola non deve superare 1 grammo e la dose giornaliera non deve superare i 3 grammi nell’adulto. Una dose di 10-15 grammi può essere fatale. L’antidoto in caso di avvelenamento è l’acetilcisteina o il glutatione.
 
Odissea: Professore, un miglioramento della qualità ambientale: suolo, aria e terra; una medicina preventiva che valuti l’equilibrio psicofisico dell’individuo, la PNEIS (psico-neuro-endocrino-immuno-sistemica) potrebbe ridurre se non eliminare i futuri “attacchi dei virus “cattivi”?
 
Garattini: Certamente l’ambiente ha una grande importanza per la salute. Le buone abitudini di vita che contemplano un’alimentazione varia e moderata, un peso normale, esercizio fisico, attività intellettuale, almeno 7 ore di sonno, abolizione di tabacco, alcol e droghe, sono fattori importanti per evitare almeno il 50 percento delle malattie croniche, diabete, insufficienza cardiaca, renale, respiratoria e tumori.

Silvio Garattini
 
Odissea: L’arabesco unico delle impronte digitali (non c’è individuo che ne abbia uno uguale ad un altro); i gruppi sanguigni ci dicono che l’uomo ha una sua specificità. Nella formulazione di nuovi farmaci, si tiene presente di questa realtà? E molti dei farmaci che l’industria immette periodicamente sul mercato è realmente efficace?
 
Garattini: La medicina personalizzata tende ad utilizzare i farmaci in base alle caratteristiche individuali. Sono molti i dati che non conosciamo, ad esempio le dosi e la durata di trattamento ottimali, le differenze di genere. Mancano studi comparativi per farmaci che hanno le stesse indicazioni terapeutiche. Si dovrebbero realizzare più studi clinici indipendenti per ottenere informazioni che non interessano all’industria.
La legislazione europea permette di approvare un farmaco sulla base di tre caratteristiche: “qualità, efficacia e sicurezza”, il che non ci dice se un farmaco è meglio o peggio di quelli già esistenti. Se si dicesse “qualità, efficacia, sicurezza e valore terapeutico aggiunto”, il 70 percento dei farmaci non verrebbe approvato.
 
Odissea: Corrisponde al vero che l’Italia, dopo Cina ed India, sia la terza produttrice di farmaci al mondo? Sono, quelle italiane, industrie che producono su licenza o su propri brevetti?
 
Garattini: L’Italia ha una buona tradizione di ricerca chimica e quindi produce anche farmaci. Tuttavia sono farmaci scoperti da altri o il cui brevetto è scaduto. L’industria farmaceutica italiana non contribuisce in modo significativo all’innovazione anche perché i nostri Governi pensano che la ricerca sia una spesa anziché un investimento. Infatti abbiamo la metà dei ricercatori rispetto alla media dei Paesi europei. 

Silvio Garattini
 
Odissea: Prevenire è meglio che curare, recita un efficace messaggio mediatico. Si potrà ritornare a questa medicina un po’ più ippocratica e meno finanziaria?
Dal medico (fatte le dovute eccezioni) si deve andare quando si è sani, non quando il male è già acuto e manifesto.
 
Garattini: Occorre un grande cambiamento culturale. Oggi la medicina è un grande mercato e quindi non si occupa delle prevenzioni che riduce il mercato. I Governi speculano sulle cattive abitudini di vita incassando soldi su fumo, alcol, giochi d’azzardo e così via. La malattia deve essere considerata un fallimento della medicina. Siamo una popolazione con una lunga durata di vita, 81 anni per i maschi e 85 per le femmine, ma se consideriamo la durata di vita “sana”, scendiamo nella classifica perché abbiamo 6-8 anni di cattiva qualità di vita a causa di malattie.

Istituto Mario Negri

[Nato a Bergamo il 12 novembre del 1928, Silvio Angelo Garattini è scienziato e farmacologo di chiara fama. È presidente e fondatore dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche "Mario Negri" con sede a Milano] 

*Intervista a cura del dr T. De Bonis

[Pubblicazione sabato 6 marzo 2021]

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L’ATTUALITÀ DEL GIURAMENTO DI IPPOCRATE
di Maria Concetta del Beato* 


Maria Concetta Del Beato
 
Fin dall’antichità il ruolo del medico, essere umano sapiente con una rigida etica e con alti principi di umanità e solidarietà, è stato quello di garantire il benessere del paziente. Ogni medico deve avere rispetto della vita e della dignità del malato ed applicare nell’esercizio della professione perizia e diligenza. Deve relazionarsi con il malato in maniera comprensibile e completa attraverso l’ascolto e la comunicazione seguendo il principio della fiducia e rispettando i diritti della persona. Questi e altri principi sono riportati nel giuramento d'Ippocrate che per i medici della vecchia scuola rappresenta il testo sacro da cui prendere ispirazione tutti i giorni. 
Negli anni ’80 il mio maestro dr. Eugenio Suardi mi trasmetteva questi concetti e l’applicazione degli stessi era facilitata dal grande rispetto che i pazienti avevano per la figura del medico.
Come medico di medicina generale presente sul territorio da 38 anni, ho dedicato la mia vita alla cura delle persone, al confronto con i pazienti, allo studio continuo per migliorare diagnosi e terapie, rispettando i principi della buona pratica e cercando di mantenere il rapporto di fiducia che si è instaurato nel tempo.
Il nostro lavoro è fatto soprattutto di contatto, di condivisione e complicità con le persone. Conosciamo le problematiche cliniche ma anche il vissuto, le sensazioni e le emozioni dei nostri pazienti e tutto questo rende la nostra professione speciale. Con il cambiamento del sistema sanitario, con l’avvento della tecnologia e con il ruolo più attivo dei pazienti nel conoscere i percorsi di cura attraverso Internet alcuni principi del giuramento professionale hanno perso il loro significato e anche il rapporto con il malato si è affidato ai social, trascurando invece quello interpersonale. 
Il paziente oggi non è più visto come un individuo unico con i suoi bisogni, ma è stato sostituito dalla singola malattia. Inoltre, la medicina moderna, se da un lato ha migliorato e personalizzato i percorsi di cura, dall’altro ha reso il medico più tecnologico e meno comunicativo verso il paziente, che si rivolge sempre più spesso al web, da dove riceve anche false informazioni. Bisogna sottolineare che la tecnologica deve rappresentare un aiuto all’attività medica, ma non deve mai sostituire il rapporto tra medico e paziente.



Con l’arrivo della pandemia da SARS Cov 2 il lavoro del medico è ulteriormente cambiato e molte criticità si sono accentuate. 
I medici del territorio, che io rappresento, si sono trovati ad affrontare un nemico sconosciuto e invisibile senza difese (carenza di DPI) e senza armi (linee guida, presidi come l’ossigeno, mezzi di diagnosi come i tamponi), ma, nonostante tutto, abbiamo lottato rischiando noi stessi il contagio. Abbiamo potuto comunicare con i pazienti solo attraverso i social. Il contatto fisico è mancato e, presi dalla paura, abbiamo trascurato in alcuni casi anche la condivisione del dolore e delle fragilità del malato. Non abbiamo avuto il tempo di capire ciò che accadeva, tuttavia abbiamo agito curando al meglio ogni paziente, senza discriminazione alcuna. Con molta difficoltà abbiamo affrontato questa guerra cercando comunque di difendere la vita, tutelando il paziente e rispettandone la dignità, anche davanti alla morte. 
Io credo che con la pandemia sia arrivato anche il momento di riflettere, di rileggere il nostro passato, di ridare valore ai sani principi e recuperare ciò che abbiamo perso senza rendercene conto.
Magari il nostro giuramento di Ippocrate ritornerà attuale?
 

*Medico di Medicina Generale di Martinengo (Bg) 
[Pubblicazione venerdì 5 marzo 2021]

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L’INDUSTRIA DELLA SALUTE
PROSPERA SULLA MALATTIA


Roberto Alfieri

Conversazione con Roberto Alfieri, docente di politiche dei servizi sanitari e sociali presso l’università di Bergamo.  


Il ripensamento dei servizi territoriali di prevenzione, cura e accompagnamento.


Odissea. Perché la crisi scatenata dalla pandemia deve offrire l’occasione di un ripensamento del sistema sanitario?  
 
Alfieri. È necessario, soprattutto, riflettere. Spesso, e non solo in sanità, vengono proposte delle soluzioni ancora prima di avere pensato alla natura del problema e all’identità e finalità delle istituzioni deputate a dare risposta a quel problema. Ci si deve domandare, ad esempio, che cosa sono e a cosa servono i servizi sanitari. Occorre, quindi, prima di tutto, ragionare sul modo di intenderli. Li concepiamo come importanti settori dell’economia di mercato, ad alta intensità tecnologica, su cui è conveniente investire? Oppure, li pensiamo come un elemento essenziale di un sistema di sicurezza sociale: qualcosa che promuove la salute e cerca di restituircela quando la perdiamo?  
Ecco, dovremmo partire dalla esplicitazione di questa domanda e dalle risposte che diamo perché le soluzioni che in seguito andremo ad adottare dipendono direttamente da queste premesse che il più delle volte restano implicite.
  
Odissea. Puoi farci qualche esempio di soluzioni che non condividi proprio perché, secondo te, sono derivate da una concezione sbagliata dei servizi sanitari?  
 
Alfieri. La storia della sanità di questi ultimi decenni è costellata di momenti di crisi, ben prima dell’avvento del Covid-19, e non solo nel nostro Paese. Uno dei problemi più assidui è stato quello della sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale. I finanziamenti che venivano stanziati a favore della sanità non riuscivano a tenere il passo con l’aumento dei bisogni, coi progressi tecnologici e l’invecchiamento della popolazione. Negli anni ’90 sono state pensate queste principali soluzioni per rispondere al problema della sostenibilità finanziaria: la aziendalizzazione, la privatizzazione e la libera scelta dei cittadini. Si credeva, infatti, che il problema di una spesa eccessiva rispetto ai finanziamenti potesse essere superato grazie all’efficienza propria delle aziende e del settore privato.  Non si è pensato ai difetti nella prevenzione, nella appropriatezza e nel sotto-finanziamento. Ma queste soluzioni originavano da un’assunzione più o meno implicita, mai dichiarata apertamente. Si riteneva che i servizi sanitari appartenessero alla sfera dell’economia di mercato e ne costituissero un settore particolarmente importante. Anche per questi motivi non hanno funzionato. Le liste d’attesa e la qualità molto eterogenea dei servizi sanitari nelle diverse Regioni e ospedali stanno a testimoniarlo. 

 
Odissea. Cosa c’è di sbagliato nel ritenere che i servizi sanitari appartengano alla sfera dell’economia di mercato?  
 
Alfieri. Non si può negare che i servizi sanitari debbano prestare attenzione ai problemi dei costi e dell’efficienza, così come a quelli della domanda e dell’offerta. Su questi versanti l’aziendalizzazione poteva servire. Ma l’efficienza, ossia la capacità di minimizzare i costi di una data prestazione, va sempre subordinata all’efficacia, ossia alla capacità di quella prestazione di restituire guadagni di salute. In altre parole, al contrario di quello che succede, in sanità si deve fare solo ciò che serve. Non si devono creare bisogni fittizi per migliorare la performance economica di un ospedale. Piuttosto, le domande dei pazienti vanno spesso riorientate affinché coincidano coi loro veri bisogni di salute. La finalità dei servizi, a differenza di quella delle aziende, non è massimizzare i profitti, ma tutelare la salute.  
I servizi sanitari non possono essere assimilati alle aziende perché al loro interno deve prevalere un agire “discorsivo”, arricchito costantemente dalla parola che accompagna la prestazione. La relazione non può essere assimilata all’attrito. L’agire discorsivo deve fare uso anche della “techne”, ossia dell’abilità ad usare strumenti, ma si avvale, soprattutto, della “phronesis”, ossia della capacità di riconoscere le circostanze contestuali specifiche e di trovare le risposte più appropriate per le singole persone. L’autorità, inoltre, in ambito sanitario, scaturisce dall’autorevolezza. Le relazioni tra colleghi restano fondamentalmente di tipo consulenziale. Non sono gerarchiche come  nelle aziende. Possono diventare gerarchiche quando il clima lavorativo degenera, ma questa è solo una deriva negativa, l’eccezione che conferma la regola.  
L’assegnazione di un ruolo di maggior rilievo, riservato al privato in sanità, trascina con sé un cambiamento di scopo. Il profitto diventa il marchio del successo e prende il posto che dovrebbe essere riservato a salute, efficacia e appropriatezza. La libera scelta e la responsabilizzazione individuale, che rappresentano il mantra del mercato, diventano un miraggio illusorio in sanità perché le questioni sono troppo complesse per essere comprese fino in fondo. Lo squilibrio informativo e cognitivo tra professionisti e pazienti è incolmabile. Occorre, perciò, fidarsi, ma può diventare difficile in contesti caratterizzati da una crescita dei conflitti di interesse. I continui progressi  tecnologici, infatti, fanno circolare una grande quantità di denaro che può finire per corrompere: si può arrivare a forzare le indicazioni di un trattamento, a dimettere anticipatamente un malato, a fare troppo o troppo poco. Il mercato ha un potere corrosivo, inquina i beni che manipola perché li trasforma in merci, in strumenti di profitto e consumo.  
 
Odissea. Si può capire, quindi, seguendo il tuo ragionamento, che concepire i servizi sanitari come settori importanti dell’economia di mercato possa avere impatti rilevanti sui modi di curare. 
 
Alfieri. Può influire, ad esempio, sul rapporto medico paziente, insinuando il sospetto che l’interesse del malato venga subordinato a quello del medico. 
Può influire, anche sul clima lavorativo, scatenando una serie di angherie e abusi dagli esiti umilianti per chi li subisce. Ciò accade soprattutto quando vengono attribuite le maggiori responsabilità non alle persone più competenti dal punto di vista umano e professionale, ma a quelle che non si pongono fastidiose remore morali e si dimostrano più accondiscendenti rispetto alle volontà di un partito del governo regionale. La cura, allora, finisce per assumere un altro significato. A causa degli attuali meccanismi di tariffazione dei diversi interventi sanitari, coincide con un insieme di prestazioni di cui  vengono calcolati minuziosamente i margini di profitto. Dovrebbe, invece, significare un’attività di aiuto che si adatta alle mutevoli condizioni del malato, con dedizione e senso di responsabilità.  


Odissea. E passando ad un altro argomento, come dovrebbe essere ripensata, invece, la prevenzione?  
 
Alfieri. Esistono 3 tipi di prevenzione. La prevenzione primaria è l’unica degna di questo nome e consiste nel rimuovere o, perlomeno, attenuare i fattori di rischio di malattia. Il risultato è che la gente si ammala di meno.  
Poi, esiste la cosiddetta prevenzione secondaria, che non ha per bersaglio i rischi, ma si propone di diagnosticare più precocemente certe malattie che si prestano allo scopo, assumendo che in questo modo se ne migliori il decorso. Lo fa attraverso programmi di screening, ad esempio quello del cancro del collo dell’utero, del seno e del colon-retto. Purtroppo, però, l’assunto che si migliori la prognosi non è così scontato come si tende a credere. Infine, esiste la prevenzione terziaria che consiste nel migliorare gli stili di vita in persone che si sono già ammalate, affinché le loro condizioni non si aggravino ulteriormente. Si vuole correre ai ripari, ma lo si fa tardivamente. È un po’ come chiudere le porte dopo che i buoi sono già scappati dalla stalla.  
Nonostante il valore assolutamente preminente della prevenzione primaria, il SSN si occupa in modo quasi esclusivo di quella secondaria e terziaria. Non è un caso, infatti, che l’industria della salute prosperi sulla malattia, non certo sulla promozione della salute. Ed anche per quel poco che riguarda la prevenzione primaria, c’è una sottovalutazione pressoché totale degli aspetti socio-economici e culturali di cui ci si dovrebbe occupare. Le malattie, infatti, sono fenomeni eminentemente sociali. Tutt’al più si cerca di migliorare gli stili di vita attraverso l’informazione, come se bastasse sapere che, ad esempio, la sedentarietà fa male per muoversi di più. E lo stesso si potrebbe dire per l’alcol, il fumo, l’alimentazione, le dipendenze patologiche. Purtroppo non sono problemi rimediabili tramite una migliore informazione. Vanno, piuttosto, identificati come problemi dotati di un “gradiente sociale”, perché compaiono tanto più frequentemente e intensamente quanto più disuguali sono le nostre società e quanto più bassa è la classe socio-economica cui  apparteniamo.
  
Odissea. E allora, se non serve informare per migliorare gli stili di vita, che cosa si dovrebbe fare per prevenire le malattie? 
 
Alfieri. Bisogna convincersi che la salute ha molto a che fare con la politica. Dipende, infatti, soprattutto dalle condizioni socio-economiche e culturali in cui scorre la nostra vita. Dipende dal modo in cui si nasce, si cresce, si studia, si lavora e si invecchia. Sono queste condizioni a influenzare, in larga parte, sia la longevità di una popolazione che la frequenza delle sue malattie e disabilità. I servizi sanitari contano meno. Contano nella gestione più o meno appropriata delle malattie, una volta che si sono manifestate. Contano nella riduzione della gravità e della durata delle malattie e delle disabilità che ne conseguono. I servizi sanitari hanno, però, un impatto quasi nullo per quanto riguarda, ad esempio, la comparsa di una malattia tumorale, cardiovascolare, respiratoria o neuro-degenerativa. Contano ancor meno nei riguardi del disagio sociale. Eppure, il disagio sociale ha ingenti ripercussioni sulla salute.  Condizioni socio-economiche insoddisfacenti influenzano, infatti, la frequenza di molte malattie acute e croniche, degli infortuni, delle dipendenze patologiche (alcol, droghe, gioco d’azzardo, anoressia, bulimia, obesità...), della violenza e criminalità, dell’abbandono scolastico, delle gravidanze adolescenziali...  
Ciò che conta veramente sono le politiche che adottiamo. Valgono quelle di largo respiro e di lungo termine, capaci di influenzare in modo organico gli ambiti più diversi della vita: dalla famiglia alla scuola, all’alloggio, all’ambito fiscale, lavorativo, economico, urbanistico, energetico, ecologico, agro-alimentare, dei trasporti e via dicendo.  
Nonostante ciò, la percezione dell’importanza della politica, per quanto riguarda la salute, è sempre difettosa. Della salute, infatti, ci accorgiamo solo nel momento in cui la perdiamo. Perciò apprezziamo molto le cure che contribuiscono a restituircela, dopo averla persa. E attribuiamo alle cure tutto il merito di restare sani. E, sulla base di queste percezioni distorte, arriviamo addirittura a convincerci di qualcosa di completamente falso: che quanto più spendiamo per la sanità e quante più prestazioni otteniamo, tanto più alto è il livello di salute cui possiamo aspirare. In realtà fare troppo diventa sempre nocivo. Alla luce di tutto questo, credere che i servizi sanitari, per quanto riguarda la salute, abbiano una minore importanza delle condizioni socio-economiche e culturali, risulta, perlomeno, contro-intuitivo. Non riusciamo a capire che la salute complessiva di una popolazione è molto più influenzata dal rischio di ammalarsi più o meno frequentemente piuttosto che dal fatto di essere curati appropriatamente dopo che ci ammaliamo. 

 
Odissea. Effettivamente sembra abbastanza contro-intuitivo quello che dici, come se i servizi sanitari possano davvero contare poco.  
 
Alfieri. I servizi sanitari contano, ma come dicevo prima, solo dopo che ci si ammala per gestire appropriatamente le malattie, guarirle quando è possibile e ridurne gravità e durata. Ma è meglio non ammalarsi piuttosto che essere curati, magari anche bene, dopo che ci si è ammalati. Tanto più che le malattie che ci affliggono sono, per la maggior parte, cronico degenerative e sono destinate ad accompagnarci per tutta la vita. E questo vale anche ora, in epoca di Covid-19. Bisogna sapere che esistono differenze notevoli nella frequenza delle malattie nei diversi Paesi del mondo: è questo il punto importante. Le differenze persistono anche quando limitiamo il confronto solo all’interno dei Paesi ad alto reddito.  
Per la mortalità infantile e i disturbi mentali le differenze di incidenza possono essere di 2 o 3 volte. La sofferenza mentale nelle sue forme di ansia patologica, depressione, autolesionismo, dipendenze, disturbi ossessivi-compulsivi, sta crescendo con ritmi allarmanti in tutti i Paesi del mondo industrializzato. Ma è molto diverso confrontarsi con situazioni in cui è il 30% della popolazione adulta ad esserne colpito, così come avviene negli Stati Uniti o nel Regno unito o, viceversa, confrontarsi con situazioni in cui è afflitto da questi disturbi il 10% della popolazione.  
Se prendiamo, poi, il problema dell’obesità, che è legata al diabete di tipo 2, a malattie cardiovascolari, tumorali, osteo-articolari e respiratorie, le differenze tra un Paese e l’altro sono anche superiori a 10 volte. Si passa, ad esempio, da tassi corrispondenti al 30% della popolazione negli Stati Uniti al 2,5% in Giappone. Anche per i problemi sociali, infine, come il rendimento scolastico, il tasso di omicidi, il tasso di incarcerazione, il bullismo e le gravidanze nelle adolescenti le differenze di frequenza salgono fino a 10 volte tanto. 
 
Odissea. A cosa sono dovute differenze di frequenza di questa portata tra un Paese e l’altro?  
 
Alfieri. Fin dagli anni ’70 del secolo scorso studiosi di diverse discipline accademiche, e tra questi diversi epidemiologi, hanno accumulato evidenze crescenti sulla relazione che lega le disuguaglianze socio-economiche con la salute e i problemi sociali. Si sapeva da tempo, e appariva anche intuitivo, che le persone appartenenti alle classi socio-economiche inferiori per reddito, lavoro, istruzione e abitazione avessero anche condizioni di salute peggiori  rispetto alle classi sociali più agiate. Ma ciò che è emerso con progressiva chiarezza è che, nei Paesi afflitti da una maggiore disuguaglianza, questi problemi sono notevolmente più frequenti rispetto ai Paesi meno sperequati.  
Può, infatti, accadere, come si verifica per la mortalità infantile, che nella classe socio economica più bassa, ad esempio, in Svezia, che è un Paese poco sperequato, la mortalità infantile sia a un livello inferiore rispetto alla mortalità infantile che affligge le classi socio-economiche più elevate del Regno Unito, un Paese caratterizzato da una disuguaglianza ben maggiore, rispetto alla Svezia.  
È molto importante tenerne conto, perché si capisce, così, come le eccessive  disuguaglianze non fanno male solo alle persone relegate nei gradini più bassi della scala  sociale, ma nuocciono anche alle persone più ricche che stanno in cima. E si è anche potuto appurare che la relazione tra disuguaglianze sociali e malessere sanitario e sociale non si limita ad essere un’associazione statistica, ma rappresenta un vero e proprio rapporto di causa-effetto. Questo è importante perché significa che attenuando la gravità della disuguaglianza possiamo assistere nel tempo a una attenuazione dei suoi effetti negativi.  
La conclusione degli studiosi, quindi, è che esistono società “disfunzionali” perché attraverso eccessive disuguaglianze presenti tra i loro cittadini creano le condizioni per generare un’ingente mole di problemi sanitari e sociali che investono la società nel suo complesso, senza risparmiare nessuno, nemmeno tra i più agiati. La disuguaglianza eccessiva è assimilabile a qualcosa che ammorba l’aria che tutti respirano, genera risentimento, diffidenza, invidia e vergogna dall’altra. Da un punto di vista biologico provoca stress cronico, accompagnato dalla secrezione di cortisolo, un ormone che influenza negativamente lo sviluppo e le funzioni del sistema nervoso, endocrino e immunitario. 
 


Odissea. Ma a quali livelli di disuguaglianza una società può definirsi “disfunzionale” e quale potrebbe essere un livello di disuguaglianza “accettabile”?  
 
Alfieri. L’Onu usa misurare il livello di disuguaglianza dei diversi Paesi utilizzando come indicatore il rapporto tra il reddito del 20% della popolazione più ricca e quello del 20% della popolazione più povera.  
Se si applica questo rapporto nei Paesi ad alto reddito si può constatare che esso varia tra un minimo di 3,4 e un massimo di 9,7. L’Italia ha un rapporto di 6,7. Per tutto quello che abbiamo detto i problemi peggiorano progressivamente man mano ci avviciniamo al rapporto più alto e, viceversa, migliorano in prossimità del rapporto inferiore. Per quanto riguarda il livello di disuguaglianza “accettabile” non si deve tendere a un egualitarismo bieco in cui non ci sia alcun riconoscimento per l’iniziativa, l’impegno e lo spirito di sacrificio. Ma, nello stesso tempo, non bisogna esacerbare quelle disuguaglianze che permettono ad alcuni di soddisfare qualsiasi capriccio e impediscono ad altri di sviluppare le loro potenzialità, privando la società di enormi risorse. I Paesi più disfunzionali risultano essere gli Stati Uniti, il Portogallo e il Regno Unito. Quelli che funzionano meglio, invece, da questo punto di vista, sono Giappone, Svezia, Norvegia e Finlandia. Potremmo accontentarci di tendere verso i livelli di disuguaglianza che caratterizzano questi ultimi Paesi, anche senza azzardare cambiamenti più drastici nella  direzione dell’uguaglianza. Sulla base di queste esperienze, infatti, potremmo ritenerci al sicuro e confidare nell’alta qualità di vita vissuta dai cittadini di questi Paesi.  
 
Odissea. Sembra comunque strano che le disuguaglianze, quando sono eccessive, possano avere degli effetti così dirompenti. Puoi spiegarti meglio?
  
Alfieri. Effettivamente, la vera novità introdotta nei nostri saperi sanitari e sociali riguarda l’importanza della povertà “relativa”. Da che mondo è mondo ci siamo interessati alla povertà assoluta. È, infatti, lo scandalo della fame e della impossibilità di soddisfare bisogni essenziali a turbare, soprattutto, le nostre coscienze. Ma accanto a questo problema immane c’è quello della povertà “relativa” che siamo soliti trascurare. È una condizione che origina dal confronto del nostro reddito con quello posseduto dagli altri. Quando scende sotto una data soglia cadiamo in povertà relativa. In Paesi ad alto reddito può accadere che persone in povertà relativa possiedano un alloggio, un’automobile, conducano una vita normale e si vestano decentemente. Passano inosservati e non tendono, perciò, a suscitare alcuna compassione. Sono, però, sottoposti a una continua esposizione allo stress perché non possono soddisfare le esigenze di consumo tipiche delle società cui appartengono. La loro bassa condizione socio-economica, comunque, per chi li conosce, viene vista, nelle società più sperequate, come il segno di un fallimento, un marchio vergognoso di pigrizia e incompetenza. Può succedere, paradossalmente, che, superati i livelli della povertà assoluta, si trovino allo  stesso livello di povertà relativa 2 famiglie molto diverse tra loro: una appartenente a un  Paese a basso reddito, con latrina esterna, pavimento in terra battuta, senza acqua e luce  elettrica; l’altra appartenente a un Paese ad alto reddito con pavimento di piastrelle,  cucina, bagno, camera, gas ed energia elettrica. 
È questa condizione a provocare un’enorme mole di malessere sanitario e sociale che riusciremmo ad evitare del tutto. Dovremmo, però, essere più attenti anche alle indicazioni dei saperi economici che si integrano con quelle dei saperi sanitari e sociali. Un tempo, le disuguaglianze erano considerate dagli economisti l’effetto indesiderato di un bene supremo: la crescita, che andava perseguita a tutti i costi. Oggi, invece, le eccessive disuguaglianze sono ritenute, da premi Nobel come J. Stiglitz e P. Krugman, ma anche da  organismi internazionali come il Fondo monetario internazionale e l’Ocse, biasimevoli  errori di pianificazione, fonti di instabilità e stagnazione in ambito economico. E proprio per questo è stata allestita da decenni una ricca cassetta di attrezzi per rimediare a questi errori.  
Abbiamo quindi la possibilità pratica di impegnarci a ridurle, sapendo che, ad esempio, nel nostro Paese esistono circa 10 milioni di persone che vivono in povertà relativa e soffrono delle conseguenze negative che questa comporta. 


Odissea. Passando all’ultimo argomento incluso nel titolo della tua relazione, cosa puoi dirci a proposito dell’accompagnamento? Anche questo va ripensato?  
 
Alfieri. Va ripensato perché è cambiata la patologia che ci troviamo di fronte. Deve, perciò, cambiare anche il tipo di assistenza che prestiamo. Da qualche decennio a questa parte, ci confrontiamo con uno scenario inedito. La traiettoria della salute, che prima disegnava, per le persone di età avanzata afflitte da malattie croniche, un brusco decadimento e precipitava rapidamente verso la morte, ha assunto una forma diversa. Si è trasformata in un lungo saliscendi fatto di aggravamenti e riprese temporanee che suole durare diversi anni. Questa trasformazione non si è presentata all’improvviso, si è delineata a poco a poco nel corso degli ultimi decenni. Eppure la formazione dei medici non ha ancora preso atto di questo cambiamento.  
Il nostro ruolo resta saldamente ancorato al dovere di salvare vite. Il compito di prendersi cura dei bisogni più elementari - come mandare giù un boccone, respirare con più agio, riuscire a chiudere occhio, andare di corpo, urinare - sono delegati, se mai, al personale infermieristico. Di fronte a questi nuovi bisogni, che riguardano una parte via via maggiore di popolazione, sono disorientate ancora di più le persone vicine al malato: figli, sorelle, parenti e amici... Avvertono il dovere di assistere i loro cari, ma si sentono impauriti, oltre che impreparati. Davanti a loro si presenta un percorso difficile, irto di incognite. Temono di non essere all’altezza, di essere lasciati soli, di trascurare qualcosa di essenziale. Di fronte a questo diverso scenario, il problema, allora, diventa quello di trovare i modi più giusti per dare un senso a una lunga fase di accompagnamento delle persone malate, senza lasciarsi sopraffare dallo sconforto. Bisogna, però, che i servizi siano in grado di aiutare e creare un giusto equilibrio tra le risorse dell’ospedale e quelle del territorio. Occorre anche adottare diverse strategie di cura.  
 
Odissea. Cosa intendi per diverse strategie di cura?  
 
Alfieri. Le malattie croniche, specialmente quando superano una certa soglia di gravità e non si presentano isolatamente, come avviene nella maggior parte dei pazienti di età avanzata, non si prestano alla definizione di un piano di trattamento, di cui si possano prevedere tempi, metodi e interventi. Ogni eventuale piano rischia di essere stravolto perché subentrano continuamente altri problemi che si aggiungono a quelli preesistenti e alterano l’ordine delle priorità. Più che di piani, bisognerebbe parlare, allora, di approcci e strategie  da condividere, insieme coi propri cari e il medico di fiducia. La strategia dell’assistenza domiciliare dovrebbe essere adottata più diffusamente, quella dell’assistenza ospedaliera dovrebbe essere selezionata con maggiore attenzione. Ma esistono delle difficoltà. Bisogna sapere che in sanità è soprattutto l’offerta di servizi a indurre la domanda. Se si investe molto sugli Ospedali e poco sull’assistenza domiciliare, sulle case della comunità e sulle cure palliative, anche a domicilio, esisterà sempre un’elevata probabilità di correre al pronto soccorso di fronte a un imprevisto o a un aggravamento. E questo può nuocere.  
La scelta del luogo di cura ha, infatti, un grande impatto, nel bene e nel male, sulla traiettoria che andrà a caratterizzare le ultime fasi della vita del malato. E si sa che il finale conta, perché il significato della nostra storia complessiva è influenzato da come le cose vanno a finire. In questa prospettiva, l’ospedale non è di grande aiuto per il malato cronico.  Provoca un certo disorientamento, legato all’estromissione da contesti ambientali e sociali che gli sono familiari. La voglia di lottare e continuare a vivere viene meno quando ci si separa dalle certezze di un contesto familiare amico, dalle proprie cose, dalle abitudini e ritmi quotidiani. Dal punto di vista delle istituzioni sanitarie, poi, il ricovero di pazienti cronici rischia di diventare inappropriato perché l’ospedale ha, soprattutto, il compito di affrontare problemi “acuti”. L’ospedale non è adatto a gestire, nel tempo, un problema ingravescente, né a migliorare le modalità di convivenza del paziente coi suoi acciacchi. Anche perché, in questi casi, è la situazione psicologica a condizionare, più che altro,  l’esito delle cure. Per di più, la standardizzazione spinta tipica delle procedure ospedaliere mal si concilia col bisogno di personalizzare il più possibile l’assistenza nei confronti dei malati cronici, spesso multiproblematici e con storie di vita e malattie del tutto singolari. Il contesto domiciliare è più adatto ad eventuali esigenze di flessibilità. 

Il dott. Alfieri

Odissea. Puoi fare un esempio sulla flessibilità cui possono essere chiamati i servizi?  
 
Alfieri. Un esempio critico riguarda la decisione di cambiare la priorità delle cure mediche che non vengono più finalizzate alla guarigione o al prolungamento della sopravvivenza, ma al miglioramento della qualità della vita. È una decisione che può riguardare molti casi di patologia cronica, dai tumori metastatici alle demenze in fase avanzata, alle insufficienze d’organo progressive…  A questo proposito, si deve capire che, in presenza di determinate condizioni, la medicina deve resistere alla tentazione di strafare e perseguire obbiettivi più realistici. Le priorità cambiano e diventano quelle tipiche delle cure palliative, della terapia del dolore, la sedazione. Si è soliti riferirsi a questi approcci in termini riduttivi, come se si trattasse di riconoscere i limiti della medicina, in opposizione alla forza delle sue potenzialità. In realtà, i progressi avvenuti nel campo delle cure palliative sono una dimostrazione dei traguardi raggiunti nella ricerca scientifica multidisciplinare, integrata con i saperi umanistici. Non si tratta, quindi, propriamente di limiti, ma del riconoscimento dei confini relativi alla appropriatezza delle terapie e, nel contempo, dell’ampliamento delle potenzialità della medicina. Una medicina che è arrivata a porsi la finalità di aiutare i singoli malati a soddisfare i bisogni più importanti verso il termine della loro vita. Per le cure palliative, infatti, la priorità è aiutare i malati a vivere una vita la più gratificante possibile, comunque possa svolgersi, date le  circostanze avverse in cui ci si trova. Oggi esistono anche nella nostra provincia esperienze interessanti di cure palliative a domicilio. Ci si deve impegnare per diffonderne la cultura e potenziarle.  
 
Odissea. Mi sembra che sia venuto il momento di concludere. Vuoi aggiungere ancora qualcosa?  
 
Alfieri. Vorrei concludere citando un famoso aforisma di Einstein che dice pressappoco così: non si possono affrontare i problemi adottando la stessa mentalità che ha contribuito a crearli. Questa raccomandazione deve essere applicata anche alla sanità. Se, infatti, pensiamo che i servizi sanitari si identificano con settori importanti dell’economia di mercato, si tenderà a ingigantire i bisogni a dismisura, indipendentemente dalla loro autenticità.  
Se, invece, li consideriamo elementi essenziali di un sistema di sicurezza sociale, allora riscopriremo il valore della politica, della solidarietà e dell’equità, per rispettare fino in fondo la dignità di ogni essere umano.  
La prevenzione assumerà un ruolo cruciale nel promuovere la salute; la cura e l’accompagnamento guadagneranno in efficacia e appropriatezza, e il benessere sanitario e sociale potrà diffondersi a vantaggio di tutti.
 
[Pubblicazione domenica 21 febbraio 2021]
Intervista raccolta da Oliviero Arzuffi


Roberto Alfieri


 
*Roberto Alfieri si è laureato in Medicina presso l’Università di Pavia,
e si è specializzato in Igiene, Medicina Preventiva, Analisi statistiche,
ed Epidemiologia
 


 

MINERALI: SALUTE E ALTRO
Conversazione col prof. Romano Rinaldi


Romano Rinaldi
 
Odissea” gli ha rivolto alcune domande su temi di attualità e di interesse generale relativi al suo campo di competenze (la mineralogia) in materia di minerali, ambiente e salute.
 
Premessa

Amigdala di selce del Paleolitico

Rinaldi. I minerali nel complesso non sono né buoni né cattivi per la salute o la prosperità dell’uomo. In effetti, dall’età della pietra in poi, hanno accompagnato lo sviluppo o se si vuole, l’evoluzione dell’uomo, a partire dal Neanderthal al Sapiens-Sapiens e fino ai nostri giorni. Le varie età, della pietra, del rame, del bronzo, del ferro e ultimamente, del silicio, ne sono eloquente testimonianza. Dunque i minerali sono fondamentali componenti nello sviluppo dell’umanità in quanto da essi si ricavano gli elementi fondamentali da utilizzare per le applicazioni tecnologiche e quindi per lo sviluppo economico e sociale del genere umano. Ultimamente, per esempio, c’è grande interesse per le cosiddette “terre rare”, elementi indispensabili per gli schermi dei dispositivi (tascabili o da parete) che imperversano nella nostra quotidianità. Così come per il litio, un leggerissimo metallo alcalino (il terzo elemento nella tabella periodica), recentemente divenuto il protagonista della “rivoluzione verde” della mobilità per la produzione di batterie ricaricabili leggere. Per rendere l’idea, i minerali che studiavo per la mia seconda laurea, in Canada, una cinquantina di anni fa, erano ricchi in litio ma a quel tempo rappresentavano una semplice curiosità scientifica (a parte l’utilizzo terapeutico del litio nella sindrome bipolare). Lo stesso valeva, in termini di curiosità naturalistica, per i minerali contenenti le terre rare (l’unico dispositivo video era allora il tubo catodico al fosforo). Viceversa, i minerali contenenti silicio sono la stragrande maggioranza dei componenti più comuni della crosta terrestre, i silicati, quindi non ci sarà mai penuria di silicio e con esso si realizzeranno i semiconduttori per l’industria elettronica ancora per un bel po’. Dobbiamo anche tener presente che quando si parla di minerali, in relazione alla salute dell’uomo, si tende a confondere il significato dei termini minerali ed elementi. I composti naturali denominati minerali contengono, in massima parte, più elementi chimici legati tra loro in proporzioni costanti, dettate dalle leggi della stechiometria e della simmetria cristallina. Sono in genere sostanze raggruppabili per caratteristiche chimiche (es.: silicati, carbonati, fosfati, solfati, solfuri, ecc. oppure ossidi e idrossidi o anche sali, come i cloruri e i fluoruri o, più raramente, elementi nativi) in cui sono predominanti o comunque presenti diversi elementi nel medesimo gruppo. Il nostro organismo è poi in grado di “digerire” alcuni minerali ed utilizzarne gli elementi costituenti per le funzioni metaboliche. Questo è essenzialmente il motivo per tollerare la confusione che viene fatta tra i due termini.



Volendo rimarcare la centralità dei minerali come componenti fondamentali per la nostra stessa esistenza, basti pensare al ruolo che il calcio (assimilabile dal nostro corpo sia come carbonato, sia come fosfato) svolge nelle funzioni metaboliche del nostro organismo, oltre ad essere un componente fondamentale dello scheletro, oppure al ruolo del ferro e la sua essenziale funzione nei processi di ossido-riduzione legati alla respirazione e trasporto del sangue “ossigenato” alle cellule attraverso l’emoglobina. Oppure il potassio e il magnesio, per la funzionalità muscolare. Ma questi sono solo alcuni dei tantissimi esempi. Poi ci sono gli elementi presenti solo in minima quantità ma indispensabili. Si pensi per esempio allo iodio, che viene da anni immesso nel sale da cucina per prevenire malattie tiroidee tipiche delle popolazioni che vivono a distanza dal mare. Oppure il fluoro, necessario, seppure in piccolissime quantità, per prevenire la carie dentaria. E si potrebbe fare un lungo elenco anche di questi elementi (sempre di provenienza dai minerali) che comunque risulterebbe incompleto perché gli studi sulla presenza di oligoelementi in molte delle funzioni vitali del nostro organismo, sono tutt’ora in corso.
Poi ci sono alcune leggende. Chiunque si rechi in farmacia o in erboristeria, troverà integratori alimentari che offrono la possibilità di mantenere un equilibrio ottimale di minerali (o oligoelementi) utili per le funzioni del nostro organismo. Si va dal calcio al selenio, allo zinco, e tutti quelli sopra menzionati, più tanti altri ancora. Ma se interpellate il medico di famiglia, probabilmente vi dirà che un’alimentazione varia e soprattutto ricca di frutta e verdura è in grado di fornire a un organismo sano, tutti gli elementi necessari nelle opportune quantità e proporzioni, regolate dal metabolismo. Tuttavia, quando si tratti di elementi non dannosi alla salute, la vendita non può essere proibita. Chiaramente tanti altri elementi, che si trovano nei minerali naturali, dovranno essere accuratamente evitati in quanto pericolosi per la salute. Si tratta per esempio dei cosiddetti metalli pesanti (es.: piombo, mercurio, ecc.) ma anche cromo e vanadio, arsenico e antimonio e tanti altri molto dannosi anche in piccolissime quantità.
Dunque la quantità, anche degli elementi e minerali utili, può fare molta differenza. Così come si verifica macroscopicamente negli accumuli di minerali all’interno del nostro organismo che rappresentano situazioni patologiche anche gravi. Basti pensare alla litiasi delle vie urinarie e biliari. Oppure le calcolosi che si possono esprimere in tante altre sedi, ad esempio nelle ghiandole salivari e persino nelle ghiandole endocrine, quali la pituitaria.
Insomma coi minerali e con gli elementi che li compongono, non solo dobbiamo fare i conti, ma essi sono parte integrante della nostra esistenza, come del resto lo sono per tutte le forme viventi su questo pianeta (animali e piante). Insomma dalla terra veniamo e con la terra dobbiamo convivere.
Tra l’altro solo recentemente si vanno affermando studi approfonditi di biomineralogia ovvero lo studio delle relazioni tra le sostanze biologiche fondamentali (DNA, RNA, virus e cellule) e i minerali al livello delle reciproche strutture atomiche e molecolari, con risvolti applicativi che vanno dall’individuazione di reazioni e interazioni chimico-fisiche utili per la salute e per l’ambiente, alle teorie sull’origine della vita sul nostro pianeta.



Odissea. Si parla tanto di montagne amiantifere, soprattutto a proposito del tunnel Torino-Lione per la realizzazione della linea ad alta velocità. Quali sono i rischi concreti di questo minerale?
 
Rinaldi. L’amianto, anche detto asbesto, non è in effetti un solo minerale. Sotto questa denominazione si raggruppano almeno sei diversi minerali con caratteristiche e strutture cristalline (disposizione reciproca e natura degli atomi che le compongono) molto differenti ma accomunati da alcune proprietà merceologiche, principalmente la natura fibrosa e la inalterabilità, che li rendono tutti adatti per i medesimi scopi tecnologici e soprattutto per la manifattura del cemento-amianto (Eternit è il nome commerciale, dalla omonima società produttrice). Un materiale che ha contribuito notevolmente alla “rinascita industriale” dell’Italia nel dopoguerra ed anni successivi, con la realizzazione di un gran numero di manufatti (se ne contano oltre 3000 tipologie) poco costosi, leggeri, versatili, ignifughi e molto durevoli tra i quali spiccano ancora (purtroppo) nel nostro paesaggio molte coperture di capannoni industriali e agricoli. Prima che venisse accertata la pericolosità di questi minerali per la salute dell’uomo con la relativa messa al bando in Italia nel 1992 (L. 257), la produzione di questi manufatti dipendeva dalla presenza di cospicui giacimenti di amianto in zone prealpine (es.: Balangero in Piemonte) con produzione in Monferrato (Casale) per cui l’Italia ne era uno dei principali produttori al mondo. Pur nella loro vastità, questi giacimenti costituiscono in effetti delle eccezioni in senso geologico, come del resto lo sono tutti i giacimenti. Ovvero adunamenti di un particolare composto, o gruppi di composti naturali (minerali), formatisi per particolari condizioni chimico-fisiche omogenee all’interno di determinate formazioni rocciose, nei tempi geologici e nelle condizioni che hanno portato alla messa in posto delle formazioni stesse. In questo caso si tratta di rocce metamorfiche, formatesi per una metamorfosi, appunto, da rocce preesistenti (sedimentarie o ignee), per effetto di particolari condizioni di elevata temperatura e/o pressione in cui si sono venute a trovare per effetto delle vicende geologiche (orogenesi, vulcanismo, ecc.) che hanno presieduto alla loro messa in posto. Quindi, in questo caso una eccezione all’interno di un’altra eccezione. Le attività di estrazione dell’amianto dalle rocce incassanti sono chiaramente cessate da una trentina d’anni, tuttavia gli effetti sulla salute dei lavoratori di quelle attività estrattive, così come della produzione dei manufatti (Eternit), sono tutt’altro che risolti in quanto alcune delle patologie più gravi possono manifestarsi anche a distanza di alcuni decenni



dall’esposizione. A questo proposito si sono svolte molte udienze processuali (con alterni risultati) per accertare le eventuali responsabilità delle aziende coinvolte, per i danni alla salute (e le morti) causate negli anni agli addetti delle lavorazioni. La pericolosità di questi materiali fibrosi consiste principalmente nella loro caratteristica di potersi suddividere in particolato tanto fine da risultare aerodisperso. In pratica la capacità di dar luogo a particelle fibrose talmente piccole da poter rimanere in sospensione nell’aria per tempi anche lunghi (ore-giorni) ed essere quindi inalate (o ingerite). La natura fibrosa, e l’attività chimica di tali particelle (con differenze tra i vari minerali) sono in grado di produrre danni cellulari che non possono essere rimediati (almeno in parte) dalle difese naturali del nostro organismo, anche in ragione del fatto che questi composti, come accennato, hanno una stabilità ed inalterabilità notevoli. Da queste caratteristiche dipende la loro pericolosità. Quindi, solamente le lavorazioni che producono polveri sottili che possono essere disperse nell’ambiente di lavoro rappresentano un fattore di alto rischio per la salute. Il manufatto, in sé e per sé, quando non sia disturbato nella sua integrità e non produca polvere, non è pericoloso. Viceversa, anche la degradazione naturale, pur se lentissima, delle opere (es.: le coperture dei tetti), può causare il rilascio di particolato ma non certo in quantità confrontabili con le attività estrattive o di lavorazione del materiale.



Entrando più nel dettaglio si deve anche considerare il fatto che, così come sono diversi i minerali appartenenti a questa classe di composti, diversa è la loro pericolosità per la salute. Per esempio, il classico amianto fibroso, propriamente denominato crisotilo (una varietà di serpentino, dall’aspetto e consistenza della stoppa e comunemente chiamato amianto bianco) è meno pericoloso della crocidolite (una varietà di anfibolo, anche detta amianto blu) ed è a sua volta più pericoloso di altre varietà di anfibolo più comunemente ritrovate nelle rocce di origine metamorfica, quali ad esempio, tremolite e actinolite (o actinoto). È dunque necessaria una accurata identificazione delle formazioni rocciose attraversate dallo scavo e la conseguente determinazione mineralogica delle specie dei minerali costituenti tali rocce. Un lavoro preliminare che richiede l’utilizzo di mezzi e metodi di routine, ampiamente documentati nei protocolli appositamente predisposti e che sono alla portata di un semplice diplomato di istituto minerario o di un laureato di un corso triennale in Geologia. Per ciascuno di questi minerali esistono quindi linee guida di comportamento per la gestione delle lavorazioni e dello smaltimento, compresi gli scavi. I vari disciplinari, obbligatori per legge, sono stati messi a punto da specialisti della materia in modo da garantire il massimo livello di sicurezza, ovvero la minor probabilità di danni per la salute. Considerando dunque il fatto che qualunque attività lavorativa comporta un certo rischio, il rischio dovuto all’eventuale esposizione a minerali di amianto incontrati negli scavi per il tunnel in questione, può essere ridotto al medesimo livello di un lavoro usurante qual è quello della cantieristica pesante, a patto che siano attuate tutte le precauzioni del caso. Quanto al materiale di risulta dello scavo, anch’esso è sottoposto alla normativa in vigore e deve rispondere a criteri di messa in sicurezza secondo regole ben definite, con analisi accurate del materiale e l’osservanza delle esistenti disposizioni per il trattamento di eventuali contaminazioni da amianto.



Insomma, quando si voglia procedere alla realizzazione di un tunnel sotto montagne costituite (almeno in parte) da rocce metamorfiche, quali quelle che si trovano nella zona in questione, un accurato rilevamento geologico è in grado di fornire una mappatura tridimensionale con le indicazioni necessarie per conoscere anticipatamente quali e quante tipologie litologiche si possano incontrare nel tracciato e quale probabilità hanno di contenere minerali del gruppo dell’amianto e, nel caso, di quali minerali si possa trattare. Una volta assunta questa base di partenza, possono essere prese le decisioni preliminari. Successivamente, durante lo scavo, il continuo monitoraggio, sia delle rocce in posto, sia del materiale di risulta potrà fornire indicazioni precise ed attendibili sulla natura e quantità dei minerali pericolosi eventualmente presenti. A questo punto, le disposizioni presenti in materia dovranno essere scrupolosamente seguite per poter procedere alla realizzazione dell’opera in relativa sicurezza. A questo proposito, il sito ufficiale dell’INAIL fornisce chiare delucidazioni in merito alla prevenzione e sicurezza sul lavoro in ambiente con presenza di fibre di amianto: https://www.inail.it/cs/internet/attivita/prevenzione-e-sicurezza/conoscere-il-rischio/polveri-e-fibre/amianto.html
Si tratta dunque, a mio avviso, di una questione che riguarda l’utilizzo delle conoscenze e competenze che sono o comunque devono essere, a disposizione delle persone addette a queste imprese oggigiorno. Competenze e conoscenze che ci aspettiamo quando, per costruire una qualsiasi opera di questa entità, ricorriamo a specialisti della materia che devono operare secondo le regole dello stato dell’arte. Non certo secondo i criteri utilizzati per lo sfruttamento della “risorsa amianto” nel nostro rinomato periodo del “boom economico” e negli anni successivi, del secolo scorso.
  
Odissea. Tra i minerali presenti nell’ambiente, quali sono i più diffusi, e come incidono sulla nostra salute?


Rinaldi. Da quanto detto nella premessa e soprattutto nella risposta sul “problema amianto” risulta evidente che la domanda è troppo generica per poter trovare una risposta univoca. Innanzitutto, l’ambiente naturale dipende da quali rocce sono presenti e qual è lo stato di eventuale copertura vegetale o coltivazione presente nella zona in questione. L’esposizione ai minerali dannosi per la salute sarà sempre un misto di concentrazione di minerali dannosi e attività dell’uomo per il loro sfruttamento industriale. Lo stesso principio si può applicare per le piante pericolose (per esempio i funghi velenosi). Anche le piante possono causare problemi di salute quando utilizzate impropriamente per l’alimentazione o per preparare composti farmacologici o pozioni velenose. Per provare a rispondere, almeno in parte alla domanda, posso ricorrere ad un esempio. In alcuni villaggi di una regione della Turchia, la Cappadocia, è stata riscontrata una incidenza molto superiore alla norma dello stesso tipo di tumori maligni riscontrati nelle comunità dei lavoratori dell’amianto. La ricerca di minerali asbestosi nell’area però non ha fornito alcun risultato. Tuttavia, uno studio approfondito delle rocce vulcaniche presenti nell’ambiente ed ampiamente utilizzate come materiale da costruzione per le abitazioni e quant’altro, ha rivelato l’abbondante presenza di una particolare e rara varietà di un tipo di minerali comunemente presenti nelle rocce vulcaniche. Si tratta di un minerale di neoformazione appartenente al gruppo delle zeoliti, frequentemente presenti in questo tipo di roccia ma in questo specifico caso la zeolite in questione (erionite), peraltro molto rara in natura, ha particolarità chimiche e strutturali assolutamente uniche rispetto a tutte le altre zeoliti note a tutt’oggi. Anche in questo caso si tratta di un minerale che cristallizza in forma di sottilissime fibre e questo fatto lo accomuna ai minerali “asbestiformi” e la sua accertata grande pericolosità, tutt’ora oggetto di studio, è stata attribuita in via preliminare alla presenza di piccole quantità di ferro nella sua struttura cristallina.



Le rocce in questione sono dei semplici tufi vulcanici, un materiale naturale da costruzione, il tufo, arcinoto fino dalla più remota antichità per la facilità con cui si può cavare in blocchi perfettamente squadrati, utilizzati in tutte le aree geologicamente ricche di queste rocce. L’Italia centrale ne è ricchissima e il materiale è tutt’ora utilizzato, anche se non è più concorrenziale rispetto ai materiali da costruzione più moderni e quindi sta andando in disuso. Tuttavia il tufo italiano o per quanto ne sappiamo, di qualsiasi altra parte del mondo, non contiene erionite, almeno in quantità apprezzabili e comunque non della varietà riscontrata in quelle particolari località della Turchia. Se vogliamo trarre una conclusione generale da questo esempio, si tratta di un'altra eccezione, quindi non risponde alla domanda (quali sono i minerali più diffusi, però questo minerale può essere considerato, a pieno titolo, molto diffuso in quei villaggi della Cappadocia. Questo significa che la Geologia e soprattutto la Mineralogia dei luoghi deve essere studiata a fondo prima di emettere un giudizio su quali siano i minerali più diffusi (o pericolosi) presenti nell'ambiente che ci interessa. Poi si tratterà di stabilire se questa diffusione abbia o meno qualche correlazione con eventuali patologie che si sviluppano nell'area in questione in numero suoeriore alla media della popolazione. Solo allora saremo in grado di individuare qualche eventuale colpevole di problemi causati alla salute umana, dai minerali. Altra cosa sono, logicamente, gli adunamenti di minerali che già si sono dannosi alla salute, ma di queste presenze c'è oramai un buon grado di consapevolezza, almeno da quando esistono mappe geologiche e minerarie accurate dei luoghi.   


       

Come regola generale penso si possa affermare che non esistono minerali ubiquitari in natura e che presentino una particolare minaccia per la salute umana. Tuttavia, quando le attività estrattive interessano grandi quantità di minerali di varia natura, possono essere create situazioni di pericolo per la salute. Come del resto avviene per tutte le attività industriali. Basti pensare al caso di Taranto, dove la lavorazione del minerale di ferro per la produzione dell’acciaio (per loro natura entrambi innocui), produce tali e tante emissioni nocive alla salute, da essere un esempio di mala gestione di impianto industriale nel mondo.




Odissea. Come li introiettiamo nel nostro corpo e come possiamo difendercene?


Rinaldi. Come già detto, la produzione di polveri sottili di minerali per effetto di lavorazioni industriali o di procedimenti estrattivi, può causare gravi danni alla salute, sia per inalazione che per ingestione. Questo può avvenire anche se i minerali in questione sono praticamente innocui quando siano lasciati indisturbati nel loro stato e ambiente naturale. Basti pensare alla silicosi. Una grave malattia polmonare causata dall’inalazione di polveri di silice, ovvero il composto (SiO2) corrispondente al quarzo come minerale fondamentale ma presente in varie proporzioni in tutti i costituenti fondamentali delle rocce più comuni della litosfera (i silicati), come accennato in premessa. La silicosi era (ed è tutt’ora, in paesi dove mancano precauzioni) una tipica malattia professionale dei minatori ma anche dei lavoratori dell’industria della ceramica e del vetro.

Resta il fatto che le polveri sottili di cui è carica la bassa atmosfera, soprattutto nelle grandi città, ha solitamente una porzione mineralogica molto scarsa mentre è costituita perlopiù da residui di combustione di motori e impianti industriali che usano i cosiddetti combustibili fossili (carbone, petrolio e derivati) prodotti questi che hanno un notevole impatto sulla nostra salute, così come può avere il fumo del tabacco.
Probabilmente l’uso delle mascherine al quale ci sta abituando la pandemia da Covid-19, avrà un effetto benefico sulla nostra salute nel trattenere una considerevole porzione delle polveri sottili disperse nell’atmosfera, oltre ad evitare l’inalazione del famigerato virus SARS-Cov-2 disperso nell’aria dall’alito dei nostri simili.



Odissea. Ci può illustrare come i minerali e le rocce vengono inquadrati dal punto di vista dell’importanza economica e delle implicazioni sulla salute umana e sui rischi ambientali?


Rinaldi. Tutte le attività estrattive vengono chiaramente attuate per motivi economici. Quanto sia economicamente conveniente l’estrazione di un minerale utile dipende dalla concentrazione nella roccia e dal costo della lavorazione. Per fare un esempio, un tenore di 2 grammi per tonnellata di oro o platino, è già sufficiente a garantire una buona economicità (guadagno) per l’estrazione, a patto che i luoghi di escavazione non siano troppo impervi. Chiaramente, per estrarre i 2 grammi di metallo utile si dovrà triturare mediamente una tonnellata di roccia. Poi questa roccia triturata dovrà essere sottoposta a un trattamento chimico per l’estrazione del metallo. Alla fine questa tonnellata di materiale trattato chimicamente con composti parecchio dannosi per l’ambiente (per esempio il mercurio) dovrà, a sua volta, essere lavorato adeguatamente per non costituire un rischio per l’ambiente e per la salute. Si tratta di predisporre una zona in cui si possa stoccare il materiale in sicurezza (in modo, per esempio, che non produca percolati dannosi per la falda acquifera o per le acque superficiali). Quindi si dovranno contemplare costi anche per la messa in sicurezza del deposito del materiale di risulta.

Anche per queste attività estrattive esistono comunque specifiche normative in tutti i Paesi sviluppati intese ad evitare, per quanto possibile e con le presenti conoscenze, rischi per l’ambiente e per la salute, esattamente come per il caso dei minerali dell’amianto di cui si è già discusso.
Logicamente anche in questo caso non mancano gli esempi di mala gestione. Diverse aree minerarie della Sardegna, della Liguria e della Toscana ne sono purtroppo triste testimonianza. 


 
 
Odissea. C’è corrispondenza tra mineralogramma e mineralogia? L’accumulo di minerali nel corpo umano attraverso i cibi e l’acqua e dovuta all'alterazione “geologica” delle terre coltivate?


Rinaldi. L’accurata analisi di un piccolo quantitativo di capelli, per mezzo della spettrofotometria atomica, può fornire lo spettro degli elementi (il mineralogramma; ecco che ritorna la confusione tra elementi e minerali) che il nostro organismo ha accumulato ed utilizzato nel tempo per svariate funzioni metaboliche e che possono essere dannosi (o meno) alla salute. La tecnica nasce dall’esperienza forense, quando si scoprì che la presenza di arsenico anche in piccolissime quantità, poteva essere agevolmente rivelata nei capelli già una cinquantina di anni fa con lo stesso metodo. Attualmente il metodo è anche utilizzato per verificare la funzionalità del sistema endocrino ed altre funzioni metaboliche, oltre che per rivelare la presenza di elementi dannosi alla salute.
Gli elementi in questione possono sicuramente avere un’origine mineralogica. Tuttavia, la loro presenza nell’organismo può essere ascritta a molti fattori, compresa l’efficienza metabolica e quindi non necessariamente collegati alla natura dei terreni, quanto a composizione mineralogica delle rocce originarie dalle quali si è originato il suolo agricolo. Inoltre, l’agricoltura si serve purtroppo, di tali e tanti prodotti per le colture; dai diserbanti ai pesticidi ai fertilizzanti che contengono o possono contenere molti composti e quindi svariati elementi, anche dannosi alla salute. Per dipiù i prodotti agricoli non sono generalmente consumati in luoghi vicini alla produzione. Quindi dubito seriamente che si possa trovare una relazione di causa effetto tra la presenza di certi elementi nel mineralogramma e la composizione mineralogica delle terre coltivate nella zona.
 
 

Nota Biografica
Il prof. Romano Rinaldi è l’ex titolare della Cattedra di Mineralogia dell’Università degli Studi di Perugia (dal 1990 al 2014). In precedenza è stato docente e ricercatore presso gli Atenei di: Cagliari, Modena, Berkeley (USA), Chicago (USA) e Manitoba (Canada). Ha coordinato e partecipato a gruppi e progetti di ricerca nel suo campo e in campi affini in molti Paesi oltre che in Italia (UK, SE, DK, CH, FR, DE, ES, PT, US, JP). Nella sua carriera si è occupato di mineralogia e cristallografia di minerali utili e di componenti fondamentali della litosfera, di metodologie fisico-chimiche per la determinazione delle proprietà dei minerali e dei composti di interesse naturalistico, tecnologico e ambientale. È autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche ed editore di alcuni trattati. Attualmente vive in Umbria.
[Pubblicazione sabato 20 febbraio 2021]
A cura di T. De Bonis

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LE FRAGILITÀ DEL SISTEMA SANITARIO LOMBARDO:
ESPERIENZE E RIMEDI
di Giuseppe Carreri*

Giuseppe Carreri
 

Premessa
Nell’ordinamento sanitario nazionale la parola “Sistema” non esiste. Abbiamo bisogno, infatti, di “Servizi” con funzioni e responsabilità precise. Eliminerei quindi ogni riferimento a ciò che non esiste ed è confondente.
 
La Giornata del Ricordo
Nella giornata del ricordo il nostro pensiero è tornato a tempi dove sono accaduti fatti inauditi contro l’umanità. Il ricordo comunque può aiutare a leggere meglio anche la realtà e a progettare un futuro migliore. Qualche tempo fa l’arcivescovo di Milano monsignor Mario Delpini, in un’intervista sul “Corriere della Sera” (sabato 5 Dicembre 2020), ha parlato di umanesimo lombardo, del vivere insieme, del vivere la solidarietà. Ma anche di prendersi cura della famiglia, del lavoro, del pendolarismo, degli spostamenti logoranti, delle periferie dormitorio, della corruzione, della politica nazionale e delle Regioni. La pandemia virale ha reso esplicito in modo drammatico il nesso profondo tra salute e sviluppo sociale ed economico. La memoria, dunque, ci deve guidare anche nel concorrere a realizzare una reale sicurezza sociale. Agli specializzandi in igiene e medicina preventiva ricordavo tempo fa che le radici della riforma sanitaria nascono nel 1943 durante la Resistenza, all’Università degli studi di Padova per merito dei professori Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti e Augusto Giovanardi. A cura del Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto nel settembre 1945 a Padova, dopo la Liberazione, viene presentato il “Progetto di Riforma dell’Ordinamento Sanitario Italiano”. Decisive furono la istituzione delle Regioni a Statuto Ordinario (1970), la lotta e gli scioperi generali dei Sindacati dei lavoratori (CGIL, CISL, UIL) per la riforma della casa, della scuola, della sanità nella seconda metà degli Anni ’70 del secolo scorso. L’accordo dei grandi partiti popolari (DC, PCI, PSI) portò finalmente alla approvazione della legge 833/78, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Sono stati necessari ben 33 anni dal 1945 al 1978.

 

Cinquant’anni di Regioni
Nell’anno 2020 abbiamo ricordato il cinquantesimo anno dalla istituzione delle Regioni a Statuto ordinario (1970). Questo periodo storico può essere scisso almeno per la Lombardia, in due quarti di secolo: 1970- 1995 e 1996-2021. I primi 25 anni sono stati caratterizzati da iniziative nella sanità costruttive ed innovative. Basate sul decentramento istituzionale, sulla partecipazione e sul controllo democratico coinvolgendo gli Enti Locali, specie i Comuni. La Regione Lombardia ha svolto compiti legislativi, di programmazione, di indirizzo, di controllo. Con adeguati finanziamenti.
 
La prevenzione e la Sanità Pubblica
Fin dai primi anni sono stati istituiti su tutto il territorio regionale i Comitati e i Consorzi Sanitari di Zona (CSZ), con funzioni e compiti prevalenti di prevenzione e sanità pubblica (1972). Nel 1974 viene votato con legge, il Piano regionale ospedaliero che insisteva su 5 anni. Fu il primo e ultimo piano ospedaliero della Regione. Ora serve un riordino della rete ospedaliera. Nel 1985 vengono istituiti 15 Dipartimenti di Prevenzione (DP). Con il Decreto Legislativo 502/1992, i DP diventano obbligatori nelle USL dell’intero territorio nazionale. Sulle Urgenze e le Emergenze sanitarie anche ai fini della protezione civile, la Lombardia si distingue: evento Seveso del 1976; soccorso alle popolazioni colpite dal terremoto dell’lrpinia nel 1980; contrasto degli effetti ambientali e sanitari a seguito dell’incidente nucleare di Chernobyl nel 1986; la lotta all’AIDS anni ’80-’90. Nostro consulente per l’AIDS per la Regione il grande medico americano Anthony Fauci per l’AIDS. I problemi sono cominciati a crescere e non solo per la prevenzione, con la legge regionale 31 del 1997, promossa dalla Giunta presieduta da Roberto Formigoni. Le USSL diventano Aziende Sanitarie Locali (ASL) nel numero di 15 e vengono istituite numerose Aziende Ospedaliere (AAOO) ben 27. Si rompe l’unitarietà della prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. In seguito la Giunta Regionale presieduta da Roberto Maroni, promuove una nuova legge sanitaria (L.R. 23 del 2015). Il “Sistema socio sanitario lombardo” si caratterizza con 8 Aziende di tutela della salute (ATS) di cui quella per la Città metropolitana milanese con oltre 3 milioni di persone e un solo Dipartimento di Igiene e Prevenzione Sanitaria, e 27 Aziende Socio Sanitarie Territoriali e Aziende Ospedaliere (ASST). È una legge di dubbia costituzionalità, approvata erroneamente dal Governo nazionale (Renzi-Lorenzin) come legge sperimentale e a tempo (5 anni). Finalmente il 16 dicembre 2020, il Ministro della salute Roberto Speranza, invia una lettera al presidente della Regione Lombardia con allegato un documento della Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali su “La Riforma del Sistema Socio sanitario lombardo (L.R. 23/2015)” di 73 pagine, con il quale si fanno puntuali osservazioni e critiche severe alla legge regionale in oggetto e si dispone una sua revisione entro 120 giorni. Ritengo che la legge regionale n. 23 del 2015 sia la causa di molte difficoltà anche prima della pandemia e la concausa efficiente del disastro della pandemia da Covid-19 nella nostra Regione. Serve dunque un nuovo “Servizio Socio sanitario regionale” basato essenzialmente su tre pilastri: I Dipartimenti di Prevenzione, i Distretti, gli Ospedali. Il tutto di norma deve stare nelle Aziende Unità Locali Socio Sanitarie (AULSS). Esse debbono essere insediate nelle Province, salvo per quelle di Milano e di Brescia. Bisogna potenziare con urgenza i Dipartimenti di Prevenzione. Dagli attuali 8 si deve tornare a 15 con relativi Laboratori di sanità Pubblica. I Medici di Medicina Generale (MMG) e i Pediatri di Libera Scelta (PLS) debbono obbligatoriamente associarsi. Si deve garantire assolutamente una moderna Assistenza sanitaria primaria, la continuità assistenziale e un efficace rapporto territorio ed ospedale. L’assistenza sanitaria privata deve essere integrativa e non sostitutiva di quella pubblica. Servono le rilevanti risorse economiche finanziarie del Mes peraltro destinate esclusivamente alla sanità. Serve infine un piano-programma pluriennale della Regione e delle Università lombarde per la formazione degli operatori del SSR, per la Ricerca Scientifica, specie per quella applicata alla programmazione sanitaria e socio sanitaria. Prioritariamente vanno predisposti e approvati: il Piano pandemico regionale (2021-2023) e il Piano Regionale Prevenzione (2021-2025).


Migliorare la soddisfazione delle persone
In conclusione va ricordato che l’Indice di Performance Sanitaria (IPS) 2020 dell’Istituto Demoskopika sulla base di 8 indicatori, colloca la Regione Lombardia al sesto posto. Mentre per il livello di soddisfazione delle persone in relazione alla erogazione dell’offerta sanitaria ospedaliera per l’anno 2019 (ISTAT), pone la Regione Lombardia all’undicesimo posto tra le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano. Le più in salute nel nostro Paese sono ritenute essere la Regione Emilia-Romagna e il Trentino-Alto Adige. Il Servizio Socio Sanitario della Regione Lombardia era già fragile anche prima della pandemia virale, come giustamente ha fatto notare il prof. Marco Vitale.
  
*Medico chirurgo è specializzato in igiene. Ha diretto il Servizio Igiene pubblica della Regione Lombardia dal 1973 al 2003. Responsabile dei progetti di bonifica delle zone inquinate dalla diossina (Seveso, 1976). Presidente della Società italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica (SItI) 2001-2002. Medaglia d'oro al Merito della Sanità Pubblica (Presidente della Repubblica C. A. Ciampi, 2003). Docente Universitario alla Bocconi (1984-1985). A lungo docente alle Università di Milano e di Pavia. Ha istituito nel 2017, il Movimento culturale per la difesa e il miglioramento del SSN. Coordinatore onorario del Collegio degli Operatori di Prevenzione, di Sanità Pubblica e delle Direzioni Sanitarie della SItl.

[Pubblicazione mercoledì 10 febbraio 2021]

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LA CATARATTA
di Sonia Palmieri*


Sonia Palmieri

L’intervento di cataratta rappresenta una delle procedure chirurgiche maggiormente eseguite in ambito oculistico in tutto il mondo.
 
La tecnica di asportazione della cataratta attualmente in uso risulta fortemente consolidata e contraddistinta da un elevato grado di sicurezza; ogni anno in Italia vengono eseguite migliaia di procedure in ospedali, cliniche e strutture private con eccellenti risultati.
L’opacizzazione del cristallino (cioè la cataratta) che impedisce un’adeguata visione è nota fin da tempi antichissimi, così come l’idea di cercare di rimuoverlo chirurgicamente. Anche se il termine cataratta comincia ad essere usato dal medico persiano Avicenna intorno all’anno mille d.C., le prime tecniche (che prevedevano di lussare il cristallino) risalgono agli antichi Egizi



Abbiamo inoltre testimonianze che i Romani fossero in grado di operare di cataratta con grande professionalità: un articolo della BBC News (2008) ha documentato il ritrovamento di strumenti chirurgici e colliri in uso in Britannia, asserendo che i Romani sono stati i primi ad effettuare operazioni di cataratta mediante l’introduzione di aghi all’interno dell’occhio.
Tornando ai giorni nostri si sono adottate prima tecniche extra e intracapsulari che hanno migliorato progressivamente la qualità della prestazione professionale per approdare successivamente alla facoemulsificazione, che è la tecnica ad ultrasuoni attualmente in uso. Dagli anni ’80 ad oggi anche le dimensioni delle incisioni si sono ridotte fino ad evitare quasi totalmente l’uso dei punti di sutura.
Negli ultimi anni il recupero visivo (la qualità e la quantità di visione) è diventato il principale obiettivo dell’intervento (e non solo l’asportazione del cristallino ormai diventato opaco per l’età o per patologie che ne hanno accelerato il processo degenerativo). A fianco di lenti IOL monofocali (più comunemente in uso) sono state introdotte e sperimentate ormai su vasta scala lenti endoculari maggiormente performanti (toriche per correggere astigmatismi, multifocali o a profondità di campo per consentire un migliore recupero visivo) puntando ad eliminare/minimizzare l’utilizzo di occhiali correttivi post chirurgia. Nell’intento di rendere più preciso l’atto chirurgico in sé è stato introdotto il Femtolaser, uno strumento utilizzato in alcune delicate fasi della procedura chirurgica: consente di effettuare incisioni ad altissima precisione (sostituendo i microbisturi) e di impiantare con maggiore accuratezza innovative IOL customizzate, in grado di correggere specifici difetti refrattivi dell’occhio e adattarsi alle necessità dei singoli soggetti in modo sempre più specifico. Queste innovative lenti endoculari sono indicate soprattutto per soggetti ancora in età lavorativa o per coloro che hanno uno stile di vita particolarmente attivo nonché per tutti coloro che non vogliono più portare gli occhiali.


La dottoressa Palmieri

Allo stato attuale sia queste lenti sia questa innovativa tecnologia chirurgica laser (per questioni di costi e tempi) non sono disponibili tramite SSN e quindi eseguibili solo privatamente.
Novità in arrivo anche nella terapia antibiotico/cortisonica postoperatoria: con i nuovi farmaci si può prevedere una riduzione (fino ad un dimezzamento) del tempo dei trattamenti (colliri) nel postoperatorio.
L’asportazione della cataratta, ove non vi siano altre patologie oculistiche rilevanti, consente con una chirurgia rapida, precisa e ad elevato grado di sicurezza, di tornare ad avere una qualità di visione soddisfacente.
 
*Dott.ssa Sonia Palmieri, Medico Chirurgo, Specialista in Oftalmologia, Master in Oftalmologia Medico-Legale, esegue attività oculistica di I e II livello, chirurgia della cataratta.
 
[Pubblicazione sabato 2 gennaio 2021]


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LA TUTELA DELLA SALUTE
di Guido Peter Broich*

Guido P. Broich
   
La salute venne definita dalla neonata Organizzazione Mondiale della Sanità come lo “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia”. Passata la immane catastrofe della Seconda Guerra Mondiale si credeva possibile una pace mondiale duratura in una visione razionale della convivenza tra i popoli. In un tale momento di sogno oltre alla pace mondiale anche lo stato di “completo benessere” di pace, sociale, fisico e mentale avevano diritto di cittadinanza. La realtà fece presto a tornare e venne la guerra fredda con i sollevamenti popolari in Germania Est, in Ungheria e Cecoslovacchia, la crisi di Cuba e le guerre calde di Corea, Vietnam e Afghanistan ed infine il palese ritorno dell’oscurità dell’intelletto con il terrorismo mistico e religioso che l’uomo moderno, viziato da trecento anni di illuminismo, non era pronto a riconoscere in tutta la sua valenza. In campo sanitario il grande sviluppo delle conoscenze mediche aveva fatto sognare che fosse possibile raggiungere, e idealmente garantire a tutta l’umanità, uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia”. Si poteva immaginare che ci fossero solo limiti dettati da problemi economici, culturali e di evoluzione della scienza, e non strutturali e naturali. Per raggiungere questo sogno nascono allora i sistemi sanitari universalistici ed equi per tutti, si ritiene che sia lo Stato, la comunitas di tutti i cittadini, a doversi accollare la gestione delle risorse da destinare alla sanità. È necessario ricordare che già esistevano sistemi di distribuzione del rischio sanitario con le mutue, ma mancava il concetto tanto semplice quanto potente: per tutti, ugualmente. Proprio per superare le differenze tra le varie mutue e coprire con assoluta certezza anche chi per vari motivi non fosse coperto da uno dei sistemi previdenziali esistenti, venne elaborata la legge di riforma del sistema sanitario 833 del 1978. La legge istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale italiano entra così in vigore il 1° gennaio del 1980. Il principio di fondo era ed è molto semplice: la Stato garantisce con proprie regole, uguali per tutti i cittadini, l’accesso alle prestazioni sanitarie, sia di prevenzione che diagnosi e cura. Tali prestazioni vengono pagate dal sistema tramite la fiscalità generale. Va subito detto che tale principio semplice e lineare nella teoria, mostra da subito alcuni punti critici importanti nel modo in cui venne realizzato. Erano gli anni in cui dominava una visione della società che dava preferenza della uguaglianza alla qualità. Lo Stato di fatto avvoca a sé la gestione degli ospedali, lasciando al privato solo aree residuali prive di una normazione organica, ma tollerate nella speranza di poterne instradare la dismissione e chiusura. 



Vennero chiusi i reparti “solventi” e iniziò una lunga operazione di restrizione e contrasto alla attività privata dei medici, cosa che fu sempre, fino ad oggi, causa di resistenze notevoli e significative. Il rapporto tra Sanità pubblica e privata nasce così da subito con una conflittualità ideologica influenzata più dalle convinzioni politiche dominanti al momento che da riflessioni di organica coesistenza produttiva, aprendo la strada ai profondi squilibri che osserviamo oggi. Resta poi il problema di fondo di ogni sistema mutualistico: il soggetto beneficiario della cura, il soggetto erogatore della stessa e quello pagatore, sono diversi, vanificando la possibilità di una regolazione spontanea nell’equilibrio tra domanda ed offerta. Inoltre questi tre poli non godono di uguali poteri, come sarebbe richiesto da uno schema di libero mercato. Da una parte ci sono realtà imprenditoriali, di proprietà pubblica o privata, dall’altra lo Stato che paga secondo regole autodefinite. In mezzo si trova il soggetto beneficiario, privo di potere diretto ed autonomo: il cittadino che richiede la salvaguardia della propria salute. Quando poi il servizio pubblico da una logica di erogatore puro, passa ad una di contabilità aziendale con il D. Legg. 502/92, il concetto filosofico di “benessere” della persona, caratteristica difficilmente misurabile e strutturalmente soggettiva, si trova in decisa crisi. Per passare ad una visione “costi/ricavi” nella sanità bisogna tenere conto analitico dei costi e quantificare il risultato dell’azione sanitaria sulla popolazione, cosa assai complessa. Allora per le prestazioni di ricovero si mutua dalle grandi assicurazioni private statunitensi il sistema dei cosiddetti “DRG”. Senza voler entrare negli schemi di calcolo di tale sistema si può sottolinearne alcuni aspetti chiave: 1. nasce in ambiente assicurativo e non di servizio sociale; 2. è imperniato sul rapporto costo/beneficio misurabile, molto efficace nella cura di patologie acute, ma strutturalmente inadatto per valutare aree non monetizzabili come la prevenzione, la condizione mentale e l’inserimento sociale; 3. legando i rimborsi alla patologia fisica già manifesta, spinge inesorabilmente verso una selezione dell’offerta che marginalizza le azioni preventive. Essendo i rimborsi fissati autonomamente dal pagatore pubblico, si assiste ad un progressivo e sempre più pesante spostamento verso una logica di riduzione della spesa. Ma la sanità come servizio sociale è assimilabile a scuole, infrastrutture e forze dell’ordine, non riconducibili a semplici calcoli di costo su produzione. La polizia migliore è quella che con azioni di contrasto e difesa della sicurezza civile evita i delitti, la scuola migliore è quella che forma talmente bene i giovani da non avere bisogno di lezioni supplementari. Così la migliore sanità è quella che con la prevenzione e vigilanza sulle condizioni fisiche e sociali di vita delle persone, riesce a ridurre ad un minimo scientificamente possibile le malattie. Noi invece abbiamo abolito il medico scolastico e i “check-up” periodici sono diventati un fatto privato. 



Dove una volta c’erano risposte di offerta collettiva, ora si rimanda all’attenzione dei soli genitori. Dove una volta lo Stato si impegnava a spingere le persone a sottoporsi a visite di controllo e preventive, oggi domina il “governo della domanda”, modo nemmeno tanto elegante per descrivere la pressione a dissuadere il cittadino ad accedere ai servizi sanitari. Cosa fare? Esistono vari spunti di riflessione positivi da discutere e condividere, il problema della sostenibilità dei sistemi sanitari è generale e non limitato al nostro paese. La sanità di cura deve essere un sottoinsieme della Salute individuale e globale, affiancandovi sanità di prevenzione e salute sociale, cioè azioni finalizzate sia al controllo sanitario di gruppo che della valutazione della salubrità degli ambienti, delle condizioni di vita e del controllo dello stato di salute, sia fisico che mentale e sociale. Credo che il Sistema Sanitario Nazionale abbia fatto finora un egregio lavoro. Esso ci ha donato una delle aspettative di vita più lunghe al mondo, ma è arrivato al suo limite operativo. Si deve affermare con forza che si possono ridurre i costi della sanità tramite la prevenzione, ma non tramite la limitazione dell’offerta, altrimenti eccessive diseguaglianze organizzative territoriali come l’imposizione di “ticket”, veri e propri limitatori di prestazioni, uccidono il sistema. Siamo arrivati, almeno nelle regioni virtuose, al limite della “razionalizzazione” nel suo significato di tagli e riduzione della spesa. Dobbiamo tornare a vedere nella salute un costo sociale puro, come lo sono la scuola, la sicurezza e le infrastrutture del Paese, un investimento che la collettività sostiene non solo per affrontare un problema specifico emerso, ma per impedire il verificarsi dello stesso. Dobbiamo salvaguardare i princìpi di buona amministrazione e gestione lasciando l’ingegneria gestionale e aziendale a compiti a loro più consoni. Dobbiamo restituire la gestione della sanità a chi è competente, limitando l’influenza delle ragioni e dei meccanismi di “palazzo”. L’operatore di Sanità, nelle sue varie articolazioni di Medico, Infermiere e Tecnico, è anche sempre un educatore, un compagno di riflessioni. Esso sa suggerire la prevenzione, curare le malattie e sostenere lo spirito della persona qualora la scienza non offra più cure. Inoltre è parte della collettività e come tale sa segnalare situazioni di criticità sociale, di disagio non ancora emerso, di bisogni reali ma non ancora percepiti. In sintesi: in sanità non va contrastata la domanda, che al contrario va fatta emergere il più possibile anche se aumenta la spesa. Lo Stato deve concentrarsi sulla gestione del sistema più che sulla organizzazione dell’erogazione. La salute è un bene non solo dei malati, ma collettivo.



*Medico. Nato in Germania, laurea in Medicina e Chirurgia “con lode” presso l’Università di Pavia. Ricerca prima al House Ear Institut di Los Angeles, poi alla State University of New York at Stony Brook e alla Otolaryngology Clinic della Università di Cincinnati, Ohio. È membro onorario della Societas Medico-Physica Erlangensis dell’Università di Norimberga e componente del Board of Editors della rivista indicizzata “Anticancer Research”, pubblicata dalla International Institute of Anticancer Research di Atene. Grande Ufficiale (2018) dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, è stato Direttore Sanitario del Policlinico di Milano.
[Pubblicazione giovedì 24 dicembre 2020]


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TORNARE A IPPOCRATE
di Oliviero Arzuffi*


Oliviero Arzuffi
 
Ospitare in questa Rubrica anche la voce degli scrittori, dei poeti, dei filosofi, degli artisti, degli educatori, mettendola in risonanza con quella dei medici e degli scienziati, in un comune spirito ippocratico, ci pare un’ottima pratica. In fondo il Rinascimento è nato dall’apporto di tante intelligenze e di tante diverse competenze.


Nell’antico giuramento di Ippocrate, che i discepoli del padre della medicina occidentale pronunciavano davanti all’altare degli dèi nell’isola di Kos, oggi Turchia, ci sono già tutti gli elementi costitutivi della scienza medica così come noi la conosciamo e la concepiamo. Meglio, così come l’avevamo concepita fino a qualche decennio fa. Oggi, infatti questo forte riferimento etico-valoriale è sfumato dietro l’orizzonte e ci troviamo con una medicina fortemente condizionata dalle logiche dell’economia di mercato e da una ricerca scientifica che sembra impazzire dietro ad un sapere ridotto a pura curiositas sperimentativa e molto tecnologicamente contrassegnato. Così come la venerabilità di questa disciplina, collocata con un solenne giuramento agli dèi nel recinto del sacro da parte della scuola Ippocratica, si è svilita in una ricerca empirica di natura puramente strumentale, dimentica delle finalità precipue di essa: curare l’uomo e salvaguardare la vita, dal grembo materno fino all’ultimo respiro. Quel non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darà un medicinale abortivo, la dice lunga sull’eclisse della dimensione etica nell’esercizio della medicina odierna, al di là di ogni specifica professione di fede religiosa. C’è di che riflettere su questo salto culturale all’indietro. Ma vediamo gli elementi costitutivi di questo antico modo di concepire la medicina, per trarne dei possibili insegnamenti.

                 
L’umiltà del sapere
La vita è breve, l'arte lunga, l'esperienza ingannevole, il giudizio difficile. Da questo aforisma tratto dal corpus ippocrateum e riferito ad Ippocrate stesso, possiamo dedurre che l’esercizio della disciplina medica, secondo il pensiero di Ippocrate, doveva essere caratterizzato da un atteggiamento di grande umiltà. Una parola poco gradita al delirio di onnipotenza che pervade ogni ambito scientifico ai nostri giorni. Eppure questo atteggiamento è quanto mai saggio ed opportuno, perché nessun essere è così complesso e misterioso quanto l’uomo. Niente come il corpo umano riserva sorprese. Nulla come lo spirito dell’uomo è sottoposto alla contraddizione di grandi abbattimenti e di grandi entusiasmi, con le conseguenze somatiche di questo altalenare di sentimenti profondi e di passioni anche violente. Poco poi nella conoscenza è completamente sondato. Perciò l’esperienza è ingannevole e il giudizio difficile. Tale atteggiamento di umiltà di fronte alla complessità del reale e della limitatezza nostra intelligenza nei suoi confronti ci consente un approccio meno disumano e meno tecnicistico con la malattia, la disabilità e la cura.


La medicina come arte
Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte. Vita ed arte. Forse nessun’altra disciplina come la medicina lega così strettamente stile di vita e professione esercitata. Meglio, legava. Perché oggi sembra prevalere il lavoro di équipe e l’impersonalità della prestazione. Il servizio sanitario, anche nel linguaggio burocratico, viene infatti “erogato”, più che offerto o prestato. È venuto meno l’aspetto relazionale ed esemplare del rapporto terapeutico che fa di un intervento scientifico una vera e propria arte, nel senso etimologico del termine. La medicina, per Ippocrate, è un’arte: un mettere insieme in modo armonico e ordinato cose diverse. Non quindi pura tecnica, essenziata da un insieme di nozioni prive di finalità e di intenzionalità. I dati tecnici e i risultati scientifici costituiscono, per il terapeuta, gli elementi indispensabili sì per la conoscenza ma non sufficienti per il giudizio. È infatti necessaria anche l’interpretazione di quei dati collocandoli nelle diverse situazioni e nei diversi contesti per fare una diagnosi e per intervenire terapeuticamente in modo efficace, unitamente a modello di vita che il paziente deve poter vedere nel medico affinché la stessa parola di quest’ultimo sia in qualche modo credibile e sia orientativa, terapeutica appunto. La terapia così configurata si propone come una sorta di recupero della bellezza e integrità originaria dell’uomo. In questa prospettiva si comprende il senso di quel custodire con innocenza e purezza la mia vita, come requisito indispensabile per chi deve esercitare l’arte di guarire un uomo.
 
 
La trasmissione delle conoscenze come atto pedagogico
È interessante come nel giuramento si insista molto sulla figura del maestro e sul come quest’arte debba essere trasmessa. La presenza di un maestro e la trasmissibilità della disciplina connotano pedagogicamente la professione medica. Non si trasmettono infatti solo dati di conoscenza ma anche modalità di comportamento e scelte di vita, proprio quelle che danno origine al giuramento, vissuto come un ingresso ad un modo di vivere e di operare che fa di ogni appartenente alla classe medica un maestro di vita, prima ancora che un tecnico della salute. La medicina così intesa è un percorso ascetico nella conoscenza e nell’applicazione delle medesime, che esige la segretezza nel comunicare nozioni e metodi che appartengono alla storia di intere generazioni. Viene da chiedersi se una delle grandi carenze terapeutiche di oggi non sia riconducibile all’assenza di connotati pedagogici e di spirito educativo nello scambio di informazioni proprio nell’ambito dove è in gioco non solo la malattia, come menomazione di un organo, ma il senso stesso della vita e della morte.                

      

Il risvolto relazionale e sociale dell’arte curativa
In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e, fra le altre cose, da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi. Questa formidabile intuizione della finalità solidaristica della cura, fondata sulla compassione, viene indirizzata indistintamente a liberi e a schiavi, anticipando di molti secoli il concetto di deontologia e insieme di democrazia, qui desunta dalla comune appartenenza al genere umano. Che cosa pensasse Ippocrate della democrazia è poi noto da uno dei suoi più sorprendenti detti: la democrazia produce corpi sani, la tirannide corpi malati. Quasi a dire che l’osservazione della realtà ci certifica che un corpo sociale sano, quale è quello democratico, non può che giovare alla salute del corpo e viceversa, mettendo in stretta relazione la salute privata con la salute pubblica, in un’osmosi non secondaria per il benessere complessivo dei cittadini. Questo risvolto sociale e politico dell’arte medica è oggi, per certi aspetti, messo sotto accusa da una presunta neutralità della medicina, che si illude di poter guarire malanni anche di origine sociale e relazionale senza affrontarne le cause, quasi che la malattia e la terapia non facessero parte di un vissuto comune dei componenti di una società, nel bene come nel male.  

  
   

La riservatezza
Quello che viene oggi chiamato “segreto d’ufficio” è stato enunciato proprio da Ippocrate onde preservare il diritto alla riservatezza del malato e impedire che altri, con meno nobili intenzioni della sua guarigione, usassero della sua debolezza. Una straordinaria conquista di civiltà che non si è ancora realizzata dopo quasi duemila e cinquecento anni di storia. Forse, più che di segreto di ufficio, che sa tanto di atto burocratico, sarebbe più appropriato parlare di rispetto, perché questo ultimo termine sottolinea maggiormente la tutela dell’intimità profonda che si instaura tra paziente e medico in un’alleanza terapeutica fondata sulla reciproca fiducia. Il giuramento pronunciato al cospetto di tutti gli dèi sul dovere della riservatezza sanziona in modo non equivoco questa alleanza e la cementa con un vincolo indissolubile. 


Alcune osservazioni
Già nel giuramento moderno di Ippocrate, che nessun medico ormai pronuncia più quasi a significare l’uscita della medicina dall’ambito del sacro e la riduzione della terapia a puro mestiere e dato tecnico, la forte carica etica si è di molto affievolita. Mancano in esso, infatti, i riferimenti fondanti dei doveri etici, se non un rimando ai principi etici della solidarietà umana, senza dire in che cosa consistano e su che cosa si fondano, e un accenno alle norme deontologiche della professione, senza specificare quali e donde traggano la loro legittimità. L’arte è già diventata qui semplice professione e l’Autorità competente il riferimento normativo dell’operare del medico. Non c’è inoltre alcun accenno alla trasmissibilità del sapere e al risvolto pedagogico della professione che costituiscono il senso ultimo della professione sanitaria. Quando è stato scritto questo ultimo giuramento, il bisogno di laicizzare la medicina era certamente un’operazione doverosa per poterla rendere compiutamente una scienza rigorosa e alla portata di tutti, per strapparla alla manipolazione dei ciarlatani e per farla diventare “democratica” come si dice, tuttavia in questo modo si è perso qualcosa che successivamente non è più stato recuperato.
Infatti, anche nella medicina, la “misurazione del fenomeno” ha preso il sopravvento su ogni altra considerazione e l’economia ha ridotto il sapere e la pratica clinica a mercimonio al pari di ogni altro “manufatto” umano. È necessaria, perciò, una ricomprensione della specificità dell’arte medica e della natura stessa dell’uomo, se vogliamo recuperare il senso profondo di ciò che il grande Ippocrate ci ha lasciato come mandato di umanizzazione e di civiltà della nostra specie. 

  
*Scrittore
[Pubblicazione lunedì 21 dicembre 2020]


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LA TERAPIA DEL DOLORE
di Cesare Bonezzi*


Cesare Bonezzi

Il sottile cordone ombelicale che lega la “Terapia del Dolore” alla Anestesiologia
 
Va innanzi tutto chiarito che la definizione di “Terapia del dolore” indica una disciplina clinica e non solo un dovere terapeutico che ogni medico deve saper assolvere. Ogni medico deve prescrivere i farmaci analgesici appropriati di fronte al dolore di un paziente e non solo curare la malattia che ne è responsabile, sperando che la sua soluzione comporti la scomparsa del dolore. La disciplina di “Terapia del dolore” affronta il dolore cercando di individuare i meccanismi fisiopatologici che lo generano, offrendo tecniche chirurgiche mininvasive e terapie farmacologiche basate sugli elementi identificati nella diagnosi, gestendo il percorso di cura del paziente sofferente. L’obiettivo della cura è il ritorno ad una vita attiva.
Dobbiamo innanzi tutto cogliere la differenza tra analgesia e anestesia. L’analgesia è una riduzione del dolore senza che siano coinvolte le sensibilità dei tessuti ovvero è una condizione in cui l’origine degli impulsi, la loro conduzione e trasmissione, vengono modulate e controllate. La seconda indica una condizione di totale assenza di dolore e di altre sensazioni vuoi perché la via che conduce gli impulsi sensitivi dai tessuti del corpo al cervello viene interrotta vuoi perché il cervello stesso non è in grado di elaborare questi impulsi che giungono per generare il dolore e le altre sensazioni. La prima forma di anestesia viene chiamata anestesia locale o loco-regionale mentre la seconda forma è nota come anestesia generale. La scuola di Specializzazione in Anestesia insegna come mantenere il paziente in una condizione di anestesia locale o generale permettendo al chirurgo di espletare il suo lavoro sul corpo e nello stesso tempo controllando le condizioni generali affinché non vengano compromesse. In altri termini l’Anestesista è colui che genera una condizione di assenza di dolore e che sa come “addormentare” le vie nervose periferiche o il cervello utilizzando anestetici locali o generali. Addormentare le vie nervose sensitive e motorie significa togliere per il tempo necessario la sensibilità e la motricità di tutto il corpo o di una sua parte. La condizione di anestesia comprende quella di analgesia e non viceversa.


Ottenere l’analgesia significa ridurre o togliere il dolore senza interferire non solo con lo stato di coscienza e di veglia ma anche con le capacità funzionali che sottendono alle attività della vita quotidiana. Esiste quindi una sostanziale differenza tra la condizione del paziente in sala operatoria e quella del paziente che nonostante il dolore vuole vivere una vita attiva.
Esistono farmaci anestetici locali e generali e farmaci analgesici; questi ultimi agiscono in vario modo riducendo l’infiammazione che genera il dolore, modulando la trasmissione e la conduzione dell’impulso nervoso. Tra i farmaci analgesici giocano un ruolo importante gli oppioidi naturali e sintetici.
Ritorniamo alla figura dello Specialista che esce dalla Scuola di Specializzazione di “Anestesia Rianimazione, Terapia intensiva e del dolore” dopo aver passato cinque anni di corsi teorici e soprattutto di pratica clinica nelle sale operatorie delle diverse discipline ospedaliere e nei reparti di terapia intensiva e rianimazione. In molte Scuole di Specializzazione non sono presenti, allo stato attuale, reparti di Terapia del dolore in grado di preparare sul campo gli specializzandi in questa disciplina.
Perché è necessaria una preparazione specifica teorica e pratica in terapia del dolore? Non basta l’esperienza anestesiologica?
L’anestesista impara perfettamente a identificare mediante ecografia ed a interrompere farmacologicamente le vie nervose sensitive dalla periferia fin dentro il canale vertebrale con appositi aghi e strumenti. Egli è perfettamente in grado di gestire ogni evento avverso, che senza alcuna ragione può insorgere come reazione ai farmaci o altro. In altre parole, egli è un abile e sicuro esecutore di molte tecniche che vengono utilizzate per il controllo del dolore. Questa abilità è utilissima ma non basta affatto e cercherò di spiegare il perché.


Nella legge 38 del 2010 in cui viene sancito il diritto a non soffrire ed in cui contemporaneamente vengono identificate due discipline, apparente simili ma molto diverse nella pratica clinica, le Cure Palliative e La Terapia de Dolore, si sottolinea l’importanza di valutare la presenza o meno di dolore e di identificarla con un numero da zero a dieci, dove 10 è il massimo valore attribuibile al dolore. Questo numero dovrebbe indicare, nel preciso momento in cui viene rilevato, la condizione di sofferenza del paziente o meglio l’esperienza sgradevole che sta vivendo a causa di una serie di impulsi che arrivano dal suo corpo malato. Il numero è risultato di una complessa elaborazione del sistema nervoso che vede coinvolte aree cerebrali sensitive-discriminative ed aree affettivo-emozionali. Non esiste un’area corticale dove gli impulsi afferenti dal corpo vengono letti e identificati. Il dolore, che è fondamentale in condizioni normali per la nostra omeostasi, coinvolge tante aree del cervello generando sensazioni, emozioni, reazioni, e lascia sempre il ricordo della sua presenza.
Queste considerazioni ci portano a due obiettivi di indagine delle Terapia del dolore: l’origine degli impulsi destinati a generare dolore e la condizione psicosociale del paziente che elabora gli impulsi e genera la sgradevole esperienza dolorosa. Nascono due esigenze formative ovvero la conoscenza della anatomia del sistema nervoso, della fisiopatologia del dolore e del metodo diagnostico volto alla ricerca dell’origine degli impulsi da una parte e dall’altra la capacità di instaurare una relazione con il paziente per comprendere la sua condizione di sofferenza. La prima può essere insegnata da una cattedra ma la seconda va appresa in un lungo tirocinio sul campo. Dopo di che si possono imparare tutte le tecniche antalgiche vecchie e nuove.
Le scuole di Specializzazione dovrebbero quindi attrezzarsi per permettere all’allievo una formazione sul campo oltre che in aula. Nel mondo anestesiologico il paziente o una sua parte corporea “dorme”, in quello della Terapia del dolore, il paziente non solo vuole vivere e lavorare, ovviamente senza dolore, ma cerca una relazione d’aiuto per affrontare i lunghi periodi della sofferenza.


Non è tanto il passaggio da colui che addormenta, perché il chirurgo sia in grado di curare, a colui che opera in prima persona, ma il difficile passaggio all’antica figura del “clinico” che diagnostica e che si prende cura. L’obiettivo diagnostico non è solo quello della patologia, che è la responsabile diretta del dolore, ma dei meccanismi fisiopatologici con cui il dolore viene generato e modificato nel percorso dal tessuto leso al cervello. Il Terapista del dolore deve quindi agire a volte sulla causa-malattia, a volte sulla via sensitiva per modulare gli impulsi, a volte sui centri superiori per mitigare la sofferenza e la sgradevolezza. Accanto a queste pratiche diagnostiche-terapeutiche deve costruire una relazione con il paziente per capire l’esperienza che sta vivendo al di la di una superficiale ed inutile valutazione numerica. La Terapia del dolore ha il compito di curare il dolore in tutte le forme in cui si presenta, acuto o cronico che sia, riducendolo per restituire il paziente ad una vita attiva. A volte le terapie, benché opportunamente applicate, non sono rapidamente efficaci o richiedono un continuo controllo, chiedendo al “clinico” un ulteriore compito ancor più complesso dei precedenti. Egli deve saper gestire una relazione terapeutica di lunga durata costellata da parziali successi e temporanei insuccessi, trovando di volta in volta una soluzione appropriata. Tutto questo richiede una lunga preparazione per colui che vuole esercitare questa disciplina specialistica non ancora conosciuta e riconosciuta.
 
*Medico. Consulente presso l'Unità di Terapia del Dolore
Istituti Clinici Scientifici Maugeri - Pavia

[Pubblicazione venerdì 18 dicembre 2020]

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OSSIGENO-OZONO TERAPIA
di Teodosio De Bonis*



Un presidio medico-terapeutico prezioso e sicuro      
 
L’Ossigeno-Ozono Terapia è una terapia medico-fisica basata sull’erogazione di una certa quantità di ozono nell’organismo attraverso varie tecniche.
Questa pratica medica migliora il trasporto e l’utilizzo di ossigeno arricchito (vero carburante cellulare) in tutto il corpo o in parte di esso. L’ozono, una delle sostanze gassose più studiate, è un derivato dell’ossigeno, per l’esattezza è la molecola triatomica dell’ossigeno che si forma in seguito ad una scarica elettrica (da 5 a 13 megavolt)
3O2 + 68.000 cal.  2 O3
È un gas instabile con breve emivita (40 min. a20°C) dall’odore caratteristico pungente. (Ozein-mandare odore). La paternità della scoperta dell’ozono è attribuita a Cristian Friedrich Schonbein, chimico nato Metzingen, vicino all’odierna Stoccarda, il 18 ottobre 1799. Schonbein è ricordato come la prima persona che studiò i meccanismi di reazione fra materia organica e ozono.
L’invenzione brevettata nel 1847 da parte di Werner von Siemens del cosiddetto tubo di superinduzione, cioè del sistema per la preparazione estemporanea dell’ozono, apre la via all’utilizzo dell’ozono in ambito chimico-clinico-sperimentale. Lo stesso scienziato scrisse un libro sull’applicazione dell’ozono in acqua. Il merito di evidenziare il potere disinfettante dell’ozono va ascritto al dr Kleinmann. Il fisico-chimico-matematico Joachim Hansler nel 1957, grazie alle sue vaste conoscenze di scienze di base, mise a punto il primo generatore di ozono valido per l’uso medico.


Date importanti
Nel 1924 G. Dobson costruì il primo spettrofotometro dal quale discese il fotometro con il quale a misurare in tempo reale l’esatta concentrazione di ozono.
L’uso di ozono negli Stati Uniti risale al 1940
Nel 1961 il dott. Hans Wolff ha introdotto le tecniche della autoemoterapia maggiore e minore (non entro in particolari tecnici, è sufficiente sapere che le suddette non vanno confuse con il termine di trasfusione. Il sangue è solo del paziente. A questa tecnica possono sottoporsi anche i Testimoni di Geova, tanto per chiarire).
Nel 1977 il dr Renate Viegahn fornisce una panoramica tecnica
di azione dell’ozono nel corpo.
Nel 1979 il dr George Freibott ha iniziato a trattare il primo paziente di AIDS con l’ozono.
Nel 1980 il dr Horst Kief segnala la positività dell’ozono nella cura dell’AIDS.
Nel 1987 il dr Rilling e il dr Viebahn pubblicano “L’uso di ozono in Medicina” il testo standard sull’argomento.
Nel 1998 la US Environmental Protection Agency, in collaborazione con il Safe Drinking Water Act del 1991, ha confermato l’efficacia nel liberare l’acqua dagli agenti patogeni e dal Cryptosporidium cloro resistente. Molte città, fra cui Los Angeles, stanno usando l’ozono per disinfettare le loro riserve di acqua.
Gli Italiani attraverso la SIOOT, la Nuova FIO, l’OSA, la Scuola di Napoli del prof. Luongo, di Pavia e di Siena del compianto prof. Velio Bocci hanno dato un validissimo contributo alla ricerca clinico-sperimentale dell’ozono.
La patria dell’ossigeno- ozono terapia è Cuba, là sono stati condotte meticolose ricerche; gli studi e i riscontri clinici che son seguiti, hanno permesso la validazione dei primi protocolli terapeutici.
L’Italia, invece, è la patria dell’ossigeno-ozono terapia per il trattamento dell’ernia del disco, delle ulcere e decubiti vascolari e, recentemente, dei disturbi del neurovascolari (ictus e demenza).
Nel 2006 il Consiglio Superiore di Sanità promuove e viene depositata una Consensus Conference “Ossigeno-ozono terapia nel trattamento delle lombosciatalgie da ernia discale con tecnica iniettiva intramuscolare paravertebrale”. Ne è scaturito un particolareggiato protocollo nel quale si indicano i tempi, i dosaggi, le modalità di applicazione e i costi dell’ozono nel trattamento dell’ernia discale e/o protrusioni che portano alla risoluzione del problema nel 90-94%. Efficacia e costi contenuti giustificherebbero l’impiego dell’ossigeno-ozono terapia in pazienti non operabili in cui si avrebbe una consistente riduzione dell’ernia. Per le patologie batteriche e virali, infiammatorie e circolatorie si raggiungono valori percentualmente superiori.
Oggi l’Ozono-terapia è un presidio medico riconosciuto in molte nazioni: Germania, Francia, Italia, Russia Romania, Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Israele, Cuba, Giappone, Messico, Cina e negli Stati Uniti, e senza ombra di dubbio l’ozono ha dimostrato di essere il più sicuro farmaco mai concepito in terapia medica.
La miscela viene prodotta da particolari apparecchiature, validate dalle società scientifiche e dal ministero della salute, ed è preparata a secondo delle patologie. È una terapia prettamente medica e viene effettuata da medici che abbiano un iter formativo che prevede vari stati: Master di I e di II livello; Corsi di Perfezionamento e Corsi Base e di Aggiornamento.
A differenza dei comuni farmaci, che agiscono con un meccanismo recettoriale secondo i criteri dell’azione di massa, l’O3 si comporta come un pro-farmaco che attiva una miriade di eventi sub-cellulari, molto dei quali in gran parte già delineati ma molti altri non ancora ben definiti.
L’ozono non è un radicale libero, non ha elettroni spaiati sull’orbita esterna ma è un forte ossidante al terzo posto dopo il fluoro (fluorina) e il persolfato.



Presenta le seguenti caratteristiche:
Si scioglie nell’acqua e rimane stabile per 24 h (quindi il suo utilizzo come disinfettante orale, vaginale, rettale e cutaneo). L’ozono a contatto con il plasma e con le componenti lipoproteiche forma H2O2 e LOP 2O2- +2H- maggiore H2O2+ O2 L’H2 O2 assicura l’azione batteriostatica e battericida dei leucociti polimorfonucleati Respiratory burst (effetto antimicrobico dell’ozono). I LOP (prodotti finali dell’ossidazione lipidica) hanno attività inducente e di riattivazione delle varie funzioni metaboliche, tra cui l’azione antiinfiammatoria ed antalgica.


 
Le vie di somministrazione sono:
per contatto e fumigazione, tramite l’uso di cilindri, campane di vetro o sacchetti di plastica resi opportunamente stagni, riempiti con una miscela gassosa ricca di ozono.
Sistemica: iniezioni intramuscolari, sottocutanee, intradermiche ed intra-articolare; grande autoemoterapia e piccola autoterapia. Nella grande auto-emoterpia, si preleva sangue venoso che viene convogliato in un contenitore e dopo ozonizzazione viene riimmesso per via endovenosa in circolo. Nella piccola auto-emoterapia, invece, si utilizza una piccola quantità di sangue del paziente che, dopo l’ozonizzazione, viene con una intramuscolare somministrata al paziente.
Insufflazione: tramite un minuscolo tubo una miscela gassosa ricca di ozono viene insufflata nelle cavità naturali.
Acqua ozonizzata: bere l’acqua iper-ozonizzata, prodotta da apparecchi ozonizzatori, preferibilmente lontano dai pasti serve per disintossicare il corpo, riequilibrare la flora batterica, migliorare la funzionalità intestinale e rafforzare le difese immunitarie.
Non esistono effetti collaterali di rilievo se il trattamento è correttamente eseguito. L’ossigeno-ozono non causa reazioni allergiche di nessun tipo.
Come ebbe a dire il prof. Payr: “Ciò che non può il farmaco e/o l’ossigeno, può l’ozono”.


*Medico chirurgo, specialista in Anestesia e Rianimazione.
Esperto di Medicina Sistemica – Master di 2° livello in
Ossigeno-Ozono Terapia. Fondatore e primo presidente
Della O.S.A. – Ozone Scientific Academy 

[Pubblicazione giovedì 17 dicembre 2020]


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LA DEONTOLOGIA IN TEMPI DI CORONAVIRUS    
di Giuseppe Landonio*

Giuseppe Landonio (Pino)
 
L’attuale pandemia, con le sue disastrose conseguenze, ha posto in luce alcune delle contraddizioni del nostro servizio sanitario nazionale, e lombardo in particolare, meritevoli di essere valutate, approfondite e, soprattutto, modificate. E ha molto stressato il ruolo di alcune figure professionali, a cominciare dai medici che, non a caso, hanno pagato uno dei prezzi più alti alla pandemia.
Il numero dei medici che hanno perso la vita durante la prima e la seconda ondata del contagio (ben oltre 200) rappresenta un’accusa pesante per l’intero sistema: i medici di medicina generale, la categoria più esposta, ma anche molti medici ospedalieri, sono stati lasciati soli e a mani nude, nell’affrontare soprattutto la prima fase della pandemia. Ricordo una lettera pubblicata sul New England Journal of Medicine da un gruppo di medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo già nel marzo scorso, dunque nel pieno della “prima ondata”, che lanciava un grido di dolore per quanto stava accadendo in Lombardia, e nella loro realtà in particolare. Concludeva: “Questa non è solo una emergenza sanitaria, ma una vera e propria catastrofe umanitaria, che coinvolge l’intera sanità pubblica. Richiede il contributo di sociologi, epidemiologi, esperti in logistica, psicologi, operatori sociali… Il lockdown è una misura certamente indispensabile: in Cina ha ridotto di circa il 60% la trasmissione del virus. Ma un altro picco è ancora possibile quando si ridurranno le misure restrittive e si riprenderanno le attività lavorative. Per questo è necessario un piano di lungo termine per contrastare la presente e futura pandemia. Il coronavirus è l’Ebola dei ricchi, e richiede un impegno coordinato a livello transnazionale. Non è particolarmente letale, ma è altamente contagioso. La catastrofe della Lombardia può accadere ovunque”. Parole sensate e perfino profetiche, col senno di poi.
A questa lettera rispondeva Monica Imi, un medico bergamasco, che da 15 anni vive e lavora in Uganda, terra di ebola, malaria, Hiv, tubercolosi, febbre gialla, colera, ecc, dicendo:
“È sconcertante vedere quello che sta succedendo in Lombardia, a Bergamo. Nessuno se lo aspettava: si pensava probabilmente che essere ricchi e “sviluppati” tenesse al sicuro e che le epidemie fossero un problema dei Paesi poveri… Ma qualcuno ha mai pensato che forse il sistema sanitario non è così eccellente come tutti (per lo meno quelli che parlano ai media) amano ripetere e pensare? Covid-19 non è un problema clinico, è un problema di salute pubblica, di organizzazione dei servizi, di uso razionale delle risorse. Che sono tante, ma non infinite: è ora che qualcuno lo dica, e che i famosi “tagli” alla sanità siano fatti con razionalità e giustizia, non in base a chi urla di più. Molte risorse sono state concentrate sugli ospedali, ma la vera battaglia è sul territorio, che è stato lasciato a sé stesso. La sanità sul territorio va riorganizzata. Il medico singolo, indipendente e autonomo, non funziona più: la medicina è troppo complessa e ampia. Ospedale e territorio vanno integrati, la medicina di famiglia deve diventare il punto di riferimento, con l’ospedale come livello secondario di cura. Servono strutture sul territorio che gestiscano servizi di base, ambulatori, piccole urgenze, prevenzione, con medici di famiglia in équipe, supportati eventualmente da specialisti a patto di mantenere la responsabilità della cura”.



Parole lucide, assolutamente condivisibili, che la politica dovrebbe osservare con grande attenzione. Alcune domande, d’altra parte, sono assolutamente legittime, e devono scuotere non solo le nostre coscienze, ma l’inerzia della classe politica, che deve tornare a discutere e a fare scelte che salvaguardino un bene primario come la sanità (e la scuola, aggiungerei).
Innanzitutto: ci possiamo permettere, come è emerso in modo evidente in questa pandemia, venti diversi servizi sanitari? Per anni si è parlato di "devolvere" pezzi crescenti di potere sulla sanità, lasciando al governo solo la definizione del fondo sanitario nazionale e dei livelli minimi di assistenza (i LEA), mentre il potere organizzativo, amministrativo e gestionale è tutto in carico alle Regioni. Anche recentemente Lombardia, Veneto ed Emilia hanno molto premuto su Governo per accentuare la leva autonomista. Oggi le conseguenze tragiche della epidemia, e lo spettacolo offerto dalle contorsioni dei vari “governatori” regionali, suggeriscono con forza la necessità di una devoluzione di segno contrario. Ossia tornare a un maggiore centralismo, non limitato alla definizione dei LEA, in modo da attenuare le differenze esistenti tra regioni del nord e quelle del sud, e in genere tra regione e regione. Almeno nelle situazioni di grande emergenza la cabina di regia deve essere unica, e non affidata a decisioni “locali”.
In secondo luogo: molte regioni, a cominciare dalla Lombardia, hanno costruito modelli sanitari che, nei fatti, hanno privilegiato il privato rispetto al pubblico. Oggi è necessario tornare ad assegnare al pubblico il ruolo che è indispensabile per realizzare un sistema davvero generalista ed equo. Lasciando al privato un ruolo di reale sussidiarietà e non di competizione col pubblico (oltretutto partendo, come oggi succede, da condizioni di favore nella scelta dei pazienti da trattare e nelle modalità di acquisizione e di trattamento del personale, medico e non).
Terzo: la prevenzione, soprattutto in alcune Regioni, è stata molto sacrificata: mentre deve rappresentare un asse portante del servizio sanitario, in termini di risorse e di unitarietà dei servizi. In particolare la Lombardia che si era distinta per le sperimentazioni più avanzate già prima dell’avvento della riforma sanitaria (SMAL, consultori, CSZ) e che ha sprecato in questi anni un patrimonio di esperienze e di professionalità, deve risalire la china e darsi un assetto diversamente efficiente.


Opera di Roberto Marras

Quarto: si è sostenuto per anni, da ogni parte politica, che la spesa per la sanità fosse gravata da sprechi, soprattutto per quanto riguardava il personale, e meritasse tagli non marginali. La Fondazione Gimbe, osservatorio sulla medicina e la sanità pubblica, ha calcolato che il finanziamento pubblico alla sanità ha subìto nell’ultimo decennio un taglio netto di 37 miliardi di euro: 25 tra il 2010 e il 2015, e altri 12 nel periodo 2015-2019. A pagarne le conseguenze è stato soprattutto il personale sanitario perché il 50% dei 37 miliardi “risparmiati” sono stati tolti alla spesa per il personale. Nel 2007 il Servizio Sanitario Nazionale poteva contare su 649.248 unità di personale. Nel 2017 se ne contano quasi 46.000 in meno. Nello specifico la riduzione del numero di medici è stata di 5700 unità, e quella degli infermieri di 11.000 circa. Si stimano in 70.000 i posti letto persi negli ultimi 10 anni nelle strutture pubbliche, con un leggero aumento di quelli privati, con 359 reparti chiusi, oltre ai numerosi piccoli ospedali riconvertiti o abbandonati. 
Proprio la carenza dei medici è venuta pesantemente alla luce in questa pandemia: quanti sono i medici di medicina generale andati in pensione e che non possono essere sostituiti? Quanti i medici ospedalieri, soprattutto di alcune specialità come l’anestesia e la rianimazione, oggi carenti? Pesa la politica pluriennale dei tagli sulle piante organiche, ma anche i limiti assurdi posti alla formazione: tetto sulle iscrizioni a medicina; esami molto selettivi per l’accesso alle specialità; disincentivazione di alcuni ruoli, come ad esempio quello dei medici di medicina generali trattati, sostanzialmente, come “medici di serie B”. Le responsabilità di tutto questo pesano su (quasi) tutti i governi che si sono succeduti, di destra o di sinistra che fossero, e hanno causato un vulnus che non potrà essere sanato se non nel giro di qualche lustro.
Ma altri problemi hanno pesato sul ruolo e sulle scelte dei medici in servizio nell’attuale pandemia (e su quelli reclutati surrettiziamente dalla pensione per tappare i buchi più evidenti), e chiamano in causa la deontologia professionale, messa a dura prova nelle fasi più acute e critiche del contagio. Qualcuno l’ha chiamata la “solitudine del medico”.

Emily Dickinson

Emily Dickinson, la grande poetessa americana, diceva, in una poesia folgorante: “I chirurghi stiano molto attenti / quando prendono il bisturi! / Sotto le loro abili incisioni / si agita l’imputato: la vita!”. Ho ripensato a lei leggendo della dottoressa Lorna Breen, pure americana, che a 49 anni si è suicidata non potendo sopportare il carico psicologico, deontologico, umano delle troppe persone da assistere e cui non poteva garantire le cure necessarie. La stessa drammatica condizione hanno vissuto gli infermieri del triage e i medici delle terapie intensive nei giorni più tragici della emergenza sanitaria, a Bergamo come a Milano. Chi trattare, e come, e a chi dare la precedenza? Non penso, non voglio pensare che il criterio sia stato quello della età anagrafica. Penso che valutazioni come il performance status, la coesistenza di patologie, la speranza di vita, la possibilità concreta di reggere terapie invasive, abbiano informato le scelte, comunque non facili e dolorose, di chi in quei momenti si è trovato a decidere. L'insegnamento che dobbiamo trarre dalla pandemia è che dobbiamo prevenire la necessità di queste scelte: più letti di terapia intensiva, più respiratori, più dispositivi di protezione individuali sono elementi indispensabili di una organizzazione sanitaria adeguata. Ma anche più prevenzione, più servizi territoriali, migliore organizzazione e valorizzazione del ruolo dei medici di medicina generale.
Ma c’è di più. Proprio nei giorni più acuti della prima fase mi è giunta la lettera della moglie di un mio antico paziente, morto in oncologia circa vent’anni fa. Diceva, tra l’altro: “ma più di tutto ricordo quel pomeriggio in cui è entrato in camera, si è seduto sul letto di Franco e mi ha detto vada a farsi un giretto che io chiacchiero un po’ con lui, e quando sono rientrata, franco mi ha detto testualmente, riferendosi a lei “quello è un uomo”. Devo dire, onestamente, che non ricordo l’episodio, e che mi ha fatto ovviamente piacere l’apprezzamento contenuto nella lettera. Ma non ha fatto che rimarcare la differenza abissale tra la modalità di cura e di assistenza allora possibile e quella attuale. La parola, il contatto umano, la possibilità di esprimere una vicinanza reale: tutto questo oggi è confinato a uno sguardo, alla possibilità di incrociare gli occhi del malato o, per il malato, quelli del medico o dell’infermiere. Davvero una perfidia estrema del virus, grave quasi come la difficoltà di respiro. Questa privazione della solidarietà umana, questa condanna alla solitudine, il modo in cui molti, troppi, sono morti senza neppure avere il conforto di una parola, perfino la sacralità delle esequie, è la testimonianza che questo virus è una delle sciagure maggiori che abbiano colpito l’umanità, al pari di una guerra, e senza vedere in faccia il nemico.


Roberto Marras
"This is love"

La cosa che più mi ha colpito è proprio la distanza tra il modo di fare il medico che ho conosciuto e quello che si può praticare in questa pandemia. A parte i medici di medicina generale, oggi “costretti” a curare da remoto, solo telefonando ai pazienti, per i medici, e gli infermieri, che stanno nelle intensive o nelle sub intensive c’è l’obbligo di bardarsi con tute-scafandro, che lasciano intravedere solo gli occhi, come fossero dei burka sanitari. Ed è con gli occhi, e solo con quelli che può nascere l’empatia con i malati. Che, a loro volta, costretti dalle mascherine o dalle campane, o addirittura dai respiratori, solo con gli occhi possono esprimere le loro paure e le loro preghiere.
Per non essere solo pessimisti e disfattisti, ma per ricavare un insegnamento anche dall’attuale disastro, dobbiamo ripensare con attenzione al ruolo degli operatori che lavorano in sanità. A partire dalla figura dell'Infermiere di comunità, che possa operare nel territorio, a contatto coi medici, e che possa recarsi al domicilio delle persone, soprattutto anziane e magari non autosufficienti. Il modello della "ospedalizzazione domiciliare" in atto nel trattamento dei pazienti oncologici in fase avanzata può essere uno strumento utile su cui lavorare. Ma soprattutto rivedendo alcuni aspetti salienti della professione medica.



Oltre alle modifiche auspicabili dei sistemi formativi, dobbiamo riflettere sul fatto che i Medici di Medicina Generale sono stati trasformati, nel tempo, in burocrati e prescrittori invece che veri presidi di controllo e intervento sanitario. È il caso di ripensare, proteggere e dare nuova dignità al loro lavoro. La medicina di gruppo, opportunamente rafforzata e tutelata, deve diventare il presidio fondamentale a livello territoriale per diagnosticare, curare, prevenire.
Per quanto riguarda poi lo specialista ospedaliero, e soprattutto le figure chiamate ad assumere le responsabilità più rilevanti, che ho prima richiamato, occorre combattere lo stigma della “solitudine”: la prima indicazione dovrebbe essere quella di non lasciare solo il medico nella scelta, e soprattutto di non caricare il peso della decisione sulle spalle del medico che deve trattare. Un triage di esperti dovrebbe garantire la selezione; lo stesso rispondere a un comitato etico; infine le norme di selezione dovrebbero essere riviste non solo in base all'emergenza, ma adattate alle nuove acquisizioni scientifiche. Il criterio fondamentale dovrebbe essere quello di rendere trasparenti e condivise le decisioni. Solo così si potrà superare il muro della diffidenza e dell'angoscia - dai medici cinesi impediti a parlare, a quelli americani coinvolti in false promesse, a quelli italiani limitati dalle carenze di mezzi - L'impreparazione è la culla del panico; e solo essendo adeguatamente preparati potremo uscire dall'attuale pandemia.
Questo, credo, sarà la migliore risposta per ridare vita, senso e compiutezza al nostro “giuramento di Ippocrate”.
 
*Giuseppe Landonio (Pino), medico, specializzato in Ematologia ed Oncologia. Ha lavorato all’Ospedale Niguarda (MI) dal 1975 al 2005. Ha scritto, tra l’altro, Modello Milano (Laurana, 2018) e Modello Lombardia? La sanità regionale tra eccellenze e criticità (Ornitorinco, 2020).

[Pubblicazione lunedì 7 dicembre 2020] 

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ARITMETICA E SALUTE
Paola Virginia Gigliotti*
 

Paola Virginia Gigliotti

Mi autodefinisco Medico di Strada. Tre generazioni di medici alle spalle e padre dottore in agraria, quindi fortunatamente non figlia di papà. Laurea a ventiquattro anni con lode e pubblicazione della tesi sperimentale, quindi lontana dall'idea romantica di “sì la Scienza ma ciò che conta è l'esperienza”. Insomma per me il medico è uno Scienziato Umanista.
Per trentaquattro anni ho fatto il medico di famiglia a Perugia, non negandomi il privilegio di portare avanti anche studi scientifici, con la mente però sempre rivolta a ciò che è utile al paziente e non soltanto ai titoli personali. Sfinita dalla burocrazia e non certo dalle esigenze dei pazienti, sono fuggita dal sistema e continuo a fare il medico per strada, prevalentemente in una cittadina dell'Alto Adige ma spesso in Umbria. Il 118, per il bisogno in alcuni territori e per la mia passione per l'emergenza, almeno un'ora al giorno rispondo ai miei pazienti, curo chi mi chiama e studio perché in medicina o sei dentro o meglio starne fuori completamente.
Queste brevi note private per invitarvi a leggere l'analisi del nostro momento,  che vi propongo con grande preoccupazione ma con un grande senso di dovere civico e morale, dettate dalla difficoltà personale di ignorare le sofferenze sociali e anche di uscire dall'essere figlia dei miei tempi (nata nel 1952), quindi incline alle battaglie. Riflessioni necessarie durante questa pandemia da me scritte a gennaio 2019, ben lontane dall’emergenza Covd.


I miei ricordi sui calcoli istituzionalizzati nella gestione della Sanità risalgono circa alla fine degli anni Ottanta.
Un giorno i miei colleghi più anziani cominciarono a dire sempre più spesso “quanta gente iscritta a medicina! Tra un po' non ci sarà più posto per nessuno e anche nel privato si metterà male”. Io sinceramente avevo visto che, circa a metà del primo anno di studi, dopo il colloquio di anatomia, il numero dei miei compagni era calato drasticamente. Successivamente altri man mano scomparivano, finché nel 1977 la tanto temuta invasione di mille matricole si tramutò nella mia sede universitaria in circa quattrocento laureati. Io non finii a lavorare in Africa, cosa peraltro assolutamente affascinante, ma scelsi tranquillamente il mio posto di lavoro, la mia specializzazione e mi permisi il lusso anche di cambiare lavoro.
L'allarme però era stato gettato là e ben presto divenne legge. Numero chiuso a medicina, successivamente chiamato programmato.
Intanto, mentre sul ricettario mutualistico si prescrivevano tranquillamente colluttori e vitamine varie, il fiore all'occhiello della democrazia sanitaria, i piccoli ospedali efficienti, venivano indicati come la più grande fonte di sperpero di denaro. Erano però ancora i bei tempi delle manifestazioni di piazza quindi nessuno osava chiudere un ospedale ma insinuare il tarlo della pericolosità, del meglio il grande senza distinzione di casistica, era molto più semplice.
Dagli anni Novanta in poi fu una lotta terribile e quotidiana tra bravi medici, cosiddetti di periferia, e aziende.
A dispetto dei nomi, tipo Santa Maria della Misericordia o simili, gli enti di assistenza intanto erano diventati aziende e, con la competenza ben remunerata dei manager sanitari, furono falciati tanti piccoli ospedali, pian piano, per non dare nell'occhio. Solitamente venivano chiusi in primis i reparti di maternità.
Purtroppo il numero dei pazienti restava sempre uguale quindi si arrivò al sovraffollamento dei centri più grossi, quelli dove sarebbero dovuti arrivare i casi destinati alle eccellenze o comunque alle patologie più importanti, dopo l'opportuno filtro operato in periferia.
Un altro numero si innalzava vertiginosamente, quello delle liste d'attesa. Venivano acquistati gli apparecchi diagnostici più moderni ma si buttava là il dubbio dell'inutilità di alcuni esami. L'azienda della salute pensava di risparmiare usando il meno possibile ciò che aveva acquistato. Due cose mi frullavano in testa di fronte a quest'assurdità. I turni notturni delle fabbriche, studiati anche per ottimizzare il lavoro delle macchine e della produzione, e le parole di mio nonno ai primi degli anni Trenta quando, giustamente fiero della sua specializzazione in radiologia, disse che “i Raggi X hanno consentito di passare dalla medicina dei segni indiretti a quella delle evidenze”.
Forse avrei dovuto far risparmiare i centesimi del gel e negare un'ecografia o un ecodoppler? Magari per poi fare diagnosi troppo tardi. E la prevenzione?  Nel 1986 l'allora presidente dell'ordine dei medici (credo fosse proprio lui) in una trasmissione radio a cui ero stata invitata anche io, disse che nel 2000 tutta la medicina sarebbe stata prevenzione. Io modestamente dissi che c'erano solo quattordici anni davanti e mi sarei accontentata di arrivare alla diagnosi precoce.
Numero dopo numero, sottrazione dopo sottrazione, oggi sento dire che mancano i medici. Bisogna ancora tagliare sui piccoli ospedali, anche per questa carenza di organico, oltre che per i risparmi.
I cittadini divisi in serie A e B, non solo per reddito ma per collocazione geografica. E rispunta ancora l'aritmetica, centri urbani sovraffollati e paesi spopolati. Nessuna cifra però sui servizi tagliati ai piccoli centri.
Purtroppo questi semplici errori di calcolo sono stati chiamati politica economica sanitaria, altrimenti li avremmo collocati nell'uso maldestro del pallottoliere.
Chi sarà quel partito politico che finalmente capirà che non si può falciare il sogno di un giovane con la bizzarria di un test per poi scoprire che quel medico in più, opportunamente selezionato dai tanti esami del solo biennio, sarebbe stato necessario? Chi contrapporrà alla politica economica sanitaria la geopolitica sanitaria, in un paese così variegato come l'Italia? Un esempio era stato il gruppo di lavoro sulla sanità in montagna voluto dal ministro Veronesi.
Mi sorge spontanea la domanda circa l'utilità del Servizio Sanitario Nazionale parcellizzato per regioni e provincie autonome. Forse qualche assessore, più che fare sottrazioni e divisioni, dovrebbe capire la conformazione geografica del proprio territorio. Forse così si eviterebbero chilometri di curve di montagna, migrazioni dalle piccole isole, code assurde nei pochi posti di Pronto Soccorso e disagi familiari per patologie minori o per esami di prevenzione.
Non neghiamo l'errore sociale della politica sanitaria, nascondendosi dietro ai numeri, perché allora dobbiamo anche calcolare il danno economico subito dai centri dove hanno chiuso un ospedale detto piccolo ma efficiente e molto qualificato, unico parametro quest'ultimo da considerare. Dobbiamo conoscere i numeri di chi non fa prevenzione perché scoraggiato dalle attese. Dobbiamo sapere l'ammontare dei premi sui risparmi. Il costo sociale, tralasciando l'umanità, di una diagnosi tardiva.
Non so con che numeri siamo governati in questo momento ma, non amando i numeri, i contratti, le discriminazioni di qualsiasi genere e soprattutto sulla Salute, sogno che un giorno un partito, tra gli altri problemi, affronti la Sanità con un nuovo approccio, non manageriale, non numerico ma sociale. L'alternativa è rendere noti i numeri dei morti da taglio orizzontale, con il portafogli pieno o seduti su una buona poltrona. Unico vantaggio dell'aritmetica è il suo essere uguale sempre e dovunque. 


*Laurea in Medicina e Chirurgia 1977 (110/110 e lode con pubblicazione della tesi). Tirocinio in anestesia e rianimazione. Partecipazione al Master di II Livello di emergenza. Partecipazione a tutti corsi di aggiornamento obbligatorio dell’European Resuscitation Council.
[Pubblicazione sabato 5 dicembre 2020]



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