PICASSO
di Angelo Gaccione
Pablo Picasso |
Di Picasso è stato detto e scritto di tutto e
sono state date le definizioni più diverse. Si è usato addirittura il sostantivo
“cannibale”, per sottolineare la sua incredibile facilità e voracità nel divorare
e metabolizzare arte; arte di qualsiasi tipo, di qualsiasi specie.
Se la scrittrice americana
Gertrude Stein, sua amica e collezionista (nel 1938 gli aveva dedicato anche un
libretto) ne evidenzia la genialità e la capacità di vedere - e far vedere - le
cose in modo nuovo: “Ecco perché i geni
sono rari: complicare le cose in modo nuovo è facile, ma vedere le cose in modo
nuovo è molto difficile”, non c’è dubbio che è stato Hans Sedlmayr quello
che più di tutti ne ha sintetizzato l’essenza più vera, definendolo “l’artista proteiforme”. Vale la pena
riportarle per intero le parole di Sedlmayr: “Davvero, non c’è probabilmente nessun
nome che caratterizzi Picasso meglio di questo, e nessun artista che lo possa portare con maggior diritto
di lui. L’uomo proteiforme, capace di
trasformare ogni cosa, ora Dio, ora
granello di sabbia”.
Questa corposa mostra allestita
al Palazzo Reale di Milano, cui è stata data il titolo di Picasso. Metamorfosi, darà conferma dell’artista proteiforme, anche agli occhi di quanti non avevano potuto
vedere l’antologica del 2001 e la monografica del 2012, che la città ambrosiana
aveva dedicato al pittore malagueño.
P. Picasso "Portafiori a forma di uccello |
L’intento del curatore Pascale
Picard è stato quello di mettere a confronto il lavoro dell’artista spagnolo,
così come si è dispiegato attraverso alcune fasi temporali ben precise, con i
modelli e i simboli (formali e culturali) che lo hanno via via sedotto e
suggestionato. In primis, e in maniera corposa, con le fonti della tradizione
antica mediterranea, ma non solo. Il percorso si articola in sei sezioni così
suddivise: “Mitologia del bacio”, “Arianna tra Minotauro e Fauno”, “Alla fonte
dell’antico”, “Il Louvre di Picasso”, “Antropologia dell’antico”, “L’antichità
delle metamorfosi”. I materiali esposti provengono dal Louvre di Parigi
(fondamentalmente dal Dipartimento delle Antichità greche, ed etrusco-romane e
dal Dipartimento delle Antichità Orientali), dal Museo Nazionale Picasso della
stessa città francese, un marmo proveniente dai Musei Vaticani e una matita su
carta prestata dal Museo Ingres di Montauban, qualcosa dal Museo Archeologico
Nazionale di Napoli, dai Musei Picasso di Antibes e di Barcellona, dal Museo
dell’Orangerie e dal Centro Pompidou sempre di Parigi, dal Museo delle Belle
Arti di Lione, dalla Fondazione Almine e Bernard Ruiz-Picasso per l’Arte (Bruxelles,
Madrid), e una statua frammentaria dal Museo Barracco di Roma. Numerosi anche i
prestiti da collezioni private. Se non ho contato male, considerando le
acqueforti realizzate per illustrare il volume de Le Metamorfosi di Ovidio
per l’editore Skira, i lavori di Picasso sono all’incirca un centinaio. Il
resto è composto da coppe, anfore, crateri, skyphos, lekythos, statuette,
piatti, hydria, stele, affreschi, mosaici, frammenti di materiale vario,
bronzi, appartenenti all’antichità.
P. Picasso "Fauno, cavallo e uccello" |
Come si sa, Picasso è sempre stato affascinato dall’arte antica e dalla mitologia cui essa è legata. Ci sono tracce nei suoi lavori giovanili, lo sappiamo dalla frequentazione assidua delle Sale del Louvre dove si recava per “copiare” quell’arte con le sue figure e i suoi simboli; dalle letture, dagli appunti, e dalle sue stesse collezioni. Quando Apollinaire compì il famoso furto al Louvre, si scoprì che era stato proprio Picasso a comprare quelle statuette. Una fedeltà che abbraccia, come questa mostra registra, un arco di tempo che va dagli anni Venti ai tardi anni Cinquanta del secolo scorso. C’è una piastrellina decorata con un baccanale, su cui sono raffigurati un musico, un danzatore e un bevitore, che Picasso ha dipinto nel 1957; e del 1958 sono le lastre in argilla con i suonatori di flauto. Picasso ha avuto costantemente un occhio rivolto all’arte antica, anche nel pieno dei suoi periodi di maggiore sperimentazione, ed ha guardato più al mito ed ai suoi significati profondi che al gusto. Più alla metafora che al bello ideale, più al mistero che allo stile. “Il peggior nemico di un pittore è lo stile” amava dire, e forse è stato per questo che egli nel corso della sua lunga vita (morirà a 92 anni), di stili ne ha cambiati in continuazione.
Anonimo Frammento di oscillum "Il bacio" |
Quella di Picasso non è una
semplice “copiatura” dei capisaldi che l’arte classica ci ha lasciato di più
ragguardevole; è la trasformazione (una metamorfosi,
appunto) geniale, inventiva, delle fonti che hanno nutrito il suo immaginario.
Fonti da cui ha tratto ispirazione, codici che gli sono serviti per formulare
una reinvenzione espressiva, e non una sterile provocatoria “dissacrazione”
fine a se stessa. Qui è l’uomo proteiforme
che, metamorfizzando, si metamorfizza a sua volta. Basterebbe richiamare
alla mente due presenze costanti nella pittura di Picasso: il Fauno e il
Minotauro. Due miti virili con cui spesso si è identificato e che hanno finito
per rappresentare, volta a volta, il suo alter ego.
A proposito della figura del
Minotauro è Picasso stesso a confermarcene la centralità: “Se tutte le tappe della mia vita potessero essere rappresentate con
punti su una mappa e unite con una
linea, il risultato sarebbe la figura del Minotauro”.
P. Picasso "Il bacio" |
E poiché egli maneggia
immagini, figure, la metamorfosi non può che riguardare le forme.
Forme che diventano “altre”,
pronte ad assumere una nuova identità, nuove sembianze; a rivivere in una nuova
vita: “Io prendo un vaso e ne faccio una
donna. Impiego la vecchia metafora, la rovescio e le rendo vita”.
Il raffronto speculare che la
mostra permette nelle sue Sezioni, risulta pregnante e di particolare
interesse. Lo Specchio raffigurante la
scena del giudizio di Paride (bronzo, 350-300 a. C.), gli ispira lo
specchio ligneo Tre nudi del 1907; le
forme della statuetta di marmo: Statuetta
femminile con le braccia incrociate, gruppo di Syros (2700-2300 a. C.), gli
ispirano quelle delle sculture di bronzo del ciclo I Bagnanti realizzati nel 1956; l’immagine della terracotta: Piatto a figure rosse con testa di donna
(350-325 a.C.), gli suggeriscono il profilo di Françoise con chignon floreale dipinto su un frammento di
terracotta del 14 settembre del 1950. Questa comparazione riguarda opere realizzate
con materiali fra i più diversi, e mostra come l’atto creativo, sebbene
sollecitato da quelle visioni e da quello studio, è rimasto perfettamente
autonomo. Picasso fa tesoro di quello studio, di quel viatico che si è rivelato
un prezioso nutrimento, e che affonda le radici in un passato così lontano, in
una tradizione tanto augusta. Egli quelle radici non le ricusa, anzi.
Anonimo "Arianna Addormentata" |
Consapevole come pochi, egli sa
che “Non c’è passato né futuro in arte. Se un’opera d’arte non può vivere sempre
nel presente non se ne deve assolutamente tener conto”, di questo è profondamente convinto. E la riprova è evidente
nella Mitologia del bacio che apre la
prima sezione di questa mostra. Gli antichi frammenti di oscillum di terracotta
su i quali è raffigurato il bacio fra due amanti, hanno affascinato Picasso
alla stessa maniera del bacio di Rodin, immortalato nel gruppo bronzeo
conservato al Museo delle Belle Arti di Lione, come il bacio fra Paolo e
Francesca del disegno di Ingres. Picasso vi si è avvicinato con la stessa
ammirazione, con la stessa considerazione, senza badare ad alcuna distanza temporale.
Non era interessato a quelle forme, era interessato all’aura che da quelle
opere proveniva, al loro soffio vitale.
P. Picasso "Nudo disteso" |
A lui, che più di ogni altro,
ha custodito il fuoco e respinto le ceneri della tradizione; all’artista più
geniale ed inventivo del XX secolo.
***
LIBRI
ALDA MERINI.
LA POETESSA DEI NAVIGLI
di Angelo Gaccione
Alda Merini |
Se vogliamo entrare davvero in sintonia con il
libro di Aldo Colonnello dedicato alla memoria di Alda Merini (Alda Merini la poetessa dei Navigli, Ed.
Meravigli, Pagg. 146 € 15,00), dobbiamo accettarlo per quello che realmente è:
una lunga, affettuosa e appassionata lettera d’amore. Chi si immergerà nelle
sue pagine si accorgerà subito che quella di Colonnello, nei confronti della
poetessa, (ma direi anche della donna), non è stata la semplice frequentazione
di un ammiratore affascinato dai suoi versi, o di un amico premuroso che, in
quanto tale, c’è sempre, anche nei momenti più difficili, con l’attenzione, la
sensibilità e la discrezione che una vera amicizia comporta. Tutto questo c’è,
ovviamente, ma la sua è stata qualcosa in più: la devozione quasi filiale (e
mai venuta meno) verso una creatura che si ritiene speciale, e che, proprio in
virtù di quella devozione, si è disposti a perdonarle ogni cosa: capricci,
impuntature, cambi d’umore, incomprensioni, scatti imprevedibili, umiliazioni,
scelte discutibili, modo di vivere, perché accecati dal nostro affetto. Del
resto, chi ha avuto modo di conoscere Alda Merini, sa quanto fosse spigoloso,
indipendente e per nulla reverenziale il suo carattere, e come fosse altresì
generosa, umana e disponibile; qualità che non sono molto diffuse negli
ambienti letterari milanesi, anzi. Accettarla com’era o tenersene alla larga:
non c’erano mezze misure possibili. Ed è anche per questo che io giudico stoica
la resistenza di Colonnello, e straordinaria la sua fedeltà all’amicizia.
Scrive in un passaggio del suo libro: “La
Poetessa (Colonnello usa rigidamente la maiuscola) non era certamente una santa, credo di poter dire non fosse neppure
umile, anzi era fortemente consapevole della propria limpida genialità, spesso
la faceva pesare, annichilendo il malcapitato di turno o imponendo una
personalità carismatica in contesti pubblici”. È tutto perfettamente vero,
ma aveva un pregio raro: non fingeva nei rapporti umani, era rimasta autentica
come la sua anima popolare, la lingua dialettale milanese che continuava a
parlare, il suo bisogno di poco, e non si era snaturata e imborghesita come il
quartiere divenuto finto e mercificato fino al midollo. Poeta lo era in ogni
fibra, naturaliter; e quello che
sentiva lo cacciava fuori quasi sempre nella maniera più immediata. Da anni non
prendeva appunti e non scriveva; preferiva dettare agli amici, per lo più al
telefono e nelle ore e nei momenti più diversi, notti comprese. Potevano venir
fuori meraviglie, da questa pratica istantanea e prettamente orale, e potevano
venir fuori cose non del tutto riuscite e che sarebbe stato meglio non mettere
in circolazione. Ma fra i suoi numerosi amici ed estimatori ce n’erano anche di
“disinvolti” che di scrupoli se ne facevano ben pochi. Ma non è questo il luogo
per aprire un contenzioso.
Targa per Alda Merini |
Di tale pratica “dettatoria” avevo beneficiato anch’io in
anni diversi: nel 2001 per i due testi Silenzio
e Favola, dettatimi al telefono il 10
gennaio di quell’anno e pubblicati nel prezioso volume collettivo “Le luci del Bauhaus” (Ed. Gutenberg);
nel 2002 (e precisamente il 4 aprile) per la poesia Milano da me inserita nella
ponderosa antologia “Poeti per Milano.
Una città in versi” e pubblicata
dalla Viennepierre edizioni. Erano passati nove anni dal libretto “Aforismi”, che le avevo pubblicato con
una mia nota introduttiva nel 1992 nelle Edizioni Nuove Scritture. Pubblicammo
quel libretto in due diverse ristampe cambiando la copertina (la prima volta
con un’opera di Alberto Casiraghi, la seconda con una di Salvatore Carbone);
Alda non si era fino ad allora cimentata con questa forma di scrittura,
divenuta poi con gli anni piuttosto frequente. Nel 2006 mi salvò,
letteralmente, da una incresciosa svista. Dovevamo andare in stampa con il
numero 2 del IV anno del giornale “Odissea”, quello di dicembre, quando
l’impaginatore si accorse, all’ultimo momento, che mancava la frase da inserire
accanto alla testata. A ridosso del Natale non era cosa facile interpellare
collaboratori e amici scrittori; e poi non tutti scrivevano aforismi e avevano
pratica con il genere. Mi ricordai di Alda e le telefonai: “Sono nei guai” le dissi,
mi bastano anche due solo righe, dobbiamo andare in stampa in meno di un’ora”.
“Hai la penna?” mi chiese all’istante, “scrivi: Ricordati che due sole righe possono condannare a morte un uomo”. La profondità della frase e
l’immediatezza con cui l’aveva formulata, mi lasciarono di stucco. Ero salvo.
Telefonai a Fulvio Chiodini in tipografia e potemmo andare in stampa.
Aldo Colonello con Alda Merini |
Non c’è dubbio che da questo rapporto Colonnello (avrete
certamente notato che si chiama incredibilmente Aldo: se non è questo uno
scherzo del destino…) è uscito più ricco e cambiato. Egli ha potuto salvare per
noi la memoria di un tratto di vita della poetessa; registrare i suoi incontri
e quelli avuti dall’autrice con personalità fra le più varie; la partecipazione
ad eventi spesso da lui sollecitati e voluti; gli aneddoti, i versi che gli
dettava a voce e che lui diligentemente trascriveva, e dunque dobbiamo
essergliene grati. Come grati dobbiamo essere alle Edizioni Meravigli che hanno
pubblicato un libro che ci illumina su molti aspetti privati di una poetessa a
cui abbiamo voluto bene; ricco anche di foto, in gran parte scattate da un
altro amico intimo della poetessa, Giuliano Grittini, comprese quelle in cui
Alda riceve gli ospiti distesa sul letto come una matrona romana. E quelle
delle pareti della sua incredibile casa, zeppe di appunti, numeri telefonici,
graffiti e disegni fra i più vari.
***
MAGRITTE
di Angelo Gaccione
R. Magritte "Il figlio dell'uomo" |
Tra i creatori di immagini pittoriche e grafiche
che sono diventate delle icone del nostro tempo, Magritte, al pari di Leonardo
e di Picasso, ha un posto di rilievo. Se vi capita di vedere l’immagine di un
uomo in bombetta con una pipa, una colomba, o una mela sulla faccia,
immediatamente riconoscete il suo autore. E così accadrà se vi trovate davanti
a due figure il cui volto è nascosto da un velo mentre si baciano, o ad una “pioggia”
di omini rigorosamente in soprabito e bombetta, sospesi su un cielo azzurro e
sui tetti e le facciate di un edificio. Sono talmente tante queste immagini, e
così diffuse, che hanno finito per esserci familiari. Ora, immaginatevi queste,
ed altre ancora, che compongono la sua pittura: le lune del dipinto I misteri dell’orizzonte, le nuvole e la
roccia de Il castello dei Pirenei, le
sfere de La voce dei venti, la piuma che
sorregge la Torre di Pisa di Souvenir de
voyage, le fiamme che avvolgono i tromboni di The discovery of fire, ecc, scomposte, isolate, e poi mescolate a
caso, fuse insieme, e proiettate in movimento sia in orizzontale che in
verticale sulle pareti gigantesche di un enorme salone, allargarsi sull’intera
superficie del pavimento, sul soffitto, sui corpi dei visitatori in piedi o
seduti, sulle loro stesse facce dove si frantumano in schegge, mentre la musica
che guida il tutto dà ritmo al fluire delle immagini. Il computer non solo ha
scomposto e ingigantito oltre misura i singoli elementi presenti nei lavori di
Magritte, ma è in grado di farli muovere, di conferir loro un’effimera vita
concreta. E così le fiamme che avvolgono la poltrona o il trombone, scoppiettano
e vibrano realmente; gli ombrelli e le pipe si moltiplicano e volano nel cielo;
le nuvole, i cappelli, le mele, camminano; i gabbiani planano; la porta che era
lì statica sulla tela si apre davvero; la palla del sole sorge e sale; la
Primavera botticelliana de Il bouquet
si stacca dalla figura dell’uomo in bombetta alle cui spalle era stata fissata
dall’artista, e si incammina per il mondo...
Ci troviamo di fronte ad una
sorta di pittura di animazione, (dalla staticità del quadro al movimento
cinetico), in cui ogni elemento, ogni oggetto, prende vita, si stacca dal suo
contesto immobile dentro cui era stato fissato per altre possibili avventure.
Se nella pittura dell’artista
belga la mescolanza di elementi apparentemente dissonanti, ibridi, produce allo
spettatore un senso di spaesamento, di stupore vagamente surreale e metafisico,
in questa performance tecnologica multimediale allestita alla Fabbrica del Vapore,
l’effetto è quello di essere stato in un sogno fiabesco, un sogno poetico
vissuto però ad occhi aperti. Sono sicuro che questo allestimento così inedito,
sarebbe piaciuto a Magritte. Vedere i soggetti dei suoi quadri, le sue
fascinose atmosfere, acquisire un nuovo incantesimo, lo avrebbe deliziato. Proprio
come aveva scritto egli stesso della sua pittura: “Per me l’arte consiste nel dipingere l’incantesimo e il piacere”.
R. Magritte "La vacanza di Hegel" |
Si è tanto parlato della pittura
di René Magritte, senza tener conto fino in fondo di questi due postulati: l’incantesimo e il piacere. Sappiamo, com’è fin troppo ovvio, che molti altri
elementi si sedimentano, a volte in maniera inconscia, nelle opere di un
artista, e rimangono oscuri. Figuriamoci per un percorso come quello di Magritte.
Tuttavia, senza scomodare Freud, la psicanalisi e l’esplorazione dell’inconscio, ci andrei molto cauto con un’ermeneutica sbrigliata e troppo “creativa”, e mi atterrei a ciò che l’artista ha detto o scritto nelle più varie occasioni; sono sicuro che le sue brevi, semplici, disincantate annotazioni, ci dicano della sua avventura artistica e del suo lavoro, più di quanto le nostre lambiccate analisi possano rivelarci. Riportiamone alcune. “Nella mia pittura non vi è mistero da spiegare”. “Ai miei occhi i miei quadri sono validi se gli oggetti che rappresentano resistono a interpretazioni per simboli o ad altre spiegazioni”. “Il mio modo di dipingere è assolutamente banale, accademico. Ciò che è importante, nella mia pittura, è ciò che mostra”. “Un’immagine dipinta non rappresenta idee o sentimenti, ma idee o sentimenti possono rappresentare un’immagine dipinta”. “Tutto tende a far pensare che vi sia una piccola relazione tra un oggetto e ciò che lo rappresenta”. “Solo un quadro capace di resistere a qualsiasi spiegazione è un quadro riuscito”.
Tuttavia, senza scomodare Freud, la psicanalisi e l’esplorazione dell’inconscio, ci andrei molto cauto con un’ermeneutica sbrigliata e troppo “creativa”, e mi atterrei a ciò che l’artista ha detto o scritto nelle più varie occasioni; sono sicuro che le sue brevi, semplici, disincantate annotazioni, ci dicano della sua avventura artistica e del suo lavoro, più di quanto le nostre lambiccate analisi possano rivelarci. Riportiamone alcune. “Nella mia pittura non vi è mistero da spiegare”. “Ai miei occhi i miei quadri sono validi se gli oggetti che rappresentano resistono a interpretazioni per simboli o ad altre spiegazioni”. “Il mio modo di dipingere è assolutamente banale, accademico. Ciò che è importante, nella mia pittura, è ciò che mostra”. “Un’immagine dipinta non rappresenta idee o sentimenti, ma idee o sentimenti possono rappresentare un’immagine dipinta”. “Tutto tende a far pensare che vi sia una piccola relazione tra un oggetto e ciò che lo rappresenta”. “Solo un quadro capace di resistere a qualsiasi spiegazione è un quadro riuscito”.
Dopo queste frasi forse opere
enigmatiche come La vacanza di Hegel
col bicchiere in bilico sulla sommità di un ombrello aperto che sfida la legge
di gravità e l’esperienza fisica, concreta, di ciascuno di noi; Il maestro di scuola di spalle nella
notte con la falce di luna posta perpendicolare sulla bombetta, altro non sono che
gli elementi concreti di quell’incantesimo
e di quel piacere, mescolati perché l’artista
stesso ne provi gioia e stupore insieme. “Era opportuno che la scelta degli oggetti introdotti per disorientare
fosse portata su oggetti molto familiari allo scopo di dare allo spaesamento il
suo massimo d’efficacia”, scrive Magritte. Ed è proprio la collocazione di
questi oggetti così comuni inseriti in un contesto improprio, a generare la
sorpresa, ad incantarci, prima e al di qua di qualunque analisi intellettuale,
di qualsiasi interpretazione razionale che avrebbero solo l’effetto di rompere
quell’incanto, quel godimento magico cui l’artista ci invita.
Ora davvero l’iscrizione che Magritte
ha voluto apporre sotto la sua famosa celeberrima pipa dipinta nel 1929: “Ceci
n’est pas une pipe” (Il tradimento delle
immagini), diventa rivelatrice, e il quadro ci si presenta per quello che
realmente è: un gioco, un ludico gioioso scherzo dada-surrealista. Ma
lapalissiano nella sua implacabile logica: non può essere una pipa perché non
ha nulla di reale, di concreto, ed infatti non si può prendere fra le mani e
tanto meno accenderla e fumare. È una semplice idea, un’astrazione, ma come
tutte le idee, spesso si fanno più corporee dei corpi stessi.
Magritte con la bombetta |
In Side Magritte è il
titolo della mostra, (chissà poi perché in inglese, Dentro Magritte, sarebbe stato altrettanto efficace), e si è aperta
il 9 ottobre scorso. Sarà possibile visitarla fino al 10 febbraio 2019 presso
quel magnifico contenitore che è ora divenuto la Fabbrica del Vapore, in via
Giulio Cesare Procaccini n. 4 a Milano
Curatrice scientifica Julie
Waseige
Promossa dal Comune di Milano
Ideata da Crossmedia Group –
Hepco
Assieme a 24Ore Cultura
Regia: The Fake Factory
Info e Prenotazioni: 02-54913
www.ticket24ore.it***
I RACCONTI DI VINICIO VERZIERI
di Angelo
Gaccione
Vinicio Verzieri |
Non si può dir meglio di quanto ha fatto, con
acribia e rigore, Gianni Caccia nella sua post-fazione al nuovo libro di
Vinicio Verzieri “Superamento”.
Verzieri è un artista (e forse come tale è conosciuto dai più) è ha al suo
attivo mostre personali e collettive in Italia e all’estero: pittura, scultura,
grafica, sono le tecniche espressive in cui fonde tutta la sua sbrigliata
visionarietà. Ma evidentemente all’artista questo insieme di strumenti non sono
bastevoli ed ha bisogno anche della scrittura, di dipingere con le parole. Già
a suo tempo Vincent Van Gogh in una lettera al fratello Theo scriveva che
dipingere a parole è anch’essa un’arte, un’arte altrettanto nobile e
difficile. I diciotto racconti che compongono questa nuova prova
letteraria, ci danno la misura della sua abilità a padroneggiare questo mezzo.
E sebbene egli si schermisca: “Più che
raccontare, ascolto il fruscio degli alberi e attendo che qualcuno, come il
vento, mi narri favole esotiche”, annota nel breve racconto “Scrivere”
(pag. 61), gli strumenti del narratore Verzieri li ha tutti, come dimostrano
(tanto per citare), i testi “Il successo” (pag. 51) o “Cosmé e il manichino”
(pag. 84). Anche se preferisce accogliere incanti di poesia, semplici
struggimenti, seduzioni visive, fremiti dell’animo e fissarli sulla carta con
la rapidità del tocco del pittore, ruolo che non smette di ricoprire quando
scrive. Perché, come efficacemente si esprime nel racconto “Richiamo”, “(...)
l’anima del poeta-pittore è sempre in
balia dell’ispirazione che è un soffio divino”.
E di
pittura, architettura, colori, atmosfere, luoghi pregni di suggestioni
pittorico-poetici, di musicalità (in una parola: bellezza), questi scritti sono carichi. Troppo evidenti come sono
già nei titoli, “Bianco”, “Il ritratto”, “L’ultima cena”, o nei protagonisti:
Cosmé (Tura), Vincent (Van Gogh), o i continui rimandi a poeti, letterati, all’arte
stessa. Nel racconto “Richiamo” l’incontro folgorante con una donna misteriosa
e bellissima, si rivelerà, proprio nelle ultime battute a chiusura di quello
che per molti aspetti sembra essere stato un sogno, un magnifico sogno, proprio
l’incarnazione dell’arte intensa come bellezza, perfezione assoluta e
salvifica. Un fantasma di donna vagheggiato, ma in fondo reso concreto dall’insopprimibile
anelito verso il bello, la perfezione dello spirito, che entrambi ci umanizzano
e rendono questa vita, pur fra le mille brutture quotidiane, degne di essere
vissuta. Un fantasma tuttavia impalpabile e frutto del desiderio destinato a
rimanere tale? E sia pure, se esso è in grado di elevarci, di “darci il benedetto pane per lo spirito”
come magnificamente si esprime il narratore. Può darsi che queste prose
intellettuali, questi “schizzi”, queste “pennellate” dal sapore più saggistico
che narrativo, dispiaceranno a molti lettori. A me, che pure da sempre sono
innamorato del genere racconto e che da una vita lo difendo contro l’invadenza
del romanzo e della sua dittatura, hanno invece procurato godimento.
DESIDERIO E FRUSTRAZIONE
di Angelo Gaccione
Acri. Palazzo Sanseverino |
Può capitare di trasformare un desiderio, magari
custodito da tempo nell’inconscio, fino a farlo diventare così concreto, tanto
da essere convinti di averlo visto materializzato nella sua oggettività più
tangibile. La desiderabilità, vale a dire, come prepotente germinazione di un
fatto reale. È quanto accaduto a me, in un recente viaggio di ritorno nella mia
città di origine. Su suggerimento del mio caro amico Franco Esposito, poeta e
direttore di quella magnifica e longeva rivista che è “Microprovincia”, sono
andato a vedere la mostra dedicata ad autori e materiali iconografici riguardanti
l’Albania ai tempi del dittatore Enver Hoxha, ospitata al Museo di Arte
Contemporanea di Acri, e che ha sede nel maestoso palazzo che fu del principe
Sanseverino. Franco Esposito vive da molti anni a Stresa sul Lago Maggiore, ma
è nato a Macchia Albanese (patria di Gerolamo De Rada a cui diversi anni fa
dedicammo un numero monografico di “Microprovincia”, e delle giornate culturali
a Macchia, facendo aprire per l’occasione, la casa dell’autore de I canti del Milosao), un borgo di San Demetrio Corone, terre entrambe appartenenti
a quella koinè arbereshe che nell’area cosentina è molto diffusa, e che
dall’antica Albania trae origine. Questo per dare ragione ai lettori
dell’interesse di Esposito per la citata mostra. Ho approfittato dell’occasione
per visitare una parte del palazzo, grazie anche alla gentile disponibilità del
custode che si è messo a disposizione, e mi dispiace di non essermi annotato il
nome per poterlo citare in questa nota. Lo ringrazio tuttavia pubblicamente,
perché ho potuto vedere le Sale magnificamente ristrutturate dei vari piani, e
la corposa donazione al Museo di Silvio Vigliaturo nativo della città di Acri,
e che credevo fosse limitata solo ai suoi lavori in vetro. Invece è ricca di
opere realizzate con i materiali e le tecniche più diverse, compresi i
disegnini degli esordi della più tenera giovinezza.
Monumento a Battista Falcone |
In questo palazzo dalle origini seicentesche, dimora estiva
di Giuseppe Leopoldo Sanseverino principe di Bisignano, nacque Battista Falcone
(Giambattista, come più diffusamente si trova scritto) il 23 ottobre del 1834.
Il palazzo era passato alla famiglia dello sfortunato rivoluzionario che morirà
giovanissimo nella spedizione di Sapri organizzata assieme a Carlo Pisacane ed
altri patrioti antiborbonici, poiché il padre Angelo Falcone aveva sposato la
principessa Carmela Sanseverino. Sulla lunga parete del palazzo che dà sul
piazzale, una lastra marmorea (un po’ sbiadita, in verità) messa dal comune
della città nel luglio del 1957 per celebrarne il primo centenario della morte,
ricorda quella tragica vicenda. Aveva appena 23 anni Giambattista, e di quella
spedizione era il vicecomandante. Nel mio inconscio si era radicata la
convinzione (ritenuta ovvia, dal momento che quella casa gli aveva dato i
natali) che il piazzale su cui si distende il palazzo, portasse il nome di
Giambattista. Ho voluto verificarlo controllando i tre lati del piazzale, e ho
scoperto, con enorme stupore, che non esiste alcuna indicazione toponomastica.
Incredulo, la mattina dopo ho telefonato in Municipio e mi sono procurato il
telefono personale dell’assessore alla cultura. Fresco di nomina, l’architetto
Giuseppe Giudice (che conosco da sempre), ignorava a sua volta che non ci
fosse, di quel piazzale, indicazione di sorta. Anche lui era convinto che la
piazza fosse dedicata a Giambattista, e si stupiva che non vi fossero le targhe
sui cantoni. Gli dissi che ero pronto a partecipare ad una sottoscrizione per
realizzare un paio di targhe marmoree da murare sui lati, con il nome del
giovane patriota, e che mi sarei dato da fare in prima persona per non gravare
sulle casse comunali. Mi disse che si sarebbe subito attivato per capire come
stessero le cose e sulla stranezza di quella mancanza. Mi informò, tra l’altro,
di aver chiuso la sua carriera in qualità di preside, proprio all’Istituto
scolastico che porta il nome di Battista Falcone. Alcune ore dopo, l’assessore
fu in grado di informarmi che pur non essendoci le targhe, il piazzale ha
tuttavia un dedicatario: non si trattava però (come io avevo sempre creduto - o
desiderato - fino a farne una certezza) di Battista Falcone, ma di un Francesco
Falcone di cui ignorava vita e opere. Ovviamente ne restai deluso. Confesso di
non essere riuscito a saperne di più sul dedicatario del piazzale; conosco
invece un Giuseppe Falcone nato ad Acri nel 1833, figlio di Luigi Falcone e di
Anita Sanseverino. Giurista e magistrato, capitano garibaldino, partecipò alla
spedizione dei Mille nel 1860 assieme ad altri due acresi: i fratelli Vincenzo
e Francesco Sprovieri. Che sia stato dedicato a lui il piazzale senza targhe e
che in Comune abbiano equivocato sul nome? Con questo tarlo vado a letto: è
tardi e sono stanco, le lettere già si accavallano disordinate e incoerenti sul
monitor del computer.
VISERBA, SERGIO E L' HOTEL AURORA
di Angelo Gaccione
Viserba, villa primi Novecento |
Ci si reca in un luogo per più motivi: alla
ricerca dei propri miti (letterari, musicali, filosofici, artistici, storici...),
perché ci è caro, perché c’è un amico da visitare, o semplicemente perché siamo
sicuri di trovarci bene. Se lo facciamo per un periodo di riposo nel corso
dell’estate ed in una struttura canonica, come può essere un hotel o una
pensione, quel che ci aspettiamo è un ambiente pulito e curato, una cucina che
unisca bontà e attenzione alla salute, e soprattutto disponibilità e
gentilezza. Se uno di questi presupposti viene a mancare, restiamo delusi e
quello che doveva essere un periodo di sereno riposo, si trasforma in un
malinconico risentimento.
Viserba. In memoria di Elio Pagliarani |
A Rimini sono stato in periodi diversi, per riposo e per
ragioni legate al mio lavoro di scrittore. Viserba invece, una lunga appendice
che dista circa 15 minuti dalla stazione di Rimini che corre in direzione nord,
era per me un cartello intravisto fugacemente in televisione, al telegiornale,
in occasione di uno dei tanti eventi della riviera adriatica. Il suo nome di
origine romana (Vis Herbae o Veherba) mi evocava l’elemento di cui il toponimo
la connota e di cui deve essere sempre stata ricca: l’erba, o più precisamente la verzura, che doveva ampiamente ricoprire
la sua fertile pianura. Niente di più. Ignoravo anche che a Viserba era nato il
poeta Elio Pagliarani, di cui gli appassionati di poesia ricorderanno di sicuro
il suo poemetto La ragazza Carla.
L’ho scoperto soggiornandovi (ahimè per appena sei giorni!) l’ultimo scorcio di
agosto, e ho potuto anche vedere il percorso ciclo-pedonale che gli è stato
dedicato in ricordo, con le due targhe incorniciate ai lati opposti dei
rispettivi imbocchi.
Viserba. Il solarium dell'Hotel Aurora |
Non ci siamo pentiti (io e mia moglie) di questo soggiorno.
Sergio Guidi, proprietario e gran cerimoniere dell’Hotel Aurora, situato in via
G. Dati lungo la principale via della frazione, sin dalle prime telefonate ha
fatto evaporare ogni nostra perplessità. Si è messo a disposizione offrendosi
di venire a prenderci alla stazione di Rimini e condurci in Hotel, mostrando
quanto tenga agli ospiti. Una sensibilità completamente diversa, se paragonata
a quella di certi albergatori liguri che non hanno ancora ben imparato come si
fa il turismo. Ma d’altronde la famiglia Guidi fa accoglienza turistica dal
1928 e 90 anni di rapporti con clienti di ogni tipo e luogo, hanno sedimentato
a dismisura esperienza e savoir faire.
Basti vedere come Sergio si muove fra i tavoli durante i pasti, chiedendo,
offrendo, sollecitando i commensali, le famiglie, i bimbi, spesso con la
battuta di spirito, perché il clima diventi piacevole, familiare il convivio.
La simpatia della signora Grazia, sua sposa; la gentilezza del personale ai
piani, di quello della Sala pranzo; insomma dell’intero staff, sono un valore
aggiunto e fanno la differenza in una intrapresa di questo tipo. Il ricordo
positivo che ne conserviamo finisce inevitabilmente per legarci al luogo e alle
persone che lo incarnano, e in un epoca di comunicazione globale e dai mezzi
così diffusi, esso si rivela come la più preziosa delle pubblicità a costo
zero. Un passa parola più efficace di qualsiasi inserzione pubblicitaria perché
sperimentata direttamente, verificata di persona.
E se Viserba non conserva più il fascino di una belle époque irrimediabilmente scomparsa,
se la rincorsa al cemento ha prodotto manufatti anche discutibili o marciapiedi
per lunghi tratti inesistenti, ci si può almeno consolare con la buona cucina
dell’Hotel Aurora e di un’accoglienza che ti fa sentire a casa.
LA PINACOTECA AMBROSIANA
Il viaggio delle
meraviglie
di Angelo Gaccione
Questa lunga conversazione con Vittorio Bergnach, allora Responsabile di Sala della Pinacoteca Ambrosiana, risale al 1998. Composta da 12 fitte cartelle battute con la mia Olivetti portatile Lettera 32, è rimasta inedita per vent’anni. L’ho rinvenuta lunedì 6 agosto assieme a un’altra conversazione, avuta quello stesso anno con Matteo Sartorio, allora direttore del Museo Teatrale alla Scala. Al momento non ho potuto verificare se anche questa sul Museo Teatrale sia rimasta inedita; con certezza, invece, so che due scritti brevi, uno sulla Pinacoteca con il titolo “La Casa degli Spiriti Magni”, e uno con il titolo “Il Museo Teatrale alla Scala”, li avevo pubblicati sul settimanale “Milano Metropoli” e poi, nel 2013, nel volume Milano città narrata. In quel libro sono confluiti anche scritti sul Museo Poldi Pezzoli, la Casa del Manzoni, la Sinagoga ebraica, la Casa dei musicisti Giuseppe Verdi, sul mio quartiere di Porta Romana (“Elogio della Porta Nobile”), il Museo della Tortura alla Pusterla di Sant’Ambrogio.
Probabilmente questa intervista era troppo lunga per un
giornale, e devo essermene alla fine dimenticato. In tutto questo vasto arco di
tempo molte cose sono cambiate: l’allora Prefetto è diventato Cardinale e si è
trasferito a Roma, e Bergnach probabilmente si sta godendo, così spero, la sua
meritata pensione. Rileggendola mi sono ricordato della sua delicata
disponibilità e della sua competenza. È un dovere morale da parte mia rendergli
onore pubblicandola, seppure con vent’anni di distanza. In fondo devo a lui
molto di ciò che ho imparato su questo luogo così straordinario.
Federigo Borromeo |
Incipit
Federigo Borromeo (1564-1631) non era solo un potente uomo
di chiesa (divenne cardinale a 23 anni e nel 1595 arcivescovo di Milano), era
anche un erudito e umanista amante di libri, e un curioso appassionato di arte.
A queste sue passioni si deve la creazione di due fra le più celebri ed
importanti istituzioni culturali oggi esistenti a Milano: la Biblioteca
Ambrosiana (inaugurata nel 1609) e la Pinacoteca Ambrosiana che si costituiva
ufficialmente il 28 aprile del 1618, in seguito alla donazione della sua
collezione privata. La Pinacoteca fu ospitata nel palazzo che l’architetto
Fabio Mangone aveva progettato nel 1611 accanto alla Biblioteca, dove il
Cardinale aveva anche istituito una vera e propria Accademia con gli
insegnamenti di pittura, scultura e architettura, avvalendosi di docenti del
calibro di Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, di Andrea Biffi e dello
stesso Fabio Mangone. Prima che il governo austriaco la trasferisse a Brera
(1755), l’Accademia ebbe una notevole funzione non solo perché da essa uscirono
maestri ed artisti di indiscutibile valore, ma contribuì, attraverso la
realizzazione di copie di dipinti celebri, a creare una sorta di archivio della
memoria estremamente prezioso. La Pinacoteca poteva già allora vantare opere
importanti di Tiziano, Caravaggio, Bruegel, Raffello e tanti altri, che il
Cardinale aveva acquistato durante la sua vita. E tuttavia nel corso dei secoli
il suo patrimonio è andato via via arricchendosi, attraverso lasciti e
donazioni, che fanno della Pinacoteca uno dei musei privati più significativi
ed interessanti del mondo. Riaperta al pubblico il 21 ottobre 1997 dopo un
lungo e laborioso restauro durato 7 anni, la Pinacoteca possiede oggi un
patrimonio di oltre 300 opere pittoriche esposte nelle sue numerose sale. Molte altre sono custodite nei depositi
e di tanto in tanto trovano posto nell’ultima sala adibita a quadreria. Uno dei
due Responsabili di Sala della Pinacoteca è Vittorio Bergnach; è stato lui a
guidarmi, diligente e paziente, in questo viaggio delle meraviglie. [A.G.]
Angelo
Gaccione: Dottor Bergnach, qual è stato il criterio che ha guidato
questo nuovo allestimento della Pinacoteca?
Vittorio
Bergnach: “Col nuovo allestimento si è deciso di separare la
collezione originale del Cardinal Federigo, dalla collezione di tutte le
donazioni successive. Con opere del nucleo originario si può fare lo stesso
però un discorso cronologico, perché in questa prima Sala ci sono autori del
Quattrocento e del Cinquecento: e così nella seconda Sala, pur essendoci opere arrivate a noi più tardi.
Questa prima è dedicata alle due scuole che il Cardinale amò maggiormente: quella
veneta e quella leonardesca, e per rappresentare queste due scuole ci sono soprattutto
Tiziano e Bernardino Luini. Le due opere principali di questi autori sono una
di fianco all’altra: una è l’Adorazione
dei Maggi del Tiziano, l’altra è una Sacra
Famiglia con Sant’Anna e San Giovannino del Luini. Di questi due autori
nella stessa sala ci sono altre varie opere”.
G: E
quell’indice levato in alto del bambino? Lo si ritrova in molti dipinti di
Leonardo.
B: “Questo
dipinto definisce molto bene perché Bernardino Luini è definito leonardesco. È stato
infatti copiato da un cartone di Leonardo da Vinci che si trova adesso alla
National Gallery di Londra, e perciò ci sono tutti gli elementi di Leonardo: da
quel dito appunto rivolto verso l’alto, alla rotondità delle figure e a questa
ineffabilità del sorriso tra le due donne. In particolar modo poi lo sfumato,
cioè questa ricerca di rappresentazione raffinatissima di luci e ombre che in
fondo costruiscono il corpo: lo sfumano ma anche lo costruiscono nell’ambiente
in cui è immerso”.
G: Lo
lasciano intuire. In questo è di una modernità sconcertante, e poi la cura dei
panneggi...
B:
“L’unico personaggio che non è nel cartone di Leonardo a Londra, è proprio San
Giuseppe che qui vediamo in profilo netto e che Leonardo non avrebbe fatto. Bernardino
Luini lo inserisce di sua volontà. Dipinti di Luini ce ne sono diversi qui in
Pinacoteca: c’è un Gesù adolescente, il
piccolo ma famoso e accattivante Gesù
bambino con l’agnello e questo Noli
me tangere. È interessante vedere come poi Bernardino Luini diventa sempre
più raffaellesco. Quest’ultimo è ormai un quadro che si avvicina a Raffaello: è
appena stato restaurato, però vediamo che i colori dei vestiti sono gli stessi
della Sacra Famiglia, solo che qui
c’è una verniciatura di protezione messa nei secoli scorsi che lo vela un po’
di giallo opaco.
B. Luini. Noli me tangere |
G: Fermiamoci
a questa Adorazione di Tiziano.
B: “I
Tiziano che ha l’Ambrosiana sono tutti di un secondo periodo non più giovanile.
Questo è una via di mezzo: non ci sono i colori sgargianti, brillanti di
Tiziano, ma vediamo tantissime gradazioni di rosa e di rosso”.
G: Insomma
queste scuole leonardesche e tiepolesche erano molto care al Cardinale...
B: “Vede
questo? È un altro quadro abbastanza famoso, si considerava un ritratto di
Beatrice d’Este moglie di Lodovico il Moro, dipinto da Leonardo da Vinci.
Mentre ora invece è attribuito a Giovanni Ambrogio De Predis ed è il ritratto
di una dama sconosciuta, ma è stato il simbolo dell’Ambrosiana per tanto tempo:
tant’è vero che questa dama è stata anche chiamata l’Ambrosiana. È ricordata soprattutto per l’attenzione che il De
Predis rivolge all’acconciatura, e per questo è chiamata La dama della reticella. In particolare modo è famosa per la luce e
la trasparenza delle perle che cambia a secondo di dove le perle sono
appoggiate”.
A. De Predis. Ritratto di Dama |
G: Mi
pare di cogliervi degli echi leonardeschi.
B: “Ci
sono dei primi timidi cenni a Leonardo: appunto questa ricerca della
luminosità e dell’ombreggiatura, ma anche questo ricamo del vestito che ricorda
i modi vinciani e il loro sorprendente intrecciarsi”.
G: Qui invece
è un trionfo di Tiziano...
B: “Sì,
questa seconda parte della Sala ha quasi tutte opere del Tiziano o di bottega
del Tiziano. Interessante questo ritratto dell’Uomo con armatura eseguito da Tiziano stesso. Come le dicevo prima,
i Tiziano che abbiamo sono dell’ultimo periodo, quindi non ci sono quei colori
brillanti, però si vedono chiaramente i suoi interessi per lo studio della
luce. Questo corpetto, per esempio, è di un rosso piuttosto consumato, ma è
tutto un gioco di fiammeggiamenti pur pacati, ma molto belli. Questo ritratto
ci rammenta come Tiziano sia stato uno dei più grandi pittori del Cinquecento
europeo, un ritrattista che veniva ricercato da tutti i regnanti europei perché
sapeva coniugare molto bene una certa
dignità, compostezza del personaggio, assieme a un certo realismo psicologico.
Fino a poco tempo fa questo dipinto veniva considerato un ritratto del padre di
Tiziano. Tiziano aveva una bottega di una cinquantina di elementi poiché non
riusciva a soddisfare le esigenze dei vari regnanti. Qui ci sono quadri che
sono anche in altri musei, hanno lo stesso soggetto e spesso variano in piccoli
particolari. Di questa Deposizione,
per esempio, ce n’è una a Madrid di cui ho visto una riproduzione dove
quest’uomo che qui è vestito di nero, lì è vestito di giallo con cerchi neri,
mentre l’originale di quella Maddalena,
è al Palazzo Pitti di Firenze. In questa seconda Sala c’è una parete dedicata
ad altri pittori veneti come la Sacra
Famiglia della bottega di Giovanni Bellini e questo polittico di Bartolomeo
Vivarini; una parete dedicata a pittori lombardi di fine Quattrocento
primi-Cinquecento e inoltre un bel tondo ancora con una Sacra Famiglia della bottega del Ghirlandaio; ma soprattutto ci
sono queste due opere: Il Musico di
Leonardo da Vinci e La Madonna del
Padiglione di Botticelli”.
Leonardo. Ritratto di musico |
G: Il Musico è un capolavoro.
B: “È
davvero interessante e affascinante, a parte la sua eccezionalità di essere
l’unico ritratto maschile dipinto da Leonardo: sappiamo che Leonardo ha
ritratto alcune dame, ma questo è l’unico ritratto maschile al mondo ed è anche
l’unico olio su tavola che di Leonardo possiede Milano. Prendendo dai
fiamminghi e da Antonello da Messina porta il nuovo anche nella pittura di
ritratto lombarda del tempo, ancora legata al mondo tardo-gotico come abbiamo
appena visto. Essendo per lui l’arte, scienza, ecco che, come dice nei suoi
appunti, non si accontenta del solo esteriore ma indaga l’interiorità del
personaggio per cercare di esprimerne i “moti dell’anima”. È un ritratto quindi
non più di profilo netto come la dama del De Predis; è moderno, è vivo...”
G: E
questa magnifica Pala?
B: “È una
Sacra Conversazione, quindi Maria in
trono col Bambino in centro con ai due lati dei santi e delle sante e,
inginocchiato, il donatore. È un mondo ancora gotico ricco di particolari
preziosi spesso d’oro, ma con degli accenni finalmente al mondo rinascimentale:
la prospettiva di Bramante che era anch’egli qui a Milano a fine Quattrocento e
ha lasciato opere architettoniche e pittoriche famose e significative; non è
più a fondo oro, quindi, come ancora nel polittico del Vivarini per esempio”.
G: Qui
siamo nella terza Sala, una sala più piccola ma con autori di un certo
interesse, mi pare.
B: “Beh,
sì, ci sono queste tre opere rare del Bramantino soprattutto. Bramantino è il
pittore più importante di Milano inizio Cinquecento, assieme a Bernardino
Luini, ed è interessante indagare nelle sue rappresentazioni spesso originali, seppure con scene tradizionali. Lo possiamo ben vedere già in questa Adorazione del Bambino del suo primo
periodo. Non inserisce i tre magi ma tre frati di tre ordini differenti: benedettino,
francescano, domenicano; c’è poi quell’uomo a lato sulla sinistra che è
coronato di lauro, pur non bello, dovrebbe rappresentare Apollo dio della
poesia e della musica; nel lato opposto in primo piano una Sibilla; quel ramo
secco indicherebbe la fine del mondo pagano, mentre il ramo fiorito sotto
l’arco di trionfo, la nuova era che nasce col Cristo. Questa seconda opera del
Bramantino è un affresco staccato già da secoli, dall’entrata della basilica
del Santo Sepolcro che dai primi di questo secolo è inglobata all’Ambrosiana, e
ne potrà vedere l’abside uscendo sul loggiato che incontrerà lungo il percorso.
Un affresco raffigurante una Pietà e
che ora purtroppo manca delle gambe ripiegate del Cristo che non si sono potute
salvare. Infine ecco uno dei quadri che più sconcerta e incuriosisce il
visitatore, meglio conosciuto col titolo di Madonna
delle Torri.
Bartolomeo Suardi detto il Bramantino Madonna delle due torri |
È un Bramantino che ormai ha visto Roma; le figure sono più
monumentali, ma ciò che incuriosisce sono i due cadaveri in primo piano distesi
in prospettiva: quello del rospo (significante il male, il demonio) e di
quell’uomo a rappresentare l’eresia di Ario sconfitta da Ambrogio. Senz’altro
avrà notato il viso maschile di Maria e quelle costruzioni così moderne... In
questa Sala vi sono esposti autori lombardi che più o meno sono stati
influenzati da Leonardo. Uno per tutti, prendo come riferimento questo San Giovanni Battista del Salaino che
prende spunto da due opere di Leonardo ora al Louvre: il San Giovanni Battista e, per lo sfondo azzurro e roccioso, La Vergine delle Rocce. Da qui,
ritornando nella collezione del Cardinale Federigo, troviamo alcuni tra i pezzi
più importanti, famosi e affascinanti. In questa quarta saletta c’è quasi tutta
la pittura veneta spesso facente riferimento ancora a Tiziano: quella Madonna con Bambino, San Giovannino e Santa
Caterina d’Alessandria, per esempio, è stata dipinta dal fratello di
Tiziano, Francesco, che lavorava nella sua bottega. In primo luogo, però, c’è,
ammirevole, questo Jacopo Bassano Riposo
durante la fuga in Egitto”.
J. Da Bassano. Riposo durante la fuga in Egitto |
G: Che
realismo! Questo impasto di colori è eccezionale.
B:
“Davvero; come spesso nei veneti che privilegiano il colore differenziandosi
dai toscani che hanno alla base il disegno. Bassano, soprattutto in un certo
periodo, inizia un genere conosciuto e apprezzato in tutta Europa, anche grazie
ai suoi figli e nipoti che lo proseguiranno: il genere cosiddetto pastorale; e qui lo vediamo proprio
questo suo amore per la natura e il mondo contadino: al centro la Sacra
Famiglia, ma ogni altro elemento è molto bello e non in secondo piano. La testa
dell’asino per esempio, questo albero poderoso, gli altri animali ed i
contadini...”.
G:
Elementi che poi diventeranno molto comuni nella pittura del Seicento.
B:
“Certo. Il Bassano è stato liquidato dal Vasari col titolo un po’ limitativo di
“pittore degli animali”, ma il cardinale acquistando questo quadro dice che con
questa opera Jacopo Bassano ci dimostra che non solo sa dipingere gli animali,
ma anche rappresentare bene i sentimenti umani. “Io - dice il Cardinale - amo
soprattutto l’espressione del vecchio e stanco San Giuseppe che guarda giocare
il Bambino col velo della mamma”.
G: Come
mai questa quinta Sala ha delle luci così fioche?
B:
“Perché nella seconda parte vi sono esposti disegni. In questa parte ci sono
spesso opere o copie per l’Accademia,
che dovevano servire da modello per gli allievi. Questa serie di teste di vari
autori, per esempio, sono teste di personaggi di varie età perché il Cardinale
diceva che un bravo pittore doveva saper fare innanzitutto bene le teste”.
G: C’è
qualche nome significativo in questa Sala da citare?
B:
“Senz’altro questo Presepe di Federico
Barocci di Urbino considerato il precursore del Barocco. Questo quadro è una replica, da non confondere con copia, perché è stato realizzato
dall’autore dell’originale con interventi del suo maggior allievo; il Cardinale
ama talmente questo quadro che non potendo avere l’originale si procurerà col
tempo una sua replica”.
G: Come
mai non riuscì ad avere l’originale?
B: “Perché
doveva andare in dono dal duca di Urbino alla regina di Spagna. Infatti
l’originale è a Madrid”.
G: Il
Cardinale doveva apprezzare molto questo pittore.
B: “Sì,
molto. Inviterà varie volte il pittore a venire a Milano a lavorare, ma questi
non riuscirà mai a venire. Oltre a quest’opera farà una pala d’altare che è tra
le poche nel Duomo di Milano. Una delle sue caratteristiche, come vede, è
questa tavolozza dai colori pastello. Eccoci nella seconda parte della Sala.
Nelle pareti laterali sono esposti disegni quasi tutti preparatori per le
vetrate del Duomo di Milano di Pellegrino Tibaldi, un artista che lavorò molto
qui nel periodo in cui Carlo Borromeo era cardinale. Si tratta della quarta
vetrata del lato sinistro, per la precisione. Ma qui come vede, giganteggia
quest’altra opera...”.
Raffaello. Cartone preparatorio de La scuola di Atene |
G: Il
famoso cartone di Raffaello!
B: “Sì, è
il cartone preparatorio de La scuola di
Atene, l’affresco che si trova nella Stanza
della Signatura in Vaticano. La stanza che viene destinata a Biblioteca da
Giulio II. È l’unico cartone preparatorio di queste dimensioni al mondo,
l’unico del Rinascimento che è arrivato fino a noi”.
G:
Eccezionale! Quanti metri sarà?
B: “Circa
8, mi sembra”.
G: Si è
mantenuto meravigliosamente, se pensiamo che è stato eseguito nei primi anni
del Cinquecento...
B: “È
davvero affascinante, in questa penombra poi... Rappresenta come poche altre
opere cos’è stato il Rinascimento italiano con questa centralità dell’uomo e
della ragione, la ricerca di armonia e proporzione, la scoperta e rivalutazione
del mondo greco e latino. Se noi pensiamo che l’affresco che deriva da questo
cartone è in una stanza del Papa, cioè il massimo esponente della
cristianità... Per rappresentare il massimo della ragione umana, Raffaello
utilizza delle personalità del mondo pagano: questa è già un’eccezionalità.
Innanzitutto inserisce al centro dell’opera in cima allo scalone, i due più
importanti esponenti filosofici dell’antichità: Platone e Aristotele. Poi,
tutt’intorno vari gruppi di personaggi che dialogano, discutono delle loro
diverse teorie. Un’altra caratteristica della sua fama è dovuta a riferimenti e
fisionomie di grandi personaggi del mondo rinascimentale italiano. Unanimemente
riconosciuto in Platone è il volto di Leonardo da Vinci con il dito rivolto
verso l’alto, ad indicare qui il mondo delle idee del filosofo greco”.
G: Gesto
simbolico tipico di Leonardo.
B:
“Copiato anche dal Luini degl’inizi, come abbiamo visto”.
G: E gli altri
personaggi, gli altri volti?
B: “Come
può immaginare le interpretazioni sono varie. Comunque ci sono Pitagora,
Averroè, Socrate, Diogene e con quel compasso e le sembianze, pare, di
Bramante, il matematico Euclide. Ci sono quasi tutti i personaggi dell’affresco
tranne tre: all’estrema destra dell’affresco ci sono due ritratti, uno del
Sodoma e l’altro di Raffaello stesso; ma soprattutto si nota che qui in primo
piano, dove ci sono questi gradini, Raffaello inserisce un personaggio nuovo
seduto che non aveva previsto: Eraclito col viso di Michelangelo. Si dice in
suo onore perché aveva appena finito e scoperto una parte degli affreschi sulla
volta della cappella Sistina. Lo inserisce direttamente ad affresco già
finito”.
G: Da chi
l’aveva avuto il Cardinale questo cartone?
B: “Era
stato acquistato dal Cardinale Federigo nel 1626 dalla vedova del proprietario
che si chiamava Fabio Borromeo Visconti, per una cifra consistente di 600 lire
imperiali. Grazie a lui ora possiamo qui lasciarci affascinare da quest’opera
unica”.
G: E
quest’altro?
B: “È un
disegno di Giulio Romano, il maggior allievo e collaboratore di Raffaello. È
parte di un cartone preparatorio per un affresco anch’esso nelle stanze
vaticane. Quando muore prematuramente Raffaello, dopo un po’ il papa
commissiona a Giulio Romano l’affresco chiamato La battaglia di Costantino”.
G: Vi si
respira un’altra atmosfera rispetto a Raffaello.
B: “È un
nuovo mondo, un mondo in crisi chiamato “Manierismo” dove il movimento è
protagonista... E questa è la sesta Sala dove si conserva la famosa Canestra di frutta di Caravaggio,
giustamente simbolo ormai dell’Ambrosiana”.
Caravaggio. Canestra di frutta |
G:
Indubbiamente l’effetto è straordinario: altro che natura morta. Il grande e inquieto Michelangelo Merisi...
B:
“Questa è considerata la prima natura morta della pittura italiana e l’unica
unanimemente riconosciuta del Caravaggio. La pittura, soprattutto nella nostra
cultura italiana-latina, per avere dignità doveva contemplare un contesto
storico dentro cui inserire delle figure umane; nella lezione di Caravaggio il
valore dell’opera non sta nel soggetto, ma nella grande capacità e sensibilità
dell’artista. Egli ci mostra la sua maestria sia quando dipinge un fiore che
quando dipinge una figura”.
G: La Canestra ci dimostra che da sola
possiede una dignità estetica straordinaria, pur privata dalla presenza umana.
B: “Certo,
però bisogna dire grazie ai fiamminghi, maestri nel riprodurre la natura, come
vedremo fra poco nella prossima Sala. La Canestra
è un’opera “monumentale”; è piccola, relativamente, ma monumentale”.
G: C’è
una cura eccezionale.
B: “Ma
anche associata a questa corposità, tridimensionalità che ha ogni elemento; e
questa tridimensionalità, questa corposità, la dà proprio la luce: “La luce
posandosi su ogni cosa dà corpo ad ogni cosa”. Noi abbiamo l’acino d’uva e ne
vediamo la rotondità e consistenza; della foglia vediamo persino le venature ed
alcune gocce di rugiada; della canestra il bellissimo intreccio... Caravaggio
ha poi fatto altre canestre, altri bellissimi vasi di fiori (con personaggi
inseriti, in quei casi), ma questa, ripeto, è un’opera unica. L’unicità di
quest’opera è data anche da questo fondo stranissimo che non è né giallo né
verde, e non è nemmeno piatto, ma dà una sensazione di silenziosità e
spiritualità all’opera”.
G: E non
solo, noto anche che questa canestra non ha un basamento, una base d’appoggio
riconoscibile. È una semplice linea marrone che dà a chi guarda l’impressione
di una superficie solida.
B: “Visto
che lei ha notato questa cosa, allora parliamo anche di questo tocco geniale in
più che Caravaggio fa: ci dà sensazione di spazio dove spazio non è
rappresentato, perché la canestra sembra che si sporga fuori dal tavolo, e
quindi noi vediamo tutta la bellezza della forma rotonda della canestra, che
altrimenti sarebbe stata tagliata dalla linea. E per di più abbiamo anche
questa illusione di spazialità
prospettica”.
G: Questa
che sala è?
B:
“Questa è una Sala molto particolare, è l’ultima della collezione del Cardinale
Federico. Sala molto diversa per un visitatore che vi arriva dopo aver visto
tutte le opere d’arte italiana; sembra di un gusto diverso. Ma il Cardinale,
dobbiamo ricordarlo, ama i fiamminghi, e soprattutto questi due che diventano
amici suoi durante il soggiorno romano: Paul Bril e Jan Bruegel”.
G: È una
sala molto nutrita e alquanto insolita.
B: “Sì, è
una collezione davvero ricca per essere una Pinacoteca italiana. Molto belli
soprattutto quei dodici “paesini” che sono incorniciati ancora come li ha
voluti il Cardinale. Sono oli su rame, per questo hanno una bellissima
luminosità. Non hanno dei riferimenti uno con l’altro, ci possono essere scene
bibliche, ma anche solo boschi, ecc. Questo ci ricorda appunto il gusto
dell’epoca in cui si voleva stupire; e allora si acquistavano queste opere
perché ricche di sorprese: si può scoprire un fiore, un carciofo, un insetto,
magari dove il giorno prima non si era affatto notato. Erano pittori che in
quel periodo erano di moda anche da noi. Interessante è questo dipinto di
Hendrich van Stenvijck e Jan Bruegel: sappiamo che Hendrich vanStenvijch era
specializzato in interni di cattedrali, e Jan Bruegel inserisce questi 40
personaggi, di cui qui in primo piano la seconda moglie e due dei suoi figli.
Jan Bruegel quando dipinge questo quadro è ormai tornato ad Anversa, sua città
natale, però il Cardinale continua ad acquistare quadri da questi due autori, e
ci sono lettere e aneddoti vari su questi acquisti, anche divertenti”.
G: E
questo vetro? Mi pare di grande interesse.
B: “Sì, è
un’opera monocroma che spesse volte non si considera, ma è uno dei vetri dipinti
più antichi esistenti. L’artista è Luca di Leida”.
G: È
olandese?
B: “Sì,
l’opera si intitola Trionfo di Davide.
Questo oltre all’eccezionalità tecnica con cui è dipinto, è un vetro molto
raffinato. Se noi teniamo conto che quest’opera è dipinta su vetro guardando
uno specchio, cioè al contrario, possiamo capire quanta bravura ci sia. È stata
esposta al Metropolitan Museum di New York nel 1995, mi pare, in occasione di
una mostra dedicata ai vetri dipinti. Poi c’è questo Topolino con rosa simbolo di quest’arte cosiddetta “lenticolare”,
che è una bagattella che il pittore fa per il Cardinale. C’è una lettera in cui
il pittore dice: “ti invio questo
topolino con rosa su pergamena”, ma invece è su rame. L’artista riesce
talmente a mimetizzare bene la cosa che sembra davvero carta. Allora il
Cardinale gli risponde per ringraziarlo dicendogli: “La tua maestria è talmente grande che mi ha fatto persino apprezzare un
topo”. Ci sono questi vasi di fiori che sono tra i primi vasi di fiori
fiamminghi; poi divenne un genere famosissimo. In questo quadro ci sono 100 e
più fiori di tutte le stagioni, e per questo venivano pagati carissimi. Jan
Bruegel, che ne è l’autore, accompagna l’invio del quadro al Cardinale con una
lettera in cui cerca di valorizzare il pezzo dicendo: “L’ho dipinto come se fossero gemme”; il Cardinale gli risponde: “Io l’ho pagato come se fossero tali”.
Molto bella anche questa Allegoria del
fuoco di Jan Bruegel; qui ne abbiamo solo due: l’Allegoria del fuoco e l’Allegoria
dell’acqua, gli altri due elementi (terra e aria) sono purtroppo a Parigi”.
J. Bruegel. Topolino con rosa |
G: Le
grinfie rapaci del solito Napoleone, immagino.
B: “Sì.
Napoleone portò via all’Ambrosiana molto. Molto torno, ma alcune cose sono
rimaste a Parigi, come alcuni codici di Leonardo, un Giorgione e altro. Anche
il cartone di Raffaello era stato portato via. Adesso si prosegue da questa
parte che è un’ala chiusa dopo la Seconda guerra mondiale e riaperta,
restaurata come il resto, solo ora: l’Ala Galbiati”.
G: Dio
che bella!
B: “È
stata sistemata in questo modo negli anni Venti-Trenta, proprio con il gusto
particolare del Prefetto dell’Ambrosiana di allora. Era una persona molto
colta, amico di D’Annunzio”.
G: Ha
retto l’Ambrosiana per molto tempo?
B: “Dagli
anni Venti agli anni Cinquanta. Ogni Sala è particolare, i colori dei pavimenti
sono uguali ma i disegni sono uno diverso dall’altro. Vede? Qui si cambia
atmosfera, sembra di passeggiare in un palazzo signorile. Ogni sala ha un nome
particolare: questa è la Sala della
Medusa con la fontanella del Castiglioni, poi c’è la Sala delle Colonne e così via. Da queste sale in poi ci sono non
solo dipinti, ma come già si vede dalle vetrine, materiali artistici e
scientifici, curiosità come la famosa ciocca di capelli di Lucrezia Borgia, i
guanti che Napoleone usò a Waterloo, soprammobili, miniature”.
G: Questa
è la famosa ciocca davanti a cui Byron si commosse e pianse, per cui divenne un
simbolo romantico?
B: “Sì.
Tutto ciò per ricordare un po’ il genere delle Wunder Kammer, le stanze delle
meraviglie. I nobili allestivano queste sale per stupire gli ospiti non solo
con oggetti artistici di valore, ma anche con delle curiosità. L’Ambrosiana
possiede la collezione di Lodovico Settala amico del cardinale, che aveva un
intero palazzo ricco di oggetti non solo naturalistici, ma anche strani. La
direzione vorrebbe riunire e sistemare questo materiale, almeno quello che si è
salvato, nell’ultima sala ora adibita a quadreria. In questa saletta numero 9
invece, c’è una parte della collezione Sinigaglia. Era una famiglia torinese
che nell’Ottocento si è dedicata alla raccolta di miniature. È interessante
perché in questa collezione sono rappresentate tutte le scuole italiane ed
europee dalla fine del Settecento ai primi dell’Ottocento. Il collezionista si
chiamava Alberto Sinigaglia”.
G:
Quand’è che avete acquisito questa collezione?
B: “È
stata donata all’Ambrosiana nel 1947, dopo la Seconda guerra mondiale. Qualcosa
è andata dispersa perché la villa dove era custodita questa collezione, era
stata occupata dai tedeschi. Però tutto quello che si è salvato è qui. Ecco,
adesso si esce sul Loggiato. Da qui si gode la vista e la pace del Cortile
degli Spiriti Magni, in cui sono inserite queste sculture di autori vari,
soprattutto letterati di vari stati europei, e qui si vede un po’ anche tutta
la struttura dell’Ambrosiana. Questo Loggiato che faceva parte del convento dei
monaci oblati acquisito dall’Ambrosiana agli inizi del Novecento; l’abside
della chiesa del Santo Sepolcro, e quella parte dove c’è il resto dell’affresco
di Aurelio Luini figlio di Bernardino, l’ala più antica”.
Veduta del Cortile degli Spiriti Magni |
G: Oltre
a Dante Alighieri chi sono i personaggi raffigurati in queste statue?
B: “C’è
Platone, Tommaso d’Aquino, Paracelso, Chateaubriand, Sándor Petöfi poeta-eroe
ungherese, Amleto che rappresenta Shakespeare, Goethe”.
G: E
Manzoni.
B: “E
Manzoni, sì. Ce n’erano anche altre di statue, ma non so dove sono andate a
finire”.
G: E qui
lungo il Loggiato?
B: “Ci
sono dei busti di personaggi della Milano dell’Ottocento, penso”
G: Siamo
rientrati: in questa Sala che opere sono conservate?
B: “Ci
sono soprattutto opere d’arte dell’Italia Centrale. Molto bella questa Annunciazione del Bedoli; è un quadro
che per un po’ di tempo è stato considerato del Parmiggianino. Il Bedoli è
cugino del Parmiggianino, oltre che allievo e collaboratore, esponente di
quella particolare arte chiamata del manierismo”.
Girolamo Mazzola detto il Bedoli Annunciazione |
G: Del
Parmiggianino ho sempre davanti agli occhi quella meravigliosa Madonna dal collo lungo.
B: “Sì, è
molto bella. Interessante anche quest’opera di Giovan Paolo Lomazzo, un pittore
che poi divenne cieco. Fu un valido studioso e scrisse diversi trattati
sull’arte. Questo quadro è della scuola del Bronzino. Di grande interesse anche
questa madonna con Bambino, un quadro
che ha dei riferimenti molto forti con Michelangelo. Infatti Federico Zeri
quando vide quest’opera esposta a Londra, in occasione di una mostra dedicata a
questo maestro sconosciuto chiamato ‘maestro della Madonna di Manchester’,
disse: “Questo è il quadro più
michelangiolesco di tutti”. C’è questa figura del Bambino piuttosto mossa e
allungata; c’è questo muro spoglio che ricorda un po’ il Tondo Doni. Quest’altra sala è la Stanza dell’Esedra. In questo
muro curvo è stata riprodotta una miniatura fatta da Simone Martini nel libro
che appartenne a Petrarca con testi di Virgilio; il Galbiati, nel 1929-30, gli
anni virgiliani, fa riprodurre a mosaico questa miniatura che possiede
l’Ambrosiana. Poi ci sono opere di pittori veneti del Cinquecento, soprattutto
di Bergamo e Brescia che a quell’epoca erano sotto il dominio di Venezia.
Bellissimo questo Giovan Battista Moroni Ritratto
di Michel De l’Hôpital ambasciatore francese durante una fase del Concilio
di Trento; poi ci sono questi due ritratti della scuola del Veronese e del
Tintoretto”.
G: E
questo viso che emerge dal buio così prepotentemente ebraico?
B: “È un
ritratto di Bernardino da Lesmo eseguito da Bartolomeo Veneto: è davvero
suggestivo. Poi si comincia a salire su questa scala scenograficamente ricca di
statue che sono del primo Ottocento, della Fabbrica del Duomo di Milano. C’è
qui innanzitutto questo ritratto di Paolo Moriggia dipinto da Fede Galizia a 18
anni; a soli 18 anni ritrae questo studioso della Milano antica che allora
aveva 72 anni”.
G: Era
dotata di uno straordinario talento...
B:
“Peccato che non ha continuato nei ritratti, si è poi specializzata in nature
morte, ma guardi a 18 anni che forza che ha”.
G: Un
grandissimo talento.
B:
“Questo è uno dei pochi quadri di Guido Reni ultima maniera: La Maddalena penitente. Questo modo di
‘sbiancare’ il quadro, renderlo quasi monocromo e così malinconico... Questo
quadro in particolare è reso anche più spirituale, nonostante la Maddalena sia
rappresentata piuttosto florida e non ha niente della donna denutrita e
sofferente”.
G: A chi
è dedicata questa Sala?
B: “A
Nicola da Bologna per la riproduzione in alto di due sue miniature che ha
l’Ambrosiana. Si arriva all’eccesso della scenografia con questa saletta in cui
viene riprodotta una biblioteca di un palazzo signorile del Settecento lombardo;
è per una questione soprattutto scenografica. Sul soffitto sono riprodotti 100
stemmi di famiglie nobili lombarde con la vetrata di sant’Ambrogio. Anche in
questa piccola saletta ci sono dei pezzi interessanti come ad esempio questo Ritratto di gentiluomo di Francesco
Cairo e quel bel quadro di Daniele Crespi raffigurante Filippo Benissi. Crespi
è uno dei più bravi pittori che escano dall’Ambrosiana, assieme al Procaccini,
di cui vediamo un bozzetto lì vicino: San
Michele Arcangelo. È molto bello anche questo piccolo Morazzone, quest’Adorazione dei Magi, e poi ci sono
questi due Vermiglio, uno raffigurante Jasele e Sisara, l’altro Giuditta e
Oloferne. Sono due opere esposte per la prima volta all’ambrosiana, ritrovate
nei depositi”.
G. Vermiglio. Jasele e Sisara |
G. Vermiglio. Giuditta e Oloferne |
G: Vi
colgo una luminosità caravaggesca, qualcosa di molto seicentesco, di
drammaticamente scenografico...
B:
“Infatti qui comincia a venir fuori proprio il caravaggismo: queste scene
violente, per esempio, la testa mozzata... Adesso si riesce nel secondo piano
del Loggiato per poi rientrare subito dopo, e ci si trova nella seconda parte
della collezione Sinigaglia che abbiamo visto sotto. Di particolare in questa
saletta c’è questa bella Vanitas del
Baschenis, pittore bergamasco che si specializza in queste rappresentazioni di
stanze dai panneggi pesanti e lussuosi, ricche di strumenti musicali appoggiati
in modo apparentemente disordinati, in un gioco ad incastro”.
G: Sono
molto decorativi. Mi diceva di Vanitas:
qual è il senso metaforico conferitogli dall’artista?
B: “Rappresentando
con grande raffinatezza la polvere sullo strumento musicale, e quelle due
ombreggiature che ricordano delle dita passateci sopra, Baschenis ci vuole
ricordare che il tempo passa, che tutto è vanità: anche le bellezze della vita
come la musica, e dell’uomo stesso non rimangono che poche tracce”.
E. Baschenis. Vanitas |
G: Come
quelle lievi impronte sullo strato di polvere dello strumento...
B: “È
proprio così. Nella Sala numero 16 c’è questo bel Serodine, figura allegorica
femminile intitolato Ritratto della
Scienza o della Malinconia. Questo Serodine è un pittore del Ticino che
muore giovanissimo a Roma, anche lui discepolo di Caravaggio. Poi ci sono
questi tre Nuvolone, pittore lombardo. Susanna
con i vecchioni, appena restaurato, ci fa ricordare Rubens con questo colore
rosso-rosato e questa figura di donna prosperosa”.
***
Da qui in poi proseguo il mio viaggio da solo perché Bergnach è
desiderato altrove, e mi porto nella Sala 18 dedicata al neoclassico. Spiccano
i numerosi bronzi dorati, i soprammobili, gli autoritratti in marmo del Canova,
opere donate dai fratelli De Pecis. La Sala 19 è dedicata invece all’arte
lombarda dell’Ottocento e del primissimo Novecento. Vi troviamo dipinti di
Andrea Appiani, pittore ufficiale di Napoleone, di Mosè Bianchi, di Emilio Gola
di cui non bisogna perdere Le lavandaie
sul Naviglio e Chiusi fuori di scuola
del Longoni, il cui forte realismo sottintende una venatura di protesta
sociale. Molto belli i quattro ritratti di Francesco Hayez che la famiglia
Negroni Prati Morosini ha voluto dare alla Pinacoteca nel 1962. La Sala 21
contiene pittura fiamminga e tedesca dei secoli XV-XVIII. In questa sala è
stata collocata la splendida vetrata dantesca di Giuseppe Bertini, realizzata
per la Grande Esposizione di Londra del 1865. Una sosta accurata meritano anche
i due ritratti maschili di Hans Muelich. La Sala 22 conserva alcuni
bassorilievi con sculture in marmo provenienti dal monastero di Santa Maria
Assunta di Cairate, donate da Alessandro Astesani. Una è una scultura in pietra
della seconda metà del XV secolo di Giovanni Antonio Piatti, ma sorprendono per
maestria tecnica i due nuclei di bassorilievi di Agostino Busti detto il
Bambaia, provenienti dal monastero sepolcrale di Gaston De Foix e da un’altra
tomba. Inoltre vi sono 4 affreschi strappati dalla chiesa di Santa Maria della
Rosa, abbattuta nel 1831 per ampliare gli spazi dell’Ambrosiana, reperti
scultorei di epoca romana e rinascimentale. Con la visita alla Sala numero 23
ha termine il mio viaggio in questo luogo dell’incanto. Qui sarà sistemato il
Museo Settala donato all’Ambrosiana nel 1751 e finora mai esposto. Si compone
di animali esotici imbalsamati, pesci rari, conchiglie, coralli, cristalli,
astrolabi, strumenti scientifici, ecc. Per ora questa sala funziona da
quadreria con la presentazione di un primo nucleo della raccolta Settala. Fra
le opere pittoriche esposte voglio segnalarvi una Scena pastorale di Giovanni Benedetto Castiglione detto il
Grechetto, e in particolar modo la gigantesca tela (cm. 179 x 277) attribuita a
Federico Bianchi, un pittore forse nato a Milano. Si tratta di una Strage degli innocenti che mi ha molto
impressionato; è di una drammaticità assoluta con questi bambini sgozzati in
braccio alle madri, ancora nell’atto di allattare. Le figure gigantesche in
rilievo emergono da uno sfondo scuro, come le tenebre di una notte dei più
bassi istinti umani. A mio parere è un capolavoro, e necessita di un restauro
urgente, prima che sia del tutto compromesso.
***
MUSICI ALL’AMBROSIANA
di Angelo Gaccione
Villa Simonetta |
L’incisione riportata nel volume Ville di delizie o siano palagi camparecci
nello Stato di Milano di Marc’Antonio Dal Re del 1726, ce la mostra isolata
in una piatta pianura di campagna. “Quasi
due miglia dalla città di Milano” scrive Dal Re, e a noi pare oggi incredibile
che la zona dove sorgeva, e sorge, Villa Simonetta con il lunghissimo colonnato
frontale, sia a poche fermate di tram dal Cimitero Monumentale e dalla
Metropolitana Viola: la 5, come dicono i milanesi. Quanto sia rimasto di
autentico della villa rinascimentale voluta da Gualtiero Bascapè, cancelliere
di Lodovico il Moro, non lo sappiamo, passata com’è dalle mani di vari signori
milanesi nel corso dei secoli. Quel che è certo è che Bascapè la godette sì e
no un paio d’anni prima di lasciare questo mondo, e quella che era nota come la
“Gualtiera”, già nel 1555 era divenuta proprietà dei Simonetta, nome che ha
mantenuto fino ai giorni nostri. Sparita invece la facciata (almeno come la
conosciamo dall’incisione del 1700 più sopra menzionata), distrutta dalle bombe
dell’ultima guerra, quella che io ho più volte definito la Grande Macelleria, e come si dovrebbe più correttamente trovare
scritto nei manuali di storia contemporanea. L’attuale facciata risale al
restauro del 1959; per fortuna nemmeno brutta, se pensiamo agli usi e abusi che
la villa ha dovuto sopportare: persino una compagnia
della teppa, di balabiott (balli
nudi), poi ospizio, mensa operaia, e così via. Oggi ospita la Civica Scuola di
Musica dedicata a Claudio Abbado, ed è splendido che nel suo Istituto di Musica
Antica si siano potuti formare e vi possano tuttora studiare, i quattro giovanissimi
che questa mattina (sabato 4 agosto) ci hanno dato un saggio del loro impegno,
suonando in un salone della Biblioteca Ambrosiana i loro flauti dolci. Saux,
Ockeghem, Janequin, Telemann, questi sono stati gli autori proposti, in un
excursus che dal 1400 è scivolato fino al Novecento più maturo. Un quartetto
dalle provenienze internazionali: cileno José Manuel Fernández Bravo, cilena
Ariadna Quappe, francese ma con studi anche in Cile Ninon Dusollier, giapponese
Nao Kirihata. A loro e alla loro giovane bravura abbiamo tributato il nostro
plauso, e naturalmente alla Cappella Musicale e allo spirito internazionale
della nostra città.
Leonardo da Vinci Ritratto di Musico |
L’Ambrosiana: questo il meraviglioso contenitore del
concerto. E allora come resistere per l’ennesima volta alla tentazione di
percorrerne le ricche sale con le preziose collezioni, i lasciti, le
donazioni... impossibile. E allora completamente soggiogato e come fuori dal
tempo, ho ripercorso le 19 Sale, i Loggiati, la Sala dell’Esedra, la
Federiciana, il Peristilio e quella che viene definita come Aula Leonardi dove
non c’è solo quel capolavoro conosciuto come il Ritratto del Musico, ma anche un Ritratto di una duchessa di Milano di mano di Leonardo, il Cristo incoronato di spine di Bernardino
Luini e un suo giovane allievo, affresco straordinario che occupa tutta una
parete. Al centro della scena il Cristo affranto tormentato dai suoi aguzzini
che si divertono anche a schernirlo con boccacce e smorfie grottesche. C’è una
copia della Vergine delle Rocce di
Andrea Bianchi (il Vespino), una Madonna
con Sant’Anna e San Giovannino, sempre del Vespino, che è stato un copista
straordinario, ed è sua la riproduzione dell’Ultima Cena leonardesca che corre in orizzontale sulla parte alta
di una delle pareti della Sala. Leonardesco è anche il Cristo deriso da due sgherri di Giovanni Pietro Rizzoli (il Giampietrino)
nella stessa sala, o la Testa di Cristo
Redentore di Gian Giacomo Caprotti (il Salaì).
Con particolare emozione ho sostato davanti al tondo della Madonna del Padiglione di Botticelli,
alla Canestra di frutta di
Caravaggio, alle due tragiche tele di Giuseppe Vermiglio Giuditta e Oloferne e Giaele
e Sisara, alle sculture del danese Bertel Thorvaldsen, e nella Biblioteca
dove oltre al patrimonio librario si conserva il Codice Atlantico. Ma qui c’è il Gotha della pittura attraverso il
secoli e si farebbe torto alla creatura del cardinal Federigo trascurarne
artisti, secoli e ambienti geografici di provenienza. In queste Sale dovete
immergere non solo il vostro sguardo, ma tutto intero lo spirito e lasciare che
il tempo scorra per voi indifferente com’è successo a me. Zenale, Bergognone,
Procaccini, Bramantino, Morazzone, Daniele Crespi, Tiziano, Veronese, Giulio
Romano, Brueghel, Canova, Hayez... e tanti, tantissimi maestri ancora, vi
faranno compagnia. È anche un modo per capire cos’è stato il genio artistico
italiano, il tesoro enorme che dovremo custodire. Se non siete mai entrati nella
Biblioteca Ambrosiana e nelle Sale della sua Pinacoteca, vi consiglio di farlo
prima possibile. È un’esperienza memorabile, come essere stati ai Musei
Vaticani, o agli Uffizi.
***
Taccuino
SAN SISTO E IL
MUSEO MESSINA
di Angelo Gaccione
Probabilmente in pochissimi conoscono la chiesa
di San Sisto a Milano. Chi va verso il
Carrobbio percorrendo la trafficata via Torino diretto al Ticinese,
difficilmente devia nella piccola e stretta via San Sisto, che prende il nome
proprio dalla seicentesca omonima chiesa. Chi vi si reca è perché sa che dal
1974 questa chiesa sconsacrata e ad un’unica navata, è divenuta prima studio e
poi museo dello scultore Francesco Messina. All’artista siciliano (era nato a
Linguaglossa in provincia di Catania nel 1900) si deve la sua salvaguardia;
volevano buttarla giù dopo anni di incuria, e non oso pensare che cosa
avrebbero edificato in quegli anni al suo posto. Messina si offerse di
restaurarla a sue spese trasferendovi lo studio, impegnandosi in una donazione,
come è poi avvenuto, per farne il magnifico e raccolto attuale Museo che porta
il suo nome. Meno male, all’ex direttore dell’Accademia di Brera (e
naturalmente anche a noi amanti dell’arte) è andata meglio di tanti altri
artisti. Penso ad esempio all’indegna vicenda del pittore Enrico Baj, e di come
la città si è vista privare del suo importante lascito, a causa di
amministratori ottusi e incapaci. O all’immenso archivio del premio Nobel Dario
Fo finito a Verona.
Oggi i milanesi, e non, recandosi in via San Sisto al n. 4,
possono entrare in un luogo accogliente dichiarato monumento nazionale, ed
ammirare le opere (80 sculture tra bronzi, marmi, ceramiche, cere, terrecotte e
26 opere grafiche su carta) che Messina ha lasciato alla città. Io ci sono
venuto più volte per ammirare i suoi cavalli, le numerose ballerine colte nelle
pose più diverse (la bellissima moglie Bianca ballerina lo era stata di
professione, e questo deve avergli trasmesso l’amore per tale disciplina), i
nudi, i busti di Pietro Marussig, del poeta Quasimodo, il ritratto del
cardinale Idelfonso Schuster, le due splendide cere con i volti di Maria Laura (1946) e di Felicita Frai (1949-1950), il Grande nudo femminile (1967) più alto di
me, il profilo bellissimo della moglie Bianca
(1937-1968) in marmo bianco policromo. Conosco una parte consistente
dell’opera di questo artista, noto ai più per il suo Cavallo morente davanti alla sede della Rai di Roma, e quando vado
a Pavia non trascuro di alzare lo sguardo verso la sua statua della Minerva che
dà il nome alla piazza, e di andare a vedere il suo monumento equestre del 1937
posto proprio di fronte al Duomo, conosciuto col curioso nome di Regisole.
Al Museo Messina ci sono ritornato sabato pomeriggio (28
luglio) per visitare la mostra “L’eco del classico. La Valle dei Templi di
Agrigento”, che vi è ospitata. Rimarrà aperta fino al 21 ottobre, fruibile
anche di domenica, e quel che è più meritorio, con ingresso gratuito, come
avviene tutto l’anno per il Museo. È una mostra davvero indovinata perché tenta
un dialogo, secondo me riuscito, fra le opere classiche di Messina e alcuni
ritrovamenti avvenuti in quell’inesauribile “miniera” che è la Valle dei
Templi. Teste, cavalli, statuette femminili e nudi esposti, sono in risonanza
con molti lavori dell’artista siciliano. Il busto in terracotta di Demetra
(fine IV - inizi III sec. A.C.), il Torso maschile in marmo (IV se. A.C.),
dialogano bene e a distanza di tanti secoli, con Narciso (1946), Eva (1949),
Efebo (1959), il Torso femminile del 1975,
i quattro cavalli in bronzo del 1958, così come le teste e i busti di
Messina, tanto per citare.
F. Messina Busto della moglie Bianca |
Ai piani superiori una serie di acquerelli con vedute e
scorci della Valle dei Templi del pittore greco Habidis, mentre Leonardo Nava
ha realizzato una sorta di scultura vegetale intrecciando più di cinquemila
bastoni di nocciolo, che dall’esterno entra nella chiesa. Seguendo la forma
sinusoidale della facciata la cinge in un groviglio correndo lungo l’arco subito
sopra il timpano del portale. Le motivazioni dell’artista e degli ideatori sono
molto convincenti sulla carta, meno dal punto di vista visivo. Ma è un’opinione
personale. Mi piacerebbe, invece, che la facciata e i lati di San Sisto
venissero ripuliti, anche perché l’intonaco in alcune parti è scrostato. Non
sono il ministro della difesa e non posso disporre della scandalosa cifra di 70
milioni di euro al giorno che l’Italia spende per questo Ministero della morte,
ma si può almeno lanciare l’idea di devolvere il 5 per mille al Museo Messina
per questa incombenza. Io sono disponibile.
P.S. Una minuscola statuetta (cm. 31 x 6) di fine IV sec. e
inizi del III a.C. raffigurante un neonato in fasce, presente in questa mostra,
mi ha svelato quanto fosse antica quella tremenda pratica di “imbalsamare”, come
in una camicia di forza, i poveri bambini. Fasciati dalle spalle in giù e con
le braccine allineate lungo i fianchi, non era permesso loro alcun gesto o
movimento. Una vera e propria tortura che ho fatto in tempo a vedere in
Calabria, nella mia terra di nascita. Per fortuna un’altra visione più
consapevole, ha cancellato, almeno in Occidente, questa usanza così
abominevole.
***
Taccuino
CASA ATELLANI
E LA VIGNA DI LEONARDO
di Angelo Gaccione
Vista sul giardino e vigna di Leonardo |
Questa mattina, 24 luglio, ho passato alcune ore
in modo piacevole e sereno circonfuso da ciò che ai miei occhi rappresenta,
assieme alla gioia per una buona conversazione, il godimento più grande per lo
spirito umano: arte e natura. Sono andato a visitare, in Corso Magenta, la
vigna di Leonardo nella Casa degli Atellani. E siccome “Ogni nostra cognizione
principia da’ sentimenti”, come ben dice Leonardo, voglio scriverne subito,
dato che in me cognizione e sentimenti sono rimasti vivissimi. Sul
cognome dei proprietari (cortigiani fedelissimi del signore di Milano Lodovico
Maria Sforza, il Moro, come è universalmente conosciuto, e ai quali fa dono di
ben tre case proprio davanti alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, due nel
settembre del 1490 e una terza più tardi) la confusione documentale sfiora il
comico. Marin Sanudo nelle sue cronache scrive indifferentemente Da la Tela, Di
la Tela, Da la Tella, Àtellano. Il novelliere Matteo Bandello, che pure era in
intimità con la famiglia, scrive Attellano; Francesco Grossino, invece, Dilla
Tella e Dalla Tella, ma altrove troviamo anche Dell’Atella. Comunque sia,
quella che, con alterne fortunose e infauste vicissitudini, (persino le bombe
del 1943), è giunta fino a noi, porta il nome di Casa Atellani, e come tale è
nota ai milanesi. Chi vuole conoscerne in dettaglio storia e passaggi di mano,
può leggersi in un paio d’ore le novanta pagine di Jacopo Ghilardotti: La casa degli Atellani e la vigna di
Leonardo.
Il recupero e la sistemazione, come oggi li vediamo, con la
fusione delle due corti (la casa nova e
la casa antiqua) e un solo numero
civico, si devono all’architetto Piero Portaluppi. Incaricato dal nuovo
proprietario, l’industriale e senatore del regno Ettore Conti, che nel 1919 le
aveva comprate per farne un luogo più adatto alle proprie esigenze, e
soprattutto ingolosito da quello che era stato lo splendido giardino di una
villa di delizie, e che il tempo e la guerra avevano ridotto ad una “topaia”,
come si esprime la moglie del senatore, il cui ritratto sopra quello del
marito, fa ora bella mostra nella Sala Studio di cui devo almeno segnalarvi una
tela fiammingheggiante che riproduce una gigantesca Torre di Babele con la
narrazione minuziosa della stoltezza degli uomini: forse anche in polemica con
la Chiesa di Roma alle prese con il gigantismo poco evangelico
dell’edificazione della basilica di San Pietro; e il rivestimento in legno
delle pareti affollate di cariatidi, anch’esse lignee, dalle fogge e dalle
dimensioni più diverse. Ettore Conti e la moglie Gianna riposano ora nei
bianchi cenotafi marmorei realizzati da Wildt, in una cappella di Santa Maria
delle Grazie, la chiesa di fronte alla loro bella casa, e non senza ragione: è
stato lui il benefattore, come una iscrizione ci ricorda, a finanziare il
restauro della creatura di Guiniforte Solari e del Bramante, eseguito proprio
da Piero Portaluppi, l’ordinatore della sua magione, quello che Ghilardotti
definisce con molta pertinenza “il braccio architettonico di Ettore Conti”. Se
vi capita di andare a vedere il Cenacolo,
non trascurate di entrare anche in chiesa e di sostare davanti alla sua
cappella. È grazie a lui se oggi possiamo godere delle meraviglie di Casa
Atellani e della vigna di Lionardo,
come lo chiama il Vasari. Il suo gusto è stato troppo raffinato e troppo
visionario il suo spirito, perciò siate indulgenti, sono sicuro che il fascismo
non sia riuscito a guastargli l’anima.
Casa Atellani è oggi una Casa-Museo privata tuttora abitata.
Ciò che è visitabile sono solo le sale del pianterreno e i due cortili di
accesso sistemati dal Portaluppi, dove convivono armoniosamente colonne,
portico, affreschi, in un dialogo fatto di antico e di “intrusioni”
novecentesche che sono la cifra dell’ecclettismo del suo ordinatore. In nessun
ambiente queste provocano fastidio: la Sala dello Zodiaco e il Soffitto dei
Pianeti è affascinante quanto la Sala con i ritratti della scuola luinesca, con
quel soffitto affrescato da un tripudio fantasioso di ricami floreali dentro le
vele e le lunette. E non disturba quella scala novecentesca nella Sala dello
scalone, nella cui balaustra Portaluppi ha incastonato gli stemmi delle quattro
famiglie che nel tempo hanno posseduto la casa. È una scala che non conduce ad
alcun piano nobile, perché le bombe della guerra hanno fatto al meglio il loro
compito demolitore. La disposizione degli arredi voluta dall’architetto, ne
fanno però un ambiente vivo, impreziosito anche da pezzi di pregio, come la Crocifissione
quattrocentesca sulla parete di sinistra, la tela, anch’essa di argomento
sacro, su quella di destra, o la mappa settecentesca di Milano lungo la
scalinata, con il tracciato delle mura interne medievali e di quelle spagnole
più esterne. Il piano terra immette in quello che resta l’ambiente più
suggestivo: il giardino. Lo è stato nel Cinquecento, come sappiamo dalle
novelle di Bandello, e lo è stato in epoca contemporanea, come sappiamo da
Ettore Conti che ne andava fiero, e che a Portaluppi aveva affidato il compito
di riportarlo al suo antico splendore.
L’affaccio dalla balconata permette di cogliere il viale
prospettico fino a dove, pochi anni fa, è stata reimpiantata, con gli stessi
vitigni di allora, la vigna di Leonardo. Analisi sul materiale organico e sul
profilo genetico, hanno permesso di arrivare a questo miracolo. Leonardo aveva
avuto in dono questo pezzo di terreno, di cui egli stesso ha lasciato notizie
precise, da Lodovico il Moro. Dobbiamo a Luca Beltrami, grande studioso di Leonardo,
l’individuazione esatta dell’ubicazione della vigna e la decisione di
incorporare “nell’attiguo giardino della casa Della Tela, che il senatore
Ettore Conti sta riadattando come abitazione personale”. I milanesi forse non
sanno che devono alla caparbia e indefessa volontà di Luca Beltrami e alla sua
decisa opposizione a quanti avrebbero voluto demolirlo, anche l’esistenza del
Castello Sforzesco e del suo splendido parco nel cuore della città. Gli
speculatori erano pronti per farne un prelibato boccone in favore della nuova
borghesia emergente e del suo uso privato.
Con emozione ho poggiato i piedi dove il genio da Vinci ha
camminato. Ho girato fra i filari carichi di grappoli, ho assaggiato un chicco
ancora asprigno, e mi sono detto come sia straordinario che in un luogo come
questo possa attecchire la vitis vinifera. Giustamente Leonardo amava molto
questo suo pezzo di terra, a quei tempi fuori porta e decentrato. Veniva a
prendersi cura delle sue viti, a riposarsi dalle fatiche, e magari a rilassarsi
dopo le ore di lavoro dedicate al Cenacolo che gli stava proprio di fronte. Nel
giardino era ospitato spesso, e qui poteva conversare con ospiti illustri e
memorizzare i volti di Cecilia Gallerani ritratta nella Dama con l’ermellino, e di colei che gli ispirò il ritratto de La bella ferronnière, sulla cui vera
identità, la critica si accapiglia da oltre cinquecento anni.
Taccuino
I CANTIGAS DI
SANTA MARIA E LA VIA DURINI
di Angelo Gaccione
Milano, Santa Maria della Sanità |
Santa Maria della Sanità è stata fino a lunedì
sera (16 luglio) per me, una chiesa misteriosa. Mai avevo avuto la possibilità
di mettervi piede in tutti questi anni, e mai, passandovi davanti, l’avevo
vista aperta. Per me era una graziosa facciata barocca in cotto che con la sua
forma concava convessa, adornava la signorile via Durini che conduce in San
Babila, cioè alla Casa della Cultura. Via Durini era sempre rimasta per me la
Galleria Strasburgo che sbuca sul Corso Europa, con il pavimento tutto a
mosaico; la casa dove era morto Umberto Giordano, quella del numero 20 dove
visse Toscanini dal 1909 al 1957, il palazzo del numero 24 che dà il nome alla
via, progettato da Francesco Maria Richini verso la metà del Seicento, nel cui
cortile qualche volta mi ero infilato di straforo. Avevo poi letto che nel 1925
era passato di proprietà alla famiglia Caproni di Taliedo, e così avevo potuto
associare le officine di via Mecenate dove la Caproni costruiva componenti per
l’aviazione, al vecchio quartiere operaio della Zona 13 che porta tuttora il
nome di Taliedo-Forlanini, in omaggio, anche all’ingegnere aeronautico Enrico
Forlanini a cui è dedicato l’aeroporto di Linate. C’erano molte fabbriche un
tempo da quelle parti, compreso la Montecatini (dove lavorò e si ferì
gravemente il mio fratello maggiore) divenuta poi Montedison, la Ricordi, e
tante, tante altre, definitivamente cancellate. Ma, soprattutto, via Durini era
rimasta nella mia immaginazione, per l’imponente palazzone dalle fogge
vagamente palladiane che domina con la sua stazza quella che è divenuta una
delle vie del lusso e che un tempo non lo era affatto. Vi scorreva infatti un
malsano canale chiamato Cantarana che aveva finito per dare il nome di
Cantarana di Porta Tosa alla zona. Palazzo Cusini si chiama questo palazzo
dalla facciata monumentale carica di colonne, obelischi, timpani, medaglioni,
statue, putti, festoni e così via, e a realizzarlo sono stati nel 1928 i
fratelli architetti Adolfo e Aldo Zacchi. Nel dopoguerra, con le edificazioni banali
degli anni Cinquanta-Sessanta e susseguenti, avremmo rimpianto molto la
fantasiosa solidità di quella architettura.
E poiché non è
sempre vero, come scrive Richelet nel suo Dictionnaire,
che “Il palazzo è la casa di un signore di qualità”, queste case hanno finito
per avere destinazioni discutibili.
Ma transeat.
Milano, il Palazzo Floriani con la casa dove visse Toscanini |
Devo confessarlo: più che la curiosità del concerto Cantigas de Santa Maria dell’Ensamble
Micrologus, ad attirarmi era stata la sede dove si sarebbe svolto. Finalmente
avrei potuto vedere quella chiesa. Avevo preventivamente letto un certo numero
di questi cantigas medievali e non mi
aspettavo granché, ripetitivi e monocordi come sono. Raccontano di miracoli e
di devozioni e sono quasi tutti canti di lode. Più che il contenuto, ad
affascinarmi era stato il mistilinguismo arcaico dei versi e le contaminazioni
di latino, lusitano, spagnolo di cui sono impastate. E invece l’interno di
Santa Maria della Sanità non ha nulla di eccezionale, ed il concerto si è rivelato
molto più sorprendente di quanto avessi immaginato. La cornamusa, lo zufolo, il
flauto traverso, la viella, la ribeca, la piccola arpa, la guinterna, la
chitarra moresca, il tamburo, le due sottili e lunghissime trombe medievali che
facevano venire in mente le trombe dei kolossal della Roma imperiale, e le voci
dei cantori Patrizia Bovi, Goffredo Degli Esposti, Gabriele Russo, Simone
Sorini, hanno fatto di questi cantigas de
miragres e cantigas de loores, una
seducente polifonia tutt’altro che austera e mistica. Tanto che sia il canto
che i suoni, mi sono parsi poco adatti ad accompagnare l’officio e me ne ero
stupito. A fine concerto ho scambiato poche battute con uno dei musici e
cantori, Simone Sorini, e mi ha confermato che non venivano cantati durante
l’officio, ma con molta probabilità sul sagrato e in momenti non rituali. Gli
arrangiamenti e le melodie sono quasi tutti dei Micrologus, anche se con un
occhio attento ai repertori. I testi invece sono fedeli a quelli della raccolta
voluta da Alfonso X di Castiglia e che si trovano nel Codice miniato custodito
a Montserrat. Pare che di questi testi poetici religiosi la raccolta medievale
ne contenga 400. I Micrologus, beati loro, hanno potuto vedere questo Codice al
monastero, dove hanno anche registrato delle musiche.
Patrizia Bovi |
La settecentesca chiesa di Santa Maria della Sanità è
attaccata al palazzo dove ha abitato Toscanini e di cui avevo potuto ammirare
solo l’elegante balaustra in ferro battuto che adorna il balcone esterno.
Questa mattina (17 luglio) ho invece avuto la fortuna, grazie alla squisita
gentilezza e disponibilità della dottoressa Ada Cattaneo, di visitare
l’appartamento dove il grande direttore d’orchestra abitò per quasi mezzo
secolo. La casa è ora proprietà della famiglia Floriani e dal gennaio dello
scorso anno ospita il Dipartimento di Diritto Commerciale dello Studio Legale
Sutti, del cui staff la dottoressa Cattaneo è membro. È stata per me una
fortuna doppia perché la dottoressa Cattaneo ha la passione per la scrittura, è
una cultrice di storie e leggende milanesi, e ama come me la lingua meneghina e
i suoi poeti. Pochissimi i cambiamenti
nei vari ambienti per rispettare quanto più possibile l'aura storica che
vi è rappresa. Interventi conservativi sui soffitti lignei tardo cinquecenteschi,
diverse suppellettili non moderne che lo Studio Sutti ha disposto in alcuni
ambienti. Come tutti i palazzi milanesi di un certo rango, anche questo è dotato di un cortile interno
che preserva dai rumori della strada, e da un giardino interno. La casa dove
visse Toscanini ne godeva di uno su due lati addirittura, e di un terzo, ma
minuscolo, situato al piano superiore
visibile salendo una rampa di scale. Mi piace immaginarlo seduto lì a gustare
un buon caffè, o chino su uno spartito nel silenzio più denso, circondato dalle piante di questo fazzoletto di verde.
***
Taccuino
BACH, SAN
SEPOLCRO E IL MOSÈ
di Angelo Gaccione
C’è chi nega risolutamente e c’è chi nutre più di un
dubbio che a mettere le mani per una trascrizione per strumenti ad archi dal Clavicembalo ben temperato di Bach e
dalla Fuga in fa minore del figlio
Wilhelm Friedemann, sia stato Mozart. Chi sia stato a noi importa poco, di
sicuro chi lo ha fatto nutriva ammirazione per i due musicisti tedeschi, e
voleva eseguirli con strumenti diversi. A me questi sei brani (cinque adagi e
fughe e un largo e fuga) eseguiti dal Trio D’Archi “Il Furibondo” (Liana Mosca
violino, Gianni De Rosa viola, Marcello Scandelli violoncello), nella Chiesa di
San Sepolcro mercoledì 11 luglio compresi sotto il titolo “Mozart trascrive
Bach, padre e figlio”, hanno deliziato e tanto basta. Il furioso del trio mi è parso Scandelli, la sua esecuzione al
violoncello è stata tanto passionale e coinvolgente, quanto quella di Mosca e
De Rosa è stata misurata e contenuta. Il posto poi meritava davvero. La chiesa
di San Sepolcro nell’omonima piazzetta, alle spalle della Biblioteca Ambrosiana
di cui è parte integrante, nel cuore di Milano che più cuore non si può. Addirittura
dentro il perimetro delle mura imperiali romane, e dove l’antico foro pullulava
della sua vita mercantile. Questo per dire del luogo dove nel 1030, su volere
della famiglia Rozo proprietaria dell’area, si darà impulso a quello che
quattro anni più tardi diverrà l’edificio sacro. Solo in seguito però la chiesa
assumerà il nome attuale, dato che nella parte inferiore (la cripta aperta di
recente al pubblico dei visitatori) era stato costruito un sepolcro per ricordare
quello di Gerusalemme, un sessantennio più tardi, a ricordo della liberazione
del Santo Sepolcro ad opera dei crociati, si decise la nuova dedica. A quanti
vogliono conoscerne più dettagliatamente storia e vicende, consiglio il
libretto di don Mario Panizza San
Sepolcro di Milano, pubblicato
dalla DeAgostini. Sono una quarantina di pagine e apprenderete quanto basta. Con
il suo ordito medievale e la toponomastica che lo ricorda, questo segmento di
città è fra quelli a me più cari, e quando posso, soprattutto alla domenica
pomeriggio o in piena estate quando la città si svuota, mi piace in solitudine
vagare alla ricerca di quelle che sono ormai divenute le mie memorie. In via Armorari c’è l’edificio dove nel 1918 Ernest
Hemingway ferito fu accolto e curato; allora vi aveva sede la Croce Rossa
Americana, oggi è una banca. Due passi più il là, in quella che ora è la via
Cesare Cantù, c’era la casa del popolano milanese Antonio Sciesa, più noto
forse col nome di Amatore; il patriota tappezziere che agli aguzzini austriaci
oppose il suo celebre tirrem innanz,
al tradimento. Le casupole di allora sono sparite e l’area è occupata dal
maestoso edificio della Banca d’Italia che lo occupa su più lati, fino a
lambire quello che ora è lo slargo dedicato a Pio XI, e dove ha sede una delle
più prestigiose istituzioni milanesi, la Biblioteca Ambrosiana voluta da
Federigo Borromeo, con la sua altrettanto celebre Pinacoteca. Finalmente da
qualche anno la piazzuola è stata pedonalizzata, e al posto delle macchine che
vi parcheggiavano davanti e vi correvano sui due lati in un fluire incessante,
ci sono ora delle panchine in legno dove si può sostare con tranquillità. Ho
avuto il privilegio molti anni fa, di visitare l’Ambrosiana accompagnato da una
guida di eccezione, monsignor Ravasi, allora Prefetto di questo luogo
meraviglioso e oggi cardinale in Vaticano. Ho ancora le sue parole risentite
negli orecchi: “Ma si rende conto che qui abbiamo il più ricco Codice Atlantico
di Leonardo, la Canestra di
Caravaggio, il Cortile degli Spiriti Magni, e siamo assediati da tutte queste
macchine e dal loro incessante rumore?”. Io ne scrissi su un settimanale
milanese e poi in un volume piuttosto robusto. Il Rettore aveva, seppure con
ritardo, vinta la sua battaglia e lo sconcio che imbruttiva la creatura di
Federigo fu eliminato. Non è così, purtroppo, nella parte posteriore dell’Ambrosiana,
dove ci sono la chiesa di San Sepolcro con la sua cripta e l’ingresso della
Pinacoteca. Quanto le macchine parcheggiate imbruttiscano questa piazza salta
subito all’occhio appena si percorre il breve tratto della via Federigo. E se
invece si percorre l’altrettanta breve e stretta via Dell’Ambrosiana, si è
costretti ad appiattirsi quasi contro il muro per ripararsi dalle macchine.
Basterebbe spostare altrove il Comando di Polizia e obbligare i residenti (qui
risiede la Milano danarosa) a cercarsi un parcheggio. Nei paraggi ce n’è più di
uno. Per cogliere nella sua interezza torri e facciata, si è costretti ad
arretrare fino all’imbocco di via Della Zecca Vecchia. Durante il concerto in
San Sepolcro riflettevo su come fosse confortante possedere dei luoghi del
silenzio, nell’affannato correre metropolitano dentro un tempo che non
controlliamo più; di come fosse prezioso che quel magnifico rito musicale potesse avvenire lontano
dal frastuono. Di domenica pomeriggio queste contrade ritrovano il loro
silenzio. È
stupefacente come bastano pochi metri per lasciarsi alle spalle il delirio mercantile
di via Torino, lo sferragliare dei tram di via Orefici, il viavai incessante di
Corso Vittorio Emanuele. Rarissime macchine e quasi nessun passante fra le
Cinque Vie, e così posso percorrere indisturbato Via del Bollo, via Santa
Marta, via Santa Maria Fulcorina, via Bocchetto, via Santa Maria Podone, e
sostare sul cantone dove le lapidi con i nomi dei giovanissimi partigiani
massacrati ci ricordano a che prezzo è stata ottenuta la libertà; vedere gli
ultimi ruderi ammonitori dei bombardamenti della seconda guerra mondiale che
devastarono la città; rendere omaggio al luogo dove Gaetano Crespi, poetta e studios de la lengua meneghina,
come recita la targa, l’è vivuu e l’è
mort. Non trascuro quasi mai di percorrere il tratto di via Morigi e
passare davanti alla casa del caro e compianto Roberto Guiducci e della sua
sposa Armanda, per un saluto e un pensiero a questi due colti intellettuali e
raffinatissimi poeti, cui Milano deve molto e che ha dimenticati. E quasi
sempre attraverso la via privata Maria Teresa dove abitava Carlo Bo, e mi
spingo fino alla bella piazza Mentana che meriterebbe di essere meglio curata e
liberata dalle auto. Più in giù il Carrobbio, San Lorenzo con il parco delle
Basiliche e il suo colonnato corinzio di origine romana, piazza Vetra e la via
Gian Giacomo Mora... sono i luoghi che rimandano agli affettuosi ricordi dello
scrittore Emilio De Marchi e alle tragiche vicende descritte dal Manzoni nella
sua Storia della colonna infame. La
via Santa Maria Podone sbuca in quella che è oggi piazza Borromeo. La casa del
cardinale è lì, così come quella del cugino Carlo, cardinale a sua volta e poi
santo. Di Carlo c’è anche la statua, proprio accanto alla chiesa di Santa Maria
Podone. Ad entrambi bastava scendere dalle loro “domus auree” per entrare in un luogo di culto. Ma se volevano
recarsi in San Sepolcro o all’Ambrosiana, non avevano che da percorrere i tre
minuti di strada, tanti ne ho contati io per fare la prova. Non finiremo mai di
biasimare il cardinal Federigo per quello che ha fatto passare allo storico
Giuseppe Ripamonti; Manzoni, che al Ripamonti deve molto, gli ha reso
giustizia, altrettanto ha fatto Milano dedicandogli quella che è in assoluto la
via più lunga della città. Non finiremo tuttavia di lodare abbastanza il
cardinale, per aver donato ai milanesi i suoi due gioielli che tutto il mondo
ci invidia: la Biblioteca e la Pinacoteca.
Non è sempre aperta la chiesa di San Sepolcro, e bisogna
approfittarne. Il responsabile Giuseppe Frinquelli mi ha lasciato il suo numero
di telefono e si è messo a disposizione perché possa vederla in dettaglio fra
una decina di giorni, quando rientrerà a Milano dopo una pausa. Voglio sostare
più tempo davanti al Cristo ligneo dell’altare, all’affresco del Bellasio, al
dipinto del Nuvolone, alla tela di San
Giorgio e il drago del Procaccini, al gruppo di statue cinquecentesche in
terracotta dipinta in allestimento, e che compongono il Compianto per il Cristo
morto, con quella Maddalena che allarga le braccia disperata e la madre
svenuta. Indugiare ai piedi delle due absidi laterali dove a sinistra gli
apostoli scolpiti a dimensione naturale sono disposti lungo la tavolata
dell’ultima cena, e in primo piano c’è il Cristo intento a lavare i piedi a san
Pietro. A destra, invece, c’è il gruppo in cui il Cristo è condotto davanti ad
un Caifa che si straccia le vesti e a un san Pietro che lo rinnega. Le scene
delle due rappresentazioni sono realizzate da statue gigantesche di forte
impatto. Raffigurano un Cristo, chissà perché, piuttosto in là con gli anni, e
così per una parte degli apostoli. Certo un Cristo biondo e con gli occhi
azzurri di certa iconografia suona alquanto improbabile per un palestinese, ma
anche qui si è esagerato con le fattezze, in fondo si trattava di un giovane di
trentatré anni.
La cripta invece resterà aperta tutta l’estate e dovete
proprio visitarla, lo dico anche a quei lettori non milanesi, nel caso si
trovassero in città. Fino al 15 settembre si potrà vedere anche il
cortometraggio sul Mosè, realizzato
da Antonioni nel 2004 dal titolo Lo
sguardo di Michelangelo. Io ci sono andato ieri pomeriggio proprio per
vedere questo documentario e vi assicuro che ne vale la pena. Il regista ferrarese
aveva 92 anni quando lo realizzò, morirà a Roma tre anni più tardi nel 2007. È molte
cose insieme questo cortometraggio di 15 minuti: è un omaggio alla potenza
creativa del Buonarroti, al senso di umanità a cui l’arte ci richiama con la
sua bellezza e il suo mistero, alla sua perennità, ma è anche una riflessione
attonita sulla caducità della vita, un interrogativo silenzioso sull’esistere e
la sua parabola transeunte. Non ci sono parole in questo video realizzato
rigidamente in bianco e nero. Il bianco della pellicola rispetta il bianco del
marmo e ne indaga minuziosamente ogni piega, ogni dettaglio. La cinepresa
scandaglia, si insinua, indugia, fissa su un particolare, dilata un primo
piano, sfuma in dissolvenza come un sogno... La tomba di Giulio II ed il gruppo
marmoreo che lo adorna, sono colti nella fissità gelata della morte, nel
silenzio eterno che si è solidificato, pietrificato. Ed è solo con il silenzio
che ci si può accostare. I passi affaticati di un Antonioni anziano e
sofferente (la mano destra sempre in tasca, forse rimasta offesa dopo l’ictus),
seguono la striscia di luce che il portale semichiuso e avvolto nella penombra
di San Pietro in Vicoli, proietta sull’impiantito. Sono il solo rumore
registrato costeggiando la fila di colonne per arrivare davanti alla tomba col
Mosè. Nessuna concessione all’orpello, alla magnificenza, nessun elemento
dell’esterno, né la facciata, né la lunga scalinata di san Francesco di Paola
che ho tante volte salito per venire qui. La chiesa è vuota e la cinepresa si
concentra solo su quel riquadro ben delimitato. Ad Antonioni è concesso il
privilegio di superare la balaustra e di avvicinarsi al Mosè come a nessun altro è stato forse permesso negli ultimi anni.
Egli può persino accarezzare la statua che enormemente lo sovrasta e nei cui
confronti appare minuscolo, commosso e intimidito. Da questo momento in poi
inizia un vero e proprio dialogo silenzioso fatto solo di sguardi. Sono gli
sguardi e i silenzi di due artisti che
portano lo stesso nome, e che si incontrano dopo cinquecento anni: l’uno in
carne ed ossa, l’altro attraverso il capolavoro ricavato dall’inerzia informe
di un minerale che si è fatto anch’esso carne ai nostri occhi. Non sapremo mai
quali pensieri hanno attraversato in quei quindici minuti la mente di
Antonioni. A noi restano i gesti delle sue mani, il silenzio, gli occhi attenti
dietro le lenti, le pieghe delle sue labbra, le espressioni assorte, il cenno
di saluto alla statua, lo sfrigolio della fede che porta al dito mentre la mano
scivola dolcemente su un ginocchio del Mosè,
che la cinepresa di Andrea Boni, suo aiuto regista, segue passo passo. La
fine del filmato, è scandita dai passi del regista che ora, in senso inverso,
seguono la stessa striscia di luce disegnata sul pavimento, mentre il Magnificat IV toni di Giovanni Pierluigi
da Palestrina eseguito dal Vocal Ensemble Camerata Nova, ne accompagna l’uscita
dalla chiesa.
IL DEMONE DEI REFUSI
di Angelo Gaccione
La copertina del libro |
Confesso che il titolo Titivillus. Il demone dei refusi, mi aveva depistato. Ero convinto si trattasse della
personificazione laica, tutta moderna, di quel dispettoso e malefico diavoletto
che, inviso e temuto come la peste da tutti coloro i quali hanno a che fare con
la scrittura e la stampa di ogni genere (libri e giornali soprattutto), si
diverte a fare lo sgambetto, a seminare zizzania, creando imbarazzanti equivoci
di ogni sorta nei testi, stravolgendo spesso il significato della frase e del
discorso. Ho sempre nella memoria il gustoso episodio raccontatomi dal
compianto e caro amico don Luigi Pozzoli, letterato e parroco in Santa Maria al
Paradiso di corso di Porta Vigentina qui a Milano. Finito di battere al
computer uno dei suoi testi per “Odissea” (a cui ha collaborato fino alla sua
improvvisa e dolorosa scomparsa) che conteneva delle allusioni all’allora
presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, gli era venuto fuori questa
definizione: un uomo con la testa sulle palle,
al posto di sulle spalle. Lapsus scopertamente freudiano (vista la condotta
pubblica del Nostro), ma era evidente che malignamente il diavolo ci aveva
messo la coda. I refusi a stampa sono sempre stati una dannazione, e le errate
corrige che tuttora troviamo nei libri, ne sono la riprova. Già nel lontano
1563 essi obbligarono il tipografo veneziano Cavallo, ad inserire a prefazione
di un’opera di Achille Fario Alessandro, questa deliziosa impotente e
sconfortante presa d’atto dal titolo Alli
benigni lettori: “In tutte le attioni humane quasi di necessità convien che
succedano de gli errori: ma dove più facilmente, in più diversi modi, et più ne
possono accadere che si avengano nello stampare i libri, non ne so immaginare
alcuna. Et parmi la impresa della corretione di essi veramente poterla
assomigliare al fatto di Hercole intorno all’Hydra de i cinquanta capi:
percioché si come quando egli col suo ardire, et forze le tagliava una testa,
ne rinascevano due, così parimenti mentre co’l sapere, et con la diligentia, si
emenda un errore, le più volte s’imbatte che ne germogliano non pur due, ma
ancho tre et quattro, spesse fiate di maggior importanza, che non era il primo...”.
Mi sono trovato invece fra le mani, un delizioso libretto
per eruditi vergato da Julio Ignacio González Montañés (Pagg. 68 € 6,00) e
pubblicato da una piccola raffinata editrice di Perugia, la Graphe.it che basa
la sua politica editoriale sul concetto pubblicare
meno per pubblicare meglio. Come dire: pochi libri e per pochi. Idee che
non potevano non mandare in sollucchero un libridinoso
come me. Rifiutarsi di trattare un libro come una merce qualunque,
dedicargli la giusta attenzione, seguirlo nel tempo e non bruciarlo nello
spazio sempre più contratto di un mercato divenuto nevrotico e drogato dalla
quantità, è un’ottima pratica di resistenza, oltre che un salutare viatico per
l’intelligenza.
Il demone di cui si tratta nel libro di Montañés, e di cui
egli segue le tracce storiche, è noto nelle cronache degli amanuensi e degli
scrivani medievali, con il nome di Titivillus. Ma appena si va a controllare la
letteratura e la sua geografia, ci si rende subito conto di quante varianti ha
subìto questo nome. Varianti che non hanno, tuttavia, alterato nel tempo e nei
luoghi la natura della sua origine e lo scopo. L’origine si situa all’interno
dell’orizzonte ecclesiastico cristiano, lo scopo è di tipo ammonitorio; uno
spauracchio per porre un freno a quella che probabilmente era diventata una
vera e propria degenerazione della celebrazione ritualistica. Pettegolezzi,
ciarle, distrazioni, comportamenti poco consoni al luogo sacro da parte dei
fedeli; omissioni di sillabe, di parole, a volte di brani interi, oltre che di
storpiature fonetiche e di suoni incomprensibili da parte dei chierici, durante
le messe, la recita delle Ore, la liturgia, e in modo particolare di tutta la
funzione omiletica. Possiamo immaginare come alla svogliatezza si unisse anche
la stanchezza dovuta alle ripetizioni e alle ore antelucane delle funzioni.
Inventarsi un diavolo in grado di prendere nota su pergamene di tutte queste
manchevolezze, di questi pessimi comportamenti e abitudini, per esibirli nel
giorno del giudizio a cui si è chiamati, poteva essere un efficace deterrente.
Come dire: attenti che Titivillus vi osserva, controlla e prende nota, e
riferirà a chi di dovere.
Un diavolo, Titivillus, che può vantare la conoscenza
della scrittura e delle sue regole, e che armato di penna o di stilo, non si
lascia sfuggire neppure i refusi e le distrazioni dei copisti al lavoro negli
scriptoria. Ammonimento, questo, ancora più severo, perché si tratta di testi
sacri e dunque non ci si può permettere errori. Occorre restare vigili, non
farsi tentare dal maligno, perché nell’eterna lotta fra il bene e il male, le
distrazioni e gli errori sono indotti dal demonio. In questo senso Titivillus
svolge una doppia funzione: di controllore, perché sia garantita la corretta
trascrizione; di distrattore, perché sia
compromessa. In entrambi i casi l’errore come origine diabolica e non umana: In
fondo una visione giustificatoria.
Nella veste di annotatore dei peccati di omissione lo
troviamo raffigurato in alcune pitture murali, capitelli, stampe e incisioni, e
se diversi trattati, exemplum e detti edificanti sentono il bisogno di
sottolineare questa funzione, possiamo immaginare come certe omissioni e
distrazioni fossero diffuse ed andassero stigmatizzate. Nessuna conferma
documentaria, invece, della forzatura tutta otto-novecentesca di fare di
Titivillus, il patrono della stampa.
SONAR IN OTTAVA
di Angelo Gaccione
Accademia Dell'Annunciata Foto di Alberto Panzani |
I milanesi
dovrebbero essere orgogliosi di avere un’istituzione così prestigiosa come la Cappella
Musicale. Noi di “Odissea” nutriamo grande ammirazione per questa Associazione
Culturale. In questi 25 anni, tanti ne ha compiuti, ha svolto un ruolo indispensabile
per la diffusione e la conoscenza della musica antica, e l’ha portata nelle
chiese più vetuste e ricche di storia della nostra città. A dire il vero, una
fetta di appassionati non fa mancare il sostegno alle sue rassegne ed ai suoi
festival internazionali, e vi accorre numerosa, com’è avvenuto lo scorso 25
giugno al concerto dell’Accademia dell’Annunciata nella Basilica di Santa Maria
della Passione. La basilica straripava di pubblico e occupava le tre ampie
navate di quella che è la chiesa più grande di Milano dopo il Duomo. Cosa si
può desiderare di meglio che assistere ad un concerto dedicato a due dei più
grandi geni della musica di tutti i tempi, a quel ruscello armonioso che è il tedesco J. S. Bach, e a quel vero e
proprio vulcano in eruzione che è il
nostro A. Vivaldi, e per giunta in un luogo dove ovunque volgi lo sguardo non
puoi che restare ammaliato? Dall’Ultima
Cena di Gaudenzio Ferrari alla Crocifissione
di Vincenzo Campi; dalla Deposizione
di Bernardino Luini alla Flagellazione di
Giulio Cesare Procaccini, solo per citare alcuni maestri dell’arte lombarda, e
che impreziosiscono le numerose cappelle. L’ottagono dell’imponente cupola vi
rapirà con i suoi decori e quella forma di “torta a spicchi” che compone come
una “raggiera”, e che invece vuole essere una stella, la “stella del mattino”,
che nella simbologia cristiana è il simbolo della Vergine. Ma gli amanti degli
organi saranno certamente colpiti dai due magnifici esemplari incastonati nelle
nicchie dell’altare maggiore. Occupano i due corni, quelli che nel gergo ecclesiale sono definiti “in cornu
Epistolae” e “in cornu Evangelii”, rispettivamente il lato destro e il lato
sinistro. Anni fa ho avuto la fortuna di sentirli suonare entrambi questi due
organi “affrontati” e dalle ante dipinte, in un dialogo “antifonico”, denso,
robusto, accompagnare i versetti dei salmi pasquali. Quello di destra si deve
alla maestria di Gian Giacomo Antegnati. Di Antegnati Milano può vantarne più
di uno perché il grande maestro organaro, nel corso della metà del
Cinquecento, costruì quelli delle chiese di Sant’Eustorgio, San Carpoforo, San
Nazaro in Brolo, Santa Margherita, del Duomo, e soprattutto quello a me più
caro di San Maurizio al Monastero Maggiore, perché grazie alle rassegne di
Musica e Poesia che vi si svolgevano, ho potuto ascoltarlo più di una volta e
apprenderne la storia. Lo ammiravo durante i concerti di musica medievale,
rinascimentale e barocca, troneggiare dall’alto del loggiato, magnificamente
fuso con le opere di tanti straordinari maestri, e con i meravigliosi affreschi
di Bernardino Luini e figli, in quel refettorio sublime che noi consideriamo, a
giusto titolo, la Cappella Sistina di Milano. Ho avuto altresì, il raro
privilegio di presentare in questo luogo, sotto lo sguardo di angeli musici
muniti di liuto e flauti, e di una sant’Agata martirizzata che regge i seni
tagliati su un vassoio, la mia corposa antologia Poeti per Milano. Ma
torniamo al concerto in Santa Maria della Passione.
Concerto in do maggiore (per archi e basso continuo), Sinfonia in re maggiore (per archi e b. c.), Concerto in do maggiore (per violino, violoncello piccolo, archi e b. c.) di Vivaldi; Concerto in do minore (versione per violino, violoncello, archi e b. c.), Concerto in re minore (versione per violino, violoncello piccolo, archi e b. c.) di Bach; Sonata in do minore (per archi e b. c.) di J. G. Goldberg, allievo di Bach a Lipsia, e a cui il maestro dedicò le famose Variazioni Goldberg; questo il delizioso programma che l’Accademia dell’Annunciata ci ha offerto, in un crescendo di entusiasmo dovuto alla bravura di questa giovane orchestra barocca diretta dal maestro Riccardo Doni, ma soprattutto per il virtuosismo di Giuliano Carmignola al violino, e di Mario Brunello al violoncello piccolo, che hanno mandato in estasi il pubblico e che ha tributato loro una serie ininterrotta di ovazioni. I due bravissimi interpreti hanno mostrato di gradire la calorosa accoglienza del pubblico milanese, e hanno generosamente concesso più di un bis. A chiusura una struggente aria della Passione secondo Matteo: niente di più intonato per una Basilica che dalla Passione deriva il suo nome. Sul trio: Doni, Brunello, Carmignola, ogni parola è superflua; bastano quelle pertinenti di Raffaele Mellace che firma quasi tutte le schede del catalogo del programma del festival dal titolo Milano artemusica, e che, apertosi il 3 giugno, si concluderà il 23 agosto.
Un momento del concerto Foto di Alberto Panzani |
Concerto in do maggiore (per archi e basso continuo), Sinfonia in re maggiore (per archi e b. c.), Concerto in do maggiore (per violino, violoncello piccolo, archi e b. c.) di Vivaldi; Concerto in do minore (versione per violino, violoncello, archi e b. c.), Concerto in re minore (versione per violino, violoncello piccolo, archi e b. c.) di Bach; Sonata in do minore (per archi e b. c.) di J. G. Goldberg, allievo di Bach a Lipsia, e a cui il maestro dedicò le famose Variazioni Goldberg; questo il delizioso programma che l’Accademia dell’Annunciata ci ha offerto, in un crescendo di entusiasmo dovuto alla bravura di questa giovane orchestra barocca diretta dal maestro Riccardo Doni, ma soprattutto per il virtuosismo di Giuliano Carmignola al violino, e di Mario Brunello al violoncello piccolo, che hanno mandato in estasi il pubblico e che ha tributato loro una serie ininterrotta di ovazioni. I due bravissimi interpreti hanno mostrato di gradire la calorosa accoglienza del pubblico milanese, e hanno generosamente concesso più di un bis. A chiusura una struggente aria della Passione secondo Matteo: niente di più intonato per una Basilica che dalla Passione deriva il suo nome. Sul trio: Doni, Brunello, Carmignola, ogni parola è superflua; bastano quelle pertinenti di Raffaele Mellace che firma quasi tutte le schede del catalogo del programma del festival dal titolo Milano artemusica, e che, apertosi il 3 giugno, si concluderà il 23 agosto.
Abbiategrasso. Il Palazzo Pretorio |
Mi
sono molto compiaciuto del fatto che l’Accademia dell’Annunciata, sia nata ed abbia
sede, ad Abbiategrasso; è una grande cosa che sia ospitata addirittura nel castello bramantesco di questa graziosa cittadina, che ha un suo centro storico tutt’altro che banale.
Purtroppo il maestro Doni, con cui mi sono complimentato scambiando al volo due battute, mi ha detto che ad Abbiategrasso questo gioiellino è quasi sconosciuto. Peccato. Allora dalle pagine di questo giornale voglio dire agli amici abbiatensi (e agli amministratori cui questa nota arriverà), di tenerselo caro e considerarsi fortunati a possederlo. Sono davvero pochissime le cittadine lombarde e non, a poter vantare un ensamble musicale. E soprattutto di una tale qualità.
Purtroppo il maestro Doni, con cui mi sono complimentato scambiando al volo due battute, mi ha detto che ad Abbiategrasso questo gioiellino è quasi sconosciuto. Peccato. Allora dalle pagine di questo giornale voglio dire agli amici abbiatensi (e agli amministratori cui questa nota arriverà), di tenerselo caro e considerarsi fortunati a possederlo. Sono davvero pochissime le cittadine lombarde e non, a poter vantare un ensamble musicale. E soprattutto di una tale qualità.
IL TALENTO IGNORATO DI ANDREA LUCHESI
di Angelo Gaccione
Andrea Luchesi |
La Chiesa dell’Assunta in
Vigentino dà il nome alla Piazza dell’Assunta su cui si trova ubicata. In
realtà chiamarla piazza è un po’ esagerato: si tratta di un semplice slargo al
fondo di una traversa della lunghissima via Ripamonti. Non è una chiesa
blasonata e forse è per questo, oltre alla posizione decentrata, che non è nota
ai più. Tuttavia la sera del 13 giugno scorso si è rivelata, almeno per un
appassionato di musica sacra e barocca come me, una magnifica doppia piacevole
sorpresa. Mi ha regalato, deliziandomi, un bellissimo concerto, e ha colmato un
pezzetto della mia abissale ignoranza.
Nulla
sapevo, infatti, del compositore veneto Andrea Luchesi e dei suoi straordinari
meriti, oggi quasi del tutto seppellito in un colpevole oblio.
Intanto
ho scoperto che la Chiesa ha una sua Orchestra dell’Assunta, e già questo è
straordinario: vuol dire che è in grado di proporre delle piccole rassegne alla
città. Non so se l’ensemble che ha eseguito questo Concerto Straordinario
dedicato a Luchesi appartenga a detta Orchestra, o se, come spesso avviene, era
integrato da musicisti “in prestito”. In ogni caso il maestro Giovanni Battista
Columbro (cui si deve, credo, la scelta di questo omaggio), lo ha diretto in
maniera impeccabile, e tanto il Concerto
per clavicembalo e archi in Fa Maggiore (al clavicembalo Graziella Baroli),
quanto la Grande Sinfonia in Re Maggiore
per fiati e archi, sono risultati ottimi. La Grande Sinfonia contiene una quantità di echi e di suggestioni
davvero sorprendenti. Ci sono stati dei momenti i cui passaggi melodici, i
timbri sonori mi evocavano Mozart, Beethoven e non solo.
Dalle
note del programma stese dal direttore Columbro, ho potuto successivamente
appurare come quelle mie reminiscenze non fossero arbitrarie. Di come Luchesi a
Bonn fosse stato effettivamente maestro di Beethoven, e come in quella città
avesse ricoperto il prestigioso incarico di Kapellmeister a vita, giuntovi su
invito del principe arcivescovo per organizzare l’orchestra del principato. Di
come Luchesi e gli altri grandi maestri italiani operanti nelle più celebri
capitali europee della musica (Sammartini, Fischietti, Guglielmi, Boroni,
Paisiello, Sarti, Piccinni, Bianchi, Tarchi, Boccherini, Salieri, Clementi,
Porpora...), avessero influenzato la musica europea.
Plagi,
false attribuzioni, impossessamenti più o meno fraudolenti, commissioni dietro
compensi di committenti che spesso se ne attribuivano la paternità o le
commerciavano come proprie, inesistenza della tutela del diritto d’autore,
condizioni difficili di vita che spesso obbligavano gli artisti a cedere il
frutto della loro creatività a ricchi signori dietro compenso... Fino a quella
editoria “imperial-sciovinistica” come la definisce Columbro, germanocentrica e
che ha dominato per tutto l’Ottocento, che ha apertamente ignorato l’enorme
debito che a questi grandi talenti italiani devono la musica europea, e
moltissimi dei protagonisti più celebrati.
MATERA LA MAGICA
di Angelo Gaccione
Potete viaggiare in ogni
dove e varcare tutti i confini, ma dovete, almeno una volta nella vita,
approdare necessariamente qui, a Matera, nella magica Matera. Infilarvi fra le
sue grotte e i suoi ipogei, percorrere i suoi calanchi e le sue salite, sostare
fra i suoi slarghi e le sue piazzuole, battere il suo acciottolato e le sue
pietre, affacciarvi dai suoi strepitosi balconi e abbracciare in un solo
sguardo tutta la luce che contiene. Matera è una città di sassi, la citta dei
Sassi, per uomini pietrificati, per uomini abbarbicati al tufo e all’arenaria,
come le pertinaci piante di ogni sorta che tra le pietre hanno trovato asilo,
si sono insediate, hanno messo radici. Ammassi di pietre su pietre a formare
ciclopi e giganti in difesa di chiese e terrazze; posti a guardia di questo arcaico disarmonico
armonioso presepe, che squilla di tutto il suo biancore, e dove il tempo ha
lasciato le sue tracce. Ne ha scavato rughe e ferite come su un volto di
vecchio. Dovete lasciarvi avvolgere dai bagliori di un tramonto, e dalle sue
struggenti tinte. Mentre il vento accarezza i tetti e fischia tra i vicoli,
spingendo il veliero di nuvole che riprende la sua rotta verso Sud.
FRANCO TOSCANI: PENSATORE E POETA
di Angelo Gaccione
La copertina del libro |
Franco
Toscani, a cui mi lega una lunga e affettuosa amicizia, non è solo un acuto
saggista e un appassionato studioso di filosofia, come ben sanno i lettori di
“Odissea” di cui è da sempre collaboratore, è anche un frequentatore di poesia,
come mostrano i suoi versi rari ma necessari. Nel gioco del mondo (Ed. Scritture, pagg. 70 € 10) è stato
pubblicato lo scorso settembre e raccoglie quarantanove testi scritti ed
elaborati tra il 2003 e il 2017. I lettori di Toscani sanno che i suoi studi
alternano meditazione filosofica e saggistica militante, e che per la
complessità della materia, richiedono un’applicazione assidua e un ampio
respiro temporale. Alla poesia (questa è la seconda raccolta dopo La benedizione del semplice) ha
riservato uno spazio segreto ed evocativo da ritrovare nei momenti di più
fertile e stimolante abbandono. E se i luoghi ne favoriscono l’accensione
lirica (Appennino emiliano-ligure, Monte
Armano, alta val Nure, da sempre frequentati e cantati), la riflessione attinge
al serbatoio della cultura più amata per rintracciare gli echi e i segni
inseparabili dal proprio sentire. Poeta e pensatore, è questo il binomio del
suo fare, perché l’uno e l’altro sono fratelli, come magistralmente rivelano i
versi di pagina 19: “... fratelli sono/
nel dono essenziale/ di terra e cielo/ di
canto e pensiero.../
Di
natura e di uomini, di morte e di eros, di sentimento e di memoria, di caducità
del tempo e di altro ancora, dicono i versi di Toscani, e lo dicono con parole
scabre, essenziali e prive di ridondanze, come dimostra il testo “Abbandono”
che voglio riprodurre integralmente per i lettori:
Quando morte
verrà
dell’abbandono
esser capace
vorrei
come mia madre
dell’addio avere
il coraggio
con la lacrima
e il sorriso
del compimento.
Pubblicato
nella collana I Riflessi, la raccolta di Toscani è introdotta da una
interessante e puntuale nota del filosofo Remo Bodei.
***
NICOLINO LONGO: POESIA ET ALIA
di Angelo Gaccione
La sottomissiva funzione dei verbi
servili (Poesia et
alia) di Nicolino Longo pubblicato da BastogiLibri (pagg. 104 € 15,00)
raccoglie alcuni testi poetici (quasi tutti usciti sulle pagine di “Odissea”)
sapidi, straniati ed irriverenti come ci ha abituati il poeta calabrese,
fotografie in bianco e nero e a colori principalmente della sua amata sposa a
cui dedica anche una sorta di divertente “ballata” celebrativa di 120 versi
come dono per il sessantesimo compleanno. Toccante e spassosa la “ballata” fa
il paio con l’altro omaggio, sempre per la sua Maria, dal titolo “La gioia più
grande” che voglio riprodurre per intero perché sono sicuro che altrettanta
gioia procurerà ai lettori.
Se dopo morto/ un giorno assai
lontano sentissi/ alla porta del Paradiso/ una voce calda e suadente che/ con
birignao mi dicesse:/ “Nicoliiinooo/ sono Mariiiaa”/ Io per la troppa gioia/
cadrei fra gli angeli per terra:/ sarebbe il cuore ad aprirti/ e a farti
entrare/ E a sette chiavi/ a chiuderti/ in sé per sempre/
Tra gli alia voglio invece soffermarmi sulla
prosa memoriale intitolata “Estate 2016”. È una nostalgica poetica rievocazione
della raccolta delle ciliegie e di una mietitura. I ragazzi di città e i figli
dell’industrializzazione prima e della terziarizzazione selvaggia dopo, non
hanno neppure sentore delle meraviglie visive ed olfattive che questi due riti,
queste due pratiche dell’universo contadino hanno impresso nella nostra
visionarietà e nella nostra memoria di fanciulli.
Longo
condisce la sua rappresentazione con molti termini dialettali (anche questa dei
dialetti, delle lingue madri, è una perdita irreparabile e che il tritacarne dell’omologazione
linguistica renderà vieppiù emarginati e periferici) e che a me, che di quel
variegato e spumeggiante impasto di dialetto calabrese sono figlio e di cui
quotidianamente mi servo, hanno risvegliato curiosità non solo di natura
filologica, ma la messa a confronto delle varianti che i singoli termini
evidenziano. Ed è straordinario verificare come a distanza di pochi chilometri
il termine preso in esame differisce a volte di una sola consonante, a volte di
un unico dittongo. Una minima variante per connotare la specificità di una
comunità.
Da segnalare, a prefazione del volume, il pertinente e
rigoroso scritto di Carmine Chiodo.***
BOLOGNA OH CARA!
di Angelo Gaccione
Bologna notturna |
Uno scrittore vive di miti e se ne
crea diversi. A me succede con i luoghi. Ogni volta che vi ritorno sento il
bisogno di recarmi in alcuni posti precisi (piazze, chiese, angoli, quartieri)
per rivederli, sostarvi, passeggiarvi. Se ad esempio vado a Pavia, non posso
fare a meno di entrare nella Basilica di san Pietro in Ciel d’Oro e fare una
visita alle spoglie di Agostino e Severino Boezio. Andare a San Miche Maggiore,
fare una passeggiata fino a Borgo Ticino attraversando il Ponte Coperto,
entrare nei cortili dell’Università dove hanno insegnato alcuni dei più celebri
letterati e scienziati italiani, sedermi sotto le sue torri medievali. A
Bergamo salgo fino a Borgo Canale per la casa natale di Donizetti, una casa
povera situata molto più giù del livello stradale, tanto in basso che così il
musicista ne ha scritto: “Nacqui sotto
terra in Borgo Canale. Scendevasi per una scala di cantina ov’ombra di luce non
mai penetrò, e siccome gufo presi il volo,
portando a me or tristo or felice presagio”.
Questa
primavera sono tornato a Bologna per un incontro su Pasolini alla Biblioteca
Renzo Renzi di via Azzo Gardino, alla Cineteca, uno strano contenitore di forma circolare la cui piazzetta è stata dedicata al poeta. Le giornate erano
meteorologicamente magnifiche, con il sole luminoso e un cielo carico di grosse
nubi bianche su un fondale azzurro intenso. Da via D’Azeglio al n. 9 dove ho
soggiornato, cuore che più cuore non si può, avevo a portata di sguardo e di
passi Piazza Maggiore, Piazza del Nettuno e Piazza Re Enzo. Avete idea di quali
tesori architettonici racchiude questo breve perimetro? Dalla Basilica di san
Petronio dove non trascuro mai di entrare per vedere la gigantesca meridiana
del Cassini riprodotta sul pavimento e che risale ad oltre la metà del 1600, e
quanto in questa chiesa è contenuto. La sua facciata non finita mi ha sempre
affascinato, mi evoca l’immagine di un corpo rimasto privo del suo vestito
buono per l’improvvisa scomparsa del sarto che lo aveva ideato. Quasi un
rispetto sacrale alla sua memoria per non far torto al suo genio. Come dire:
lui lo ha iniziato, ma nessuno potrà finirlo.
Intoccabile
come la Sagrada Familia di Gaudì a Barcellona.
È rimasta
semisvestita la domus del divus Petronius
protector et pater, ma in fondo è stato un bene perché indica a noi e a
quelli che verranno, che tutte le cose del mondo soggiacciono alla legge della
precarietà. Al Palazzo dei Notai che fu sede di questa corporazione medievale
per oltre 150 anni, al Palazzo d’Accursio sul cui frontale, proprio al di sopra
dell’enorme portale e dentro una nicchia, troneggia la statua di bronzo di papa
Gregorio XIII, quello del calendario gregoriano. Ha un braccio alzato ed è colto
dallo scultore nell’atto di benedire la sua città. I bolognesi lo avevano
spacciato per san Petronio per preservare la statua dalla furia anticlericale
napoleonica. Sopra vi avevano inserito la scritta riferita al santo, e così
hanno potuto gabbare le truppe francesi. Sede del Comune, questo palazzo si
allunga fino alla Piazza del Gigante, ma più diffusamente conosciuta come
Piazza del Nettuno, per via della statua col tridente che sovrasta la fontana
del Giambologna, al Palazzo del Podestà e a quello di Re Enzo così chiamato
perché vi morì il figlio di Federico II. Da un po’ di anni quella che è
chiamata Salaborsa, (funzionava da sostegno
all’attività mercantile che si svolgeva sotto la Piazza Coperta), meravigliosamente
ristrutturata, è divenuto un punto di riferimento e di incontri con la sua
ricchissima biblioteca multimediale, la sezione dei libri per bambini, i suoi
caffè, le sue strutture liberty e le sue vetrate déco. Passeggiarvi, sostarvi,
o semplicemente guardarsi intorno, è un’esperienza da fare se si approda in
questa città. C’è anche un piccolo passaggio interno dedicato allo scrittore
alessandrino Umberto Eco che a Bologna insegnò a lungo, anche se ha sempre vissuto a
Milano, città dove è morto. Insomma è un perimetro di grande suggestione e di
grande armonia architettonica. A me Piazza Maggiore piace goderla di mattina
presto quando è semideserta, quando comincia appena ad animarsi, ma non è
ancora nella sua piena attività; a quell’ora, se il cielo è terso e c’è una
leggera brezza come ora, lo spazio che racchiude la piazza si presenta in tutta
la sua maestà. Mai ho trascurato, nei miei viaggi a Bologna, una visita alle
cosiddette Sette Chiese e ai loro meravigliosi chiostri di Piazza Santo
Stefano. Qui ho sostato a lungo seduto sotto le volte dei colonnati dei
palazzi, i portici, per cui Bologna è così bella, come scrive Pasolini, e ho
assorbito finché ho potuto tutta l’armonia del luogo, l’atmosfera che mi
ispira. E sempre mi spingo fino al Ghetto Ebraico prendendo per via dei Giudei
o via dell’Inferno, per ragioni che ognuno può intuire, così come vado in via
dei Poeti perché lì il mio amico Roberto Roversi, anch’egli ottimo poeta, aveva
la sua libreria antiquaria, e vi ha passato parte della sua vita. È il mio
modesto omaggio sul filo di una memoria che non si arrende al tempo.
Naturalmente percorro in lungo e in largo i portici e la zona universitaria,
entro in cortili e chiese e vado a caso, sostando dove il mio intuito o le mie
conoscenze mi obbligano, e ci resto tutto il tempo che mi occorre, senza
fretta. Qualche volta imbocco le lunghe direttive che arrivano fino alle varie
Porte: Santo Stefano, Saragozza, Porta Maggiore...
Ma se sono
molto stanco ed ho camminato a lungo, entro nella via dell’Achiginnasio e vado
alle Pescherie Vecchie, in via Calzolerie, via Caprarie, via Orefici, via
Artieri, fino a Piazza Mercanzia. Sono le viuzze medievali dell’antico mercato
della città, colma di odori di ogni tipo, per i negozi e i banchetti che
vendono pesce, dolci, salumi, frutta, mortadella, tortellini, formaggi di cui
ci si può deliziare, sentire la cadenza tipica della lingua emiliana, parlare
con chiunque, perché questo concentrato di popolarità è sempre disponibile e
come tutti i luoghi del commercio è vitale ed aperto all’incontro. Se posso
corro in via Piella per affacciarmi dalla finestrella che guarda su uno dei
rari canali rimasti scoperti e dove l’acqua scorre accanto alle fondamenta
delle case come a Venezia o ad una delle tante città d’acqua italiane. Questo
scorcio ci ricorda che sotto la città scorre acqua e che fino ad un paio di
secoli fa anche Bologna era piena di canali. Li hanno coperti per rifare il
riassetto urbano, un po’ come Milano che ora vorrebbe riaprire almeno quelli di
via Sforza o della chiusa di Leonardo del Ponte delle Gabelle, nella zona tra
Brera e San Marco. È quasi un appuntamento obbligato il mio, con questo piccolo
pertugio bolognese. È legato a ricordi di un tempo passato, un tempo di giovane
e di studente, un tempo felice fatto di volti, di contestazione, di passioni.DIECIMILA.
IL PICCOLO GRANDE LIBRO
DI ANDREA KERBAKER
di Angelo Gaccione
La copertina del libro |
Narrazioni che hanno come
protagonisti i libri ce ne sono diverse. Nel 1998 curai un volume di racconti
collettivi sul tema della notte;
ognuno dei ventidue scrittori presenti ha raccontato la notte col suo stile, le
sue visioni, i suoi fantasmi. In uno di questi racconti notturni dal titolo
“Caos” di Raffaele Nigro, i libri si animano e, ubbidendo alle loro
inclinazioni e preferenze, non solo cambiano di posto sovvertendo l’ordine di
catalogazione disposto dal suo proprietario, ma addirittura combinandosi
arbitrariamente si rimescolano al punto che l’incipit delle Rime dell’Angiolieri è stato sostituito
da un brano delle Confessioni di Ippolito
Nievo, tra le Rimembranze di Berni si
sono inseriti versi del Foscolo, tra l’Innamorato
del Boiardo brani della Vita Nova di
Dante, e così via. Insomma, i libri durante la notte si sono cercati dei
compagni di viaggio e si sono organizzati “una nuova vita nella piazza della
mia libreria”, come scrive efficacemente Nigro.
Nell’agile
delizioso libretto di Andrea Kerbaker ripubblicato da Interlinea di Novara: Diecimila. Autobiografia di un libro, è
un libro a parlare e a raccontare la sua storia e lo fa in prima persona. È uno
dei diecimila, come segnala il titolo, di una vasta biblioteca, poiché il suo
proprietario è un accanito, appassionato bibliofilo. Chi come me ha avuto il
privilegio di visitare la “Kasa dei Libri” di Kerbaker in Largo De Benedetti
qui a Milano, e di essere guidato attraverso i vari ambienti dove i libri
conducono la loro esistenza di inquilini preziosi e di riguardo, può capire a
fondo questa Autobiografia. Non se ne
lamentano, ma anche loro, benché la Casa goda di un certo blasone, stanno
stretti ed hanno problemi di spazio come noi comuni mortali, distribuiti e
ammassati come sono in ogni angolo, in ogni anfratto, disposti a colonne, a
torri, sospesi al soffitto e pendenti dall’alto, debordanti nei tre piani della
Casa.
La storia
che il protagonista del volumetto di Kerbaker ci racconta non è solo la sua storia, ma è uno spaccato di
esistenza di altri compagni di sventura e di avventura. La vita grama tra
scatoloni e polverosi scaffali di librerie; l’indifferenza di clienti distratti,
avventori dai gusti spesso superficiali e discutibili, di lettori esigenti,
acquirenti spericolati. E ancora: il privilegio della vetrina e del posto ben
in vista, gli onori di una seconda vita attraverso la trasposizione cinematografica, l’approdo nelle case e nelle
librerie di lettori accorti e sensibili; ma anche il tempo vuoto e
interminabile dell’immobilità, muti tra scaffali dimenticati (perché un libro
senza un occhio che lo legga è muto, come dice Eco, non ha voce e non ispira
sentimenti, riflessioni, intelligenza, e perché come aggiunge Kerbaker “per un libro, non esser letto è forse la
peggiore delle fini” ), fino al
rischio di venire svenduti, declassati del loro valore, o, peggio, finire al
macero in una morte ingloriosa perché ritenuti inservibili. L’amara poesia che
la prosa di Kerbaker ci consegna non nasce solo dalla separazione che il libro
deve subire quando un compagno più fortunato lascia la massa obbligata a restare
dov’è, dall’incertezza del destino nuovo che attende chi se ne va; nasce
soprattutto dall’aver conferito un’anima a queste fragili povere creature di
carta, esposte ad ogni minaccia: un libro che rovina da un’altezza
significativa a causa del gesto maldestro del suo possessore, è spacciato; è
spacciato se inavvertitamente chi lo ha acquistato fa rovesciare fra le sue
pagine il bicchiere pieno che tiene vicino al libro sul comodino. Un’anima
umana e un occhio attento a registrare ogni dettaglio, ogni sussulto. Dal loro
sentire ci è rimandata la psicologia dei frequentatori di librerie: come
scelgono, cosa scelgono; le case dove i libri approdano, il carattere dei loro
padroni, le relazioni, le vite di coppia e di singoli; il loro status sociale,
le loro convinzioni ideologiche, la cura o meno che costoro hanno nei loro
riguardi, le abitudini alla lettura, i luoghi preferiti per questo momento di
raccoglimento e di silenzio solenne.
Capolavori
di ogni tempo e libri che non hanno lasciato neppure una lieve traccia di sé,
scorrono in questa narrazione. Libri che tornano ad avere una loro rivincita a
distanza di decenni, contro e malgrado i tempi fulminei del consumo, delle mode
e del mercato, che tratta queste creature come una merce qualsiasi. Ma anche
libri che riescono ad opporre un margine di resistenza a tutte le invenzioni
tecnologiche che vorrebbero cancellarne la forma in cui noi, perversi ed
incalliti gutenbergiani libridinosi,
li abbiamo conosciuti ed amati. Ed allora anche il libro protagonista di Diecimila continua a godersi il suo
momento di trionfo e di gloria, perché il lettore Numero Quattro, come è
indicato nella sequenza degli acquirenti, lo ha selezionato tra il gruppo da
portarsi via. Continuerà la sua esistenza ed il suo viaggio perché ha ancora
tanto da dire e “da dare”, in barba a
Internet e a tutti i surrogati della modernità. Almeno fino a quanto un lettore
irriducibile e premuroso, si lascerà incantare da quelle parole e da quella
scrittura.
Andrea Kerbaker
Diecimila.
Autobiografia di un libro.
Interlinea
Ed. 2017
Pagg. 80 €
12,00
***
AREZZO. L’ORTO DI VASARI
di Angelo Gaccione
Sentite come parla del suo orto
Giorgio Vasari in una lettera all’amico cardinale Minerbetti: “Il mio orto, alido e sitibondo di me,
sentendo che io vado, rimette le fronde, già secche per il dolore di vedermi
stentare per le case altrui, doglioso nel vedersi da altre mani troncarsi le
cime delle erbe et sbarbare i cesti delle ricche foglie, vero ornamento, honore
et veste della fruttifera terra...”.
Quello che Vasari chiama orto, in
realtà è un giardino che circonda la casa di via XX Settembre che l’artista
compra nel 1541 nel borgo di San Vito, e che a quel tempo era formata di
campagna e orti. Una zona più fresca e silenziosa e di sicuro con un’aria
migliore rispetto al resto della città fittamente urbanizzata. Era qualche
tempo che volevo venire ad Arezzo per vedere proprio la casa del Vasari. In
altro tempo mi ero limitato a visitare l’esterno della città, e avevo anche
trovato chiusi alcuni luoghi. Per esempio la casa natale di Petrarca e diverse
chiese, ma avevo potuto godere del Duomo e del Palazzo dei Priori, della
Fortezza Medicea e di Palazzo Pretorio, di Santa Maria della Pieve, della
fascinosa Piazza Grande con le case medievali e delle Logge Vasari, sotto i cui
archi mi ero anche seduto per ristorarmi. Questa volta invece ho potuto
fermarmi un numero di giorni sufficienti per esplorarla da un angolo all’altro
e non mi sono fatto sfuggire nulla o quasi. Ho potuto con più agio sciamare
dall’Anfiteatro Romano fino alle mura del Prato dove vigila il patriottico
monumento al Petrarca; da Piazza Guido Monaco col monumento a questo figlio illustre
del quale, se non è certa la sua nascita qui, ha qui tanto operato, dando al
mondo il tetragramma prima e la solmisazione
dopo, che alla musica apportarono un immenso beneficio, al Borgo di Santa
Croce, e così via.
Non ho ovviamente mancato l’appuntamento con le numerose
chiese, e in particolare con la basilica di San Francesco di cui a suo tempo mi
aveva colpito la facciata grezza e non finita (me ne ero ricordato anni dopo
parlando di San Lorenzo di Firenze, e così è finita nelle pagine di Romanzo impuro nella parte ambientata in
questa città), perché volevo vedere la Cappella Maggiore con i magnifici
affreschi di Piero della Francesca nel
ciclo della Legenda della Croce. Di
questo pittore ho visto tutto in città diverse, ma devo dire che questa chiesa
meritava davvero. I suoi dipinti sono ammirevoli, ma non sfigurano artisti come
Paolo Schiavo, Lorentino d’Andrea, Niccolò Soggi e il grande Spinello Aretino.
Le vele della Cappella dipinte da Bicci di Lorenzo sono pregevoli, e le
immagini si sono nel complesso ben conservate. Il racconto di Piero (perché
tutta questa pittura ha un intento narrativo, didattico e simbolico) è superbo:
le scene ed i colori squillanti, lo scandaglio teologico degli episodi della Bibbia di facile lettura per la sensibilità
di una cultura che nel Rinascimento doveva ancora mantenere fortemente la sua
cifra educativa e morale. Nella scena
dell’Incontro della regina di Saba con il
re Salomone, Piero si è ritratto
in vesti sontuose e con lo sguardo frontale stranamente rivolto altrove. Non
guarda, come il corteo di personaggi, all’incontro e all’evento dei due
protagonisti che si stanno stringendo la mano. Ne è quasi estraniato ed
indifferente. Nell’episodio della Battaglia
di Ponte Milvio colpiscono invece gli occhi di Costantino e del suo bianco
destriero, indomiti e fieri della imminente vittoria. Un enorme crocifisso
dipinto da anonimo del XIII secolo introduce alla Cappella. Un altro in legno,
anch’esso anonimo, è del XIV secolo lo trovate nella chiesa, ed è quanto di più
umano e terreno possibile. Se ne avessi il tempo mi piacerebbe dedicare un
lavoro corposo a questo simbolo cristiano, alle migliaia che ne ho visto
scolpito, dipinto, affrescato, inciso, intarsiato a mosaico, in ogni dove. Non
mi sono dispiaciuti in questa chiesa né il san Francesco giovane e sbarbato, né
la statua in bronzo dell’Immacolata che lo scultore contemporaneo fiorentino
Mario Moschi ha regalato alla basilica. Mi è dispiaciuto invece il prezzo
esagerato del biglietto e soprattutto l’assoluta mancanza di cartigli
esplicativi. Nulla di nulla, neppure uno straccio di guida che dica qualcosa ai
visitatori di questa Cappella, e per somma di beffa una rivista del costo di 9
euro disponibile solo in francese, cosicché gli italiani non se la possono portar
via, mentre i visitatori di lingua francese se la devono pagare.
Tutt’altra
storia, invece, alla Badia benedettina delle sante Flora e Lucilla in piazza
della Badia. Tutt’altra storia grazie all’anziano ma vivace e simpatico parroco
don Vezio Soldani, che si è messo a disposizione e ci ha raccontato ogni
dettaglio, fatto gustare aneddoti, opere e storia, con semplicità e sintesi. Ho
usato la particella pronominale ci
perché non ero solo in questa chiesa, assieme a mia moglie qualche straniero e
un paio di “sperduti” italiani. Ci sono città straordinarie dove nessuno mette
piedi, in compenso vanno a New York o alle Maldive. Anche su questa chiesa ha
messo le mani il Vasari che l’ha completamente modificata. La sua presenza qui
è molto forte: vi è stato portato, nel 1865, l’altare maggiore che aveva
realizzato tra il 1562 e il 1564 per custodire le sue spoglie e quella della
sua famiglia, e che in origine era stato collocato nella Pieve di Santa Maria.
È stata per me una vera delusione apprendere da don Vezio che i resti
dell’autore de Le vite e quelli dei
suoi familiari (genitori, nonni e moglie), non erano dentro l’altare di questa
chiesa come mi ero immaginato, e che invece erano andati dispersi. Vi sono
rimasti i loro ritratti che l’artista ha dipinto, e nel Lazzaro e la Maddalena Vasari ha riprodotto il suo volto e quello
della moglie. Tutto il complesso monumentale vasariano è straordinario, come
straordinaria è la sua Assunzione,
una tavola enorme del 1567 in cui si è ritratto fra gli apostoli con un libro
in mano, forse il suo trattato sulla pittura. Ci sono opere di grande valore in
questa chiesa, e basta citare qualche nome: Lappoli, Baccio da Montelupo
(ottimo crocifisso ligneo), Segna di Bonaventura, il paliotto quattrocentesco
(ambito Neri di Bicci), Maiano, Simone Mosca...
La casa
natale del Petrarca, ora proprietà dell’Accademia Petrarca di Lettere Arti e
Scienze di Arezzo, è in via dell’Orto al n. 28. Salendo il Corso Italia, tra la
Pieve e la Cattedrale, compare questa costruzione solida, con il chiostro e un
loggiato al piano superiore. Come sappiamo il poeta è morto ad Arquà, ora Arquà
Petrarca, e ad Arezzo in realtà ha vissuto appena otto mesi, per via dei
contrasti politici del tempo (il padre era della fazione dei guelfi bianchi) e
ad Arezzo ci tornerà una sola volta in occasione di un viaggio a Roma per il
Giubileo del 1350. Dunque il rapporto con la città è stato alquanto marginale,
e tuttavia volevo vedere dove ha aperto gli occhi e cosa rimaneva in questa
casa. Praticamente poco: l’attuale edificio è del XVI secolo edificato su
quello che rimaneva dell’antica struttura. Vi si conservano opere d’arte,
cimeli petrarcheschi, materiale numismatico dell’Accademia e i 4 mila volumi
del letterato e naturalista Francesco Redi, che sono un notevole patrimonio per
la città.
San Domenico
invece non ve la dovete proprio perdere. Intanto per la sua singolare forma
(probabilmente non finita), poi per la pendenza che la caratterizza, e ancora
perché da fuori pare molto più piccola, rispetto all’omonima piazza, di quanto
in realtà è all’interno. Qui il crocifisso di Cimabue che tutti abbiamo negli
occhi per averlo visto tante volte sui libri d’arte, è posto al centro
dell’abside. Non dimenticate che nel momento in cui lo dipinge Cenni di Pepo
(Cimabue), ha solo vent’anni. Mi ha sempre impressionato quello stomaco “a
caciocavallo” del Cristo che attira l’occhio più del volto dolente, più del
corpo esile e quasi femmineo degli arti.
Sfortunatissimo pittore, poco si
conserva di altrettanto ben tenuto della sua opera, andata quasi pressoché
perduta. Sulla destra troverete una crocifissione di segno opposto, quella di
Parri di Spinello. È un affresco ben conservato, se si eccettua il pezzo di una
delle figure che attorniano la Vergine affranta. Del padre di Spinello,
Aretino, c’è una bella Annunciazione e una composizione più ampia, sempre ad
affresco, di santi, martirii e miracoli, che sempre abbondano in pittura.
Presente anche una madonna con Bambino affrescato
da Duccio di Boninsegna e una terracotta “invetriata”, come si dice in gergo,
di un San Pietro realizzato da Giovanni della Robbia assieme al fratello
Girolamo. L’interno ha dodici monofore gotiche da cui filtra la luce, con i
bordi a fasce come si vede nell’arte senese.
Ho scoperto
che la Casa Vasari è ha pochi metri da questa chiesa, basta percorrere un breve
tratto della via San Domenico e svoltare. Da sola la casa vale un viaggio ad
Arezzo. Non è una semplice casa, è il luogo dove l’artista dà il meglio della
sua visione artistica, della sua potenza creativa, del suo pensiero e della sua
visione di mondo di uomo del Rinascimento. La acquista nel 1541, ma ci lavorerà
per oltre 26 anni. Vuole affrescarla tutta e tornarci per riposarsi dalle
fatiche e dal continuo girovagare per le continue faticose committenze. La
finirà nel 1568, ma morirà appena sei anni dopo. La godrà per periodi piuttosto
brevi con la giovanissima moglie Niccolosa Bacci, perché conteso com’era non
gli era facile tirarsi fuori.
Il piano
nobile vi introduce nella Sala del Camino detta anche del Trionfo della virtù. Sul soffitto, dentro un ottagono, tre figure
dal seno nudo, lottano aspramente. Sono l’Invidia e la Fortuna scacciate dalla
Virtù. Alle pareti figure allegoriche, paesaggi, poeti della classicità. Nella
Camera della Fama e delle Arti, la Fama è dipinta seduta sul globo terrestre e
squilla la sua tromba per annunciarla ai quattro punti cardinali, mentre le
Arti sono raffigurate nei pennacchi della volta e sono la Scultura,
l’Architettura, la Poesia e la Pittura. Nei medaglioni delle lunette Vasari
celebra i suoi amati artisti, fra cui il bisnonno Lazzaro, Luca Signorelli,
Spinello Aretino, Bartolomeo della Gatta, Buonarroti, Andrea del Sarto, e
naturalmente se stesso. La camera di Apollo e delle Muse rende omaggio al dio Apollo
e ai vari dèi protettori: Melpomene, Calliope, Tersicore, ecc. con i simboli
che li distinguono. Seguono la Camera di Abramo e quella del Trionfo della
Virtù. La prima era la sua camera nuziale: per propiziare la fertilità
raffigura il Padreterno che benedice il seme di Abramo, la stirpe che si
genererà. Questo auspicio non si realizzò, Vasari non ebbe figli, e la stirpe
di Abramo, cioè noi uomini, siamo quell’infame prodotto malriuscito, come
attestano gli incendi di boschi, pinete e parchi, di questo periodo in ogni
dove.
Ricchissima la quadreria iniziata
negli anni Cinquanta e arricchita da successive acquisizioni, contiene opere di
artisti come Jacopo Zucchi, Jan van der Straet (italianizzato in Giovanni
Stradano), Michele Ridoldo del Ghirlandaio, e tanti altri. Del Vasari vanno
ricordati almeno il grande dipinto Cristo
portato al sepolcro, opera di grande potenza espressiva e drammatica, e un Giuda. Prima di lasciare la casa, ho
voluto sostare a lungo nel giardino e fra le piante. Non è tenuto molto bene: è
l’Italia, signori. Ho voluto sostarvi perché immagino quanto gli fosse caro
sostare qui, raccogliere le idee e riflettere: nella quiete del meriggio,
all’approssimarsi del tramonto, o al mattino presto per prendersi cura delle
sue amate piante.
Quelle
piante sitibonde di lui, addolorate e
dogliose di non averlo presente per
prendersene cura.
***
VITERBO, LA
CITTÀ DI PIETRA
di Angelo Gaccione
Se dicessi che la cosa più bella di Viterbo sono le
rondini, naturalmente spudoratamente mentirei. Ma che volete, non accade in
tutte le città il privilegio, e diciamolo pure, il miracolo, di essere
svegliato al mattino dal loro garrire e dai loro volteggi. Il loro irrequieto
sfrecciare senza posa, senza un attimo di tregua, sembra volerci dire che ogni
gioia è breve e dunque questo vorticare festoso deve compiersi tutto intero
ora, nell’attimo stesso in cui questa gioia ci è concessa, spensierata e
dimentica di ogni coscienza. Finestre che si affacciano sui tetti, come queste
della Residenza Nazareth di via San
Tommaso, tetti bassi per lo più, perché torri e campanili devono ergersi a loro
presidio, in un confronto bivalente in cui potere religioso e potere civile
danno la misura della loro forza. Simboli solidi, terreni, innestati nel corpo
vivo della città.
Finestre che guardano
cipressi, pini, cedri del Libano e suoni di campane in lontananza: non può desiderare
di meglio chi come me giunge da Milano, dove il risveglio è annunciato dal caos
dei motori, dai mille infernali rumori metropolitani. Di alcune città si dice
che non dormono mai, e chi lo dice lo fa a cuor leggero, e non ha alcuna
consapevolezza del delirio che sono diventate, e dove ogni rapporto con i ritmi
biologici e naturali è stato violato e stravolto. I concetti di riposo, di
quiete, di raccoglimento, di respiro della notte, sono scomparsi; e come noi,
le stesse creature notturne ne sono state
private. Più nessuno spazio per il fantasticare e il sogno. Tutto è
stato irrimediabilmente annegato, perduto in un eterno fluire, in un eterno
presente che non conosce discontinuità, interruzioni, pause.
In un tempo passato, i nobili
lasciavano le città per recarsi nelle loro dimore di campagna, le ville, a
riposare, a villeggiare. Lì trovavano
riposo e quiete. Siamo stati noi moderni a passare dal caos urbano al caos
delle vacanze, in luoghi altrettanto affollati e caotici dove non si dorme mai, e ci si intontisce di rumori,
di decibel alle stelle fino all’alba, fra alcool, pasticche e porcherie di ogni
genere.
In realtà Viterbo, questa
vera e propria città di pietra, è fin troppo bella. Basterebbero i suoi 5
chilometri di mura che la racchiudono e le sue 10 porte: Porta della Verità,
Porta Romana, del Carmine, Faul, Fiorentina, Murata, sto citando a memoria, o
l’intero quartiere medievale di san Pellegrino con le sue volte, torri,
porticati, il suo acciottolato, il concio in peperino che trionfa ovunque, per
dirne tutta l’importanza.
Manufatti notevoli come il
magnifico chiostro longobardo di Santa Maria Nuova, chiese, fontane a fuso e
palazzi a bizzeffe, qualunque direzione voi prendiate, e non solo quelle più
canoniche come la piazza Plebiscito nel cui perimetro trovate il palazzo dei
Priori e quello del Podestà, o la Piazza della Morte che vi conduce, attraverso
il Ponte del Duomo, in Piazza san Lorenzo dove svetta il campanile della
Cattedrale e troneggia il Palazzo dei Papi. Le vie e i corsi sono una continua
sorpresa e conviene procedere a caso, sarà la città a venirvi incontro ed a
stupirvi. Anche ciò che riterrete minore vi sorprenderà, potrà accadervi con il
palazzo Ascenzi, ora sede del Circolo Cittadino Viterbese dove nel giardino
scoprirete una magnolia della seconda metà dell’Ottocento e un nespolo
selvatico gigantesco. La guerra non ha risparmiato questo palazzo, come mi
informa Maria Rita De Alexandris, per fortuna ricostruito subito dopo. Come il curioso altare della appartata
chiesa di san Sisto che si protende verso l’alto con la sua lunga gradinata.
Deve aver fatto una strana impressione ai fedeli che vi sono entrati per la
prima volta, e si sono trovati il loro celebrante sospeso così in alto. Tuttora
l’effetto rimane intanto.
Se all’esterno la città si presenta colma di
suggestioni, gli interni (palazzi e chiese) sono ricchi di capolavori di
maestri che dal medioevo arrivano fino al XVIII secolo. Darne conto in uno
scritto così contenuto sarebbe far loro torto. Mi sarebbe piaciuto vedere il
Museo della Ceramica della Tuscia (un’altra eccellenza viterbese e dintorni),
ma era chiuso. Il Palazzo Brugiotti che lo custodisce è anche tenuto male.
Peccato. Come peccato davvero è la chiusura
definitiva dello storico Caffè Schenardi al numero 11 di Corso Italia,
nella vicina Piazza delle Erbe. Nato ai primi dell’Ottocento, come tutti i
Caffè europei aveva visto passare dalle sue sale e dai suoi tavolini, la vita
politica e culturale della città, e ospiti di una certa levatura.
Fa tristezza
vederlo chiuso e solo un paio di immagini in bianco e nero ne rimandano, agli
innamorati come me, l’atmosfera. A questi magici luoghi e alla loro precaria
esistenza, ho dedicato molti anni fa un racconto dal titolo “Un caffè accanto
al sigaro”, compreso ne La striscia di
cuoio, libro più volte premiato. Come fa tristezza vedere lungo i muri di
Palazzo Farnese, degli orribili pluviali di lamiera. Il punto non è quello che
ci è stato lasciato in eredità dalla storia e dalle epoche passate, il punto è
come lo custodiamo, come ce ne prendiamo cura. E soprattutto come e con quale
coerenza a questi manufatti accoppiamo, facciamo innesti, accordiamo ciò che è
moderno perché non stridi, non offenda, non gridi vendetta. Turba, altresì, e
angoscia, il silenzio mortale e l’abbandono a cui parte del centro storico pare
condannato. Vendesi e affittasi ad ogni passo. Le porte in rovina, i muri
sbrecciati, l’acciottolato divelto, le crepe, se non riparati per tempo,
finiscono fatalmente per deperire. Lo spostamento di parte della popolazione al
di là della cinta muraria, nella parte nuova della città sicuramente più comoda
e ricca di servizi, potrà creare problemi al nucleo antico. La città dovrebbe
interrogarsi su tutto questo ed aprire una discussione pubblica collettiva. Il
rischio è che una grossa parte del centro storico diventi un museo all’aperto
degradato, muto e privo di vita.
***
CIVITA DI BAGNOREGIO: LA CITTÀ CHE MUORE
di Angelo Gaccione
Civita di Bagnoregio |
La cosa che
più mi stupì, arrivando una domenica di giugno (e precisamente il 25 intorno
alle 19, mentre il sole cominciava a declinare e nel cielo comparivano le prime
strisce colorate del tramonto) sulla piazza Cavour di Civita di Bagnoregio (come
si fa a dare il nome di Cavour alla piazza di un borgo etrusco medievale, è il
mistero dei guasti prodotti dell’eccessiva esaltazione risorgimentale), è
trovarvi l’allestimento di un coro e orchestra che si apprestava ad eseguire il
Requiem di Mozart. Non che qui Mozart
fosse stonato, anzi, ma proprio il Requiem
in quella che è stata definita “la città che muore”, mi colpì molto.
Probabilmente a nessuno del numeroso pubblico presente era venuto in mente
questo accostamento, ma il mio insano mestiere ha, fra le sue perversioni,
quella di una fantasia oltremodo eccitata.
Negli
ultimi tempi ho firmato più volte degli appelli promossi dal governatore del
Lazio Zingaretti, da Comitati e altre benemerite associazioni cui sta a cuore
la salvaguardia di questo splendido borgo arroccato su una roccia di tufo. Ora apprendo
che si sta cercando di sensibilizzare l’Unesco perché venga dichiarato
patrimonio dell’umanità. Speriamo. Da più parti si sostiene, tuttavia, che è
un’impresa disperata fermare il degrado di una materia la cui deperibilità sta
nella natura stessa della sua essenza. Il tufo è un materiale fragile e
delicato facilmente aggredibile dal variare degli agenti atmosferici. Lo
sperone su cui il borgo sorge, continua a franare e a produrre crepe. Un’agonia
lenta che angoscia tutti coloro i quali amano questo abbraccio di case,
fantasiose e bizzarre nel loro disporsi, i suoi angoli poetici, i suoi piccoli
giardini cintati, le sue pietre, il suo ricamo di viuzze. Non ho competenze per
dire se questa sfida per impedirne la definitiva scomparsa è possibile. Tutte
le volte che vado a Pavia a vedere la bellissima facciata della basilica di san
Michele Maggiore, mi accorgo che pezzi di arenaria si sono sbriciolati; che le
intemperie hanno prodotto altro guasto da un anno all’altro. E questo avviene
ovunque, e sempre me ne torno immalinconito. Resta la segreta speranza che
prima dell’inevitabile, la ricerca metta a disposizione degli studiosi, dei
restauratori e dei tecnici, altre possibilità e altri rimedi. Un brutto ponte
sospeso nel vuoto, si è dovuto realizzare per arrivare dentro il borgo di
Civita dove risiedono un pugno di famiglie e alcuni esercizi necessari al
ristoro dei visitatori. L’impatto visivo non è dei migliori, ma è stato
necessario perché un’ambulanza vi possa arrivare, e così un furgone per le
merci. Si sarebbe potuto valutare se non si potesse farne uno con materiali
diversi e soprattutto visivamente più armonico. Ma forse la questione è che non
si dovrebbe destinare ad altro, ciò che la storia, il tempo e le necessità,
hanno fissato in quel modo. Un eremo per mistici contemplativi, una rocca a
presidio militare di difesa e quant’altro, non possono essere trasformati in
luoghi dei nostri bisogni contemporanei, senza farli diventare altro. Di
innesti il tempo ne produce molti e le cose si stratificano come il terreno
delle ere geologiche. Fa davvero impressione, ad esempio, vedere sulla piazza
Cavour, incombere con tutta la sua mole, la cattedrale di san Nicola che è
della fine del Cinquecento, dentro il borgo medievale del teologo Bonaventura,
così piccolo e così raccolto. Ma il dominio cattolico dello Stato della Chiesa,
non poteva non marcare il territorio, non lasciare i suoi simboli e innalzare i
suoi campanili. Come oggi il potere finanziario con i suoi grattacieli, come
ieri le torri dei Signori.
***
FORTUNE
di Angelo Gaccione
Giorgio Bassani |
Quale
sublime fortuna accompagna la vita di certi uomini che può contare
sulla memoria fedele di altre anime (rare, ma ancora esistenti), che
ne custodiscono vivido il ricordo e la difendono con una passione
così pervicace e ostinata che commuove. Confesso di aver provato una
punta di invidia nel sentire con quale devozione la professoressa
Silvana Onofri, membro della Fondazione Bassani di Ferrara,
raccontava dell'autore di Cinque storie ferraresi, di come ne
prendeva le difese e rievocava i ricordi di un lontano passato. E
come subito si è messa amichevolmente a disposizione per portarmi
sulla tomba dello scrittore il giorno dopo, nel cimitero degli ebrei
in via delle Vigne.
L'idea, magnifica, era farmi ascoltare
il testo poetico “Rolls Royce” proprio davanti alla sua tomba, in
quel cimitero disteso tra i vecchi, assopito nel campo tutto
arreso a uno sguardo infinito, come ha scritto, e dove riposano i
suoi cari.
La mattina del primo giugno però,
trovammo il cancello chiuso per una delle tante feste ebraiche. Non
ci perdemmo d’animo, munita di un piccolo stereo portatile,
Silvana, che era arrivata in bicicletta, mi portò sul terrapieno
delle mura di San Giovanni, proprio nel punto in cui Bassani ne Gli
occhiali d’oro descrive il cimitero dall’alto. In linea
d’aria la sua tomba era appena sotto le mura e non visibile;
visibili erano qua e là alcuni cippi schermati dalle piante, ma il
posto non poteva essere più consono. Non accade tutti i giorni la
fortuna che un’ammiratrice colta e informata si prenda la briga di
farvi ascoltare la voce di un amato scrittore a pochi metri da dove
il suo corpo riposa. Che vi dedichi con pazienza alcune ore del suo
tempo per dirvi che anche il magnifico polmone verde che state
attraversando, denominato Canpagna dentro la Città, è qui integro perché il suo amato
scrittore, presidente per un periodo di Italia Nostra, levò anche la
sua di voce e lo difese come patrimonio collettivo. Un parco
stordente di profumi di alloro perché di questa pianta è stracolmo.
E quale meraviglia per me avervi scoperto alcuni alberi della mia
fanciullezza: il gelso bianco e il gelso nero. Dal sugo dei frutti
dolcissimi di quest’ultimo, un rosso stupendo, ci imbrattavamo mani
e viso, torso e gambe; i più maturi di essi ce li scagliavamo
addosso in una battaglia innocua dopo esserci quasi del tutto
denudati. Guai se fossimo tornati a casa con pantaloncini o magliette
colorati di rosso! Portavamo i segni di “ferite” da cui saremmo
presto guariti: bastava strofinare su tutto quel rosso ostinato,
alcuni gelsi rossicci ma non ancora maturi, e come d’incanto ogni
traccia spariva.
La tomba di Bassani nel cimitero ebraico |
***
Ferrara. Un particolare del Duomo |
A
Casa Ariosto, dove lo scrittore Roberto Pazzi ha avuto la
grande generosità di venire il 31 Maggio scorso, per dire
altrettante generose parole sullo scrittore Carlo Cassola,
riferendosi alla vita di provincia raccontata dall’autore de Il
taglio del bosco, ha affermato che mai si sarebbe separato dalla
sua magnifica città, mai avrebbe lasciata per un altro luogo la sua
Ferrara. Che grande fortuna, mi son detto. Ho riflettuto molto nei
giorni seguenti su questa sua perentoria dichiarazione d’amore, e
ho pensato al misero destino degli sradicati come me che hanno perso
una terra senza averne fino in fondo acquisita un’altra.
Roberto Pazzi |
***
A Palazzo Schifanoia in via
Scandiana il visitatore ci va per farsi sedurre dai magnifici
affreschi del Salone dei Mesi. Ma a me è capitata la fortuna, stanco
dai troppi giri a piedi, di fare sosta anche nell’ampio giardino
che lo delizia. E quale non è stata la sorpresa nello scoprirvi
degli stracarichi alberi di visciole! I piccoli aciduli frutti di
queste piante, sconosciuti ai più, non erano neppure degnati di uno
sguardo. Per terra, un tappeto fitto di quelli già abbondantemente
maturi. I rami ne trionfavano, ma nessuna mano, se non la mia, si è
levata per raccoglierne alcuni. E pensare che al Portico di Ottavia,
quasi di fronte alla sinagoga di Roma, gli ebrei continuano a fare
una gustosissima torta di visciole e ricotta, capace di farvi
schivare non solo la noia, ma sopportare persino il traffico
delirante della città.
Le visciole |
***
CORTILI
APERTI
di
Angelo Gaccione
Milano. Cortile di palazzo Borromeo |
Queste
giornate dei “Cortili Aperti” sono divenute ormai canoniche qui a
Milano, un po' come l'apertura di musei, castelli, magioni nobiliari,
siti archeologici e beni del patrimonio culturale in genere, in ogni
parte d'Italia, visitabili gratuitamente in alcuni periodi dell'anno.Sabato 20 Maggio, a Milano era una calda, magnifica, giornata più che
primaverile ed era una di queste “giornate aperte” alla visita
dei cortili di alcune tra le più blasonate dimore altoborghesi e
nobiliari. Si trattava dei soli cortili per le case abitate, ma per
le case museo come ad esempio Bagatti-Valsecchi di via del Gesù,
palazzo Morando di via sant'Andrea, o il Poldi Pezzoli di via
Manzoni, si potevano vedere, pagando una quota contenuta, palazzi e
arredi, ambienti e collezioni. L'area compresa tra quella che oggi
viene definita “quadrilatero della moda” (un tempo oramai lontano
borgo delle arti e delle cospirazioni), offriva ben 9 possibilità:
palazzo Belgioioso, casa Bergamasco, casa Marchetti, casa Del Bono,
palazzo Morando, palazzo Borromeo D'Adda, palazzo Anguissola Antona,
casa museo Bagatti Valsecchi, palazzo Vidiserti. Alcuni di questi
luoghi li conosco a memoria e non so quante volte li ho visitati, di
altri ho anche scritto. Le vie che li contengono fanno parte della
mia mappa mentale per ovvi motivi e percorrerli è per me sempre una
grande emozione. Tra la via Manzoni e la via Montenapoleone questi
luoghi mitici hanno sede e hanno una forte presa sulla mia
immaginazione. Al numero 8 della via Manzoni è nato lo scrittore
Carlo Emilio Gadda nel 1893, come indica la lapide semisbiadita,
anche se è morto a Roma dove sono andato a fargli visita molti anni
fa, al cimitero acattolico, vicino alla Piramide Cestia di Porta San
Paolo. Al numero 29 c'è il Grand'Hotel et de Milan con la suite 105
dove Giuseppe Verdi morì nel 1901 e dove si conserva intatto
l'arredo, nella stessa disposizione del fatale, gelido gennaio di
quell'anno. Ho avuto la fortuna di poter visitare in privato quelle
stanze, qualche tempo fa, grazie alla liberalità della Direzione, di
esserne sufficientemente edotto ed infine omaggiato di un raffinato
volume stampato da Franco Maria Ricci, che attraverso gli ospiti più
illustri racconta un secolo di storia milanese. Avrei voluto
presentare il mio libro Milano
città narrata edito
dalla Meravigli, in uno dei saloni di quest'albergo, ma poi si optò
per la Galleria Vittorio Emanule II.
Una
delle anguste traverse di via Manzoni conduce, attraverso via Morone,
alla casa dello scrittore de I
promessi sposi,
e la cui singolare facciata si apre sulla piazza Belgioioso dove c'è
l'omonimo imponente palazzo, ma sulla via Morone ci sono ora Casa
Bergamasco (al n. 2) e casa Marchetti (al n. 4). I cortili aperti di
questi palazzi, sobriamente neoclassici e dotati di colonne, sono
appartenuti a patrizi, a patrioti, a letterati. D'Azeglio che aveva
sposato la sfortunata figlia del Manzoni, abitava proprio di fronte
alla casa dell'augusto suocero. Un'altra traversa gronda anch'essa di
storia e di memorie, la via Bigli. Al numero 21 abitò la contessa
Clara Maffei, il cui celebre salotto accoglieva letterati, artisti,
musicisti, patrioti, cospiratori. Rivoluzionari che si battevano
ardentemente per l'indipendenza della patria dal dominio austriaco.
Questo stesso palazzo vide il soggiorno giovanile (dal1894 al 1900)
di Albert Einstein, a cui questa città fu sempre cara, e più
avanti, al numero 15, visse il poeta Eugenio Montale che vi morì nel
1981. Ma via Bigli è importante perché al numero 10 c'è palazzo
Vidiserti, dove il 18 marzo del 1848 i capi dell'insurrezione
stabilirono il loro quartier generale, per dare vita a quelle che
passeranno alla storia come le
eroiche
Cinque Giornate di Milano. L'uscita opposta affaccia sulla via
Montenapoleone, oggi dominata dal lusso sfacciato e dalle griffe di
stilisti e marchi di ogni genere. Un tempo quei palazzi videro altre
temperie ed altri scopi. Al numero 23, quasi a ridosso del quartier
generale, c'è la casa in cui visse tra il 1840 e il 1848, il più
acuto teorico della rivoluzione, Carlo Cattaneo. Ma
oggi chi se lo ricorda più? Le lapidi diventano via via illeggibili
e chi entra nei cortili di questi palazzi o percorre queste vie, è
più sedotto dalle merci esposte nelle vetrine scintillanti, dal
lusso e dalle Ferrari parcheggiate, che centinaia di telefonini
immortalano come totem divenuti trionfali, piuttosto che dalle
memorie patrie o letterarie. Segno dei tempi. Feticci di una
modernità avviata spensieratamente al suo declino.
KAMEN’
La rivista di poesia e filosofia,
Kamen’, diretta da Amedeo Anelli a Codogno, provincia di Lodi, è arrivata al
50° numero ed ha compiuto 26 anni. Sia in bosniaco che in sloveno il sostantivo
kamen significa pietra, se è questo
il senso che Anelli ha voluto attribuire alla testata, allora bisogna
riconoscere che la sua creatura ha davvero una buona tempra ed è resistente
come la pietra. Ventisei anni e 50 numeri per una rivista di questo genere non
sono affatto uno scherzo. Questo cinquantesimo numero (pagg. 114 € 10,00) fa un
magnifico regalo a noi estimatori dello scrittore Giuseppe Bonura, perché apre
il fascicolo con oltre 40 pagine a lui dedicate. La sezione compresa sotto il
titolo “Letteratura e giornalismo”, è curata, introdotta, e annotata, dall’ottimo
Alessandro Zaccuri che si conferma una volta di più come il più appassionato,
attento, devoto alla memoria dell’amico, che fino alla sua scomparsa ha
condiviso le stesse pagine del quotidiano “Avvenire”, su cui Bonura ha
esercitato la sua critica letteraria con un’acribia, un’onestà, e una
credibilità piuttosto rare. Il Bonura critico, militante radicale ed
estremista, non faceva sconti a nessuno: si poteva dissentire dai suoi giudizi,
ma non erano mai dettati dalla malafede, semmai dal convincimento profondo che
essendo il lavoro sulla letteratura preciso come quello di un maestro
artigiano, non si poteva mistificare, e lui ne sapeva riconoscere i difetti
perché possedeva quell’occhio esercitato che il buon maestro ha affinato sul
campo in anni e anni di pratica con gli utensili più acconci e su una materia
che non sempre si lascia plasmare e addomesticare. I brani riprodotti da Zaccuri
danno un assaggio di questa sostanza di Bonura, il lettore ne è felicemente
sorpreso e spiazzato perché è costretto a rivedere ciò che gli era sfuggito,
ciò che la superficie aveva nascosto, e la sua intelligenza ne viene
illuminata. Molti in questi scritti sono gli spunti che fanno di Bonura il “solitario”
di cui parla Zaccuri, valgano per tutti quelli sul Manzoni.
A.G.
[Per contatti con la
Redazione della rivista amedeo.anelli@alice.it
Libreria Ticinum Editore
Tel. 0383-212285]
***
IL GIOVANE FAVOLOSO
di Angelo Gaccione
Recanati. Palazzo Leopardi con la chiesa |
Sorvolo
sulla diatriba cinema-letteratura vecchia come il loro rapporto, e non entro in
merito agli aspetti più propri della “macchina” spettacolare che attengono al
puro mezzo espressivo e alla sua finzione, ricordando a me stesso, come ha
scritto Enzesberger, che la lettura è un atto anarchico e ognuno vi coglie ciò
che più lo interessa e da cui è affascinato. Dunque, anche l’angolo visuale da
cui si pone il regista, deve rientrare a pieno diritto in questa legittimità.
Mi importano invece i dati salienti. Il primo resta che la regia di Mario
Martone si tiene molto a bada, e questo è un pregio. Il secondo è che dentro la
narrazione cinematografica, ha inserito una recitazione apertamente teatrale
che è il fascino de Il giovane favoloso.
Elio Germano nel ruolo di Leopardi |
Tutta la recitazione di Elio Germano, che è l’interprete di Leopardi, lo è. Il
fuori (quello che il lessico della settima arte chiama gli esterni), è ridotto all’essenziale e le inquadrature non vi
indugiano mai troppo. Lo sguardo su Recanati è quasi sempre colto da dentro: la
finestra del palazzo del conte Monaldo come palcoscenico, il fuori come fondale
per lo più evocato, ridotto all’essenziale, con sequenze brevi e senza
compiacimenti descrittivi. Gli scorci del borgo, la notte, il belvedere di
palazzo Venieri da cui lo sguardo spazia verso la vallata,
la luna che incornicia un ritaglio di cielo, i pochi stacchi sul colle
dell’Infinito. Ma lo stesso avviene a Napoli: il Vesuvio con la sua lava hanno
più il carattere di fondale teatrale dipinto, che quello oggettivo e reale che
la macchina da presa registra. Scelta dunque molto attenta, considerati gli
scenari di grande suggestione -Recanati in primis-, e poi Firenze, Roma, e in
particolare Napoli con il suo folklore, il suo colore, la sua vitalità.
Recanati. La piazza con il monumento del poeta |
Il
film nella sua centralità verte su due istanze: il desiderio di gloria di un
giovanissimo genio, e il desiderio di fuga. Per gloria deve intendersi qui non
la ricchezza e il successo come li intendiamo oggi nella loro più deteriore
accezione. Non dimentichiamoci che Leopardi era già ricco ed era un conte.
Gloria per un letterato e un uomo di pensiero quale Leopardi è, significa
semplicemente che gli scritti prodotti da quella arte e da quel pensiero,
devono poter entrare in risonanza con gli spiriti più eminenti, ricettivi e
sensibili del suo tempo, per essere discussi e valutati con sguardo aperto e
sgombro da pregiudizi. Cosa che evidentemente non poteva avvenire nel clima
soffocante di Recanati, dominato da una madre bigotta e dalla presenza ossessiva
e invadente di un clero reazionario. Ricordiamoci che le Marche erano sotto il
rigido controllo dello Stato Pontificio. La fuga non è che consequenziale a
questo prepotente bisogno che abbiamo appena illustrato.
La Biblioteca |
Il
padre, conte Monaldo Leopardi, ama profondamente il figlio e ne sa riconoscere
il talento. Non solo di Giacomo, in verità. Ho visto nel palazzo di Recanati e
nella immensa enciclopedica biblioteca paterna (voluta e messa assieme dalla
sua caparbietà, non lo si dimentichi), i magnifici disegni di Paolina e quelli
di Giacomo stesso; ma apprezzava anche
le eccellenti qualità di studioso del figlio Carlo.
Ho
visto la sezione dei libri proibiti e messi all’Indice a cui i tre ragazzi
potevano liberamente accedere per leggerli e consultarli in piena libertà. So
della sua indulgenza verso i dinieghi del figlio a prendere parte alle continue
funzioni religiose che avevano luogo nella loro chiesa privata, posta proprio
di fronte al palazzo, e in cuor suo non vuole affatto farne un ecclesiastico,
come vorrebbe la madre e la componente materna degli zii. Se
opportunisticamente Giacomo avesse voluto conseguire fama e ricchezze, la
carriera ecclesiastica gliele avrebbe servite su un piatto d’argento. Quello
che Monaldo non ha compreso, è che è stata proprio la sua liberalità
intellettuale a “minare” lo spirito
del figlio; sono state le letture dei libri della sua immensa biblioteca, gli
autori altrove proibiti che il figlio ha avuto in mano, lo “studio matto e
disperatissimo”, a fornirgli la dinamite. Da lì sono venuti gli elementi della
sua Weltanschauung, della sua disillusa visione dell’esistenza e della sua
caducità. Una visione tragica e un pensiero nutrito dal dubbio che erano stati
propri dei grandi tragici dell’antichità prima di lui, e delle intelligenze più
profonde e inquiete della modernità. Lui non era che il più contemporaneo di
quella schiera, e se il caso aveva voluto radicarlo nell’Ottocento, non era sua
la colpa. Il secolo delle “magnifiche sorti e progressive”, il secolo dell’ottimismo
positivista non poteva sedurlo. E tuttavia aveva pur scritto una canzone
“All’Italia” nel 1818, ma poi erano venuti i moti e le successive repressioni
con le fucilazioni, le impiccagioni, il carcere e l’esilio dei patrioti e dei
rivoluzionari. Se il suo animo di poeta non poteva non cogliere la bellezza
straordinaria della natura, il suo pensiero non poteva tacerne l’arbitrio, il
cieco procedere, in cui non c’è posto per nessun Dio regolatore. Solo la cieca
forza di cui la furia del Vesuvio è l’emblema.
Quando
infine il padre gli accorderà il permesso di lasciare Recanati, l’esperienza si
rivelerà per molti aspetti fallimentare. Gli ambienti intellettuali lo
deluderanno: sarà così a Roma, sarà così a Firenze. I salotti lo annoiano, gli
intrighi lo disgustano e li trova meschini. Napoli con tutte le sue
contraddizioni e malignità, resta il luogo più ospitale e gioioso, il più
caloroso, sempre protetto dall’affetto fraterno di Paolina e Antonio Ranieri. Ad
ogni modo restano centrali il “borgo selvaggio” Recanati per la forza della
poesia, Napoli per i bagliori di felicità dell’esistenza e dove si accentuano
la svolta materialista e la polemica contro il romanticismo cattolico. E soprattutto,
dove, nasce quell’Odorata ginestra / contenta dei deserti.
Il paradosso è che il
filosofo del nulla e dell’inutile e sconsolato vivere, il cantore
della natura matrigna, ci ha lasciato alcune delle poesie più belle dedicate da
un poeta alla natura. Di tutto questo il film rimanda i suoi echi, consapevole
che la materia era tutt’altro che disposta a lasciarsi addomesticare. Il
tentativo è stato comunque encomiabile e certamente agli studenti offrirà
spunti per interessanti approfondimenti. Ottima la prova attorale di Elio
Germano e molto belle le atmosfere. ***
POETI IN PROPRIO
di Angelo Gaccione
La copertina del libro |
Comincerei dalla dedica: all’amico Angelo Gaccione, sono sempre un poeta postumo. Una dedica
giustamente criptica, ma che si chiarirà più avanti. Molti conoscono Franco
Paone, qui a Milano, e lo hanno incontrato spesso in occasione di presentazioni
di libri, letture poetiche ed altre manifestazioni culturali. Sanno che è stato
amico di molte figure importanti della poesia e della cultura scomparse, e che
tuttora di molte egli lo è. Non sanno invece, perché raramente o forse mai, lo
hanno sentito leggere versi in pubblico e tanto meno hanno visto un suo libro
in circolazione. Per me, Giampiero Neri e il folto gruppo che frequentava il
salotto letterario di Irene Stefenelli in via Marcora (piazza della Repubblica)
e altri luoghi della Milano dei libri (e non solo), non era un mistero la sua
attività di poeta e non lo era l’ottima qualità della sua poesia. Non lo era
nemmeno ad un poeta come Vittorio Sereni che di Paone è stato estimatore, e che
lo ha più volte incoraggiato a pubblicare i suoi versi e di smetterla di fare
il “postumo in vita”. E poiché Franco sapeva che io ero al corrente della sua
produzione poetica, ecco spiegata la dedica che il 5 dicembre scorso,
portandomi Invariazioni sul nero alla
Casa della Cultura dove stavamo occupandoci di un romanzo, ha voluto apporre
sul frontespizio. Un richiamo a quella lontana stagione e a quella remota eco
Sereniana. Postumo lo rimane ancora ad
abundantiam, se diamo retta al nutrito elenco di titoli riportati nella
quarta di copertina.
Veniamo ora alle date: 1953-2016. Questo è l’arco
di tempo in cui Paone ha raccolto l’intera produzione poetica, messa assieme in
ben 63 anni, praticamente una vita. Possiamo però immaginare quanti altri testi
non siano entrati in questa corposa pubblicazione (336 pagine), e quanti ne ha
scartati o dovuti sacrificare. Se teniamo conto che Franco è del 1935, si
capisce come il suo rapporto con la poesia sia cominciato in un’età
giovanissima e non si è più interrotto. Dunque Franco ha concepito la sua vita
come inseparabile dal fare poetico e dalla sua espressività.
L’edizione. In perfetta coerenza con le sue
vedute e le sue convinzioni critiche verso l’industria editoriale e
l’inflazionato mondo della poesia, Franco ha aspettato di giungere alla veneranda
età di 81 anni per decidersi di dare alle stampe la sua produzione poetica.
Probabilmente ha sentito l’esigenza di essere lui stesso a scegliere, sistemare
e dare ordine ai testi, per evitare che “dopo”, da “postumo”, la scelta fosse
arbitraria e non conforme alle sue vedute; ma ancor più perché ha voluto essere
lui stesso factotum della sua opera: autore, sistematore, curatore, annotatore,
editore in proprio, esegeta. Si vedano le tre note poste in apertura del libro,
le spiegazioni che dà a Giuseppe Jacona sul collage di aggettivi posti a
sottotitolo del corpus: sinfonico, tattico, ortopedico, lunare, e la nota
conclusiva della penultima pagina sul perché di quel Parenti Neri Editori messo
in copertina. Personalmente non so se è mai esistito un Franco Parenti Editore
come sostiene Paone; per certo è esistito e ancora opera un Neri Pozza editore,
e che il Neri Parenti regista è molto noto ai cinefili. Ad ogni modo, qualunque
siano le motivazioni, quello che è chiaro a noi pochi possessori del volume di
cui Franco ha voluto farci dono, è che egli non ha tollerato che altri, se non
lui, su questa pubblicazione mettessero le mani. Ha gestito tutto in proprio,
tiratura compresa, ha messo ciò che ha voluto in copertina e che più lo
rappresentasse (la foto del Porto Antigo dell’Isola di Sal di Capoverde), ha
rifiutato che il libro avesse un prezzo, e soprattutto assicurarsi che vada nelle mani giuste, quelle mani in
cui il libro possa trovarsi bene e a proprio agio.
La materia. Trattandosi di oltre 260 componimenti
e considerato i sei decenni che attraversa, si capirà facilmente come il libro
rifletta su un ventaglio di temi fra i più vari. Ma quel che qui più conta, è
il modo come i temi vengono affrontati; come il verso “piega” la materia alle
sue esigenze; come questa si debba “adattare” al lessico, allo strumento del
poeta, alla sua fucina, e come da questa forgiatura il verso ne esca arricchito
e spiazzante. Tutto questo è possibile perché Paone ha affinato un orecchio
oltremodo sensibile, sempre vigile a tenere a bada la zavorra e di alleggerire
il suo “carico”, ed in particolare a servirsi di due antidoti magnifici che
padroneggia a meraviglia: l’ironia e il cinismo. Queste due risorse così ben
impiegate, fanno dei versi di Paone una mistura godibile che non lascia scampo
ad alcun ottimismo consolatorio.
Qualche esempio.
l’amore la pace
per colomba che ne voli
prestato sempre
nudo alla porta
- ieri bimbi m’han
donato
una conchiglia
dentro millanta a eco il
mare
e vaste lande lontane…
così la misura di tutto
è nell’acqua –
della colomba
ala e verso massacrati
*
a una ragazza
che di cognome
si chiama Guerra
- due punti-
i tuoi seni sono il
suono lontano
delle sole bombe che amo
*
ricetta:
schiarire con lucido per
scarpe incolore
di marca inglese
la pelata del
Ciriaco-Bettino
per il passato
i fratelli Caltagirone
che furono e sono
di Caltagirone
e anche Giulio che è
dello stesso luogo
e di tanti altri posti
a macchia d’olio
per contorno
una smaneggiata di
chiappe
alla nipotina
EDITORI
di Angelo Gaccione
La copertina del libro di Silvio Raffo |
Buona notizia quella della nascita delle Edizioni
New Press di Cermenate (Como), un’editrice che ha deciso di rivolgere la sua
attenzione esclusivamente alla poesia. Direttore della Collana battezzata Il
Cappellaio Matto, è il critico letterario e poeta egli stesso, Vincenzo
Guarracino. Guarracino ne è l’anima e sta procedendo con la relativa necessaria
cautela che l’impresa richiede, considerato quanto il settore sia inflazionato
e superaffollato. Poiché Vincenzo ha messo in gioco il proprio nome, è naturale
che voglia fare della sua creatura una cosa degna e di qualità; che il catalogo
acquisti il necessario prestigio e si imponga all’attenzione dei cultori e
delle intelligenze più esigenti. Alberto Mari e Silvio Raffo sono i primi due
poeti pubblicati e sul cui valore e il robusto cursus poetarum non si discute.
Pregevole nella semplicità della grafica, tuttavia a mio parere l’edizione
dovrebbe risolvere alcuni aspetti fondamentali per una Collana elitaria come la
poesia: quella della copertina eccessivamente delicata nel suo biancore e che
si sporca con estrema facilità, quello del prezzo di copertina troppo alto (18
euro per un libretto di appena 60 pagine sono un vero salasso) che rischia di
penalizzare un mercato già di per sé asfittico. Se mi posso permettere qualche
suggerimento (da cultore di libri e da addetto ai lavori), considerato che gli
editori sono anche diretti proprietari, oltre che esperti stampatori, inserirei
le alette di copertina per rendere più accattivante l’edizione (una preziosità
utile), e soprattutto l’uso della rilegatura in filorefe per salvaguardare il
libro nel tempo. Questa buona, antica pratica, sta diventando sempre più
marginale e i libri finiscono per sfarinarsi fra le mani. I cultori di libri sanno
che questi elementi rivestono grande importanza, per un oggetto così
particolare, e che certamente non può considerarsi una merce qualsiasi.
Il poeta Silvio Raffo |
[Riportiamo uno dei magici testi poetici della raccolta di Silvio Raffo
Veglia d’autunno, pubblicata
dalla New Press Edizioni, 2016]
SILVIO RAFFO
(Kind
will be Death)
Con
noi sarà gentile. Noi l’abbiamo
esaltata
in bei versi tante volte
fingendo
di ascoltare il suo richiamo
dalle
torre a ogni cambio delle scolte.
Più
lieve di un respiro all’ascoltarsi
sarà
il suo passo. Tacita catarsi
di
frenetiche corse, e ridondanti
passioni
folli ed insignificanti
*
(sweet
winter)
Ci
attende un dolce inverno che ogni male
dissolverà
nel gelo dei tramonti –
per
letto avremo lividi orizzonti
e
la neve sarà nostro guanciale
***
SCRITTORI
di Angelo Gaccione
La copertina del volumetto |
Encomiabile quanto prezioso, questo progetto
letterario di Federico Migliorati, di ricomporre dei ritratti intimi e più
privati di scrittori, in agili volumetti in cui oltre alla parola, una decisiva
importanza rivestono le immagini. Il tutto attraverso una serie di colloqui
diretti con gli autori, per i viventi, e attraverso conversazioni con i parenti
più prossimi e con sodali e amici che li hanno frequentati, per gli autori
scomparsi. Aneddoti, foto, documenti inediti, lettere, stralci di manoscritti,
immagini di parti di città legate all’opera dell’autore preso in esame, la
facciata della casa dove ha vissuto, la tomba e quant’altro può rientrare nell’interesse
prima di tutto del ricercatore, e quindi del lettore. A supportare questa
esplorazione di Migliorati, c’è la Fondazione Zanetto di Montichiari (Brescia)
che ha dato di recente alle stampe un delizioso tascabile dedicato a Bassani e
alla sua Ferrara, con una conversazione con la figlia Paola dal titolo Giorgio Bassani: nel giardino della cultura.
Si tratta di un librino di 40 pagine che gli estimatori di Bassani sicuramente
apprezzeranno.
Per richieste: Fondazione
Zanetto
Via XXV Aprile n.30
25018 Montichiari
(Brescia)
Tel. 030-2121040
Cell. 366- 4311080
Email:
graphiclin@libero.it
***
FERRARA DELLE DELIZIE
di Angelo Gaccione
Boiardo, Ariosto, Tasso, Bassani,
Frescobaldi, Antonioni, Florestano Vancini, Foà, Pazzi, De Pisis, Boldini,
Savonarola, Previati, Dossi, Cosmè Tura, Francesco Barbieri detto il Guercino,
Achille Funi, Biagio Rosetti, Dossi, Sebastiano Filippi detto il Bastianino… e potrei continuare questo elenco ancora per
diversi righi. Fra quelli che vi sono nati e quelli che vi hanno lavorato e
vissuto, Ferrara vanta un florilegio di nomi straordinari che hanno eccelso in
ogni campo. Se può bastarvene uno vi citerò Copernico che vi insegnò diritto
canonico, come ricorda la lapide affissa sul palazzo Arcivescovile di corso
Martiri della Libertà, che quasi tocca il fianco della Cattedrale e che dà il
nome alla piazza. Vi sono luoghi in cui si va e si ritorna come in
pellegrinaggio, tanto sono carichi di simboli, di archetipi e di miti che hanno
alimentato ogni fibra della nostra immaginazione. Si sono sedimentati nella
nostra memoria come visioni incancellabili e ci è doloroso il solo pensiero che
potrebbero più non esistere. Sono stato in dubbio a lungo se scrivere o meno
questa nota: Ferrara è come Venezia, è stato detto tutto. E mentre l’incuria e
il terremoto di questi mesi e di queste ore, stanno cancellando vite umane e
pezzi straordinari del nostro patrimonio artistico e culturale, un nodo mi
serra la gola: e con la più impotente e sconsolata coscienza mi rendo conto di
quanto tutta questa preziosa bellezza sia fragile, vulnerabile, effimera. Di
quanto le istituzioni del mio Paese siano indifferenti ad essa, di quanto il
meglio di questa mia dolente patria sia a rischio di estinzione. Comprenderete dunque
con quale animo io possa raccontarvi le meraviglie di questa città dopo averla
esplorata con trepidazione da cima a fondo, e quale sia l’angoscia che mi
attanaglia per ogni sua possibile, irreparabile perdita.
Quanto sia rimasta
bella Ferrara lo si può vedere dalle sue mura. Per nostra fortuna ci sono
ancora delle città o dei piccoli borghi che le mura le hanno preservate: Lucca,
Montagnana, Palmanova, Sabbioneta, Bergamo alta, Monteriggioni, e tante altre
ancora che mi sono imposto di visitare prima di chiudere gli occhi, sperando
che il doppio terremoto (“morale e
geologico”), come ha ben sintetizzato in una telefonata il mio amico
pittore Filippo Gallipoli e che assedia la nostra bellissima, infausta Nazione,
ce ne lasci il tempo. Quasi 9 chilometri di mura la cingono e la contengono con
i loro baluardi a cuneo e i loro torrioni, ma quanto fosse stata ancora più suggestiva
lo attesta l’impianto antico riportato dalle carte, con i pontili a mattoni che
scavalcavano il Po. Cos’abbia fatto di magnifico l’architetto Biagio Rossetti
con la cosiddetta Addizione Erculea è visibile a ogni occhio che sa guardare. E
fortunatamente la città ha saputo mantenere la sua intelligente misura e ciò
che svetta verso l’alto sono solo le torri e i campanili. Persino le
architetture della fascistissima Ferrara sono state rispettose e conservano una
loro severa eleganza e nobiltà. Naturalmente a sedurre un impenitente appassionato
come me, è la Ferrara dei vicoli medievali, quella stupenda di via delle Volte,
quella dei magnifici portici che scorrono sui due lati di via san Romano, la
rettangolare piazza Trento e Trieste, un tempo più appropriatamente piazza
delle Erbe, con la bella Cattedrale di san Giorgio nel cui catino absidale
squillano i colori di un “Giudizio
Universale” affrescato dal Bastianino, la Loggia dei Merciai e la Torre
dell’Orologio, le vie del ghetto ebraico: via Mazzini, Vignatagliata, Torcicoda, via Vittoria… ed è
davvero un peccato che gli originali nomi spesso siano stati cambiati in
omaggio agli eventi della storia successiva. Il cuore comprende il celeberrimo
Castello Estense da cui non si può prescindere, e lungo il cosiddetto Muretto
dovete obbligatoriamente sostare, perché seppure non abbiate letto Bassani, una
lapide vi ricorderà gli undici martiri innocenti trucidati per rappresaglia dai
fascisti nel novembre del 1943. Il palazzo del Comune con il monumento equestre
di Borso d’Este, e più avanti una piazzuola armoniosa dove si erge un’altra
statua, quella con il volto corrucciato di un altro cittadino illustre, il
monaco Savonarola, che morirà arso vivo sul rogo.
Tutto questo “cuore” è
affollato di edifici di grande fascino, ed io ho potuto godermelo alloggiando
in via dei Prati a pochi metri dal Castello, e mi sentivo bene perché quasi di
fronte, in via Lollio, c’è la casa della mia carissima amica Erminia Scaglioni,
e abbiamo scarpinato fino ad avere male ai piedi, e con un tempo che non ha
risparmiato di infierire. In un passato più lontano avevo tenuto una
dissertazione pacifista nella bella casa del prof. Masini il cui terrazzo si
affacciava proprio sul Castello, e quella sera avevo ricevuto l’onore della
preparazione di una ricetta medievale: un dolce, se la memoria non mi tradisce.
Lungo il corso Ercole d’Este fino al Quadrivio degli Angeli si trovano tre
capolavori del rinascimento: il Palazzo dei Diamanti, il Palazzo Turchi di
Bagno e il Palazzo Prosperi-Sacrati, nati dall’intelligenza architettonica di
Biagio Rossetti. Non sovrastano, non opprimono e questo è un pregio in più. C’è
anche un enorme Palazzo Bevilacqua-Rossetti-Pallavicini lì attorno, dai nomi
delle tante famiglie che lo hanno abitato e posseduto; ha una strana forma a
ferro di cavallo e i suoi mattoni rossi si fanno notare. Cinquecentesco
anch’esso non regge però il confronto con un altro Palazzo
Bevilacqua-Costabili, situato in via Voltapaletto dalla facciata ricca di
decorazioni e oggi sede universitaria; sull’arco del portone due statue
sdraiate raffigurano la Concordia e la Verità, e tanto ce ne sarebbero davvero
bisogno ai tempi nostri.
Anche piazza Torquato Tasso era a due passi dalla mia
residenza e la Chiesa del Gesù è stata una vera sorpresa: vi ho trovato un “Compianto su Cristo morto” che è un
dolente gruppo di otto statue policrome di terracotta, realizzate ad altezza
d’uomo e attribuito a Guido Mazzoni. Le figure sono disposte attorno al corpo
di Cristo disteso, con la Madonna al centro, addolorata e con le braccia aperte
a mostrare tutto il suo sgomento. L’intero gruppo, composto da Nicodemo,
Maddalena, Salomè, Giovanni, Giuseppe di Arimatea e Maria di Cleofa, partecipa
al dolore e si dispera. La disposizione scenografica e i gesti hanno una presa
emozionale fortissima, ed il realismo è tale che pare davvero di assistere ad
una scena funebre concreta davanti a noi.
La piazza Ariostea meriterebbe di
essere vista dall’alto per cogliere nella sua interezza la forma ovale che
Biagio Rossetti gli ha conferito. È vasta e oltremodo suggestiva, ma pioveva e faceva
freddo e, come ho detto, va goduta con una migliore atmosfera. Vagando da
traversa in traversa, da angolo ad angolo, da cantone a cantone, mi sono messo
sulle tracce della casa di Frescobaldi che è puntualmente comparsa nella via
che porta il suo nome, e poi il Conservatorio che gli è stato dedicato. E, mito
dopo mito, non potevo non approdare in via Cisterna del Follo al numero uno:
qui una lapide ricorda la casa dove lo scrittore Giorgio Bassani ha trascorso
la sua infanzia. Come sappiamo Bassani era nato a Bologna, ma i suoi genitori
erano ferraresi; a Ferrara ha dedicato romanzi, racconti, poesie e per un
periodo vi ha anche insegnato. Ha voluto esservi seppellito, e riposa nel
cimitero ebraico di via delle Vigne. Per mancanza di tempo non sono riuscito a
visitarlo e dunque è un appuntamento solo rimandato.
Ho percorso però Corso
della Giovecca fino alla Punta della Giovecca, fino a piazza Medaglie d’Oro,
visitando tutto ciò che ho potuto. Mi sono infilato dentro chiese e chiostri,
in cortili e in palazzi; ho scoperto angoli magici di cui non ricordo più il
nome perché i miei appunti si sono bagnati con la pioggia, ed ora la memoria mi
tradisce. Ma ho scoperto che gli Ardighieri erano gli antenati di Dante, che la
cioccolateria Rizzati è bella, ma troppo cara per i miei gusti; che la ciupèta, il pane ferrarese a bastoncini
attorcigliati che ricorda una rudimentale bambola per bambini, si vende anche
nel mio quartiere in Porta Romana a Milano; che il Teatro Comunale della città
ora dedicato a Claudio Abbado che per un certo tempo lo diresse, ha un
vestibolo dalla forma circolare denominata Rotonda Antonio Foschini. Realizzato
tra il 1773 e il 1797 da Foschini e da Cosimo Morelli, il teatro si trova a due
passi dal Castello, in via Martiri della Liberta, sotto i portici. La sua splendida
Rotonda che si innalza verso il cielo
è come un occhio spalancato, ed è stato un appuntamento quotidiano per levare
lo sguardo verso l’alto e fotografare dentro quel cerchio, le nubi minacciose e
gravide di pioggia, o catturare gli sprazzi di azzurro che si aprivano.
In via
Ariosto n. 67 c’è la casa del poeta e non me la sono persa. È in quella parte di città chiamata
Arianuova e che il Rossetti riordinò con la cosiddetta “Addizione” voluta da
Ercole d’Este. È una casa solida a mattoni, sobria e formata da un piano terra e un piano
nobile. Non è sfarzosa, ma ha il privilegio di avere un giardino interno, e già
mi immagino il poeta nella quiete più riposante e nel silenzio più denso,
lontano dagli affanni diplomatici e dallo stridore delle armi, seduto ad un
tavolo, a limare il suo celebre capolavoro “L’Orlando
Furioso”. Vi ha fatto incidere una
scritta in latino che corre lungo la fascia che divide il piano terra dal primo
che così recita: “Parva, sed apta mihi,
sed nulli obnoxia, sed non sordida, parta meo, sed tamen aere domus”.
Tradotta vuol dire che l’ha comprata solo col suo denaro, non deve nulla a
nessuno e non è gravata da canoni. In più è pulita, decorosa, adatta alla sua
persona e dunque ha quanto basta per vivervi bene. Purtroppo la godrà per soli
4 anni: vi era andato a vivere con il figlio alla fine di settembre del 1529,
ma il 6 luglio del 1533, all’età di appena 58 anni, Ludovico Ariosto si
spegnerà.
Tra le tante cose preziose presenti nella casa-museo, un libro con le
firme di visitatori illustri di ogni dove. Seppure meno illustre, ho lasciato
anche la mia.
***
FRÉDÉRICK HAAS UN VIRTUOSO DEL CLAVICEMBALO
di Angelo Gaccione
Frédérick Hass |
Davvero magnifico il
pomeriggio che ieri il clavicembalista francese Frédérick Haas ha regalato a
noi appassionati di questo dolcissimo e delicato strumento, oltre che di musica
barocca, in una delle Sale del Museo degli Strumenti Musicali del Castello
Sforzesco di Milano. Il programma prevedeva un percorso attraverso il nostro
Domenico Scarlatti, il parigino François Couperin e lo
spagnolo Antonio Soler, conosciuto anche come Padre Soler. Tre grandi del
clavicembalo e non solo, compresi sotto un preciso “paragrafo” musicale: “I coloristi
del clavicembalo”. Per questa occasione Haas (il cognome tradisce
un’origine austriaca-tedesca, anche se in realtà il musicista è nato in
Francia, in Bretagna, ma ha studiato sia in Olanda che in Belgio) ha suonato
sul clavicembalo Pascal Taskin, strumento del 1788 e che il Museo musicale del
Castello vanta assieme ad una vasta e ragguardevole collezione. Il programma
proposto dal maestro ha messo in luce le tonalità sonore, timbriche, “coloristiche”
dei tre compositori, ma ci ha rivelato altresì il suo virtuosismo esecutivo ed
interpretativo che ci ha deliziati e incantati per la sua bravura.
Personalmente mi sono stupito per le numerose assonanze armoniche presenti sia
in Scarlatti che in Couperin: è davvero sorprendente scoprire quanta italianità
c’è in questi due autori, anzi di quanta napoletanetà. Ci sono dei passaggi che
rimandano a sonorità proprie della cantabilità napoletana, del ballo alla
napoletana. Anche se in Couperin in maniera più romanticamente nostalgica,
rispetto al temperamento musicalmente più estroverso e focoso di Scarlatti.
Buona l’idea di inserire nel programma il “Fandango” di Soler, da cui abbiamo
potuto gustare i ritmi ed il “colore” da danza spagnola, con suoi passaggi che
evocano qua e là quello che molto più tardi diventerà il tango.
Pomeriggio
magnifico, dicevo. Se posso permettermi un appunto, direi che l’eccessiva
vastità della Sala non era adeguata alle potenzialità sonore di uno strumento
che per sua natura necessita di un ambiente più intimo, più raccolto e meno
dispersivo.
[Pubblicato sulla
prima Pagina di “Odissea” in Rete venerdì 21 ottobre 2016]
www.libertariam.blogspot.it
***
MILANO PIAZZA DEL DUOMO
I
FUNERALI LAICI DEL “GIULLARE”
di Angelo Gaccione
“E sempre allegri dobbiamo stare
ché il nostro
piangere fa male al Re,
fa male al Re e al
Cardinale
diventan tristi se
noi piangiam…”
Ha avuto i funerali
laici che aveva predisposto e che di sicuro si era immaginato. Forse non aveva
previsto solo che la sua bara sarebbe stata esposta sul sagrato della
Cattedrale, lui dichiaratamente ateo, di quella piazza dove aveva più volte
parlato. Un funerale pubblico com’era doveroso, perché non c’è stato in questi
ultimi sessant’anni, personaggio più pubblico di Dario Fo. Si può dire, senza
tema di essere smentiti, che la sua vita sia appartenuta quasi interamente allo
spazio pubblico, a quanto dentro lo spazio pubblico si muoveva e si determinava.
Dunque è stato giusto che la sua morte fosse quanto di più pubblico possibile.
Nessuna parola alle autorità, che pure erano presenti: la coerenza prima di
tutto e fino in fondo. Ma la musica quella sì, lui l’avrebbe voluta, la musica
allegra, scanzonata, da circo, da teatro popolare, quella che anche lui spesso
usava nei suoi spettacoli, quella surreale, ironica, canzonatoria,
apparentemente illogica, e a cui prestava le sue parole, perché di parole messe
in musica ne ha scritte tante. E il canto: quello di dolore e di rivolta, e li
ha avuti tutti e due. Alla “Banda degli ottoni a scoppio” con i loro strumenti
a fiato che alle manifestazioni milanesi non mancano mai, anche loro un po’ surreali,
un po’ clown e un po’ lunari, abbiamo unito le nostre voci e i nostri canti
allegri, irriverenti, politici. Gli abbiamo dato l’ultimo saluto come da noi si
aspettava, e la pioggia che ci ha flagellati per tutto il tempo della
cerimonia, nulla ha potuto contro la nostra caparbia volontà di stringerci
attorno alle sue spoglie. Una fetta significativa della Milano antifascista e
non moderata, era in quella piazza. Non ho visto bandiere rosse, ne ho visto un
paio rosse e nere degli anarchici, e non c’erano striscioni, se non quello dei
giovani del “Cantiere” e quello dei “Compagni del Movimento”. Ma dei giovani
hanno distribuito un volantino con questa sua frase: “Il moderato chiude un occhio sulle speculazioni edilizie” e sotto
un hashtag con la firma “Io non sono
moderato”. I milanesi sanno quanta speculazione edilizia c’è stata in questa
città, e quanto suolo si sono divorati le grandi lobbies del cemento per
convertirlo in capitali. Noi non l’abbiamo dimenticato, noi continueremo ad
essere “non moderati”. Come lui.
[Pubblicato sulla prima pagina di
“Odissea” in Rete sabato 15 ottobre 2016]
www.libertariam.blogspot.it
È MORTO DARIO FO
Scompare una delle ultime voci libere e
scomode
della cultura italiana ed internazionale
di Angelo Gaccione
Dario Fo |
Milano. Il premio Nobel ci ha lasciati.
La notizia ci è arrivata presto in questa piovosa e gelida mattina di ottobre,
rendendo la città ancora più gelida. Milano perde un altro dei suoi grandi
figli e protagonisti, mentre la nostra agenda vede allungarsi la lista dei
morti. Da dove cominciare per ricordare questo pluriforme artista sempre in
conflitto con i poteri di ogni sorta, questo militante sempre pronto a sposare
le cause più disperate? Potrei cominciare dagli anni della Palazzina Liberty,
quando avendogli negato ogni spazio per il suo teatro politico (i proprietari
di case rifiutavano persino di fittargliene una, per paura di attentati, e
perché certi che le avrebbe trasformate in un “covo” di sovversivi), dopo aver
peregrinato da un luogo all’altro (e noi sempre dietro a seguirlo), si decise
di occupare quella bellissima struttura immersa nel verde dei Giardini Marinai
d’Italia, in Porta Vittoria, che l’Amministrazione Comunale di allora aveva
lasciato languire e andare quasi in rovina. Mettemmo le bandiere rosse, i
cartelli, i volantini con cui tappezzammo il quartiere e iniziammo a portar via
le macerie. Eravamo giovani studenti, lavoratori, appassionati di teatro per lo
più, antifascisti e militanti di quel vasto arcipelago dell’opposizione alla
disgustosa politica di compromessi e di corruzioni tanto in voga. La Palazzina
Liberty rinacque. Il Collettivo Teatrale “La Comune” divenne un luogo di
riferimento per la città e non solo. Mamme e bambini presero a frequentare il
parco, i fascisti che avevano la sede in via Mancini si tenevano alla larga. La
domenica si animava di canti e suoni; c’erano quelli del Canzoniere popolare, c’era
la solidarietà con i militanti in galera e c’era il Soccorso Rosso militante.
Sulle tavole di quel teatro, perché teatro divenne, con Dario e Franca, la sua
inseparabile metà, il teatro divenne vita, e la vita vi entrò con tutte le sue
spietate contraddizioni. Dario l’aveva adornata di pannelli con i suoi
magnifici disegni e dipinti. Quanto la repressione e le autorità detestassero
quel teatro e quella Palazzina, chi vi era attivamente coinvolto ne sa
qualcosa. Alla fine finirono per riprendersela: preferirono tenerla vuota per
altro tempo ancora, inutilizzata ma a loro modo “pacificata”. Il contenzioso
con la giustizia si protrasse un bel po’: occupare un luogo in rovina, renderlo
bellissimo con le proprie risorse e le proprie fatiche non contava per i
normalizzatori della città. Se per noi la proprietà (lasciata al degrado) era
un doppio furto, per loro era un reato. E così uno dei più grandi attori della
scena internazionale, amatissimo in ogni dove, non aveva a Milano un luogo dove
fare il suo teatro. Avversato come gli amici del Living Theatre, anch’essi
ignorati e ostacolati in ogni modo dalla Milano istituzionale, costretti a
presentare le loro performance in luoghi marginali e di fortuna, finché il
presidente francese Mitterand non manderà un aereo a prelevarli e portarseli a
Parigi. Potrei continuare con la marea di dibattiti e le mobilitazioni per le
stragi, per la battaglia sul divorzio, il movimento delle donne, il Vietnam…
fino agli anni più recenti e alle iniziative per rendere questa città più
vivibile, più respirabile. Aprì la sua casa in Corso di Porta Romana (a qualche
metro da casa mia) e costituimmo un Coordinamento di comitati ambientalisti che
organizzò manifestazioni e proteste. Noi di “Odissea” eravamo presenti con un
gruppo denominato “Aria Protetta”, che poi era il nome di una delle rubriche
del giornale. Ci vedevamo da Fo, ma ci vedevamo anche a casa della poetessa
Donatella Bisutti (anche lei collaboratrice di “Odissea”) in via Anelli, dove
venivano le scrittrici Gina Lagorio, Grazia
Livi e tanti altri amici letterati e non solo. Lettore di “Odissea” che
riceveva in copia doppia, una era per Franca di cui abbiamo pubblicato diversi
scritti, fu sempre generoso verso il giornale come lo furono entrambi verso di
me. Nel 2001 realizzò il disegno che avrebbe dovuto andare sulla copertina
della terza edizione del mio dramma teatrale “La Porta del Sangue”, ma che poi non andò in porto per questioni
editoriali che ora non ricordo, e quando fu raccolto in un unico volume tutto
il mio teatro da un altro editore, questi volle come titolo complessivo “Ostaggi a teatro”, e dunque il lavoro di
Dario rimase inedito. Anni più tardi donò dei suoi lavori pittorici quando
allestimmo allo “Spazio Lattuada” la vendita di materiali offertici da vari amici
per sostenere la vita del giornale. Mi convocò nel suo studio per donarmi “Il compianto” da pubblicare su “Odissea”
accanto al ricordo che scrissi per la scomparsa di un altro collaboratore del
giornale e comune amico, il sacerdote don Luigi Pozzoli, scomparso a fine
dicembre del 2011. “Pubblicalo sul giornale e poi tienilo come mio ricordo” mi
disse. E ora è sulla parete del soggiorno assieme ai quadri di altri amici, e
dunque ce l’ho sotto gli occhi, ed il ricordo suo è costante. Nel 2013, in
occasione della pubblicazione della mia fiaba contro il potere “Vietato ridere”, gli avevo chiesto di
farne l’illustrazione, sapendo quando il tema gli fosse caro. Franca mi
telefonò per dirmi che era caduto e non avrebbe potuto disegnare, ma avendo
saputo che la fiaba sarebbe stata pubblicata su “A Rivista Anarchica”, avendo
una stima grande per gli anarchici e per quella rivista, ci fece dono di una
tavola inedita intitolata “Il volo
dell’anarchico”. Quel disegno diventò la copertina del numero 377 della
rivista, il numero del febbraio 2013 che contiene la mia fiaba. Non
dimentichiamoci che uno degli spettacoli più ironici e taglienti di Fo era
stato proprio “Morte accidentale di un
anarchico” dedicato all’omicidio di Pinelli e alla Strage di Piazza
Fontana. Recentemente gli avevo fatto avere il dramma di Francesco Piscitello
dedicato a Giuda “L’apostolo traditore”
pubblicato dalle Edizioni Nuove Scritture, materia, quella dei Vangeli a cui
era particolarmente interessato. Non sono riuscito a portargli invece un libretto
di riflessioni e aforismi che avrebbe di sicuro gradito “Il lato estremo”, incasinato come sono stato per tutta l’estate, e
coinvolto con gli amici nel “Comitato di Odissea per Turoldo”, di cui ricorre
il centenario della nascita. Ogni volta che imboccavo il Corso di Porta Romana
e passavo davanti al suo portone mi dicevo: “Uno di questi giorni lo farò”, e
poi rimandavo. Il destino purtroppo non rispetta i nostri tempi, e così questa
mattina la notizia mi è giunta di buonora, proprio mentre stavo finendo di
scrivere una nota al libro di Franco Celenza per la rubrica ‘Officina’ di
“Odissea” dove potete leggerla. Le telefonate di amici che avevano saputo della
morte si sono susseguite e ho dovuto di continuo interrompere questo ricordo; l’ultimo
mi è giunto per iscritto da Novara, dalla saggista e autrice di teatro Chiara
Pasetti che ne fissa questo ricordo: “Ho
saputo della morte di Dario Fo. Ho avuto solo una volta il piacere di vedere un
suo spettacolo a Milano, nel 1995. Applausi a non finire. Due anni fa, mentre
mi trovavo ad Arona per intervistare Dacia Maraini, a un certo punto è
arrivato... Si sono alzati tutti in piedi. Io gli ho stretto la mano,
emozionata, e gli ho detto: sono onorata di conoscerLa, Maestro, e ho aggiunto:
sono qui come giornalista ma io in realtà voglio scrivere, anche per il teatro.
E lui ha sorriso e ha detto:
"Fai bene bambina... insieme a quello dell'attore è il mestiere più bello
del mondo". E se ne è andato
circondato da un sacco di gente... Volevo solo condividere questo ricordo con te”.
Anche tutti noi.
[Pubblicato sulla prima
pagina di “Odissea” in Rete giovedì
13 ottobre 2016]
e nella rubrica “I
Taccuini di Gaccione”
www.libertariam.blogspot.it
***
SENIGALLIA LA BELLA
di Angelo Gaccione
Piazza del Duomo |
Penso che basterebbero tre o quattro dei
suoi capolavori per rendere obbligatorio un viaggio a Senigallia.
Il
magnifico Foro Annonario con il suo andamento circolare e la fila di colonne
che sorreggono le volte dei portici, la Rocca dei Della Rovere in piazza del
Duca, l’armoniosa e ampia piazza Garibaldi (così l’hanno ribattezzata), ma per
me continua ad essere piazza del Duomo, perché un Duomo c’è davvero, sobrio,
neoclassico e senza fronzoli. Ma oltre al Duomo c’è dell’altro: il Palazzo
delle Dogane, il Palazzo Vescovile con la sua Pinacoteca Diocesana,
l’Auditorium (a suo tempo chiesa dedicata a san Rocco), il Ginnasio Pio e la
Filanda, nota anche come Palazzo Micciarelli, il tutto a comporre un rettangolo
vasto e ben delimitato che è una vera felicità per lo sguardo, e dove, come in tutte le meravigliose piazze italiane, è estremamente piacevole sostare. Se poi
vi spingete verso il mare (Senigallia è una città d’acqua bagnata dal mare e
attraversata da un fiume, il Misa), una gradevolissima sorpresa si presenterà
ai vostri occhi: tra il Lungomare Marconi e il Lungomare Dante Alighieri, lì
dove si allarga il Piazzale della Libertà, una originalissima Rotonda di un
bianco sfolgorante, si protende nel mare per diversi metri, sorretta da un
lungo pontile ed è come un balcone aperto verso l’orizzonte, verso l’infinito.
Questo scrigno, semplice ed legante, si deve alla genialità dell’architetto
Enrico Cardelli, che la concepì nel 1933 in una visione sobriamente
razionalista.
Veduta aerea del centro di Senigallia |
Ma a Senigallia c’è molto di più e lo scoprirete sciamando fra le
sue viuzze, attraversando i suoi ponti, i suoi portici, le sue piazze.
Improvvisamente potete trovarvi davanti alla sfarzosa sfavillante Chiesa della
Croce, al Palazzo Mastai (la famiglia di quello che salì al soglio pontificio
col nome di Pio IX), al palazzo del Governo, alla Fontana del Nettuno e a
quella delle Anatre, ai portici Ercolani o alla Porta Lambertina. Questa
città ha anche il volto di amicizie che
mi sono care, come quello di Laura Margherita Volante; lei vive ad Ancona, ma a
Senigallia abbiamo condiviso delle allegre e spensierate giornate.
Collaboratrice da anni del nostro giornale, Volante è una delle più abili
scrittrici di aforismi italiane: per costanza verso questa forma espressiva,
ironia e profondità, è tra le migliori in assoluto. A lei devo anche l’amicizia
col grande fotoreporter di guerra (e non solo) Giorgio Pegoli, che ha il suo
laboratorio subito dopo il Ponte 2 Giugno, il ponte che scavalca fiume Misa. Si
tratta di via Carducci, l’animata via che si allunga fino alla bella Porta
Lambertina. Di Pegoli “Odissea” ha pubblicato alcune delle sue foto più
drammatiche e dolorose, scattate in mezzo mondo nei teatri della devastazione
bellica e della morte. Pegoli è uno dei figli più prestigiosi di questa città;
ha realizzato reportage in ogni dove: dal Vietnam al Ciad, dal Nicaragua al
Libano, dalla Cambogia all’Afghanistan, dalla Bosnia al Kosovo…
Iraq 2014 (Foto: Giorgio Pegoli) |
Il suo archivio è enorme (oltre 50 mila immagini dai
tanti reportage realizzati per il mondo; più di 1.600 negativi in bianco e nero
sulla Senigallia di una volta, ecc.) e i suoi scatti sono insieme vita e arte,
come dimostrano i magnifici servizi realizzati a Scanno, a Venezia durante il
carnevale, in Puglia, o nei vari Sud del mondo, per documentare un universo in
pericolo, tradizioni, usi e costumi che potrebbe scomparire. Come è scomparso
quel mondo di fascino e di fatica marinaro, a cui Pegoli ha di recente dedicato
un corposo e documentatissimo volume dal titolo “La sciabica”. Si tratta di una tradizionale forma di pesca che a
Senigallia e dintorni è stata per lungo tempo praticata. A questa attività e ai suoi protagonisti,
alla sua Senigallia, Pegoli ha voluto rendere omaggio con i suoi scatti. Il suo
obiettivo segue con partecipazione umana i vari momenti della pesca, ne fissa i
gesti, le movenze i volti, che il bianco e nero rende ancora più vivi di quanto
appaiono.
La Rocca del Duca |
Fossi l’assessore alla cultura di quella città, non esiterei a
dedicargli una sezione intera del Museo d’Arte Moderna, dove tra l’altro si
conserva l’archivio di un altro celebre fotografo senigallese, Mario
Giacomelli, tanto più che il Museo contempla già gli ambiti della fotografia e
dell’informazione. Purtroppo questa estate ho mancato l’appuntamento col Museo;
lo avrei visitato volentieri per dare un’occhiata anche ai materiali che il
gruppo “Digit Art” di Milano, di cui ha fatto parte un altro amico e
collaboratore di “Odissea”, l’artista digitale e pittore Giuseppe Denti, ha
donato anni fa. Si tratta di una consistente raccolta di Copy Art (1987) e di
diversi esemplari della rivista “Taccuino Apografo” del periodo 1981-1987. Sarà per
la prossima volta, sperando di trovare la città più pulita, soprattutto alle
spalle del Lungomare Alighieri, e soprattutto priva di quelle coperture di
amianto che ancora fanno bella mostra di sé, su alcuni stabilimenti balneari e
sulla tettoia di alcuni alberghi. Terra di marinai
e di artisti, Senigallia, ma anche terra di antifascisti, uomini liberi e di
martiri, come mostra, fra le tante, la lapide collocata sotto una delle volte
dei portici, in memoria dell’anarchico Ottorino Manni.
MILANO: BOOK CROSSING A PORTA ROMANA
di Angelo
Gaccione
Milano, Porta Romana, "La biblioteca più piccola del mondo |
Domenica scorsa,
percorrendo a piedi il corso di Porta Romana per tornare a casa, ci siamo
imbattuti in una piacevolissima sorpresa. Dico ci siamo imbattuti, perché ero
in compagnia di mia moglie, ed è lei che ha scattato la fotografia che questa
sorpresa documenta. Proprio all’inizio di via Orti (siamo a pochi metri
dall’arco di Porta Romana e dall’abitazione del premio Nobel Dario Fo), accanto
ad una piccola aiuola che conserva anche un prezioso melograno, è stata
installata una specie di “biblioteca” all’aperto. Si tratta di una semplice
struttura metallica dal formato di una scatola, di un metro o poco più,
sorretta da un sostegno di ferro anch’esso più o meno di questa misura, fissato
nel terreno. Uno sportellino a vetri ma senza alcuna chiave, in modo che possa
facilmente essere aperta e chiusa, protegge questo contenitore al cui interno,
su due scansie è sistemato un certo numero di libri. A idearla e posizionarla
in questo luogo, sono state due Associazioni molto attive nella zona e in città: Comitato CO4 e Quarto Paesaggio Milano.
Ho
trovato questa idea degli amici delle Associazioni davvero fantastica. Li
definisco amici anche se in realtà ignoro i loro nomi e i loro volti, ma io
credo davvero, com’ebbe a scrivere Proust, che esista una consanguineità delle menti, - e, aggiungerei io - delle passioni, e dunque come scrittore
non posso non sentire amici persone che
verso i libri nutrono, come me, tale riverenza e tale amore.
Ho
deciso di mettermi in contatto con loro dopo che questa riflessione sarà resa
pubblica sulla prima pagina di questo giornale, ma intanto lasciatemi dire
tutta la gioia che ho provato davanti a questa umile, preziosa edicola; a
questo gesto delicato, civile, altruista.
“Ecco
un angolo di Svezia a Milano”, mi sono detto, e la sera stessa ho voluto
condividere con l’amico filosofo Fulvio Papi questa scoperta. Ne è rimasto
felicemente sorpreso anche lui: una bella prova di civiltà di stampo nordico, a
cui noi latini non sembriamo più abituati.
Questa
che possiamo in assoluto definire come la più piccola biblioteca pubblica del
mondo, è nata con un unico scopo (anche se di scopi ne sottende diversi):
condividere e scambiare libri. Farli circolare liberamente, lasciando che essi
incrocino altre vite, quelle dei
lettori, e che dentro queste vite possano fecondare.
Chiunque
passerà di qui, potrà, se lo desidera, aprire questo piccolo “tabernacolo”,
scegliersi un libro e portarselo via, avendo cura, come recita la scritta lungo
il bordo, di lasciarne uno in cambio: per altre mani, per altre menti. Perché
la biblioteca resti piena, perché la catena non si interrompa. Perché questa
circolazione anonima, volontaria, orizzontale, è un dono di uno a tanti e di
tanti a uno.
Spero
che questa buona pratica possa sopravvivere, che nessuno rubi i libri e li
rispetti (sono creature troppo fragili), che il contenitore resti immune dal
vandalismo metropolitano, dalla rozza stupidità del bullismo che imbratta e
devasta senza riguardi. Spero soprattutto che anche il tempo sia clemente: ne
vorrei vedere il “tetto” coperto di neve questo inverno, e luccicante al primo
sole.
Forse
a qualcuno un libro allevierà un dolore, gli farà compagnia e si sentirà meno
solo, gli lascerà una cicatrice o lo farà indignare. Un buon libro può molto.
Ma
basta, sono in debito e devo affrettarmi, devo portarne uno anch’io.
[Settembre 2016]
***
ILLUSIONI
Molti artisti vivono con la fallace illusione che i
posteri, e le epoche future, siano sempre migliori di quelli contemporanei e
che dunque, la loro opera sarà valorizzata da questi presunti futuri geni della
sensibilità e dell’intelligenza. Per quale misteriosa ragione gli uomini futuri
dovrebbero possedere queste magnifiche virtù, non è dato sapere. A me pare che
ad ogni passaggio d’epoca stia avvenendo un irreparabile peggioramento, sia dei
comportamenti collettivi che della manipolazione delle coscienze, e dunque c’è
poco da essere ottimisti. A me basta l’aver conosciuto a fondo la mia epoca, per
non farmi alcuna illusione.
***
DESENZANO. IL TIGLIO E LA FOGLIA
di Angelo
Gaccione
Un tiglio del
lungolago di Desenzano mi ha regalato una foglia. Mi è caduta delicatamente in
grembo, ero seduto su una panchina sotto la sua ombra a mirare i volteggi dei
gabbiani. Era il 7 di agosto del Duemilasedici dell’Era post Volgare. Un’Era
decisamente post e molto, molto volgare, in verità.
Erano
le 15 e 20, come annotava la “cipolla”, e il cielo azzurro era spennellato qua
e là da strisce bianche dalle forme più curiose.
Il
lago cullava gli anatroccoli, la brezza muoveva le fronde e le chiome, i
barchini gonfiavano le vele. Lo sguardo inseguiva i monti lungo l’intero profilo,
e l’arco delle due penisole che si aprono per accogliere i traghetti. Virava,
lo sguardo, fino alle punte estreme di Sirmione e Manerba, da sponda a sponda.
È
di un giallo caldo la foglia. Rovesciata pare un cuore. La terrò dentro i fogli
del taccuino come si usava una volta. Foglia fra i fogli.
“Grazie”
io dissi al tiglio “per questo dono”.
Non
c’è quasi più nulla di gratuito a questo mondo.
[Desenzano,
7 agosto 2016]***
DESIDERI E MERCATO
di Angelo Gaccione
“Quanto meno bisogni avete,
tanto più sarete liberi”
Cesare Cantù
Che il mondo sia divenuto un
gigantesco mercato, è evidente anche dal modo come ci esprimiamo
linguisticamente. E che noi esseri umani siamo fondamentalmente importanti
perché rivestiamo il ruolo onnivoro di consumatori, è altrettanto scontato. I
consumi sono aumentati, si dice con soddisfazione; i consumi sono calati, si
dice con spavento; i consumi ristagnano e il mercato è fermo… Pare che tutto il
senso più profondo della nostra civiltà, ruoti intorno al concetto di mercato e
di consumo. Si dice che il desiderio crea il bisogno ed è il mercato che lo
soddisfa. La formula potrebbe essere rovesciata dicendo che è il mercato a
creare il desiderio, e che poi lo soddisfa come fosse un bisogno. In qualunque
modo si strutturi la formula, il risultato finale rimanere identico: il
consumo. Forse è una banalità dire che i bisogni nascono con la nascita
dell’uomo. Bisogni primari da soddisfare subito per evitare che la sua vita sia
messa in pericolo. Fame, sete, freddo, caldo, tutela della propria incolumità e
della propria salute. Con la nascita dei legami sociali e l’ampliarsi delle
relazioni parentali, i bisogni si dilatano ed acquistano nuove forme. Lo sviluppo
della produzione economica e la sua diversificazione procede passo passo con la
disponibilità delle risorse e della capacità tecnica di poterle trasformare. In
teoria la sfida fra desiderio e bisogno potrebbe procedere all’infinito, l’uno
alimentando l’altro e viceversa. Vista la stretta interdipendenza, il desiderio
può far nascere il bisogno e il bisogno può far crescere il desiderio, senza
soluzione di continuità, restando entrambi prigionieri di un circuito che non
ha termine. Considerato dal punto di vista della produzione delle merci, questo
rapporto può apparire ad alcuni esaltante, ad altri spaventoso. Nuovi desideri
generano nuove merci, e nuove merci generano nuovi desideri. Finora ha
funzionato così, e la produzione mondiale ha dato fondo a questa logica senza
mai fermarsi, né domandarsi quanto questo modello sia effettivamente utile al
bisogno di chi di quelle merci fruisce. Desideri artificialmente indotti creano
nuovi bisogni, nuovi bisogni creano nuovi mercati pronti ad accogliere quei desideri
divenuti bisogni e che prontamente la produzione soddisfa. Se c’è un mercato è
naturale che qualcuno lo occupi e lo soddisfi. Quando parliamo di mercato e di
soddisfazione di bisogni, è questa girandola vorticosa e inarrestabile che
dovremmo tenere presente. Forse i bisogni sono contenuti e i desideri
illimitati. Forse i bisogni veri di un uomo sono circoscritti alla tutela del
suo corpo fisico, così come dalla natura gli è dato, e non dovrebbe
oltrepassare quel limite. Di sicuro il punto dove ci stanno conducendo desideri
illimitati e bisogni non necessari, (spaventosa produzione di rifiuti,
saccheggio indiscriminato delle risorse primarie e prospettiva concreta di un
disastro ecologico definitivo, ecc.), è un punto di non ritorno, una terra
desolata.
[2015]
LA FOGLIA DI FICO
di Angelo Gaccione
C’è
dell’incredibile in quello che accade nel mio Paese a causa della testa bacata
di qualche funzionario. Si danno ordini per coprire delle sculture durante la
visita in Campidoglio del presidente iraniano Hassan Rouhani, presupponendo che
la vista di quei marmi avrebbero potuto turbarlo. È singolare come si ritengano
oscene e disturbanti delle semplici statue, ma non ci si vergogna della
corruzione e del malaffare che alberga nel Belpaese, universalmente considerato
fra i più corrotti del pianeta. Dovrebbe essere tutto il contrario, in una
nazione che possiede il settanta per cento dell’intero patrimonio artistico e
architettonico mondiale. Bisognerebbe andare fieri di questo patrimonio e
tutelarlo come si dovrebbe; viceversa, vergognarsi dell’ondata inarrestabile di
scandali quotidiani che ci espongono al disprezzo del mondo.
Il bello è che non c’era
stata, da parte delle autorità iraniane, alcuna richiesta di brache e mutande per
le statue. Ma i funzionari di certo ignoravano che Rouhani ha studiato a
Glasgow alla Caledonian University, e non è uscito dalle caverne.
Ma ammettiamo che un
“ospite” straniero, fosse pure il più potente e ricco sovrano della terra,
accampasse pretese del genere; non dovrebbe essere necessario ricordargli il
secolo dei lumi, basterebbe molto più modestamente citargli questo proverbio
russo di meditata e rara saggezza: “In un
monastero straniero non cercare di imporre la tua regola”. ***
AIUTO, DEVO MINGERE!
di Angelo Gaccione
La vicenda è fin troppo banale. Siamo
nella bergamasca e precisamente ad Averara, è Ferragosto del 2005 e sono le 2
di notte. Stefano Rho è con un amico e devono mingere (notate la raffinatezza del verbo e di chi sta stendendo
questa nota) perché nel locale dove sono stati, hanno assorbito più liquidi di
quanto la vescica ne possa contenere, e questa giustamente reclama.
Comunemente, se uno non soffre di claustrofobia e sopporta i meravigliosi aromi
che promanano dalle latrine dei magnifici locali pubblici italiani (e non
solo), provvede alla bisogna dei bisogni (che artista!) al chiuso delle
medesime. Può capitare di trovarsi all’aperto e non avere sottomano né un
locale né una latrina, e le cose possono complicarsi. Se poi uno è incontinente
o soffre di prostata, la situazione può diventare seria. Ad ogni modo Stefano
Rho e il suo amico non soffrivano di incontinenza, e la loro età nel 2005 non
era da prostata, ma non avevano a portata di pene un vespasiano. Decidono così
di innaffiare un cespuglio. È raro che un carabiniere alle due di notte controlli i cespugli, (a Milano non
controllano né cespugli né muri, e al sabato notte in diversi luoghi della
città gli effetti della birra regalano afrori di una certa intensità), ma una
probabilità su un milione è sempre possibile. Ed ecco scattare un verbale di
euro 200 e una segnalazione. Il giudice di pace di Zogno lo multa per atti
contrari alla pubblica decenza, anche se l’unico pubblico presente alle 2 di
notte è il carabiniere. Stefano Rho paga e tace, forse anche lui si è convinto
di aver fatto un’azione disdicevole. La cosa sembra finita lì, ma non è così.
Se vuoi fare il professore (e Stefano Rho vuole fare il professore) devi essere
“pulito”. La regola, nel paese di Vitulia, è rigida e così Stefano, 11 anni
dopo, si trova a pagare con il licenziamento dall’Istituto “Giovanni Falcone”
di Bergamo, dove nel frattempo è entrato di ruolo come ottimo docente di
Filosofia, questo lontano peccato urinario. Una inflessibile e solerte Corte
dei Conti, confortata dal parere autorevole dell’Avvocatura dello Stato, impone
all’Istituto la sua draconiana decisione. Giustizia è fatta. E così Vitulia, al
penultimo posto nella classifica dei paesi meno corrotti dell’intera Europa, e
ai primi posti per corruzione dell’intero globo terraqueo, può dormire sogni
tranquilli. Buona notte. Scusatemi mi scappa da mingere: sono indeciso se farla sul palazzo della Corte dei Conti o
su quello dell’Avvocatura dello Stato. Non potranno licenziarmi: io faccio il
poeta.
***
OMAGGIO A RAVENNA
di Angelo Gaccione
Sant'Apollinare in Classe |
Mi chiedo che cosa posso aggiungere di
originale, parlandovi di Ravenna, a quanto è stato già scritto da viaggiatori
autorevoli e provenienti dai paesi più diversi: da Henry James a Byron, da
Oscar Wilde a Klimt, da Hermann Hesse a Freud, da Jung a Fo, da Eliot alla
Yourcenar e così via. Potrei parlarvi di strani frammenti di sogni (chissà
perché il mio soggiorno a Ravenna è stato affollato di sogni come non mi
accadeva da tempo), o delle mie scarpinate fino a farmi dolere i piedi. Di
Dante no, sarebbe fin troppo banale, e prima o poi qualunque intellettuale finisce
per approdare nella via che porta il suo nome ed infilarsi nella cappella dove
riposano i suoi resti, per rendergli omaggio. Certo i mosaici di cui la città va
fiera ed è nota in tutto il mondo sono strepitosi, e le tre basiliche (san
Vitale, sant’Apollinare in Classe, sant’Apollinare Nuovo) vi lasciano senza
fiato. Così come sono magnifici il Mausoleo di Galla Placidia, la Cappella di
sant’Andrea del Museo Arcivescovile, il Battistero degli Ariani, quello degli
Ortodossi detto anche Neoniano, e la pavimentazione della cosiddetta Domus dei
Tappeti di Pietra. E conservano tutto il loro fascino i deliziosi chiostri
appartati, come le piazze che qui e là vi compaiono improvvise per
sorprendervi. Io non sono rimasto indifferente neppure alla piazza dove
troneggia la bianca facciata cinquecentesca di Santa Maria in Porto, che corre
lungo la via Di Roma, la più trafficata della città. Dal balcone di via
Cerchio, con la luce del mattino, era particolarmente suggestiva, e quando un
ammasso di nubi bianchissime stazionava dietro il campanile, il fondale azzurro
del cielo conferiva a tutta la piazza uno scenario magico. Abbiamo avuto la
fortuna di fotografare questo spettacolo, ed è un vero peccato che gli archi
della Loggetta Lombardesca si trovino alle spalle della piazza. Tuttavia essa è
abbastanza armonica e gli edifici bassi e colorati, le aiuole fiorite, il verde
e le sculture offrono un bel colpo d’occhio. E non sono rimasto indifferente al
bellissimo mercato liberty di piazza Andrea Costa, da tempo lasciato a se
stesso, e che per me è prezioso quanto il Foro Annonario di Senigallia. Sarebbe
un grave danno per la città se questa fantasiosa costruzione dovesse andare definitivamente
in rovina. Tuttavia io stravedo, letteralmente stravedo, per i bei campanili
tondi addossati alle chiese e che le sovrastano. Ad un primo impatto possono
apparirvi tozzi e grevi, se paragonati agli snelli campanili di più tarda età e
fattura. Ma se li osservate a più riprese e in momenti diversi della giornata,
magari con la luce chiara di settembre e un ricamo di nuvole bianche che fanno
da cornice ad una quinta azzurra di cielo, vi appariranno diversi. Le feritoie
che ruotano lungo l’intero “fusto” dal basso in alto (monofore, bifore,
trifore), spezzano il senso di pesantezza e interrompendo il pieno assoluto dei
mattoni, ne accentuano lo slancio. Questo gioco di intermittenze fra pieni e il vuoti conferisce ai campanili una
certa leggerezza e lo sguardo ne è catturato. Per uno che ritiene
architettonicamente significative le stesse ciminiere a mattoni delle vecchie
filande e degli opifici costruiti tra Otto e Novecento, (alcune miracolosamente
sopravvissute alla furia iconoclasta del “nuovo” e del “moderno”, e per fortuna
continuano a svettare affilate e leggere verso il cielo anche qui a Milano),
questi campanili tondi di Ravenna sono una testimonianza forte di quella
architettura verticale che si diffonderà nell’intera Europa cristiana.
***
LA RIVOLUZIONE PERMANENTE DELLA MODA
di Angelo Gaccione
Gli uomini della mia generazione
portavano toppe ai pantaloni; spesso capitava di vederne anche su quelli di noi
ragazzi. Erano i segni della povertà e il risultato del passaggio da un
fratello all’altro di indumenti e vestiari. Probabilmente qualcuno se ne
vergognava e oggi nessuno di loro indosserebbe pantaloni con rattoppi e vistosi
squarci, come quelli imposti dall’industria della moda a giovani completamente
privi di senso critico e di buon gusto. Ragionando col filosofo Fulvio Papi,
qualche tempo fa, a proposito del carattere continuamente mutevole della moda,
gli ho fatto rilevare come essa rappresenti bene l’essenza del capitalismo
nella sua “rivoluzione permanente”. Se ci pensate, la moda è l’unica
rivoluzione permanente. Una rivoluzione che non genera sangue ma profitti. Ed è
arrivata ad un punto tale di condizionamento collettivo, da imporre indumenti
stracciati a prezzi che non lo sono. Regalando persino qualche momento di
illusoria felicità ai propri acquirenti-devoti. Abbiamo convenuto che il
capitalismo ha vinto su tutta la linea e che può imporre qualsiasi tipo di
merce, ad un mercato conformistico e sempre più omologato, anche la più
discutibile e aberrante. Sono sempre più convinto che il consumismo, in fondo,
non è altro che il trionfo del cassonetto della spazzatura, e dell’inutile.
ANIMALI E GUERRA
di Angelo Gaccione
Nel
“Genesi”, nel paragrafo della creazione dell’uomo si legge: “Crescite et
multiplicamini, et dominamini piscibus maris, volatibus coeli et omnibus
animalibus”. Dio dà dunque all’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, il
dominio su tutte le creature della natura, animali compresi. Gli uomini hanno
asservito gli animali per il loro tornaconto, ben prima che venissero a
conoscenza delle parole contenute nel primo libro del Pentateuco. La
domesticazione non ne ha attenuato lo sfruttamento, se non in quelle civiltà
che hanno considerato sacrali alcuni di essi, elevandoli ad ornamento della
casa e addirittura adorandoli. Impiegati per la fatica fino allo stremo, gli
uomini li hanno seppelliti persino nel buio delle miniere dopo averli
“pietosamente” accecati. Il massimo della degradazione, gli uomini lo
raggiungono, coinvolgendo queste povere creature nella più barbara e criminale
pratica partorita dalla mente umana: la guerra. Elefanti, buoi, cammelli,
cavalli, muli, asini, cani, gatti, piccioni… adoperati come macchine da guerra,
come supporti logistici. Esistono fotografie in cui si vedono cavalli e muli
bardati con maschere antigas; gatti adoperati per verificare l’esistenza di
campi minati; cani con addosso esplosivo, volatili ammaestrati per rilievi fotografici
dotati di macchine da ripresa. La pittura che li ritrae, così come la
fotografia, non hanno suscitato nei critici d’arte e negli osservatori di
quelle immagini, mai un solo commento di indignazione o di pietà verso queste
involontarie vittime della follia umana. La battaglia di Anghiari con il suo
terribile, forsennato scintillio di lance e di spade, come lo stordente
clangore di una qualsiasi battaglia campale fatta di cannonate e di tamburi,
non è drammatica solo per i corpi dei cavalieri e dei soldati che vi sono
coinvolti. Guardate attentamente il pazzo terrore che promana dagli occhi di
quelle creature coinvolte in un massacro di cui non capiscono il senso.
Immaginate per un momento il battito dei loro cuori a mille per la pulsione del
sangue, la lacerazione della carne, le amputazioni, gli urla, le grida, le
esplosioni assordanti delle granate. Sono convinto che neppure i pittori che li
hanno raffigurati nelle loro tavole o affrescati sulle pareti, si siano mai
domandati che cosa potessero sentire nel loro corpo, che fremiti li
attraversasse.
Nessun essere vivente
potrà mai eguagliare la spietata, gratuita ferocia degli uomini. La guerra
dimostra che la catalogazione imposta da questi ultimi alla natura, è
arbitraria e falsa e i generi andrebbero capovolti. Alla luce di ciò che
sappiamo e da come il suo comportamento si è rivelato nella storia,
bisognerebbe operare una ulteriore distinzione-correzione all’interno dei
cosiddetti regni della natura, secondo lo schema qui suggerito: minerale, vegetale,
animale, bestiale-artificiale. Dove per regno animale (esseri dotati di
un’anima), è da intendersi qualsiasi specie, (compreso quelle che l’uomo ha
fatto scomparire), presente in terra, acqua e aria, e per regno
bestiale-artificiale, la specie bipede dotata di parola. A quest’ultima
categoria va attribuita senz’altro la nominazione che più le si addice: quella
di bestia. Umanizzare gli anima-li,
im-bestia-lire quelli che finora
abbiamo definiti uomini, non solo è più vicino alla verità, ma è un atto di giustizia.
Non esiste in natura nessun animale capace di fare più danni della
bestia-artificiale definita uomo. Neppure le forze endogene come le abbiamo
conosciute: terremoti, maremoti, meteoriti, uragani, e così enumerando. La sua
crudeltà è razionalmente organizzata, scientificamente programmata,
artificialmente elaborata e premeditata. Si fa torto agli animali facendo
derivare da un retaggio primigenio appartenuto a questi ultimi, il
comportamento belluino della bestia-artificiale. Evolvendo, cioè diventando
altro, l’uomo ha perso la natura animale. Se ne è allontanato definitivamente
fino al punto di non somigliarle più. Diventando bestiale-artificiale, la sua
crudeltà è figlia di questa seconda e nuova natura. Questa sì belluina. La
parola belluina era sconosciuta agli antichi e non era di certo riferita agli
animali. La parola belluina (e dunque la sua natura) appartiene alla
bestia-artificiale chiamata uomo e alla pratica da cui deriva: guerra. Guerra è
un termine neutro: Bellum. Da bellum a belluino: la traslitterazione ha una
solare evidenza. Guerra: la più spietata, crudele, fredda, impassibile e
disumana pratica civica, concepita dalla bestia divenuta artificiale. ***
DÈI, RELIGIONE E GUERRA
di Angelo Gaccione
Un dato è incontrovertibile: che si
prendano in mano i poemi di Omero, la “Teogonia”
di Esiodo, la “Biblioteca” di
Apollodoro, gli scritti di Eschilo e di Pindaro, o si vanno a considerare i
miti precedenti della tradizione orientale - per esempio il mito ittita di
Ullikummi - la nascita degli dèi e l’Olimpo, si fondano sulla guerra e sullo
sterminio. La guerra spietata che li vede contrapposti per il dominio e la
supremazia, non si esaurirà con il conseguimento dello scettro e il
ristabilimento della gerarchia dell’ordine divino imposto da Zeus. Tutte le
vicende, sia olimpiche che terrene, vedranno gli dèi in una ininterrotta
contesa armata diretta, o attraverso i cosiddetti eroi mortali e terreni,
fomentando fra costoro discordie, rivalità, guerre, e ogni sorta di
mostruosità. L’Olimpo non nasce né pacifico né tollerante, e tanto meno la
religione che ne discenderà; e pacifici e tolleranti non lo saranno gli uomini
sulla terra. C’è conflitto in Cielo come c’è conflitto in Terra.
Sono dèi spietati ed esigenti dotati delle stesse passioni umane e dei peggiori difetti. Richiedono continui sacrifici umani; sgozzamenti ai piedi dei loro altari e dentro i loro templi, pretesi addirittura dalla mano amorevole degli stessi padri costretti a sgozzare figli innocenti; ecatombe di poveri animali inconsapevoli della follia e del fanatismo religioso degli uomini delle società antiche. Misere creature immolate in un disgustoso bagno di sangue.
Riconsiderate sotto l’aspetto criminale della guerra e dei sacrifici umani e animali, quelle società - con l’impianto religioso che le sorregge - appaiono disgustose, feroci, fanatiche, vendicative. L’esaltazione mitica dei cosiddetti eroi, celebra in realtà una genia di portatori di morte, sadici ed efferati, che non ha nulla a che fare con la pietà. Basta analizzare gli episodi salienti dei conflitti e il comportamento dei singoli eroi, per rendersi conto del loro odioso modo di procedere. Non ci si ferma neppure davanti agli infanti ancora in fasce, messi a morte senza scrupolo alcuno; straziati nel corpo e mutilati nel più bieco dei modi. Né davanti agli anziani indifesi e senza forze. Gli stupri sulle donne inermi sono diffusissimi e si arriva persino ad impedire la sepoltura dei cadaveri, lasciati all’oltraggio e alla voracità delle fiere. Vista dall’ottica delle vittime innocenti, l’epica omerica è barbara e feroce come tutte le guerre; e come tutte le guerre rivelano la loro criminale follia. Con un aggravante in più: il coinvolgimento dell’Olimpo e di una religione altrettanto spietata che le giustifica. I poemi omerici e quelli degli scrittori successivi, non sono soltanto alta poesia, sono soprattutto un ammasso spaventoso di carneficine perpetrate con il contributo e il consenso degli dèi. L’abilità poetica dei cantori può rendere tutto più scintillante, ma il sangue resta sangue.
Sono dèi spietati ed esigenti dotati delle stesse passioni umane e dei peggiori difetti. Richiedono continui sacrifici umani; sgozzamenti ai piedi dei loro altari e dentro i loro templi, pretesi addirittura dalla mano amorevole degli stessi padri costretti a sgozzare figli innocenti; ecatombe di poveri animali inconsapevoli della follia e del fanatismo religioso degli uomini delle società antiche. Misere creature immolate in un disgustoso bagno di sangue.
Riconsiderate sotto l’aspetto criminale della guerra e dei sacrifici umani e animali, quelle società - con l’impianto religioso che le sorregge - appaiono disgustose, feroci, fanatiche, vendicative. L’esaltazione mitica dei cosiddetti eroi, celebra in realtà una genia di portatori di morte, sadici ed efferati, che non ha nulla a che fare con la pietà. Basta analizzare gli episodi salienti dei conflitti e il comportamento dei singoli eroi, per rendersi conto del loro odioso modo di procedere. Non ci si ferma neppure davanti agli infanti ancora in fasce, messi a morte senza scrupolo alcuno; straziati nel corpo e mutilati nel più bieco dei modi. Né davanti agli anziani indifesi e senza forze. Gli stupri sulle donne inermi sono diffusissimi e si arriva persino ad impedire la sepoltura dei cadaveri, lasciati all’oltraggio e alla voracità delle fiere. Vista dall’ottica delle vittime innocenti, l’epica omerica è barbara e feroce come tutte le guerre; e come tutte le guerre rivelano la loro criminale follia. Con un aggravante in più: il coinvolgimento dell’Olimpo e di una religione altrettanto spietata che le giustifica. I poemi omerici e quelli degli scrittori successivi, non sono soltanto alta poesia, sono soprattutto un ammasso spaventoso di carneficine perpetrate con il contributo e il consenso degli dèi. L’abilità poetica dei cantori può rendere tutto più scintillante, ma il sangue resta sangue.
***
OGNI BENE VIENE DALLA TERRA
di Angelo Gaccione
Ho
un profondo rispetto per la civiltà contadina e per il lavoro della terra.
Quando ero ancora un ragazzino, mia madre mi lesse qualcosa che non avrei mai
più dimenticato (forse un racconto, forse una poesia) e il cui titolo era il
seguente: “Ogni bene viene dalla terra”. Da adulto ho sempre tenuto presente
questa incontrovertibile verità. Una volta, in occasione di un incontro
pubblico piuttosto animato, dissi più o meno questo: ogni civiltà che si
sarebbe susseguita nel corso del divenire storico, avrebbe apportato la sua
dose di utile e necessario vantaggio, e prodotto molte e rivoluzionarie
modifiche, ma non avrebbe potuto in alcun modo cambiare le basi su cui si fonda
la nostra esistenza di esseri umani. Saremmo, cioè, sempre dipesi dalla terra.
Se ci
pensate, noi potremmo fare a meno del petrolio e delle macchine; del laser e
dei computer, ma non possiamo fare a meno del cibo per nutrirci. Cibo che in
tutte le sue componenti ed elaborazioni, ha una sola e assoluta provenienza: la
terra. Potremmo fare a meno di tutte le invenzioni più complesse e sofisticate
nate dalla nostra fervida intelligenza ed immaginazione, ma non ci è possibile
fare a meno di due semplici elementi della nostra sopravvivenza umana: acqua e
aria. E anche questi due elementi hanno una sola e unica provenienza: la terra.
L’acqua nutre la terra che a sua volta nutre le piante e che a loro volta
nutrono ogni essere presente sulla terra. Respirare, bere e nutrirsi, sono le
basi indiscutibili della natura e dunque della terra.
Provo molta
tristezza quando mi capita di imbattermi in certi atteggiamenti da snob; si
tratta generalmente di giovani o di professionisti le cui origini affondano
nella civiltà contadina. Hanno mutato la loro condizione e ora il nuovo status
di piccoli borghesi (in genere piuttosto ignoranti) li fa vergognare di ciò che
sono stati, di ciò da cui provengono, come se essere nati da una famiglia o da
antenati contadini, da gente che ha sopportato la grande fatica della terra,
fosse un marchio di infamia. Tentano disperatamente di lavare questa “infamia”,
per far dimenticare quelle origini e farsi accettare nel consesso della nuova
classe verso cui sono approdati. Ridicoli. Semplicemente ridicoli e gretti.
Verga ci ha dato un ritratto esemplare di questi ridicoli parvenu, nel suo
“Mastro don Gesualdo”.
Io credo,
invece, che bisogna andarne fieri. Senza gli uomini votati al duro lavoro della
terra, non ci sarebbe disponibilità di alcun nutrimento per il genere umano, e
questo sarebbe in pericolo. Senza il loro prezioso lavoro, gli stessi stupidi
superficiali snob che guardano al mondo contadino e della terra con sufficienza
e superiorità, morirebbero di fame. Se improvvisamente i lavoratori della terra
decidessero di produrre solo per il loro unico fabbisogno: governanti,
ministri, teste coronate, ambasciatori, cancellieri e cacasenno di ogni tipo,
si ritroverebbero a domandare l’elemosina sui cantoni delle vie. Disavvezzi
all’arte della coltura e della semina; incapaci di sopportare la fatica dei
campi; tutti costoro non avrebbero scampo. Il loro denaro non gli servirebbe
più, come non gli sarebbero di aiuto alcuno aerei, auto o computer. Non
potrebbero mangiare le ruote delle loro belle macchine, i titoli che esibiscono
nelle loro case, gli oggetti preziosi di cui si circondano. In casi di
carestie, nulla è più importante di un tozzo di pane, di una giara d’olio, di
un sacco di umili patate. Nessun diamante vale quanto un tomolo di legumi, uno
staio di cereali o una forma di caciocavallo. Dipendesse da me, farei in modo
che i beni della terra, tutti i beni della terra, compreso l’acqua e gli alberi
che ci danno l’ossigeno, avessero il costo maggiore in assoluto e fossero
considerati gli unici veri beni incommensurabili della vita. Svaluterei
diamanti e computer, auto e televisori, ponendoli al più infimo gradino del
valore monetario. E a chi ponesse obiezioni gli direi: “Ecco, ingoia questo
saporitissimo telecomando. Assaggia un pezzo di questo gustoso pneumatico.
Spalma sulle tue fruscianti banconote una fetta di questo magnifico personal
computer”.
Dite che cambierebbe
opinione?
***
MINIMA IMMORALIA
IL CAPITALISMO È
MISERIA PER I POPOLI
di Angelo Gaccione
“Abbiamo sperimentato il Capitalismo e abbiamo
sperimentato il Comunismo: in entrambi questi sistemi non c’è stata alcuna
uguaglianza fra gli uomini, nessuna abolizione delle classi, nessuna liberazione.
Fame, morte, guerra, persecuzioni, devastazione della natura, rapporti
spregevoli nei confronti degli animali e delle altre creature, intolleranza per
i diversi. Sono cresciuti i profitti, le lobbies, le nomenclature, le
privatizzazioni dei beni pubblici e comuni, le armi di sterminio e gli
eserciti. Nessuna giustizia per le classi più povere, nessuna pace. Ora è tempo
di ripensare un’altra socialità, un’altra visione possibile nei rapporti fra
gli uomini e l’ambiente in cui si trova a vivere; un’altra riconsiderazione di
tutte le risorse naturali e delle altre specie: animali e vegetali che hanno
permesso fin qui la nostra sopravvivenza. Fuori dal profitto e fuori dai regimi
finora conosciuti. Ci occorre una nuova e più profonda immaginazione, ricordando
che qualsiasi sistema sociale che non ponga al centro la riconsiderazione degli
esseri umani e delle altre specie della natura, va respinto come criminale. E
soprattutto ricordando che i tempi per uscire da questa moderna barbarie sono
stretti, maledettamente stretti”.
***
CAFONARIA 4
di Angelo Gaccione
La cafoneria è ovunque e Londra non
è immune. Da qualche tempo un’orda di ridicoli e arroganti rampolli figli di
quel volgare “zurrume” composto da
governanti e ceti ricchi degli emirati arabi, scorrazza impunemente per le
strade della capitale londinese con fuoriserie di lusso sfacciatamente kitch, e
con a fianco, manco a dirlo, le solite immancabili puttane. Vanno a velocità
folle e spericolata, mettendo a rischio l’incolumità dei passanti. Si
permettono in questa parte di “tollerante” occidente, ciò che a tutti gli altri
è legalmente proibito. Insomma, fanno quello che vogliono e le autorità fingono
di non vedere. Potenza del denaro: i rampolli portano moneta pregiata, spendono
e spandono nei locali più esclusivi e non è prudente inimicarseli.
E così
davanti alla prosaicità dell’argent,
anche il proverbiale, ipocrita bon ton inglese, si adegua alla cafoneria. Va,
in altre parole, a farsi…
Scegliete
voi il verbo più appropriato.
MINIMA IMMORALIA
SUI DESTINI DELLA NAZIONE
di Angelo Gaccione
La nostra è ormai una nazione irrecuperabile; tentare
di migliorarla appare sempre più un’impresa disperata e molti la danno per
perduta. I tempi per una nostra “ragionevole” rivoluzione morale che ne rovesci
i postulati, sono sempre più stretti. È
molto probabile che arriverà prima la natura con la sua spietata capacità
selettiva. Tutti i segni ci dicono che sta lavorando in questo senso, e forse
ben poco rimarrà in piedi. Ho pietà solo per gli animali e per le piante: di
queste innocenti creature ho davvero pena. Ma col tempo si riprenderanno il
loro posto e torneranno a star meglio, senza la nostra disgustosa bieca
presenza. Come dovrebbe essere ormai a tutti noto, la natura non ha bisogno
della nostra nociva presenza. Da tempo siamo divenuti i suoi becchini, ma la
nostra ecatombe sarà lei a celebrarla.
***
CAFONARIA 3
di Angelo Gaccione
Negli ultimi tempi sempre più malvolentieri prendo la Metropolitana.
Il motivo è il diffondersi di una particolare forma di cafoneria. Bipedi
italiani e stranieri di ogni sesso, si piazzano davanti alle porte di uscita e
creano un muro che si è costretti a fendere con piglio piuttosto deciso, per
poter scendere. Di volontà propria non si spostano, e se li fissi in attesa
sperando che muovano un passo, stai fresco! restano lì impalati come ebeti.
“Devo passarle sopra la testa?”, ho detto giorni fa ad una signora che mi si
era parata davanti; “guardi che senza di lei il Metrò non parte” ho concluso
ironico. Non è necessaria una intelligenza particolarmente spiccata per capire
che basterebbe posizionarsi ai lati delle aperture e aspettare che i passeggeri
scendano per potere poi comodamente entrare. A Milano non è così, e un branco
di pecore vi si affolla davanti. A volte penso che in fatto di intelligenza e
di comportamento, sia avvenuto un cortocircuito nell’evoluzione umana: dal
gorilla all’uomo e dall’uomo alla capra. Con il dovuto rispetto per la capra.
***
CAFONARIA 2
di Angelo Gaccione
È molto più facile debellare il
cancro e migliorare l’assetto economico della società, che liberarsi della
cafonaggine. La cafonaggine è una pianta ostinata e tenace, ed estirparla sarà
un’impresa piuttosto ardua. La difficoltà non consiste soltanto nella sua
pervasività, ma nel fatto che attraversa tutte le classi. Noi italiani ne siamo
abbondantemente contaminati e a partire dalla fine della seconda guerra
mondiale, abbiamo fatto notevoli progressi peggiorativi in questo senso.
Abbiamo ricostruito i beni della nazione (fabbriche, ponti, strade, scuole,
case, palazzi…), ma le macerie del nostro comportamento civico non sono state
rimosse; anzi, le rovine si sono accumulate. Per rimanere nell’ambito della
metafora, con l’esplosione del boom economico e del consumismo, quelle rovine
sono divenute gigantesche discariche. Che non vi sia automatismo di rapporti
fra miglioramento economico e miglioramento dei comportamenti sociali e civici,
è oramai un luogo comune. Probabilmente questo automatismo migliorativo non
funziona neppure in rapporto all’istruzione. Se fosse così, la società avrebbe
dovuto già da tempo essere largamente migliorata. Tuttavia, al di là di
qualunque raffinata analisi possibile, sulle cause e sui tempi, resta il fatto
che la cafonaggine e la perdita di decoro civile, hanno investito anche quei
ceti sociali che più di tutti ne erano stati immuni. Sono diventati di massa.
Società di massa uguale cafonaggine di massa, è un’equazione che sembra
combaciare molto bene.
Ci sono dei luoghi che per la loro
natura e per il significato simbolico che li contraddistingue, dovrebbero
indurre ad atteggiamenti “consoni”. L’aggettivo non è dei migliori, ma è il più
usato. Eppure non è più così. Quello a cui mi è capitato di assistere nella
sala d’attesa del padiglione “Devoto” del Policlinico di Milano, dove ho dovuto
forzosamente sostare alcune ore per un prelievo di sangue, mostra come la
cafoneria, nell’indifferenza generale, abbia invaso persino un luogo di
sofferenza come un ospedale. Pazienti che strillano senza riguardo nei loro
telefonini, altri che raccontano i loro fatti a voce alta disturbando i vicini,
porte che sbattono di continuo ad opera di pazienti, infermieri, medici che non
si peritano di prestarvi attenzione come dovuto e che ti fanno sussultare.
Insomma un luogo di delirio, una fiera, un mercato, dove la cafoneria regna
sovrana e non si leva voce alcuna per far cessare questo andazzo. Probabilmente
i responsabili non ne sanno nulla: è raro che i responsabili siano al corrente
di ciò su cui sono tenuti a controllare. E se anche lo sapessero si
guarderebbero bene dall’intervenire. E sapete perché? Perché si tratta di una
struttura pubblica, cioè terra di nessuno; e siccome è terra di nessuno,
naturalmente nessuno se ne cura. Ben diversamente vanno le cose nelle strutture
private, e non è che siano a corto di cafoni.
Semplicemente tengono al buon nome del servizio, che poi vuol dire al
buon nome della cassa, perciò vige un altro clima.***
CAFONARIA 1
di Angelo Gaccione
All’ossessione e alla mania dell’uso
dei telefoni cellulari ho dedicato un racconto ironico e pungente dal titolo
“Russa”, scritto nel dicembre del 2012 e pubblicato l’anno successivo nel libro
“La signorina volentieri” (pagg.
35-40). Nel frattempo la situazione è ulteriormente peggiorata. Orde di cafoni
di ogni età e nazione, hanno invaso ogni luogo e ogni ambito (che siano mezzi
pubblici e ospedali, poco importa) e non si fanno scrupolo alcuno. Qualche
settimana fa ho dovuto forzatamente scendere dall’autobus numero 73 proveniente
dall’aeroporto di Linate. Avevano letteralmente trasformato l’autobus in un
vero e proprio zoo, in cui bestie dalle sembianze umane, starnazzavano,
barrivano, miagolavano, chiocciavano, belavano, abbaiavano, ululavano negli
idiomi più diversi, con le orecchie attaccate ai loro telefonini. Non
mancavano, ovviamente, gli italioti, milanesi e non, ma a darci dentro con più
foga, si distinguevano bipedi di sesso femminile di lingua spagnola (ecuadoregne?
peruviane?) e dei paesi dell’Est. Fossi stato il conducente avrei fermato il
mezzo e mi sarei rifiutato di proseguire se quella assordante cagnara non si
fosse all’istante interrotta. Una volta sui mezzi pubblici campeggiava questa
scritta: Vietato parlare al conducente;
ora che la buona educazione se n’è andata, spodestata da un comportamento
disinvolto figlio del progresso, e dallo sviluppo della tecnologia, non ci sono
divieti che tengano. Ci si dovrà fare, come si dice, il callo? Ci si dovrà
assuefare alla cafonaria (conio un neologismo per la nuova era) che avanza,
indice di sicuro “progresso”? “Temo il
giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà
popolato allora da una generazione di idioti”. Non è un mio pensiero, è una
riflessione di Einstein.