Destino e desiderio nel ritorno di Odisseo.
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***
SULL’ESSERE CRISTIANI
di
Fulvio Papi
Ulisse |
Un
buon filosofo avrebbe dato ad ogni parola che ho letto nell’Odissea il suo
tempo. Un percorso straordinario nella poesia dell’ottavo-settimo secolo, prima
che si trasformassero le poleis greche con le loro forme di
legittimazione politica, e, alla narrazione epica, subentrassero nuove forme
poetiche di natura lirica. Un qualsiasi lettore contemporaneo è invece
necessariamente prigioniero di quel “realismo” che costituisce il romanzesco. Un
principio di deformazione (che è comprensione) il quale, in modo più o meno
rilevante, investe ogni classico. Queste poche righe desiderano essere l’ovvio
preludio alla mia lettura, qualcosa che, nella sua più che modesta proporzione,
può richiamare una certa somiglianza con una “ouverture” di un’opera musicale
che prepara l’ascolto dell’edificio melodrammatico[1].
*
La
vicenda di Odisseo sulla via del ritorno a Itaca dopo la distruzione di Troia,
è dominata, come ogni altra storia, dal destino che segna sempre, anche
attraverso l’intervento degli Dei, l’accadere delle circostanze, l’obbedienza
quanto l’infrazione, e quindi l’epilogo, come finalità, di ogni evento.
Il
protagonista agisce secondo il disegno del suo desiderio, nel quale riconosce la
sua identità (diremmo noi) anche in coincidenza con le norme riconosciute dal
costume sociale e politico. La nostra “responsabilità”, priva com’è della sua
normativa ideale, è da capire come la propria pertinenza con il quadro
valoriale del costume che si manifesta sempre nella dimensione desiderante: ma
il teatro mondano è pur sempre dipendente dalle trame del destino che rendono
inevitabili le azioni degli uomini, individuali o collettive, grate o
miserevoli. Questa connessione tra destino e forma del desiderio, può essere
favorita od ostacolata dall’intervento degli Dei sino a provocare quella che è
la storia individuale di ognuno. In questo parallelismo vi è l’abolizione del
caso, come della mitologia filosofica dell’assoluta libertà individuale. Questa
considerazione vale per ogni circostanza antropologica, ma è anche in relazione
con la decisione di una divinità, nella trama che interviene, nel tessuto
dell’esistenza. Il destino: il cielo che copre tutta l’estensione della vita e
dei suoi eventi. L’essere nati vuol dire partecipare a un destino che disegna
le proprie strade, determinate come le finalità, i desideri, le prove
dell’esistenza. È l’accadere concreto che mostra questo retroscena, ma, nella
narrazione, ciascuno agisce con la sua forza, il suo carattere, il suo fine, e
pure appartiene ad una storia destinale.
Il
destino impedisce che si manifesti una contraddizione insolubile tra legge e
desiderio, poiché la legge non scritta si manifesta tuttavia e sempre come
sentimento dell’oggettività del costume. La “scelta” non avviene nell’ostile
antinomia tra legge e desiderio, ma tra due opzioni del desiderio. Nel caso di
Odisseo nell’isola lontana di Calipso, la prima è il piacere di vivere con la
ninfa che declina con il tempo, l’altra, che nasce, irresistibile, come
desiderio del ritorno. Ed è in questo squilibrio del desiderio che è leggibile
l’insuperabilità della trama del destino.
Il
destino, attraverso qualsiasi selezione, si mostra come il colore dominante,
dell’esistenza, una recita inevitabile con tutte le passioni, le controversie,
gli stili, le memorie che costituiscono i sensi dell’esistenza, così da poterne
costituire la continuità di una propria vicenda. Ma, nel profondo, la forza
della vita e i casi della morte appartengono all’aura misteriosa del destino,
questo sfondo di ogni vicenda antropologica forma la consapevolezza degli
uomini, e anche degli Dei, nell’equilibrio dei propri poteri, del limite di ogni “poter fare”, ogni azione porta con sé
la sua contingenza e il suo destino; il che ha la sua importanza nel giudizio
che essa provoca, nella stessa elaborazione del suo senso. Menelao riprende
felice la fuggitiva Elena, Odisseo farà una strage dei pretendenti di Penelope
che devastano i suoi beni, la “nostra” Calipso, quand’è deciso che Odisseo dovrà
riprendere il mare, non ne fa il caso della sua infelicità.
Quando
Odisseo, dopo la felice sosta presso i Feaci che ne fa risaltare le sue qualità
eroiche, parte, allora Nausicaa che, per prima, l’aveva soccorso e introdotto
nel suo mondo regale, gli dice “ricordati di me”, ed è la richiesta di una nota
affettiva che permanga nella vita dell’eroe come custodia di una immaginazione,
forza di un desiderio perduto secondo il destino. Il ricordo diviene il resto,
improbabile, del destino. L’imperativo della proposizione è dunque simile a un
fiore gettato nel vuoto.
Calipso
non ha nessuna parola di addio perché sa, pur protestando contro la volontà
degli Dei (come vedremo), che è in atto la inevitabilità del destino che pure
attenderà Odisseo ad altre sciagure, come il naufragio provocato
dall’irriducibile Poseidone poté ostacolare ancora il ritorno di Odisseo, ma
non rendere impossibile il suo destino.
Omero |
*
Il
nostro racconto inizia con l’orazione di Athena al consiglio degli Dei, la
quale chiede sia restituita a Odisseo la via del ritorno. Agli Dei ricorda le
molte pene sofferte dall’eroe, che non è solo una notizia, ma una narrazione
che interpreta anche il sentimento di Athena: “poiché le doleva che fosse
presso la ninfa”. Non sono in grado di comprendere perché questo soggiorno di
Odisseo dovesse recarle dolore. Forse perché era costume - come vedremo dalle
proteste di Calipso - che le dee non dovessero aver per compagni di vita dei nati
mortali. Forse perché Athena, dea di infinite azioni mondane, desiderava ridare
al suo eroe il destino che aveva consentito la sua storia, e una sosta infinita
nell’isola di Calipso contraddiceva proprio quel destino che ora appariva nella
tristezza di Odisseo; forse infine, perché vergine, non tollerava il connubio
della ninfa e dell’eroe. Forse ogni cosa e l’altra. In ogni caso Zeus condivide
il desiderio di Athena e manda il messaggero Mercurio a rendere nota la sua
volontà a Calipso, dalle belle trecce, che, cantando nella sua grotta, tesseva con
una spola d’oro.
Il
luogo dove vive Calipso sembra una natura che si specchi nell’incanto con se
stessa: prati fioriti, polle d’acqua purissima, alberi generosi, un luogo
lontano dalle forme di vita di una vita sociale. È la perfezione di un mondo
naturale toccato dalla ripetizione dell’eternità. Ermete trasmette a Calipso
l’ordine di Zeus, e, in questa divina solitudine, si sente la voce della ninfa
che protesta per questa decisione degli Dei maligni: “Maligni siate o Dei, e
invidiosi oltremodo, voi che invidiate alle dee di stendersi accanto a mortali,
palesemente se uno si trova un caro marito. Così quando Aurora, dita rosate,
Orione scelse, voi vi adiraste, finché Artemide (estranea all’amore e votata
alla verginità)”, trono d’oro, la casta, con le sue frecce lo raggiunse “e lo
uccise”. Le dee nella loro immortalità possono amare loro pari, più o meno
casualmente, ma non devono entrare in rapporti amorosi con uomini mortali, il
cui amore confina con la morte; con il rintocco del tempo vi è un altro ordine
della felicità rispetto all’essere perfetti nella propria immortale condizione.
Il
mortale ha sue misure dell’esistenza, costruisce un suo mondo caduco e amato,
quivi nascono le sue passioni e le sue norme. È in questa misura che accade il
mistero del destino.
È
il caso di Odisseo che si allontana dalla definitiva ospitalità, priva di
morte, di Calipso, perché nella sua mente ormai è tornato il desiderio del
ritorno. Il ritorno significa la restaurazione in sé stesso, il ricordare,
delle condizioni del vivere mortale, dove la morte segna il confine di ogni
possibile. Ma è anche la felice precarietà della casa, della terra, della
compagna della vita, dei beni, del potere politico, e, infine, della
discendenza che rendono possibile la certezza di se stessi. Un amore immortale
è il silenzio, il vuoto, la perdita del desiderio stesso, la felicità senza
tempo.
Non
è il proprio corpo che può raggiungere l’immortalità, è solo la fama del
proprio nome, la narrazione poetica delle sue azioni. La vita mortale si
trasfigura in una narrazione che si ripete nei luoghi e nel tempo, tramite la
voce che si trasmette. Senza ritorno non c’è memoria, senza memoria solo
l’infinito silenzio, una felicità senza le sue crisi, la sua nascita
imperfetta.
Sono
questi gli elementi che in Odisseo chiamano il tormento e il desiderio del
ritorno: la terra, quel cielo, quel mare, Penelope, il padre vecchio e
solitario, il figlio che apre la vita gloriosa al futuro, i servitori fedeli, il
richiamo della casa che materialmente concilia i tempi, il richiamo che ogni
oggetto esercita su un altro. È il tessuto di senso che il tempo non ha mai
distrutto, sì che si può dire che il ritorno, è come il ritorno a sé stesso
dopo la donazione del proprio eroismo alla guerra e la sottomissione al destino
che domina le sue vicende, e mostra nel coraggio, la sua fragilità nei
confronti della divinità avversa, il rischio della perdita di sé stesso,
tramite una metamorfosi inconscia.
Nel
tema di tutte le motivazioni che sollecitano il desiderio del ritorno è anche l’infelicità
della permanenza presso Calipso; nel testo vi è un verbo - “andano” - che,
tradotto, entra in questa proposizione: “Perché non gli piaceva la ninfa”. Nel
desiderio di abbandono dell’isola e del ritorno si inserisce un elemento
psicologico e sentimentale: è caduto il desiderio nei confronti della ninfa.
(Poiché
l’apertura di questa prospettiva non era affatto indifferente, ho controllato
in un celebre glossario omerico l’attendibilità del senso del verbo: ripetuto
in una serie di luoghi dell’Odissea esso mantiene il significato che la
traduzione italiana conferisce in modo esemplare.)
È
possibile spiegare questo sentimento, se si tiene conto di due elementi. L’uno
che Odisseo fu affascinato dalla bellezza incomparabile di Calipso, l’altro che
il desiderio chiuso in sé stesso decade nel tempo, e, nell’economia emotiva
dell’eroe, crea uno spazio ulteriore per il compimento del destino.
Si
spegne il desiderio che “fonda” la ragione della sua sosta per sette anni
presso Calipso, e la seduzione della bellezza femminile non è più un incanto
del desiderio, ma con il tempo mostra di appartenere all’insieme di elementi
che ricompongono l’unità di misura di una esistenza. Non si afferma più alcuna
forma della bellezza e della seduzione che, nella disperazione di Odisseo,
possa contrastare il desiderio di ritrovare il “se stesso” in tutti gli
elementi vitali che, nel passato, lo hanno costruito nel modo che solo il
ritorno potrebbe ridare.
Nel
conflitto di due forme del desiderio sovrasta definitivamente quella che deriva
dalla più profonda identità, il risveglio consapevole che essa, implicitamente,
è la valorizzazione della morte come condizione della determinazione mondana
del senso.
Il
piacere che si sottrae a questa condizione, pari alla promessa di immortalità,
costa la perdita dell’identità che Odisseo può riconoscere solo nell’immagine
del ritorno. Questo è il clima emotivo “fondante” per cui la ninfa “non gli
piace più”: è terminato il tempo della seduzione. Calipso gioca quello che
anche a una dea appare come l’estrema risorsa: io, Calipso, non sono solo
dispensatrice di immortalità (che è un desiderio di un’occasione emotiva
“decisiva” a livello antropologico, basta ricordare il discorso di Achille
nell’Ade), ma “come corpo e figura sono certamente superiore a Penelope”. Ma è
una certezza falsa anche per una dea.
Il
problema non è il confronto delle apparenze seduttive, la sollecitazione di un
desiderio privo di memoria, ma la differenza di senso. Il desiderio e il suo
oggetto appartengono al mondo che l’eroe ha costruito come sua identità, al
destino stesso della sua esistenza. Da qui il desiderio del ritorno, il ricordo
interiore dell’insieme delle vicende, diviene la ragione per cui la ninfa non
piace più a Odisseo. Ogni particolare si trova ormai nel silenzio del destino,
e Calipso aiuterà in ogni modo Odisseo alla costruzione della sua zattera, il
solo modo per riprendere la via del mare. Calipso promette, inoltre, che lo
aiuterà con il soffio del vento, ma ricorderà anche all’eroe che le sue
tragiche avventure non sono affatto terminate.
*
Nel
quinto giorno della costruzione della zattera con i più abili artifici
possibili, Odisseo riprenderà a navigare. Ma Poseidone, che non era presente al
concilio degli Dei, fa di nuovo valere l’irriducibilità della sua collera. E
Odisseo, una volta di più, conoscerà il rischio di un naufragio. Lo salva Ino,
figlia di Cadmo, dea delle profondità marine, restauratrice, di fatto,
dell’ordine del destino. Sarà Ino a sostenerlo tra i flutti prima che Odisseo
possa trovare un accesso tra la riva scogliosa.
L’eroe
esausto sulla spiaggia verrà ritrovato dalla fanciulla Nausicaa, figlia del Re
dei Feaci, che lo guiderà alla reggia dove, prima della partenza per Itaca,
l’ultimo tratto di mare del ritorno, avrà una vita stimata e gloriosa presso i
fortunati Feaci. Quivi sarà Odisseo stesso l’aedo - al posto di Demodoco - che
narra la propria storia, dalle rovine di Troia attraverso il mare e le
avventure simili ad una drammatica conoscenza del mondo; questa narrazione è la
storia del senso dell’eroe, la sua autobiografia destinale, la roccia dove è
destinato ad infrangersi ogni ondivago desiderio. Quando un filosofo -
Schopenhauer - disse che fu più nobile partire che ritrovarsi in una possibile
vicenda d’amore con la fanciulla Nausicaa (cui il padre era persino
favorevole), dice una mezza verità. La nobiltà apparteneva tutta, ormai, al
compimento del destino.
Quando
Odisseo prenderà di nuovo il mare, nella coincidenza di desiderio e destino,
Nausicaa - come ho già mostrato - gli griderà: “Ricordati di me che per prima
ti ho salvato”. Con Calipso, alla partenza, non c’era stata nessuna forma di
“addio”, entrambi, la dea e l’eroe, consapevoli se pure in forma diversa, che
era il compimento del destino, rinato nel cuore di Odisseo, ragione delle sue
solitarie lacrime. Nausicaa, nel compimento del destino, il solo modo che ha
per sopravvivere nella vita dell’eroe è nel ricordo, tenterà il suo spazio in
una narrazione: poiché, inconsciamente, il suo animo appartiene al circuito
della morte, al di qua dell’immortale presente che imprigiona Calipso.
Che
cosa la dea dell’isola di Ogigia potrebbe raccontare di sé? Noi sappiamo invece
che Odisseo nel suo ritorno, nel riconoscimento di chi mai lo aveva
dimenticato, dal porcaro a Penelope, tremendo nella vendetta con una feroce
felicità, nella sintesi di identità, giustizia e destino, non parlerà mai più
di Nausicaa, un insignificante lembo di cielo che scompare all’orizzonte.
*
Quello
che noi sappiamo di Odisseo è nel racconto del suo periglioso viaggio che
l’eroe ricorda ad Arète regina dei Feaci quando, dopo il naufragio, con
l’aiuto di Athena, poté presentarsi alla reggia. Odisseo racconta di essere
capitato nell’isola di Ogigia, dove era la figlia di Atlante, Calipso, “ricca
di inganni”, “dea tremenda” con la quale non si unisce alcuno degli dei, né
negli uomini. “Me misero al suo focolare un demone spinse”, nel naufragio tutti
perirono, ma, narra Odisseo, “nella decima notte dopo il naufragio arrivai
all’isola di Ogigia”. Qui il racconto merita una certa attenzione. Calipso lo
accolse, l’ospitò di cuore, lo nutriva e voleva farlo immortale. Ma - narra
Odisseo - “il mio cuore nel petto non poté mai persuadere”, e così continua:
“Lì sette anni restai prigioniero, e sempre le vesti bagnavo di lacrime. Ma
quando l’ottavo arrivò […] allora mi comandò con premura di andarmene per
comando di Zeus, o forse cambiò la sua mente”: e mi fece partire su una zattera
dai molti legami, molto mi diede […]”.
Questo
è il racconto che Odisseo fa alla regina per presentarsi nella maniera più
attendibile all’immagine dell’eroe e, quindi, con il massimo onore. Ma è un
racconto abile che unisce notizie vere con interpretazioni che lasciano molti ragionevoli
dubbi sul soggiorno di Odisseo a Ogigia.
Odisseo
è preoccupato di spiegare a suo modo il lungo periodo di permanenza “maritale”
con Calipso.
Perché
mai un “demone” lo spinse verso il focolare di Calipso? Quando il salvataggio
di Odisseo fu invece del tutto naturale. Il narratore vuol mostrare che quanto
accaduto è un “destino” estraneo alla sua volontà, e questa spiegazione deve
reggere la narrazione successiva. Il soggiorno a Ogigia durò ben sette anni e
per sette anni fu “prigioniero” e “sempre le vesti bagnavo di lacrime”. Ma noi
sappiamo che ad Ogigia Odisseo aveva cura di sé, il che è poco compatibile con
una tristezza quotidiana.
La
prigionia sembra giustificata dall’affermazione che a Calipso non si univano
mai né uomini né dèi, e l’arrivo di Odisseo doveva essere un’occasione
inaspettata dovuta a un demone che aveva gettato l’eroe nella sua isola. Ma è
credibile che questa situazione si potesse prolungare per sette anni: che
amante o marito fosse uno che piangeva tutto il giorno? Perché Athena aspettò
sette anni per intervenire a favore del ritorno di Odisseo quando secondo il
racconto dell’eroe, la disperazione era uguale in ogni momento e il soggiorno
sempre una prigionia?
È
vero che la partenza avvenne nella coincidenza tra la sua (di Odisseo) mestizia
e la decisione degli Dei, ma nel racconto alla regina dei Feaci, Odisseo
aggiunge a proposito di Calipso: “O forse cambiò la sua mente”. E questo è
completamente falso. Anzi, il cambiamento della mente, attribuito a Calipso, è
invece proprio il cambiamento della mente di Odisseo, la fine del suo desiderio
durato sette anni e quindi la rinascita nel suo animo del proposito di tornare
a Itaca. Il tramonto dell’amore per Calipso coincide con la disperazione di non
poter assecondare il nuovo desiderio del “ritorno”, che altro non era che il
ritorno alla sua identità di eroe, padre, marito, Re di Itaca, fedele alla
propria storia, tutti legami importanti che il silenzioso connubio della vita
con Calipso aveva occultato.
Telemaco
cercava notizie del padre laddove era noto il senso della vita eroica di
Odisseo, non avrebbe mai potuto cercarlo nella lontana (anche questa locazione
geografica concorda con il senso di Calipso) isola di Ogigia.
Il
racconto di Odisseo alla regina dei Feaci narra ma in parte nasconde, come
tutta la narrazione che l’eroe offre ai suoi ospiti al posto dell’aedo Demodoco.
È un racconto che consente agli atti eroici e alle sventure di diventare un
sapere glorioso. Il segreto del tempo del desiderio invece non fa storia.
La
vicenda di Circe conferma che il desiderio privo della misura del tempo non fa
narrazione, è privo di narrazione, non è mai sapere collettivo.
Odisseo
manda a esplorare Euriloco con altri ventidue compagni. L’entrata nella dimora
di Circe è fatale per i compagni di Euriloco: un farmaco crudele li trasforma
in porci. Euriloco solo non era entrato e questa prudenza gli consentirà di
tornare alla nave e di raccontare la sciagura. Odisseo vuole andare a vedere
che cosa fosse successo, ma il rischio fatale gli fu evitato da Ermete che gli
diede un’erba capace di neutralizzare i veleni di Circe. La maga - dice Ermete -
cercherà di farti bere il suo intruglio, ma tu balzale addosso come per
ucciderla. Essa per difendersi “l’inviterà nel suo letto”.
La
storia prosegue con la resa di Circe che giura a Odisseo di non usare magie
malefiche. Circe: “Nel fodero la spada riponi e noi ora saliamo sul letto uniti
che uniti di letto e d’amore possiamo fidarci a vicenda”. Ma l’amore di Circe
non basta a Odisseo che ricorda i compagni ridotti in porci. Circe libererà
questi compagni di Odisseo dando loro cibo, vino e “spirito” in petto. “E là
tutti i giorni, fino al compiersi di un anno sedevamo a godersi carne infinita
e buon vino. E saranno proprio questi compagni “quando i giorni si fecero
lunghi” a ricordare a Odisseo il ritorno. “Se pure è destino che ci salviamo e
arriviamo alla solita casa e alla terra dei padri”.
È
questo richiamo che sollecita Odisseo a chiedere a Circe di aiutarli a ritornare.
Sono dunque i compagni a ricordare l’impegno del ritorno, anche qui perché la
vita felice come ripetizione è infine un vuoto che richiama il desiderio di
esistere al di là del piacere stesso.
*
Quando
finalmente il sospettoso e difficile riconoscimento di Odisseo da parte di
Penelope divenne del tutto persuasivo, l’eroe può dire alla sposa ritrovata:
“Ora vieni, andiamo a letto donna e godiamo finalmente di stendersi, vinti dal
sonno soave.” E Penelope: “Il letto tuo sarà ormai pronto ogni volta che tu lo
vorrai”. Ma i due, quand’ebbero goduto l’amore soave, godettero di parlarsi […]
lei ricorderà di quanto in casa soffrì […] e lui, il divino Odisseo, quante
pene inflisse ai nemici e quante sventure dovette subire.
Odisseo
in poche parole ricorda la guerra di Troia, ma fondamentalmente si sofferma sul
suo ritorno, che è interessante rileggere: “Narrò come in principio vinse i
Ciconi, e poi come arrivò nella terra feconda dei mangiatori di loto; e quello
che fece al Ciclope, e come la paura piegò dei gagliardi compagni che divorava senza
pietà; di come ad Eolo venne che l’accoglieva benigno e gli dava il ritorno, ma
fato ancora non era che in patria arrivasse, anzi di nuovo questi afferrandolo,
la procella dei venti per il mare pescoso lo trascinava, con grave suo gemito:
e come a Telepilo, città dei Lestrigoni giunse, e questi le navi distrussero e
i suoi compagni robusti schinieri tutti quanti; Odisseo solo fuggì con la nave
nera. Poi di Circe narrò l’inganno e la grande astuzia, come scese nelle case
putrescenti dell’Ade, ad interrogare l’anima del tebano Tiresia, con la sua
nave dai molti banchi e vide tutti gli amici e la madre che lo partorì e
nutriva bambino. E come delle armoniose Sirene ascoltava la voce, come giunse
alle Rupi erranti e all’orrenda Cariddi e a Scilla, da cui mai uomini sfuggirono
incolumi; come del Sole uccisero le vacche i compagni; e come con la fremente
folgore l’agile nave colpì Zeus che in alto rimbomba, e perirono i bravi
compagni, tutti insieme, lui solo le male Chere evitò; come arrivò all’isola
Ogigia della ninfa Calipso, ed essa lo tratteneva bramando che le fosse marito
nelle cupe spelonche, e lo nutriva e diceva che lo farebbe immortale, immune da
vecchiezza per sempre, mai, però, persuase nel petto il suo cuore e come ai
Feaci arrivò, dopo molto soffrire, ed essi di cuore come un dio l’onorarono e
per nave lo accompagnarono alla terra dei padri […]”.
Il
racconto è sostanzialmente preciso quanto ai luoghi degli eventi. Non fa invece
alcun riferimento al tempo di questo accadere. La ripetizione del desiderio
senza uno sfondo “civile”, dai ruoli, ai compiti, ai sentimenti, alla
giustizia, è privo di tempo. È un destino che ferma il proprio corso, la
narrazione decade, il senso dell’eroe svanisce.
Penelope
condivide il senso del racconto dove prevale sempre il proposito costante del
ritorno. Quanto detto da Odisseo costituisce ormai una sapienza oggettiva. Non
esiste una domanda di verità che vada oltre la narrazione.
Siamo
certi che l’intento di Athena che riporta Odisseo sulla via di Itaca coincide
con la tristezza dell’eroe per il ritorno sempre rinviato, ma sappiamo anche
che la ninfa non gli piace più: la seduzione che seleziona e condiziona il
desiderio non può più sopraffare la memoria profonda delle forme di vita che
appartengono all’identità dell’eroe. Il tempo di Circe è molto più breve, ma
con un’ombra di fatalità del desiderio che solo i compagni della lunga ventura
possono contrastare e vincere. Segno che le vie del destino possono non
coincidere con i tempi del desiderio dell’eroe, il quale può anche dimenticare.
Ma
infine il destino che coincide con la figura dell’eroe, restituisce la
narrazione. Non c’è mai l’ombra della colpa, piuttosto del caso favorito dagli
Dei, come accade con Elena che tornerà onorata nella reggia di Menelao.
Il
desiderio non appartiene mai a una nuova immaginazione della vita, può essere
piuttosto un inganno. Il piacere non entra nel ciclo del tempo. Ogni piacere
estraneo all’alone “etico” che costituisce l’unità dell’eroe è come un ingresso
passivo, ma esistente, nel tessuto della storia.
Il
suo senso etico si manifesta nella considerazione decisiva dei figli, ma può
diventare, come nel caso di Calipso e Circe, un delizioso sonno del compimento
del destino, privo di eventi, silenzioso, lontano persino dalla ricchezza del
linguaggio. Ritornare quindi vuol dire ritornare ad essere, ritrovare, al di là
di ogni innocenza, il compito che è assegnato all’eroe, il quale vuole
ristabilire diritti che gli siano propri, degni di vendetta e di morte.
SULL’ESSERE CRISTIANI
di
Fulvio Papi
Dirsi
cristiani è così facile al punto che Croce, a suo tempo in un saggio molto
spesso citato, affermò che non possiamo non dirci cristiani.
Non
possiamo sottrarci ad un ethos che, pure in forme differenti e con numerose
contaminazioni, ha pure mantenuto e trasmesso un suo nucleo essenziale nel
volgere dei secoli. È questo sfondo che costituisce la facilità con cui ci si
può riconoscere come cristiani, se pure in un orizzonte simbolico che, nella
prassi comune, non diviene il proprio criterio univoco di identità.
Spontaneamente
ci troviamo in un meticciato storico che ha le sue prevalenze e le sue forme
memoriali. Questa è la ragione per cui è sempre difficile e futile, residuo
intellettuale di contingenti ideologie, il voler definire univocamente le strutture
dominanti della nostra modalità culturale come se in essa non si manifestino
diversi equilibri. Credo abbia senso dire che da tempo è in atto un processo di
mercificazione dei comportamenti collettivi, ma non si può ignorare che, con
forti motivazioni, vi sono molte tendenze morali contrarie, religiose e laiche,
le quali, in generale, non hanno però una loro rappresentatività nelle forme dei
poteri, quale è, invece, propria del processo di mercificazione e dei “valori”
diffusi che essa provoca, spesso in una connessione con alcuni temi classici
della modernità.
Tenuto
conto di tutte le variabili possibili, ecologiche, sociali, tecnologiche, è
difficile - e forse anche futile - affidarsi a previsioni deterministiche,
mentre invece l’incertezza dei tempi, pone ancora più forte il problema
dell’assunzione nello spazio del proprio presente, nel mondo che c’è e nelle
forme in cui si manifesta nella propria vita, una soluzione molto consapevole
della propria identità. Le opzioni talora sono complesse, ma è certo che è
fondamentale abbandonare un’idea futile di verità come esercizio di una
intelligenza priva della sua appartenenza a un corpo vivente, contingente,
mortale.
È
in questo spazio e in questo tempo che può porsi il problema di essere
cristiani. E qui non è questione di adesione a un generico quadro etico o a una
partecipazione cerimoniale, ma è in gioco la selezione della propria forma di
esistenza, vissuta di giorno in giorno nel mondo che c’è. È una “chiamata” che
si rivolge al singolo individuo, concepita però non come una devozione
solitaria, ma come una esistenza testimoniale che si ritrova in una ampia
soggettività aperta, come dicevo, nel mondo che c’è, il solo del quale possiamo
avere esperienza. Questo modo di essere cristiani mi pare sia stato evocato
molto bene assumendo la lingua di Paolo come nostro contemporaneo in un saggio
di Isabella Guanzini, “Vita e pensiero” (maggio-giugno 2019): la verità di una
vita cristiana liberata da condizionamenti assoluti e radicalizzanti e
conflittuali, quali da una parte, la legge, e dall’altro il suo opposto, il desiderio.
Paolo,
nella forma della sua testimonianza ci mostrava riconoscimento come
soggettività in cui il desiderio, la forma sensibile e ineludibile
dell’esistenza, elabora la propria assunzione della legge. In questa esperienza,
l’esperienza dà a sé stessa una forma propria centralità al di là di ogni
oggettivazione assoluta. Nella tradizione contemporanea del cristianesimo è una
posizione che ritroviamo nei tratti essenziali della teologia che, proprio
nella valorizzazione dell’opera di Paolo, colloca il valore cristiano nella sua
testimonianza a livello della mondanità esistenziale, dei suoi valori e dei
suoi poteri. In un’intervista a Paolo Bizzeti, gesuita, vicario apostolico di
Anatolia, trovo una posizione che mi pare per lo meno simile: “Io penso che
il Vangelo avrebbe molte cose da dirci, però bisogna ricordare che Gesù Cristo
era un laico, non era un prete, che per trent’anni ha fatto il carpentiere, che
non si è identificato con i “religiosi” e che è stato messo a morte da una
alleanza tra “religiosi” e “politici”. È questo Cristo la figura di cui
acquista significato pieno l’esperienza di Paolo”.
Nel
saggio di Isabella Guanzini vi è una connessione dell’interpretazione di Paolo
con motivi che derivano dalla psicoanalisi lacaniana, per cui è utile riferirne
i tratti più importanti. L’autrice ripensa la lezione di Paolo attraverso Lacan
secondo cui il “trauma” è la fine dell’ordine valoriale che aveva strutturato
il senso dominante del soggetto nel mondo, e in questa prospettiva riprende l’analisi
del senso che ha la figura di Paolo nella tradizione cristiana.
Paolo
non può non testimoniare l’insegnamento di Cristo poiché il suo “trauma”, cioè
la sua conversione, diventa il suo stesso valore identitario, la sua legge,
senza la quale non c’è più vita. Fino al punto - ricorda Isabella Guanzini -
che nelle lettere ai Galati giunge a dire: “non vivo più io ma Cristo vive
in me”. In modo ancora più radicale si esprime nella lettera ai Filippesi:
“Per me vivere è Cristo”.
Sempre
pensando a Lacan, l’autrice riprende il tema fondamentale secondo cui la legge
assoluta produce, come risposta, un desiderio assoluto, anarchico,
rivendicativo e violento. Vale, sempre in Lacan, il rapporto di
complementarietà tra Kant e Sade. Il problema è riuscire a sottrarsi a questa
opposizione, che in un pensiero diffuso può trovarsi nella equilibrata
moderazione della felicità secondo il modello dell’Etica nicomachea di
Aristotele, dove manca del tutto il tema della relazione all’alterità secondo
un’idea collettiva di bene.
Altra
è la via di Paolo, il cui problema è il rapporto vivente tra desiderio vitale e
legge, dove l’insegnamento, la testimonianza cristiana è una nuova elaborazione
nel senso sia della legge che del desiderio. Il dominio pervasivo della legge
che provoca il proprio opposto va del tutto trasformato in modo che la legge
stessa non sia rappresentativa della mondanizzazione delle opere, ma sia
“intesa come legge di Cristo”, e allora la legge si riassume nel comandamento
di amare il prossimo. Senza questa dimensione dell’amore, e il comando di una
disposizione del sentimento, tutto l’apparato intellettuale che costituisce la
narrazione del Cristianesimo, rimane un’astrazione intellettuale. In questo
caso l’altro viene interpretato solo attraverso l’amore narcisistico di sé
stessi.
Trovare
l’altro fuori dalla ripetizione di questa prospettiva è possibile solo
attraverso una nuova legge: quella del credente fermo nel suo limite e tuttavia
non accetta un fondamento nel reticolo del mondo, ma apre una nuova
potenzialità dell’esistenza che non si annulla in una qualsiasi forma di
ascesi, ma stabilisce un rapporto (l’autrice dice “tensione”) tra il mondo che
c’è e una soggettività non narcisistica. In questa forma dell’esperienza l’uno
e l’altra trovano la loro relatività, il proprio “non tutto”.
L’essere
in Cristo di Paolo ha questa dimensione fondante in uno spazio che non si
costituisce come opposto al mondo (ascesi), ma in un proprio modo di “essere
nel mondo”. Paolo ha compreso il senso di vivere dopo Cristo come un’irruzione
dell’eskaton nel tempo, il tempo messianico che si sostituisce al tempo
uniforme della legge. La sua realtà testimoniale, il suo desiderio di assumere
questo ruolo come apertura di un tempo messianico è tutto compreso nella sua
possibilità di linguaggio, nella tradizione filosofica come prevalenza della
retorica sulla metafisica, ma una retorica testimoniale della legge intesa come
relazione d’amore verso l’altro, sottratto ai limiti aggressivi del proprio
costitutivo narcisismo.
Per
stare in questa posizione è perciò necessario ripetere (o, meglio, impegnarsi a
ripetere) l’esperienza di Paolo intesa come vita in Cristo, come trauma: un
radicalismo totale, un atto d’amore verso Cristo che è destinato a mutare la
propria vita. Ripetere dunque la “via di Damasco” attraverso l’essenziale del
nostro desiderio, e cioè della nostra relatività, assumere l’insegnamento di un
tempo messianico. Qui si è destinati ad incontrare la tragedia del rapporto tra
il discorso e le forme dominanti della comunicazione, nonché con la pratica del
diritto all’individuale e narcisistico consenso del mondo.
Paolo,
in questa lettura, diviene un modello che concilia la legge con quella del
desiderio nella forma di una soggettività determinata: è nel rapporto con il
prossimo che questa soggettività può emergere, in una prassi in cui nell’amore
per il prossimo si conciliano legge e desiderio, abbandonando quella forma
assoluta, nell’opposizione tra terra e cielo, che fa di entrambi opposizione tra
inconciliabili polarità; e apre per tutti i cristiani un compito che deve
vivere in un tempo testimoniale e messianico, un inizio in ogni forma del
mondo, un compito comunque sempre aperto, il contrario di un sapere dogmatico
che nella vita sociale si rappresenta come un potere fondato sulla propria
assolutezza.
L’essere
cristiani significa poter ripetere nella propria soggettività e in relazione al
mondo che c’è, alla diffusa temporalità qualitativa, la forma di una
rivelazione che è stata il destino di Paolo: “io vivo in Cristo”. È necessario,
attraverso la testimonianza di Paolo della parola di Cristo, una rinascita di
Cristo in noi.
Attraverso
la testimonianza di Paolo della parola di Cristo, l’orizzonte che attende il
cristiano è dunque una rinascita in sé dell’insegnamento di Cristo che, mi
pare, possa esistere soltanto con la certezza di un proprio linguaggio che
simboleggia la relazione con il mondo. Così appare oggi la rinascita di Paolo
in uno spirito cristiano, la sua contemporaneità.
Certamente
l’autrice e il suo ripetitore sanno quanti temi fondamentali di Paolo sono qui
in totale ombra. È quello che accade sempre qualora vi sia il proposito
selettivo della contemporaneità: è un modo d’essere del tempo, che illumina e
insieme oscura.
***
Lo scrittore e l’altro
(Kertész
e l’Olocausto)
di Fulvio Papi
Imre Kertész |
Il vessillo
britannico del premio Nobel ungherese Imre Kertész è un’opera formata da
tre racconti scritti tra il 1975 e il 1991, date che corrispondono a due
differenti epoche politiche dell’Ungheria. La prima data appartiene al periodo
in cui l’Ungheria era uno stato satellite dell’URSS e ne riproduceva, nel
“socialismo reale”, il sistema autoritario, ideologico, politico dominato dal
potere nel Partito Comunista. La seconda data, dopo la caduta del muro di
Berlino, appartiene al momento in cui l’Ungheria è stata assimilata al sistema
economico e politico dei paesi occidentali, nell’ordine liberaldemocratico.
Poiché nella valutazione di queste vicende comunemente si usa l’opposizione tra
dittatura e libertà, è necessario osservare che per Kertész questa
interpretazione non è valida: in entrambi i casi politici grava sulla persona
comune come sullo scrittore la forza impositiva del potere. Per lo scrittore
non esiste alcuna forma di libertà oggettivamente costruita da un potere
giuridico che possa garantire l’iniziativa libera che ognuno può assumere per
garantire il suo senso: si potrà considerare con maggiore chiarezza questa
posizione quando prenderemo in considerazione il giudizio negativo che lo
scrittore dà all’epoca contemporanea dove l’umanità è ormai prigioniera nella
sua prassi, nei suoi desideri e nel suo stesso pensiero di pragmatismo di basso
valore fondato tutto sullo scambio economico, nel dominio del mercato, sulla
infinita potenzialità del denaro. In queste condizioni una autobiografia non
può che essere priva di qualsiasi continuità di senso, essa decade piuttosto in
quella strategia necessaria al singolo individuo inglobato in una identità
collettiva, quale che sia il suo timbro ideologico. La generalizzazione
ideologica, quale che sia il suo lessico, il suo rapporto con un sistema di
fini e di valori, provoca necessariamente una obiettivazione in
forme di regole, obblighi, estimazioni che sono la sconfitta, in ogni caso, la
repressione del livello spirituale che ogni singolo individuo può dare a se
stesso quando viva il suo tempo come un tratto immanente al rapporto tra la
vita e la morte. Appare così uno spazio intellettuale che contamina in una
forma inedita la singolarità di Nietzsche con l’universalità cristiana: una
sottrazione alle composizioni dell’esistenza che sono proprie del mondo
contemporaneo. Un linguaggio appartiene certamente a una storicità che ripete
se stessa e quindi replica le risorse vitali che assumono forme collettive
costruite da una generale e paradossale estraneità di ogni individuo rispetto
all’altro. Non è un concetto che può spezzare questa uniformità che va dal
mercato alla letteratura, ma un gesto emotivo che si sottrae per la sua natura
alla uniformità ripetitiva. Così “il vessillo britannico” è un’icona infantile
in cui, nella sua semplicità, è depositata una dimensione emozionale di senso
che non va considerata a livello di un simbolo storico, ma come un segno
incancellabile nel processo di un’esistenza, il limite e la certezza di una
vita alla ricerca del proprio destino.
Nel primo racconto troviamo in una storia che ripete i tempi
tradizionali di una narrazione, l’attesa comune di un destinatario che può
essere lo stesso autore impegnato nel difficile intrigo di un’autocomprensione.
La domanda fondamentale per uno scrittore che ha una visione personale e non
storica della coscienza, è questa: “Che cosa guarderà il mondo con il nostro
sguardo?” Lo sguardo appartiene sempre ad una scelta che riguarda piani di
oggettività, ma anche quei ricordi che circoscrivono un’esistenza come una
inviolabile prigionia che, invulnerabile, scrive e riscrive i lasciti della
memoria. È solo dominando con la scrittura la apparenza di queste selettive
ricordanze l’autore diventa uno scrittore, un compito che ha un potere
straordinario affinché il passato non vada definitivamente dissolto
nell’immenso vuoto dei ricordi divenuti la maschera ormai invisibile del mondo.
Uno scrittore costruito in una forma particolare di autobiografia che non è la
rappresentazione tramite lo schermo individuale di un fatto e del suo senso
secondo un valore storico, quindi non può mai assumere una tonalità magistrale,
una forma intersoggettiva di educazione. È piuttosto costretto ad un pudore del
“se stesso”, anche quando l’opinione pubblica (gli editori e gli esperti) stabiliscono
la tradizionale relazione tra l’autore e la forma di “spirito oggettivo” che la
sua opera dona come patrimonio culturale collettivo. Un simile autore, chiamato
con conferenze a testimoniare questo suo valore per la collettività, si trova
ad ascoltare la sua parola come il discorso di un altro, e quindi sopporta il
disagio dell’assunzione oggettiva di una maschera costruita dagli esperti e
attesa dalla cerimonialità del pubblico. E, diciamo noi, questa soggettività
insuperabile, questa certezza di una maschera pubblica, non appaiono come
un’eco di una classica riflessione di Nietzsche?
La storia narrata incontra il suo primo episodio proprio nella
forma esemplare di un compimento sociale dominato da un potere ideologico,
politico e burocratico: l’Ungheria e le sue istituzioni nell’epoca staliniana. L’autore, per qualche ragione che non sappiamo, si trova giovanissimo a
lavorare per un giornale per un periodo che durò quattro anni. [Che cosa è un
giornale in uno stato autoritario?] È molto facile immaginare che il foglio
quotidiano sia la diffusione propagandistica delle imprese del regime, della
sua cultura, dei benefici sociali, della formazione collettiva, degli errori e delle
immaginazioni che contravvengono a questa direttiva storica. Per il nostro
autore il giornale dovrebbe essere tutto il contrario: la silloge delle
scoperte sociali in vari settori della vita pubblica, delle aspirazioni
collettive che appaiono dal lavoro di scoperta del giornalista. Un’aspirazione
non molto diversa da quella istruzione che Gramsci prevedeva per un giovane
giornalista: scoprire e illustrare al pubblico come funziona il mercato del
pesce. Il giovane Kertész al giornale propagandistico del potere politico
risponde con un conformismo (la parola è mia) operativo e con un amore e una
dedizione emotiva e segreta alle opere di Goethe e di Tolstoj. Quale relazione
può esistere tra un lavoro giornalistico necessariamente burocratico e la
cognizione delle pagine dei due grandi, quello tedesco e quello russo?
L’equilibrio personale può essere dato solo da una pratica di occultamento di
sé, da una segretezza che nasconde la sua passione, incontenibile, per La
Valchiria di Wagner. La vita, per usare termini astratti, diviene
dipendente da uno stile che frattura necessariamente la coscienza: e i luoghi,
il giornale, e l’alloggio, possono apparire come i simboli di questa frattura.
Conscio e inconscio non c’entrano per nulla. Qui si che troviamo di queste una
abitudine alla falsificazione pubblica e la emozione personale che costruisce
una forma di vita. Del resto persino il conformismo può scivolare nella colpa
nei confronti del potere politico e, anzi il suo attento diffusore, un giorno
trova la sua disgrazia politica e da meritevole militante del partito decade al
ruolo del traditore, e quindi del colpevole. Il potere si presta a fini
interpretazioni che sono tutte nelle mani di chi dirige il paese. È una specie di regime politico che può
essere compreso in una dimensione che è propria di Kafka, autore prediletto di
Kertész, dove non è mai possibile descrivere in modo razionale la forma e la
ragione nella colpa. L’atteggiamento passivo dello scrittore viene però alla
fine decriptato e viene cercato dal giornale e avviato a “scegliere” un nuovo
lavoro, che all’inizio lo colloca nel processo produttivo di una fabbrica. Ma
il modo in cui divenne giornalista è da ricordare perché è la forma di
narrazione che lo scrittore fa propria nel racconto ai suoi allievi. Il
divenire giornalista fu l’imitazione della figura del giornalista che appare in
un libro di Ernő Szép che da scrittore di rilievo era divenuto un servo del
regime. Tuttavia, anche nel libro precedente, prima che il paese precipitasse
nel sistema staliniano, la figura del giornalista era una invenzione letteraria
in armonia con il resto dell’opera. Il che, indipendentemente, dall’effetto
falso che quelle pagine ebbero sul nostro scrittore, pone il problema del
rapporto tra letteratura e vita, dove spesso il tessuto letterario trasfigurava
l’obiettività dell’esistenza il che era diventato un problema tecnico per Kertész.
Allora non fu altro che un caso della considerazione secondo cui “la gente
reperisce la menzogna con la medesima precisione e ineluttabilità con cui può
procurarsi anche la verità”.
Il rischio sempre immanente è quello di trovare per se stessi
una “vita muta” incapace di trovare una definizione di sé che non fosse quella
costruita da un sistema di potere e dalle sue finalità. Il rischio di
“perdersi” è sempre presente: l’essere umano è come argilla che prende la forma
che l’ordine politico comanda: all’interno degli effetti di questo comando si
configurano le possibilità umane, i riconoscimenti del proprio valore. Questo
vale per la letteratura e, a livello più comune, per ogni persona: lo scambio
sociale e la valorizzazione avviene nel reciproco riconoscimento delle proprie
maschere.
La salvezza da questa caduta personale nell’insensato “tutto”,
fu per il nostro scrittore, come ho già ricordato, l’ascolto della Valchiria
di Wagner e la vana ricerca del libretto, poiché il grande musicista
apparteneva alla cultura “indesiderata”. Nella personalità del marmoreo
giornalista di regime, prendeva spazio un sapere segreto, una costruzione di se
stesso che fruiva di una possibilità che non andava oltre lo specchio di sé.
Non credo, e probabilmente non lo credeva nemmeno Kertész, che il feroce
individualismo che costruisce la sua forma di vita, sia totalmente generato da
una oggettività autoritaria che consente un solo rifugio, esso mi appare come
un epilogo che viene rafforzato dalla formazione precedente della propria vita.
Questa considerazione su un totale rischio può essere avvalorata dal modo in
cui il nostro autore reagisce all’insurrezione ungherese del ’56, e
precedentemente, elabora il senso dell’Olocausto. Vedremo da vicino questa
circostanza che ne fa un interprete - lui ebreo - del tutto isolato rispetto
alle testimonianze dei sopravvissuti alla catastrofe epocale del nostro tempo.
In queste pagine non è possibile rievocare i significati più o meno palesi
della coraggiosa, eroica resistenza dell’alleanza tra operai e studenti contro
l’invasione sovietica con centinaia di carri armati. Ripeto solo che la rivolta
non fu contro il proposito di una gestione socialista della società, ma contro
l’oltraggiosa interpretazione autoritaria e burocratica, violenta, poliziesca,
negatrice di ogni forma di libertà, che un vertice politico aveva imposto al
paese. L’eco della rivoluzione in Kertész era piuttosto una accentuata
valorizzazione nel proprio spazio interiore dell’espressione spirituale di
Tolstoj e di Goethe.
Temi come la libertà politica, la giustizia nei rapporti
sociali, la riforma di tutto il sistema di potere, la restituzione agli operai
e alla cultura il possibile valore storico della loro alleanza sono estranee
alla sensibilità dello scrittore che “scrive” e forse “vede” - l’apparizione di
una jeep con il vessillo britannico - episodi dell’insurrezione, ma
pregiudizialmente essi appartengono nel silenzio dell’autore a quella contesa
per il potere, detto in maniera un poco grossolana, appare come una guerra tra
il bene e il male. [In uno scrittore laico si ripeteva, tramite una tonalità
esistenzialistica alla Camus, il valore religioso dell’individuo (di fronte a
Dio) che era proprio della riflessione filosofico-teologica di Kierkegaard.]
Dopo la cacciata dal giornale, Kertész usa l’astuzia, oltre alle sue reali
condizioni precarie di salute per riuscire a sopravvivere, bocciolo senza
fioritura, nel sistema politico staliniano. Condurre, all’ombra del potere, una
vita da intellettuale, era perdere se stesso, né avrebbe dovuto (o potuto)
vivere il futuro come un’apertura del mondo pieno di positive promesse. Cade
così la domanda propria di una gloriosa e deprimente retorica: “Chi guarderà il
mondo con il nostro sguardo?” A voler
essere concreti bisogna dire che “il mondo” non è affatto la dimensione
totalizzante, ma è piuttosto lo spazio, la visione che è consentita dalla
passione del proprio sguardo. L’oggettività può essere pubblicizzata, ma la sua
trasfigurazione dello sguardo rimane solitaria, destinata a scomparire
nell’abisso dei ricordi. Questo per la sensibilità di una persona qualsiasi, ma
per il talento straordinario di uno scrittore? Lo sguardo è il rapporto tra
letteratura e testimonianza, dove la letteratura non deve riflettere
passivamente, nella sua composizione, la vita, e la testimonianza non deve
interpretare gli eventi mondani nella gabbia intellettuale della storicità.
Resta la forza di un allucinato realismo, dove ogni evento ha una sua plausibilità
in un insieme simile alla malignità di una favola ostile. Nella letteratura
contemporanea il maestro di questa scrittura è certamente Kafka come appare nel
lungo racconto “Il cercatore di tracce”. Il tema allude al sistema poliziesco
della dittatura, ma la narrazione all’invenzione propria del valore letterario.
Kertész ha salvato così la sua vocazione di scrittore, quale che sia l’anno
della scrittura del suo straordinario lavoro.
L’opera di Kertész più nota è certamente Essere senza
destino scritta quando l’Ungheria era ancora un paese satellite dell’URSS,
probabilmente passò senza difficoltà la censura politica perché, nel genere,
era assimilata alle testimonianze che rinnovano la memoria della catastrofe
epocale dei campi di sterminio nazisti nei quali furono uccisi milioni di
ebrei. Kertész dirà più tardi che Essere senza destino è stato
addirittura un libro collaborazionista con il regime. C’è tuttavia
testimonianza e testimonianza, e ogni scrittore, se è consentita la metafora,
ha una parte di cielo in cui può brillare la stella della tragedia, un modo
diverso di memorizzare la Shoah, quasi sempre un sospetto che le parole
seguano, quasi necessariamente, una trascrizione insufficiente, parziale, che obbedisce alla forma della rappresentazione, lasciando sullo
sfondo l’esperienza dello sterminio che non può trovare una trascrizione
dell’esperienza. Scrivere intorno a qualsiasi evento vuol dire accettare,
magari inconsciamente, un genere di scrittura, il romanzo da una parte, il
giudizio storico dall’altra, e poi la deriva dei frammenti per lo più
consapevoli, di provocazione, nella loro nefasta armonia, il senso dell’orrore.
La Shoah ha tuttavia sempre il residuo di un silenzio che la forma di
distruzione di ogni tessitura umana, porta quasi necessariamente con sé. La
letteratura che sempre attende con i suoi passi, le prove dello scrivere,
svela, nel caso dell’Olocausto, il suo destino di finzione, una normalità che
l’oggetto, la catastrofe dai volti infinitamente maligni, rifiuta per sé, e
crea in ogni narrazione o il sospetto di un involontario falso, o di una nobile finalità, di un
abisso emotivo che appartengono alla riflessione di chi scrive. Non è qui il
caso di evocare esempi: per quanto mi riguarda ho l’impressione che la
straordinaria e dolorosa avventura scrittoria di Primo Levi, abbia attraversato
tutti e tre i casi che ho nominato, concludendo con la morte l’impossibilità di
una trasformazione nella verità (che è sempre una “consolazione”) un’esperienza
reale, inafferrabile nel suo orrore.
Il caso di Kertész mi pare profondamente diverso, se non
addirittura il contrario. Tutta l’opera testimonia questa prospettiva, eppure
per restare ai sintomi letterari, credo non sia indifferente osservare che
nelle prime cinquanta pagine che sono il preludio dell’internamento del ragazzo
Kertész (15 anni) ad Auschwitz e poi a Buchenwald, appare con un suo dominio,
il verbo “osservare”. Forse non sbaglio se affermo che tutto l’anno di vita
concentrazionario, pur configurato con una prevalente osservazione che è il
punto di vista che consente all’osservatore di valutare nell’inferno, le strade
per la salvezza. Nell’opera c’è una prevalente autobiografia che svela la
vitale risposta adolescente allo sterminio, che con qualche aiuto della
aristotelica fortuna, condurrà alla personale vittoria.
Nel suo libro uscito molto più tardi Lo spettatore. Annotazioni
1991-2001, Kertész svaluterà il suo periodo concentrazionario
confermando che la sua vittoria è nata da uno spontaneo opportunismo, da una
certa capacità di conduzione di se stesso, di favorevole complicità, da
circostanze favorevoli.
Mezzo secolo dopo riduce il più possibile la sua figura di
deportato dal potere nazista: la sua riflessione autobiografica passerà a
tutt’altri temi: all’Olocausto come evento intrinseco alla storia occidentale,
alla sua emarginazione di scrittore che non ha mai creduto di aderire a
un’etica pubblica, alla fine della cultura occidentale. La catastrofe è una
simbiosi tra il destino che i tempi regalano alla identità personale e il
tramonto di una forma di autocomprensione culturale che ormai lascia il posto
ad una intelligenza collettiva che incrementa un fare senza soggettività.
Torneremo su questi temi, ma ora segniamo la storia di un ragazzo, a mio modo
di vedere, vittima di un Destino che è quello del popolo ebraico nel delirio
omicida nazista, ma anche signore di un destino nascosto, inconsapevole, capace
solo della vitalità di un’esistenza volta, nella sua sofferenza, comunque a un
avvenire.
Il titolo del libro di Kertész Essere senza destino,
deve essere spiegato nel suo senso perché questa spiegazione è importante per
comprendere tutto lo svolgimento dell’opera. La parola “destino” (che ha
significati differenti) deve essere interpretata in questi modi. Vi è uno sfondo
nel quale si può capire facilmente che cosa l’autore designi con la parola
“destino”: è il percorso di vita che ognuno nella sua libertà ha diritto di
realizzare nel mondo. È una concezione di un soggettivismo molto radicale in
cui domina, al centro, la figura, nella singola individualità. Ovviamente il
tema può diventare una massima morale, ma la sua rivendicazione può avere un
senso fondamentale se non fa riferimento alla figura di un intellettuale o di
uno scrittore. Nell’opera che stiamo esaminando non è questo il significato
preminente: la sottrazione del destino avviene nella vita di un adolescente che
è all’alba della sua giovinezza. Il ragazzo cade in una esperienza, quella del
campo concentrazionario nazista, che appartiene, si può dire, a un destino
storico nel quale cade disgraziatamente la possibilità di esistenza. La stessa
esperienza drammatica del campo nazista viene vissuta dal protagonista come
l’oppressione di un destino che il protagonista legge come una sorte toccata
alla sua vita senza poterne disegnare il significato storico. L’ombra del
destino torna quando il ragazzo dopo l’anno passato nel campo
concentrazionario, si trova nella condizione di rinnovata libertà. Qui il
destino gioca un duplice ruolo contradditorio e doloroso. Il ragazzo fa propria
l’esperienza dell’anno passato in prigionia, e quando si dice esperienza non si
afferma affatto una interpretazione univoca, come l’orrore, il terrore, la
riduzione a un numero della propria vita, ma l’insieme delle situazioni
spaventose, opprimenti, invincibili ma anche circostanze dove l’internato nel
campo impara strategie difensive, rapporti non riducibili alle regole
oggettive, apparizioni di personalità che, in un' aura di amicizia, concorrono a
formare abitudini e aspettative interne a se stesso nel lavoro, nella
alimentazione, nel riposo, nell’aspettativa. La vita concentrazionaria è un
“processo di formazione” (con un andamento del tutto diverso dalla “formazione”
dei romanzi romantici, ma con una similitudine per quanto riguarda il processo
nella trasformazione). L’anno della prigionia viene restituito al ragazzo come
un autoriconoscimento che ha la caratteristica di un proprio destino. I parenti
che accolgono il ragazzo dopo la liberazione non sono in grado di capire che
questo giovane rapito prima alla sua possibilità destinale, ma ora costruito
secondo le destinazioni del suo percorso di vita. Tra le due sponde non c’è
possibilità di decisione: il ragazzo è “diventato” quello che sente di essere
dopo la prova della prigionia, e i parenti si appellano a un dopo che dimentica
il tempo precedente. Il giornalista gli offre invece la possibilità di
trasformare la sua memoria in un racconto pubblico, al quale il ragazzo si
rifiuta. Non si può tradurre in un lessico di intrattenimento, se pure morale,
la trama emotiva, intellettuale, personale che ha costruito la sua storia
concentrazionaria. C’è l’orgogliosa solitudine di chi vuole conservare come
un’eredità temporale il suo passato che viene ormai letto come un destino
minore, rispetto alle grandi narrazioni, ma un destino che costituisce con la
memoria del suo tempo, il solo riconoscimento individuale: qualsiasi altro genere
di discorso lo deforma e perde nei suoi tratti vissuti con la risorsa delle
proprie possibili passioni. Il destino perduto è diventato il cammino verso un
destino ignoto, che solo comporta il consumo della sua vicenda adolescenziale.
L’opera di Kertész può convenzionalmente essere letta secondo
quattro periodi, avventure del protagonista ciascuna delle quali costituisce,
secondo, segni di esperienze diverse, il proprio protagonista.
Con due costanti fondamentali molto differenti ma
fondamentali.
Per un verso è l’osservare situazioni, circostanze,
personaggi, luoghi, paesaggi, il che comporta una particolare modalità di
comprensione anche nell’osservatore. L’altra costante è la difesa naturale del
se stesso, che va dal comportamento del “bravo detenuto”, alla sopportazione
di pene inevitabili in un processo che mantiene la sua finalità, ma in una
scena differente nel suo tragico sviluppo il protagonista convive, dopo tre
mesi, con la propria decadenza fisica per il lavoro dai tempi interminabili,
una ambientazione buona solo per una minimale sopravvivenza, la soggezione a
comandi, regole e personaggi che adoperano “gli uomini” per la finalità della
macchina concentrazionaria che è segnata dalla produzione utile al Reich non
momento (1944) in cui appare chiaro l’esito di una atroce sconfitta, degna
della vergogna morale della Germania hitleriana (queste sono parole mie, non
dell’autore).
Parlavo di cinque periodi, che ora cercherò di caratterizzare
con un breve elenco: Budapest, tardo inverno primavera, l’Ungheria viene invasa
dai tedeschi che supportano il governo fascista dell’ammiraglio Miklós Horthy.
Sotto questo governo gli ebrei vengono individuati e costretti a portare sugli
abiti il distintivo giallo, ma non subiscono particolari vessazioni. Con
l’arrivo dei tedeschi, gli ebrei, con il pretesto dei campi di lavoro, vengono
deportati in vari campi di concentramento (e di sterminio). La tempesta si
abbatte sulla quieta famiglia ebrea Kertész, una piccola azienda, la scuola
(non amata) del nostro protagonista. Il padre viene reclutato subito per il
lavoro obbligatorio: i preparativi per un trasferimento che viene pensato in
modo speranzoso, come un’andata e ritorno. Poi è la volta del ragazzo e dei
suoi compagni. L’accorpamento avviene in un luogo raggiungibile con tragitto in
autobus. Ma una mattina l’autobus viene fermato, vengono fatti scendere i
ragazzi ebrei che, dopo crudele procedura, vengono caricati su un treno per
destinazione ignota. Il viaggio in 60 persone in vagone merci: alimentazione
possibile ma assoluta mancanza di acqua. Dopo alcuni giorni li attende la
squallida fermata di Auschwitz-Birkenau, come scendono dal treno comincia una
selezione: da una parte gli abili al lavoro, dall’altra donne, bambini, vecchi,
infermi: li attende l’eliminazione tramite il gas. Le ciminiere restituiscono
un fumo bianco. I prigionieri che accolgono i nuovi arrivati dicono
precipitosamente al ragazzo “di sedici anni”: è l’età che distingue chi andrà
al lavoro e chi verrà eliminato. L’informazione è la prima salvezza: dai tubi
che dovrebbero condurre l’acqua arriva il gas, i cadaveri vengono poi gettati
nei forni crematori. Non appare evidente che il ragazzo avesse chiaro tutta
questa procedura, tuttavia la sua percezione è quella di chi comprende che
l’essere nel gruppo in cui sono anche i suoi compagni, significa avere futuro.
Ad Auschwitz la sosta è molto breve, solo tre giorni. Riprende
il terribile viaggio che il ragazzo sopporta senza dispendio di paura e di
deprimenti emozioni, riesce sempre a trovare un equilibrio personale. Il
panorama di Buchenwald (come dice il nome) è molto diverso, prevale un
verdeggiante boschivo e “tetti di tegole rosse sulle colline”. La procedura di
accoglienza è la stessa, sulla striscia di tela c’è il solito triangolo giallo,
una grande U (ungherese) e stampato un numero (64921) che è bene imprimersi
bene nella mente perché nel campo è il proprio nome. L’abitazione è una
tendopoli, il cibo è un po’ superiore alla esiguità di Auschwitz, c’è l’acqua,
i servizi igienici sono all’aperto. C’è il crematorio, “ma vengono bruciati solo
quelli che decadono”: il luogo al ragazzo appare come un campo accettabile, ma
non è la destinazione definitiva: una notte di viaggio e viene trasferito a
Zeitz, perché il suo nome, nella scelta, prende la M: cioè perde tutti i suoi
compagni, i quali avevano costituito un gruppo dal tempo della “cattura” a
Budapest. E del soggiorno nel campo di Zeitz che l’autore riceve la sua
esperienza di deportato: “un
campo di concentramento di provincia”: quivi avere cercato invano le docce e
addirittura un crematorio. L’alloggiamento
è una tendina. E da circa metà dell’opera inizia la narrazione quasi diaristica
della vita del ragazzo Kertész dove accanto alle dure ore di lavoro si innesta
un piccolo mondo che coinvolge i vicini nella tenda, le regole intorno ai tempi,
l’intreccio delle conoscenze, l’ordine prezioso dell’amicizia, la conoscenza
necessaria degli ordini, il dominio dei sorveglianti di vario grado ma tanti
appartenenti ai deportati con varie nazionalità. Si assesta così una specie di
vita quotidiana nella quale per limitare i danni e conservare quel nuovo
“tutto” che resta di sé, conviene assumere la figura del “buon detenuto” che
oggettivamente si vede nel comportamento lavorativo, e soggettivamente nel
suddividere le razioni alimentari per non rischiare di restare senza mangiare.
Ci sono tre risposte possibili per rispondere alla detenzione: la prima è
l’immaginazione che comprende la vita passata non solo per ciò che è accaduto,
ma per le occasioni che non sono diventate realtà. La seconda è cercare di
prolungare almeno di un’ora il proprio sonno in un nascondiglio irraggiungibile.
La terza soluzione è quella di tentare la fuga, ma i fuggiaschi vengono ripresi
e impiccati. La resistenza alla fatica e all’oppressione appartiene dunque solo
alle abilità personali: questo è l’equilibrio che un adolescente riesce a
rendere possibile tra un destino che gli deforma crudelmente l’esistenza e un
destino ravvicinato e fatale che coincide con la capacità di puntare sulla
conservazione della propria esistenza. Tuttavia tre mesi di questa vita
quotidiana hanno i loro effetti per la figura del detenuto modello. La psiche
resiste alla violenza, adatta una tecnica di autopreservazione, ma il lavoro
duro e interminabile, il sonno del tutto insufficiente, l’alimentazione oltre
il limite della sopravvivenza, trasformano il corpo secondo una decadenza che è
visibile in un viso dall’espressione quasi irriconoscibile, da una struttura
corporea che pare portare i segni disastrosi di un’atroce vecchiaia, un corpo
sul quale si manifesta la malattia, la scabbia, che dispone di indumenti sempre
inzuppati di acqua piovana, i piedi imprigionati da zoccoli col tempo
trasformati dal fango che diviene il luogo del proprio movimento. Al
sorvegliante - tutti i sorveglianti (bisogna ricordarlo) sono detenuti di varie
nazionalità che sono stati promossi di grado e godono di qualche privilegio -
occorre chiedere il permesso per recarsi a una latrina a causa di una
devastante dissenteria. Un incidente che accade sul lavoro viene punito con una
bastonatura che il corpo ormai quasi insensibile non avverte nelle sue
conseguenze. Ma peggio di tutto una sacca di colore rosso vivo che si è formata
sul ginocchio: è un’infezione che coinvolge tutta la gamba. La terapia richiede
un intervento chirurgico che il medico chiede al ragazzo se si sente di
affrontare. Nella bolgia del campo di lavoro, è la prima volta che gli viene
chiesta un’opinione personale. Il ragazzo si sente per un momento vivente come
un soggetto. Le necessità della terapia richiedono un ospedale più attrezzato
di quello che non fosse nel piccolo campo. Il detenuto spossato, perito,
affannato, insonne, tormentato dalle pulci e dai pidocchi viene rispedito a
Buchenwald come tutti coloro che a giudizio dei medici (anche loro internati
nel campo) non avrebbero più potuto riprendere il lavoro. Il solito viaggio
penoso con le ferite aperte per l’operazione. L’arrivo a Buchenwald significa
l’essere messo a terra su uno strato di ghiaccio e sotto una pioggia gelida: il
ragazzo vive come assente la sosta che gli è toccata e gli nasce il sospetto
più che verosimile di essere destinato all’eliminazione. La realtà che lo
attende è più favorevole: “una voce gradevole, maschile, gentile, e il tedesco
da lager” gli giunge come una promessa: “Was du willst noch leben”. Viene
trasportato in un luogo dove da rubinetti più alti cominciò a scorrere
“abbondante e generosa”, dell’acqua calda. Non è affatto la ripetizione dello
stile proprio di Auschwitz per l’eliminazione. Il luogo finale di quest’ultimo
transito pieno di interrogativi è invece una specie di ospedale adibito ai
ragazzi della sua fascia di età. La cura è affidata a un medico francese “con
una fascia sulla manica e il segno rosso con dentro la F”. Il medico è del
tutto benevolente, ma i ragazzi lo beffeggiano perché è ungherese. E qui inizia
la parte forse più interessante dell’opera con la descrizione delle condizioni
di vita dello strano ospedale, il rapporto amichevole con Pyetko un
sorvegliante amichevole, un nuovo intervento medico sulle ferite precedenti. Il
ricovero nella
piccola stanza di ospedale è quanto di meglio si possa desiderare: “devo
ammettere che non posso proprio desiderare di più che non posso pretendere di
stare meglio in un campo di concentramento.” Il ritorno a Buchenwald e le
condizioni favorevoli con il ricovero all’ospedale del campo hanno ridato al
ragazzo la certezza che da lì sarebbe uscito vivo e libero, che viene concepita
nella possibilità di mangiare. La propria salvezza è la difesa del corpo, il
futuro è inteso come aspettativa sicura di mangiare un’altra volta. La libertà
è costruita in questa semplice ma fondamentale dimensione, priva di parole
simboliche. E da qui si potrebbe iniziare il discorso intorno al senso che il
ragazzo percepisce nel valutare la propria vita di internato nei lager
tedeschi. Il suo giudizio della propria sofferenza e della propria salvezza si
determina su due silenzi che dovremo considerare. Il ragazzo non si identifica
con la prospettiva che gli mettono davanti i parenti: sei passato per l’inferno
ed ora comincia una vita del tutto libero. La risposta a questa semplificazione
è di rifiuto totale. La propria vita non può essere divisa in due parti
disgiunte dalla dimenticanza, dalla cancellazione. La soggettività vive la continuità
del proprio tempo: quello dell’anno precedente è stata la vera risorsa vitale
per affrontare senza interiori smarrimenti o inutili precipizi della
disperazione le condizioni di deportato e quello successivo che ne porta i
segni. Dimenticare è una banale stupidaggine verbale: “si è diventato”, ma è un
sapere privo di orizzonti enfatici. La vita libera si prende come essa si
offre, e non è affatto sempre una opportunità, talora può essere una
circostanza che è estranea alle stesse possibilità del linguaggio della memoria
come forma della propria solitaria salvezza. Quivi si può leggere il rifiuto
del ragazzo a collaborare con un giornalista, del resto volonteroso e buon
interprete della sua professione, al fine di scrivere articoli sulla esperienza
dei lager. L’esperienza cui è stata costretta la propria vita non può diventare
una notizia oggettiva, l’oggettivazione storica come “dicotomia”, circostanza
esteriore per esibizioni di orrore teatrale, di scandalo morale. Deve rimanere
nel segreto dell’essere se stessi. Il consumo del proprio tempo, i nuovi
ostacoli o incontri collocheranno il tempo del lager come una qualità della
memoria o come l’ironia della dimenticanza. Il ragazzo diventerà il premio
Nobel Imre Kertész, ma, almeno al suo interprete, parrà una figura da sempre
capace di individualismo irriducibile ed ogni forma pubblica, difeso da una rimostranza alle condizioni che pure saprà aprire nella propria vita. Uno scrittore ungherese, eppure scrive e parla
una lingua nazionale che solo pochi conoscono, e quindi tale che condanna il
modo di poter vivere di un autore, una condanna a una povertà della propria
individualità. Quest’ultima proposizione è certamente derivata nella mia
scrittura da Wittgenstein, un autore che lo scrittore conosceva bene ma
soprattutto sul celebre rapporto tra discorso e silenzio. In questo quadro è
lecita la domanda: “che cosa di preciso ricordava il nostro autore?”. Posto che
il ricordo è soggetto a molte circostanze che ne provocano selezioni,
deformazioni, trasformazioni, spesso secondo dinamiche emotive che riguardano
il soggetto, la sua maturazione nel tempo, le modalità scelte per incrementare
la propria autostima e per mostrare agli altri un ideale se stesso. Inoltre,
memoria estrema è quella che è accaduta a Jean Améry, citato nel libro di Primo
Levi I sommersi e i salvati: “Chi è stato torturato rimane torturato
[…]” “chi ha subito l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La
fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita dalla
tortura, non si riacquista più”. Améry si uccise, e uguale fu la sorte di Primo
Levi perseguitato da quel se stesso vittima della ferocia nazista e
probabilmente incapace di riconoscere il se stesso di Auschwitz con la sua
stessa descrizione letteraria dell’orrore del campo, di sopportare un se steso
scrittore di una abominevole atrocità oggettivata e dall’oppressione che il
tempo non aveva cancellato nel profondo di se stesso. Imre Kertész è fuori da
queste impossibili sopportazioni. Riuscirà a diventare solo un importante
scrittore e a osservare se stesso scrittore come da ragazzo prediligeva,
inconsciamente, l’osservazione nel mondo a qualsiasi altro sentimento che
potesse nascere dall’esperienza.
Il libro Lo spettatore, pubblicato poco prima della
morte di Imre Kertész raccoglie annotazioni tra il 1991 e il 2001. La sua
lettura è emozionante perché il suo “diario” (il genere ci è dato dall’autore
stesso) non conduce su una “retta via” che coincida con la certezza di se
stesso, ma proprio, quasi al contrario (salvo eccezioni anche di considerevole
importanza) nasce spesso da una frattura che trasporta una sua antica
predilezione, l’osservare, nell’ambito di se stesso. Ma anche su questa
considerazione bisogna venire in chiaro. Il genere “diario”, come insegnano gli
esperti di questi problemi, non è affatto una figura letteraria univoca.
Consideriamo due estremi: c’è il diario (se esiste) di chi ha comandato la
Quinta Armata americana nel ’43 - ’45, ed è una raccolta di fatti che già si
inscrivono nella “storia”. E c’è il diario “intimo” che vuol fermare sul foglio
il suo modo emotivo di aver partecipato alla vita: in questo caso un pensiero
che vede una confidenza di qualche minuto, si dilata sulla pagina fino a
diventare un racconto.
Il caso del diario del nostro scrittore ha una sua completa
originalità: il titolo conduce sulla giusta strada: Lo spettatore.
Osservare, guardare, diffidare rispetto a ogni condivisibile generalizzazione
rispetto a che caso? A quel se stesso che, necessariamente, si trova “gettato”,
in possibile forma di vita, in possibili ordini di giudizio, in possibili
valutazioni condivise, cioè in un mondo, e osserva, spiega, giudica questa
relazione, sia composta o meno, come una scena un poco simile a un giudizio del
sé che scrive e del sé che viene scritto. Però non bisogna immaginare uno
specchio che ti restituisce l’immagine, ma piuttosto un osservatore che frequenta
tutti i sentieri del possibile, del razionale, dell’immaginario, dell’umore
personale e della catastrofe oggettiva, delle stagioni dell’equilibrio e dei
ricordi dello smarrimento.
Se le cose stanno come ho cercato di riferirle, non è
difficile ritenere che sia difficile dare all’opera un resoconto soddisfacente
o, addirittura, esaustivo. Nella nostra rete resteranno solo alcuni temi che
sono importanti per lo scrittore e rivelazioni (o quasi) per il lettore
“critico”: credo che da questa situazione non si possa uscire se si considera
l’opera nel suo insieme. Per evitare lo smarrimento ho fatto quello che non si
dovrebbe fare di un diario: ho selezionato i temi il cui senso ho appena
ricordato, ho confezionato sempre una serie di sicuri giudizi: un autore come
Kertész troverebbe questa soluzione di bassa misura, di intrigo intellettuale,
di oggettività gnoseologica. Qualcosa del genere capita con tutti gli scrittori,
con Kertész diventa più clamorosa.
Il titolo di queste note dal 1991 al 2001 è perfetto: Lo
spettatore. Tuttavia bisogna sapere che sia questo spettatore, poiché non
tutti gli spettatori sono uguali e le loro differenze si possono trovare in un
modo molto semplice, cercando a nostra volta di comprendere quali sono gli
affetti dello spettatore. E poiché Kertész sostiene che la grande letteratura è
solo confessione dobbiamo porci da questo punto di vista. Nelle sue note parla
anche di una sua “evoluzione” è un punto di vista un poco diverso perché
valorizza il processo della vita, data la metafora biologica, mentre la confessione
mette in luce i fatti che se non sono affatto peccati, hanno tuttavia il loro
carattere che è certamente individuale e non storico. L’autore medesimo ci
mette su questa strada: l’osservatore in ogni circostanza ci dà l’elaborazione
personale di immagini che derivano dalle opinioni di un’immagine costante di un
soggetto che si pensa come ebreo. In questa destinazione tutta la filosofia
diventa poesia e occorre soffermarsi a questo livello: se si traduce il ricordo
o il giudizio nei “grandi sogni” non si è più osservatori. Anche il precedente
concetto di evoluzione è una contraddizione o, più semplicemente, una abitudine
narratologica difficile da dimenticare. Sono gli anti-semiti che costruiscono
l’ebreo che è conservatore della grande cultura europea da Mann a Proust, da
Brecht in avanti: esso è anche uno scrittore che costruisce un “ebreo”
contemporaneo e sociale che non ha niente a che vedere con la grande massa di
ebrei poveri e osservanti che sono l’oggetto letterario di Roth e di altri
grandi scrittori di queste comunità ebraiche che sono state l’oggetto di
sterminio della ferocia nazista.
Il nostro autore è contro la civiltà contemporanea dominata
dal tecnicismo, dalle forme pubbliche di pensiero di natura operativa e,
soprattutto, delle forme politiche che hanno reso impossibile l’autore. Se
vogliamo evocare un Nietzsche che non può non lievitare in queste pagine,
allora è il Nietzsche della Nascita della tragedia (la espressione
poetica) contro la potenza che diviene regime politico: il nazismo che
distrugge tutti i valori che identificano l’umanità, il bolscevismo che provoca
lo stesso effetto ma come conseguenza necessaria dell’affermazione del potere,
la democrazia occidentale perché vuole ridurre a se stessa tutto il mondo.
Allora l’autore in un mondo dominato da questi rapporti di potere e di
annullamento della creatività soggettiva, dove si può collocare? In quella
radicale de-storicizzazione dell’esistenza che è il rapporto tra la vita e la
morte. Ma se questo è lo spazio per l’autore, come si configura la vita del
personaggio che è in un mondo che impone se stesso e le sue regole, e il cui
destino deve essere come autore proprio quello di promuovere la dimensione
spirituale dell’esistenza? In questo senso è aperta solo la strada
dell’assoluta solitudine soggettiva, della virtù senza relazioni: anche la
relazione d’amore stabilisce un effetto eteronomo, una teatralità non priva di
esercizi di potere. La scena teorica è drammatica. Ma quando si scende dall’eco
estremo della parola all’esprimere comune di un autore che, al di là del suo
discorrere radicale, vive la condizione del quotidiano, allora troviamo
l’apparizione di due città. Budapest è la città dell’oggettivazione, delle
persone-cose, del fare che è solo interiorizzazione del dominio. Vienna, al
contrario, conserva qualcosa nel reciproco riconoscimento sentimentale che nel
gesto comune rispetta, nell’eleganza dei tratti, anche i fini semplici, la vita
segreta di ognuno, non sente rovinosa la distinzione tra interiore e sociale.
Poiché Kertész si definisce scrittore dell’Olocausto, su
questo tema dovremo fermarci per trovare il suo senso e, a mio parere la
trasfigurazione metaforica troppo lontana dalla tragedia proprio perché essa
nasce da una considerazione “metafisica” della propria libertà come scrittore:
la sua condanna (a 15 anni) diviene il simbolo dell’Olocausto. È chiaro che in
questa prospettiva gli elementi complessi e tragici della Shoah finiscono
nell’avere una considerazione ideale, una storicità di un disegno di una metafisica
storicità. Non hanno distrutto Auschwitz perché è Auschwitz, quindi per la sua
esistenza come realtà che appartiene come capitolo inconfessabile della storia
europea, ma perché è cambiato il sistema di potere. La prospettiva nella quale
collocare un qualsiasi discorso sul campo di sterminio va collocato nel
“fallimento dell’Europa”. Questo giudizio, che ha una sua potente forza
espressiva, svanisce tuttavia nella sua generalità. Il fallimento dell’Europa,
un’Europa da capire nelle componenti che ora dobbiamo richiamare, è data da
alcuni elementi che le conferiscono un’identità. La prevalenza di una cultura
tecnico-scientifica che costruisce una sua oggettività che chiama
inesorabilmente nella sua funzione l’insieme delle risorse umane. “La mia cultura
- dice lo scrittore - è l’Olocausto”: sono la scrittura dell’Olocausto anche
quando non scrivo dell’Olocausto, al contrario degli scrittori ungheresi, con
l’eccezione di Márai, che son del tutto esterni al massacro dell’esistenza
umana come creatività spirituale, non ne percepiscono il senso che conduce alla
consapevolezza della fine di una cultura bimillenaria. La prospettiva che
oblitera il senso di Auschwitz è la sua riduzione a un evento storico: Hitler è
l’omicida dell’umanità sin dai suoi progetti e dalle sue azioni degli anni
Venti, il potere gli ha conferito una diabolica macchina burocratica che gli ha
consentito di immaginare la razza tedesca come dominatrice dell’Europa, e
signore della storia, con la sua distruzione degli ebrei e la sottomissione a
macchine servili i popoli che devono essere sottomessi. Un giudizio di questo
genere rispetta i fatti accaduti, ma non ne esplicita il senso che si svela nel
suicidio della cultura europea. In Kertész siamo al giudizio sconvolgente
secondo cui “si dovette vivere Auschwitz, sia che si fosse vittime o
carnefici”. Un giudizio che non è condivisibile nemmeno in minima parte, ma che
nel disegno dello scrittore conduce ad un auto-esame che nella forma più
completa è l’“autodistruzione sacrificale”. Questa prospettiva che è la
risposta degna e possibile ai criminali nazisti che si elabora in uno scenario
privo di una giustificata giustizia storica, ma passa attraverso l’identità
nostra che nella modernità abbiamo costruito. Il suo riflesso è nella figura
dello scrittore che giudica la propria opera all’altezza o meno della
temporalità tragica dell’Olocausto, che non è un mondo della letteratura, ma la
letteratura come disegno della catastrofe europea che passa attraverso la
propria vita. Vita che non può comporsi in una identità: la memoria conduce alla
rivendicazione dello “spirito”, contro l’assassinio dell’umanità, l’altra parte
di sé finisce dall’essere formata da quella quotidianità scellerata che il
giudizio comune ritiene neutra, o il luogo in cui si distingue il bene dal
male, il discorso sull’Olocausto del grande scrittore che con le sue parole
raggiunge la sorda coscienza degli ascoltatori ignari del proprio gratuito
teatro.
“Ho atteso 60 anni per scrivere quello che ho detto e la vita
se n’è andata”. Per questa prospettiva quando “si dovette vivere” il ruolo che
ci era capitato, è assurdo chiederci perché non c’è stata una resistenza
ebraica (convinzione del resto non del tutto esatta): la resistenza ebraica
(per lo scrittore secondo l’identità tra l’ebreo e l’alta cultura) è la
conservazione del passato che aveva aperto la vita dello spirito. L’essere
ebreo coincide con la libertà personale che, a sua volta, è l’unico
comportamento possibile che concede di distinguere tra ideologia ed esperienza vitale.
Se “gli ebrei” sono una costruzione dello sguardo dell’altro, bisogna
concludere che l’altro è una costruzione storica, il desiderio osceno della
distruzione di ogni apparizione umana che prospetta una possibilità della vita
che vada oltre al trovarsi sulla terra senza sapere che cosa fare di sé, una
attesa di una collettività folle e aggressiva e gloriosa nella sua identità
paranoica (non sono parole dello scrittore) che legittimi, anzi idealizzi, lo
stile distruttivo della sua esistenza. Lo stile nazista appartiene a tutti
coloro che non sanno trovare un senso al loro posto nel mondo, e attendono che
una ideologia collettiva conferisca un loro senso, la cui propria esistenza
riesce forte e coesa se crea una alterità verso cui rivolgere la propria potenza
e il proprio dominio. L’ebreo nella ideologia nazista è questa figura, ma
questa figura è resa possibile da una cultura che materializza l’uomo, ne fa
una figura insofferente di ogni valore ideale. E questo significa distruggere
le radici dell’umanità e quindi fare dell’Europa una “terra desolata” nei
confronti della quale io, come scrittore, cerco di opporre un ebraismo
simbolico che congiunge il mio lavoro a una grande storia che è una creazione
epocale e non una storia didattica che immagini con la violenza una sua
redenzione.
C’è stato un attimo - dice Kertész - in cui poteva sembrare
che la rivoluzione facesse apparire nel mondo l’espressione dei valori
spirituali: è stata la brevissima speranza della Rivoluzione russa che ha
immediatamente praticato una delle forme del potere che annullano l’esistenza
umana. Vivere umanamente significa tracciare nel mondo strade simboliche che
nascono dalla libertà creativa degli artisti. C’è certamente in Kertész l’idea
che l’educazione dell’uomo, il farne un essere libero dalle contingenze
materiali, abitante di un luogo privo di domini e di potere, appartiene ad una
élite - culturale. L’ “ebraismo simbolico” è rappresentato nell’Apocalisse,
Nietzsche, Camus (suppongo il primo Camus, l’esistenzialista dell’assurdo),
Kafka, Beckett, un patrimonio culturale che si congiunge con la grande
tradizione borghese: Mann, Joyce, Proust. La poetica letteraria di Kertész vuol
essere il ricordo di questi valori il cui odio ha condotto alla tragedia
dell’umanità. Ma un buon ricordare richiede il conservare una parte limpida di
sé contro quell’uguaglianza materiale che ha la sua pratica nel consumo e il
suo spazio nella globalizzazione economica. Lo scrittore deve ritrovare in sé
la libertà che quella distruzione criminale di Auschwitz ha voluto distruggere.
Credo che nessun lettore dello scrittore non si accorga che lo sterminio di
milioni di ebrei in queste pagine ha assunto un valore metafisico che può
essere considerato come fosse la storia stravolta, frustrata, colpita della
libertà spirituale dove la poesia è il destino più alto dell’umanità, una volta
che un tempo (ecco il ricordare) apparteneva al patrimonio dell’Europa. C’è un nazismo
- replicherebbe l’autore - che è la distruzione dell’uomo senza bisogno dello
sterminio con le camere a gas. Questa
metafora che corre sempre nelle notazioni dello scrittore non è certo la
migliore storia di Auschwitz. L’aver voluto abbandonare ogni differenza nella
storia quotidiana degli uomini per adire a una grande storia ha finito con lo
sproporzionare gli eventi che diventano il pretesto tragico per una vocazione
estetica. La memoria è l’occasione privilegiata non la pietà o la rivolta del
pensiero. L’apoliticità fomenta la trascrizione delle tragedie storiche in un
problema sul senso della letteratura, e, quasi, sulla vita dell’autore.
Queste considerazioni credo possano aiutare a comprendere il
giudizio di Kertész su Auschwitz che riprende la famosa tesi di Hannah Arendt
sulla banalità del male. E qui non bisogna equivocare: il male può essere
senz’altro l’esercizio di una burocrazia che esegue una finalità senza porsi il
problema del suo senso. Ma il male, il progetto criminale, l’ossessione anonima
viene prima sia della sua burocratizzazione, sia, aggiungo io, della sua
adesione di massa. E questo secondo tema non è estraneo al nostro scrittore che
si trova, quanto alla massa, in una valutazione opposta a quella elaborata da
Canetti. Piuttosto vi è certamente l’eco di Nietzsche, dove il gregge devoto
valorizza la criminale attitudine che è inscritta nella stessa devozione a una
legge. Kertész pare abbia ridotto il diritto alla libertà dello scrittore,
tormentato dal senso del suo lavoro, che soffre al misconoscimento del suo tema
ungherese, ma è aperto a un’attenzione ben più ampia, che pure lo mette in
sospetto.
È il solito problema della cultura che vorrebbe anche essere
educazione di massa, dove Auschwitz gioca il ruolo più basso dell’inferno per
l’uomo. La libertà dello scrittore è tuttavia sempre invasa dalla polvere del
quotidiano, lo spirito è segnato dall’ombra del negativo. È un problema serio
che Kertész ha dovuto sentire più di quanto comunemente non accada. Ma quante
volte Hitler nei suoi folli discorsi ha chiamato il popolo (questa l’identità
semantica) a condividere la sua identità con l’assassinio di milioni di uomini?
Un filosofo e un giovane antropologo
alla ricerca della teoria
di Fulvio Papi
Ugo Fabietti |
Quando Ugo Fabietti venne a Pavia per
continuare con me gli studi di antropologia iniziati a Milano con Remo Cantoni,
la sua “aurorale” cultura antropologica era certamente più attrezzata della
mia.
Ugo aveva studiato analiticamente Malinowski, grande antropologo
funzionalista che aveva elaborato un modello di intelligibilità delle varie
culture in una storia culturale dell’antropologia, e si trovava in un punto
privilegiato per stabilire relazioni fondamentali e necessarie con altre
correnti di questa cultura.
Dal canto mio potevo offrire una passione emotiva e un poco ingenua per
le formazioni culturali che erano rimaste estranee alla “occidentalizzazione”
del mondo. “Tristi Tropici” (oggi oggetto di critiche severe) aveva lasciato
una traccia molto forte, così come gli altri lavori per così dire “narrativi”
di Lévi-Strauss.
Dal punto di vista astratto, da marxista critico (come si diceva allora) mi
ponevo, anche per le società più semplici, il problema del rapporto tra la base
economica e produttiva e le forme culturali, le modalità organizzative di una
comunità, le strutture familiari ed educative.
Mi ponevo, anche stimolato da audaci psicoanalisti, il problema dell’inconscio
in una forma di esistenza che non aveva niente a che vedere con i disagi
psicologici dell’alta borghesia viennese, che era stato il campo dell’indagine,
molto problematica, di Freud. Nessuno può ritenere che queste mie escursioni potessero rappresentare un
sapere antropologico.
Si trattava di esplorazioni culturali di un filosofo inquieto che, nella
sua limitata proporzione, forse ripeteva quel malessere intellettuale che a metà
degli anni Trenta (da Lévi-Strauss a Sartre) percorse la più giovane cultura francese
nei confronti della grande tradizione razionalista. Allora però non avevo affatto questa interpretazione.
Comunque questa era l’atmosfera culturale che potevo offrire a Ugo, il
quale, per conto suo, aveva già una embrionale attitudine verso un sapere,
l’antropologia culturale, che cominciava a costituire una tradizione. Così potevamo studiare insieme.
Probabilmente per una suggestione antica del mio marxismo, nel quale, tuttavia,
le riflessioni antropologiche di Engels non avevano alcuno spazio quando si
trattava di teoria, nelle lunghe conversazioni all’ombra dei boschetti dell’idroscalo di
Milano, tornava sempre in primo piano il rapporto tra le forme di riproduzione
economica e quelle relative all’ordinamento sociale. Ugo, d’altro canto, aveva
preso contatto a Parigi con Meillassoux, un valente antropologo di tradizione
marxista, del quale a me era nota l’interpretazione classista del razzismo
occidentale in Sudafrica.
A me pareva che avessimo già alcuni elementi teorici per tentare una
nostra impresa antropologica (dico “nostra” perché il rapporto con Ugo era
molto stretto). Così che la tesi di laurea di Ugo fu centrata sul rapporto tra
produzione economica e forme della cultura in una popolazione amazzonica.
A Pavia qualche collega ci guardava più con diffidenza che con curiosità.
Ma Ugo (e anch’io) vinse la sua partita anche locale guadagnandosi
l’attenzione di Cesare Segre che, attraverso la conoscenza dello strutturalismo
linguistico, era giunto alle soglie della conoscenza antropologica, allora in
ascesa.
Vorrei ricordare che era anche il tempo di giovani antropologi estremisti
che usavano la conoscenza di società semplici prive del valore di scambio,
dell’apparato statale e giudiziario, delle varie forme di obbligazione sociale,
per contestare la nostra società prigioniera di una prassi e di regole
interpretate con la parola freudiana “repressione”, parola tuttavia deviata dal
suo significato originario. Ugo capì subito che qui vi era una festa ideologica
rousseauiana, un po’ di maniera ma nient’affatto una conoscenza antropologica, quale
era l’obiettivo della sua ricerca. Credo che oggi mi sia consentito di dire che
da parte di Ugo si trattava di una ricerca critica intorno a forme di realtà.
Un obiettivo che ha sullo sfondo un’educazione sotterranea del nostro
razionalismo critico, e in prospettiva la formazione scientifica di una particolare
figura di studioso. Ugo, infine, partì per l’Arabia poiché il richiamo della
teoria antropologica (come quella estetica, storica, politica, scientifica) si
deve esercitare sul campo. È con questa esperienza, una severa autoeducazione, che
si diventa antropologi.
Il proprio patrimonio filosofico, così come c’era in Ugo, si trasformava
in una implicita criticità, quindi in un senso del proprio lavoro come
conoscenza.
Qui abbandono la mia memoria perché la strada di Ugo ormai apparteneva
tutta alla sua esperienza. Diventavo, come deve essere, un suo lettore.
E poi, quando ho perduto Ugo, il suo sorriso affettuoso, la sua parola
sapiente e amica, ho dovuto fare l’esperienza di quel vuoto definitivo che,
nella teoria, ho sempre opposto all’elaborazione freudiana del lutto.
Abbandonando “il pensiero” ai suoi privilegiati labirinti, a una vecchia
vita rimane il suono di un dolente “mi ricordo”.
La prova del mondo e la parola di Gesù
di Fulvio Papi
Per una lettura del
Vangelo secondo Matteo
Il Vangelo secondo
Matteo che noi comunemente leggiamo è il risultato di un processo di “canonizzazione”
il cui processo sarebbe interessante conoscere nelle sue forme di storicità. Quello
che conosciamo intorno al testo di Matteo lo dobbiamo a studi storici già
acquisiti dai quali possiamo derivare una considerazione molto importante che
deve aiutarci nella nostra lettura. Matteo non è simile a uno scrittore che
scriva di sua iniziativa un testo originale. Il suo testo assomiglia piuttosto
a una collocazione “storica”, di tradizioni orali o di copisti che si collocano
in un tempo piuttosto breve, che elabora (e ricorda) l’evento di Gesù nella
cultura ebraica. In questa prima memoria cristiana, il testo di Matteo è un
assemblaggio testuale che ha un suo autore che mostra come la figura e l’opera
di Gesù, dopo la sua morte, abbia avuto una sua eco sociale e religiosa che ha
dato luogo a piccole comunità omogenee che nei Vangeli trovano la propria
origine storica, il proprio riconoscimento, e la propria appartenenza. Anche a
questo livello, che vede la prima diffusione del Cristianesimo, sarebbe importante
stabilire, al di là dei Vangeli “sinottici”, la diffusione di questi testi, le
loro origini e le loro funzioni culturali che comprendono quelli che nel mondo
ebraico sono convertiti nel mondo greco-romano “cristiani”. Quello di cui siamo
del tutto certi è che si trattò di un processo espansivo piuttosto rapido (e
anche questo è un tema storico molto importante), come risulta chiaro dalle
lettere di San Paolo che rispondono a quesiti che sono propri di ogni comunità.
Ora lasciamo queste generiche osservazioni che aprono ai competenti un ampio
settore di ricerca, e per noi servono solo come una introduzione a quelli che
ho deciso di chiamare “temi di lettura” del Vangelo di Matteo per suggerire
che, per quanto riguarda il mio lavoro, c’è sempre uno iato tra una possibile
ed esperta opera di “oggettivazione” e il lavoro di comprensione che deriva
dalla situazione di cultura, dal modo di esistere e quindi di linguaggio di chi
è stato tratto da questo proposito.
È abbastanza ovvio osservare che coloro
che si affidano a un autorità scritturale siano già da pensare come una
comunità: è proprio la scrittura a costituire l’autonomia spirituale dei
credenti, che non solo si riconosce ma si diffonde in una pluralità di luoghi secondo
l’autorità scritturale che pone il problema della verità che nella propria vita
personale diviene la fede. La scrittura dei Vangeli pone un problema
fondamentale nella nostra civiltà: il rapporto complesso tra la fede, dimensione
di un auto-riconoscimento personale, e l’esercizio sociale di una giustizia la
cui verità è custodita da un gruppo sociale privilegiato, organico e potente. La
dimensione della fede, come vedremo, mette in crisi il principio di autorità e
dà a ciascuno la responsabilità di se stesso; nasce l’individuo che in se
stesso, nella sua fede, apre la dimensione dell’universalità. Il che non
significa che si determini una comunità di individui che in questa prospettiva
si riconoscano reciprocamente e in questo riconoscimento formino una comunità,
una “chiesa”.
Dunque Matteo non è uno scrittore
(sebbene la sua scrittura su temi così decisivi abbia necessariamente una
memoria lessicale che filologi di prima grandezza possono ritrovare), ma è
piuttosto un testimone di un evento che muta il modo di stare nel mondo da
parte degli uomini. L’effetto della scrittura è coordinato al suo scopo: è la
ripetizione mondana di una rivelazione. Che è il senso della vita di Gesù, non
la narrazione (come è stato giustamente notato) della sua vita come individuale
esteriorità. Tra questi due estremi si può trovare l’interrogativo intorno alla
folla che segue Gesù. Gesù predica a una folla ebraica e mostra la sua linea di
continuità con le narrazioni profetiche del Vecchio Testamento presentandosi
come il Messia annunciato dalle scritture stesse. Gesù è il profeta del momento
terminale del mondo che deve ristabilire un equilibrio tra l’originaria creazione
da parte di Dio e la prevista e necessaria caduta del mondo stesso nel baratro
della colpa e del peccato. L’esperimento di Dio del mondo ha avuto il suo tempo
e, senza il peccato d’origine, l’uomo non potrebbe che replicare il regno di
Dio nella sua forma antropologica. Le Scritture insegnano che l’uomo diventa
quale è solo attraverso la fine della ripetizione mondana di Dio: è nella fine
della ripetizione che nasce la convinzione superba dell’autonomia umana, dei
suoi sentimenti e delle sue leggi e quindi, contemporaneamente, della offesa a
Dio e della espiazione della propria colpa che, nella terra, appare la
destinazione di morte e, rispetto a Dio, il momento del giudizio.
Il mondo ha una temporalità che è
simile a quella antropologica: si può dire infatti che il giorno della sua fine
- il ritorno a Dio - come una prova che ha la sua scadenza, se non è
calcolabile (sarebbe una centralità umana) tuttavia è sicura a livello delle
certezze che formano un sapere comune. La prova che Dio compie nel mondo
sarebbe destinata, per la diffusione del peccato e/o della colpa, a una
catastrofe universale, se non vi fosse nel mondo una possibilità di salvezza
che si apre con la storia di Gesù. Questo è il quadro universale nel quale
bisogna leggere il destino di morte del Salvatore, così come la fede nella sua
figura divina che, in un destino storico, è la fondamentale possibilità di
salvezza. Questa è la narrazione del Vangelo che, da uno scenario universale,
conduce a una vicenda storica che ha una sua possibilità di narrazione.
Il divino e l’umano si trovano in
relazione, coesistono nel senso e nella storia fattuale. La relazione
fondamentale tra i due livelli è la fede. La fede è un modo d’essere che non
può essere scritto in una dimensione giuridica: il popolo ebraico nella sua
pratica quotidiana deve osservare la legge che deriva dall’Antico Testamento,
che è ragione di convivenza collettiva e di ordine sociale. Tuttavia, se l’ordine
della legge diviene un elemento fondamentale della pratica religiosa, esso
restituisce al mondo la peccaminosa condizione originaria di colpa che diviene
una disciplina sociale amministrata dai sacerdoti del Tempio. La distanza
irreparabile tra Dio che ha creato il mondo e l’uomo, che ha trovato nella
colpa nei confronti di Dio l’autosufficienza delle proprie virtù mondane, viene
riparata, immanentizzata nella funzione ordinativa della legge e dei poteri
socialmente considerati legittimi. È il potere terreno dei grandi sacerdoti
farisei e del complesso ordine cerimoniale che tocca al popolo ebraico dalla
nascita, dalla circoncisione sino agli obblighi giuridici, e si stabilizza in
una autoritaria convivenza: la convinzione di realizzare sulla terra un regno
divino. È questa convinzione che spoglia ogni creatura dall’essere creatura
divina e stabilisce che il rapporto tra uomo e Dio appartiene al sistema
giuridico e cerimoniale dei grandi sacerdoti. Ciò che è tolto all’uomo è quella
libertà che, se nella sua presunzione ha condotto a una colpa umanamente
irrimediabile, costituisce tuttavia anche la sua figura nel mondo e il valore
che essa assume nei confronti di Dio.
La fede non è una certificazione
giuridica che si può far valere come prova della propria innocenza, valida per
il tempo che resta. La fede è un atto che impegna l’individuo in ogni momento e
in ogni circostanza, diviene la sua essenza, quasi la trasformazione della sua
figura antropologica. Un processo che nessuna esteriore certezza può garantire
nella sua permanenza. Anzi: l’abbandono della fede appartiene alla debolezza
della natura dell’uomo, il cui credere appartiene al suo irrimediabile limite,
o al timore per la propria esistenza, se la fede viene messa di fronte al
rischio di una repressione che mette in gioco la propria vita. Ma questo è un
destino che può essere evitato se la propria fede è il riflesso della fede dell’altro:
si creano così le comunità, che sono il risultato della prima diffusione della
parola di Gesù in luoghi lontani tra loro, ciascuno già con i suoi problemi
specifici, con le sue domande ulteriori, con un effetto di selezione dottrinale,
come risulta dalla lettura delle lettere di San Paolo, tra tutte la Lettera ai romani. Tra la folla che
segue la predicazione di Gesù e queste comunità non c'è solo una distanza
temporale, ma una distanza religiosa che è segnata dalla Croce di Gesù e dalla
sua resurrezione, dal compimento di un tempo e dall’inizio di una nuova
temporalità.
C'è una domanda cui Matteo non risponde,
proprio perché le fonti che utilizza non lo consentono. Come va compresa la
folla che segue Gesù e che per due volte appare in primo piano priva di mezzi
di sostentamento? Sui miracoli vedrò di tentare una ragionevole ipotesi; sulla
folla che segue Gesù si possono immaginare diverse modalità di ascolto, anche
se il testo di Matteo fa pensare all’ascolto di un Messia con possibili
intensità di persuasione. Ma è il contenuto della predicazione di Gesù che
viene interpretato come un pericolo rilevante per l’equilibrio del potere
religioso degli importanti sacerdoti farisei, un potere che arriva a garantire
la saldezza dei rapporti familiari come reticolo dell’affetto individuale. La
predicazione, dice Matteo, è una spada che taglia tutte le forme individuali o
pubbliche che non mettano in primo piano la relazione di ogni uomo con la fede
in Gesù come portatore di una redenzione del mondo. E allora, come interpretare
la folla? Che cosa pensa quella folla del doppio miracolo dei pani e dei pesci?
È sufficiente la partecipazione alla predicazione perché essa venga intesa come
prova di una fede che sarà sempre la condizione per le innumerevoli guarigioni
che, in diverse situazioni pratiche, Gesù ha realizzato nel suo cammino a
diverse figure sociali. È un errore credere che il miracolo della guarigione nasca
da una relazione di pietà: la pietà può avere il suo richiamo solo se chi la
chiede mostra la sua fede in Gesù. E allora possiamo fare questa semplice
osservazione: come la fede è uno stravolgimento dell’ordine pubblico della
vita, così la diffusione della fede costruisce pubblicamente la figura di Gesù.
La fede nasce dall’opera di Gesù che - come dice Matteo - è uno stravolgimento
della vita quotidiana, ma la diffusione della fede, nell’interpretazione dei medesimi
farisei, dà a Gesù una figura politica.
La parola, e qui la parola ha un’importanza
fondamentale, dà nuova forma al mondo destinato all’abisso della sua colpa e che
invece, proprio attraverso la parola, può pensare a una propria salvezza. La
parola va compresa come relazione diretta tra Gesù e chi ascolta: non si tratta
solo di osservare con il proprio comportamento una legge che ha assunto il valore
di un codice sociale che viene derivato dalla tradizione della Scrittura; la
parola apre un nuovo inizio. La parola è un inizio che, quando arriva a Matteo,
ha già la possibilità della propria metamorfosi in scrittura. Rispetto alla
parola che è rivelativa ma, nello stesso tempo, volubile, soggetta al dubbio
interpretativo, la scrittura obiettiva è un sapere che diviene una testimonianza
collettiva. La parola, nell’estremo capitolo della vita di Gesù, è l’ordine
della sua solitudine, e tuttavia questa solitudine tragica ha già degli
apostoli che la ripeteranno non solo come continuità e rinnovamento della
tradizione ebraica ma come una rivelazione che coinvolge l’umanità stessa.
La giustizia farisaica non può impedire
che la parola di Gesù assuma una dimensione universale. Qualsiasi giustizia
mondana, poiché non nasce dall’itinerario della salvezza, ha un suo valore
impositivo. La voce cristiana apre un valore dell’uomo nel mondo che non
appartiene più al detto di Esiodo, secondo cui la legge è la caratteristica
dell’umano come essere vivente. Nell’obiettività di una siffatta giustizia vi è
sempre un - più o meno inconscio - elemento di ingiustizia che si può togliere
stabilendo una legge interiore che, nascendo dall’eguaglianza, non arriva alla
decisione del giudizio. La fede è un’impresa molto difficile, poiché non ha
alcuna somiglianza con un cambio di opinioni (come è riconosciuto mondanamente
possibile e lecito) ma è una mutazione del proprio modo di essere; è un
affidamento che ha in se stesso la totalità di un senso e quindi l’annullamento
di ogni centralità mondana che stabilisca diversi ordini di valori, di comando
e di giustizia per quanto riguarda la vita della propria anima.
Gesù parla alla folla, ma è come se il
suo messaggio dovesse appartenere a ciascuno. La parola di Gesù può trovare
quell’indifferenza che forse ha percorso il popolo ebraico dal momento del
battesimo di Giovanni Battista: ai nuovi valori che aprono una relazione con
Dio può sempre corrispondere l’abitudine, la pigrizia, la giustificazione di se
stessi nel permanere nel peccato.
Nella predicazione di Gesù, come viene
riferito da Matteo, vi è un riferimento alla continuità con le sacre scritture
ebraiche. È il modo per collocare la propria parola in una grande tradizione
che è un sapere collettivo, ma è anche una strategia per mostrare che la parola
di Gesù è annunciata dalle sacre scritture, quindi non ha solo una legittimità,
ma una necessità che deriva dalla storia del rapporto che Dio stabilisce con il
suo popolo. Il “re dei giudei” nella sua stessa azione non solo mette in crisi
il rapporto tra la tradizione religiosa e il suo potere politico, ma trasforma
la stessa figura di Dio, che non è più la guida e il protettore di un popolo,
ma rappresenta l’universalità della fede, che è un valore implicito nella
dimensione del mondo. Il racconto della colpa originaria non è un’identità che
stabilisce un codice comportamentale, una preghiera e una legge, ma appartiene
al disegno di Dio che ha stabilito anche l’ordine e la possibilità della
salvezza. Il figlio di Dio, Gesù, è il dono tragico che Dio ha voluto perché la
prova del mondo nella colpa potesse avere, oltre la certezza della propria
fine, anche la possibilità di una remissione della colpa. E quindi una nuova
prova del mondo.
Naturalmente le parole di Gesù che
diffondono la buona novella della salvezza appartengono alla trama lessicale di
Matteo, che non è né la riproduzione, né la copia, e nemmeno l’interpretazione.
Colui che mette ordine a un sapere diffuso è già la testimonianza della sua
diffusione, della possibilità di narrazioni plurali intorno all’opera e alla figura
di Gesù. La verità di Gesù che ci racconta Matteo è in realtà la forma della
nostra fede, la sola fede che ci colloca nella vicenda creaturale del mondo.
Sin dalla nascita Gesù si trova nella opposizione
tra la persecuzione mondana e il segno della sua figura divina. I Magi sono
orientati da una stella di cui riconoscono il senso attraverso il valore di una
percezione di cui hanno il privilegio. Ma il padre terreno Giuseppe è avvertito
in sogno da un angelo di sottrarre il piccolo Gesù ai propositi omicidi di
Erode e della sua discendenza, consapevole, tramite un allusivo sapere, che
entrava nel mondo un uomo che avrebbe modificato il senso dei poteri. Gesù
verrà ucciso, ma il tempo dell’uccisione è un altro; il compito della salvezza
ha bisogno di un uomo che si manifesti nel mondo con il suo compito. I bambini
sono già immunizzati dal perseverare nella colpa, sono già potenzialmente nel
regno di Dio. Ma colui che porta la salvezza deve sperimentare la sua
possibilità solo attraverso l’esperienza del mondo, la trasformazione in un
sapere di quello che è già una diffusa convinzione sulla possibilità della
salvezza dall’abisso del peccato.
Il battesimo che Giovanni Battista dà a
Gesù indica un percorso che attende il figlio di Dio, che lui dovrà percorrere.
Il battesimo di Giovanni è il segno di un desiderio di salvezza che esiste già
nel mondo ebraico, al di là dell’osservanza della legge. La frattura religiosa
che prepara la persuasione che “il regno dei cieli è vicino” è percepita dal
potere che vede in questa novità, religiosa e contemporaneamente sociale, un pericolo
immanente, un rischio che l’equilibrio religioso dei farisei mostri una
frattura irrimediabile. Il conflitto è dato dalla fede secondo cui il regno dei
cieli è prossimo e quindi occorre liberarsi dalla colpa con il battesimo. Il
battesimo di Gesù è in questa prospettiva, che se è da considerare come un
segno di liberazione da una colpa irripetibile, tuttavia è anche un segno privo
di parole e - come sappiamo - solo la parola può diventare un sapere
trasmissibile e quindi creare la possibilità di una comunità. Inoltre, il
battesimo di Giovanni nel mondo ebraico è una pratica diffusa tra i poveri, per
i quali la preparazione di se stessi al regno di Dio è immensamente più
comprensibile, data la loro nullità umana, di quanto questo sentimento non possa
essere dei ricchi, che nel possesso trovano già la realizzazione felice della
loro identità. L’essere poveri è la condizione privilegiata per ricevere il
regno dei cieli, e la povertà non va interpretata nella sua forma mondana, come
fosse una condizione da eliminare. Sono gli stessi poveri i “privi di spirito”
che non hanno difese simboliche della loro realtà e sono più disponibili ad
accogliere la “buona novella”.
Ma la stessa accoglienza della “buona
novella” deve superare, persino in Gesù, le “tentazioni del diavolo”, e questo
è un tema della massima importanza. Il diavolo - dicono gli esperti - è un
personaggio, una credenza che nella cultura popolare incarna la soddisfazione
per i beni mondani e la sordità per qualsiasi forma di vita che si costruisca
fuori da questo perimetro. L’essere tentati non è, come nel caso di Gesù, una prova
che può essere vinta per sempre: Gesù ha il problema di affermare la sua natura
divina. Per un uomo qualsiasi la tentazione, come affetto per ogni forma, è il comportamento
mondano che rende più difesa, più gradevole, più potente la nostra vita. È un
richiamo costante. È la negazione della fede nell’opulenza individuale, la vita
dell’uomo non è salvata da un sapere, da una norma, dall’obbedienza a una
giustizia del mondo: la sua possibilità è solo nel conflitto tra i beni
esteriori e la fede del regno di Dio. Quindi, «Padre nostro, […] non abbandonarci
alla tentazione», alla nostra debolezza. È un richiamo all’aiuto di Dio per
rendere più forte la propria fede.
Non seguirò ora il testo di Matteo, ma
cercherò di farne emergere i temi fondamentali. I nodi, in particolare, che
cercherò di sciogliere sono le lezioni di morale del discorso della montagna;
il senso dei miracoli e il loro rapporto con la fede; l’analisi del grido di
Gesù in croce «Dio mio perché mi abbandonasti?». È qui il rapporto, nel dolore
estremo, tra la divinità e l'umanità di Gesù. La divinità è tutta nel compito
che gli è proprio come creatore di un nuovo mondo senza peccato, quindi la
preparazione dell'avvento del regno di Dio. E questo compito non può che
realizzarsi nello scenario mondano che è il luogo della vita di Gesù. La colpa
originaria non può essere cancellata se non è a due condizioni: l'una che Gesù
divenga come uomo l’ “agnello sacrificale”: la trasformazione dell’umanità non
può che accadere nella incarnazione di una storia che termini, dal punto di vista
terreno, con il paradosso della messa a morte dell'uomo che si è offerto a
questa storia come compito assegnatogli da Dio. Dall'umanità poteva derivare
solo la paura della colpa nel momento in cui l'esperienza mondana è giunta al
suo termine. È il sentimento di risposta umana al giudizio. Ma il compimento
della salvezza doveva venire non da un segno, ma da una storia con il suo
tragico epilogo. E il centro della storia è il destino terrestre di Gesù, la
risposta del potere umano a un disegno che l'uomo può condurre a termine, ma
solo in quanto nella sua azione rappresenta una determinazione di Dio.
La libertà dell'uomo appartiene a un
poter disporre di se stesso nella creazione di un mondo che è stravolto
rispetto al suo insegnamento. La libertà non fa che condurre l'essere umano alla
propria perdita; la libertà è la trasformazione superba di un destino che deve
compiersi nelle forme della vita terrena. La libertà non può che condurre alla
moltiplicazione del peccato che era all'origine dell'identità antropologica:
essa, la libertà, deve trovare la sua realizzazione nella fede. La libertà ha
una sua realizzazione essenziale quando, nella fede, non dimentica la sua
donazione divina.
L'uomo non può che vivere in una
comunità e questa comunità deve fare propri i comportamenti che l'Antico Testamento
aveva già rivelato come virtù che garantiscono la vita di un popolo. La “buona
novella” riprende i temi morali essenziali togliendoli tuttavia dal dominio
pubblico di una legge, ma divenendo la realizzazione collettiva di un compito
morale che ognuno assume per sé stesso. Il discorso della montagna sottintende
la “responsabilità” personale. Ricercheremo in questa prospettiva le norme
della tradizione ebraica. Per esempio la concezione “visiva” dell’adulterio,
dove l'adulterio si estende allo sposare una donna ripudiata. Il potere
maschile del ripudio diviene una norma sociale di colpevolezza, cosicché la
donna nella vita sociale è portatrice della possibilità della colpa. È evidente
che la ripetizione del costume ebraico è un tratto di connessione tra la
tradizione e il problema della salvezza. La folla che ascolta le parole del
nuovo messia trova in esse una moralizzazione dei propri comportamenti sociali,
come nel caso della richiesta di clemenza nella restituzione dei debiti, segno
evidente di una società dove è dominante lo scambio mercantile. L'esercizio
della virtù e della misericordia è un impegno personale privo di echi e di
dimostrazioni pubbliche. La preghiera deve avvenire nella solitudine e non come
celebrazione pubblica.
La comunità nasce dallo spirito che
ognuno sceglie come senso della propria vita nella relazione con Dio e non come
atteggiamento esteriormente collettivo guidato da un potere pubblico. Sono
tutti temi che, con un linguaggio moderno, possiamo considerare come la critica
di un'etica pubblica da parte di una moralità individuale, e certamente il
discorso di Gesù è un brivido spirituale per la folla che vede ribadite norme
già note ma tradotte in un nuovo spazio dell'esistenza dove non può contare la comune
finzione di massa.
Il
testo di Matteo - come ho già detto - fa emergere la figura della individualità
come il solo luogo dove può nascere la pratica della virtù e l’idea di una
uguaglianza possibile solo quando sia estirpato il seme della violenza. «Non
giudicare», poiché il giudizio del singolo vuole costruire
una oggettività legale, vuol essere un legislatore e il mondo sarebbe solo il
conflitto di vari ordini di giustizia, la diseguaglianza intellettualizzata. La
comunità dovrebbe sorgere senza quella reciproca strumentazione che deriva dal
dominio del corpo, divenuto, nell’ordine politico, il diritto alla proprietà. A
fronte di questa identità sta l’occasione offerta da Dio di una possibilità di
salvezza da parte della parola di Gesù. Gesù (alla domanda di Giovanni
Battista) rivela la sua natura e quello che deve ancora venire: la sua
predicazione. In una società dove prevale il calcolo, l’interesse (non fosse
altro che documentato dalle parabole), l’accumulo della ricchezza, il timore di
una possibile povertà, questi sentimenti abbassano la figura umana, danno forma
al suo sentimento e alla sua intelligenza. Costruiscono una paurosa (e quindi
aggressiva) centralità che rinuncia ad affidarsi a quell’ordine del modo nel
quale i viventi trovano il soddisfacimento del loro bisogno. Si tratta di
vivere senza dare un volto metafisico alla morte.
I
miracoli sono un punto centrale: essi mostrano la possibilità della rottura
dell’ordine naturale che, di fronte all’artificio mondano e ai valori che esso
comporta, aveva mostrato un suo equilibrio. Credo che i miracoli vadano capiti
con una differenza che non deve essere sottovalutata. I miracoli dei pani e dei
pesci sono la prova della potenza divina che dal padre si è trasmessa al
figlio. I discepoli di Gesù pongono il problema della mancanza materiale e
nella richiesta è la convinzione che Gesù sarà in grado di risolvere la questione:
Quanto alla folla, è ragionevole supporre che il miracolo non l’abbia
coinvolta, né Gesù desidera che i suoi poteri divengano oggetto di conoscenza
pubblica. L’uso del potere miracoloso deve avere un senso spirituale tutto
particolare, non può essere una dimostrazione, ma un fatto che deriva dalla
particolare relazione con Gesù che è data dalla fede. Le rinascite e le
guarigioni sono certamente conseguenza della natura divina, ma è necessario che
il beneficiato, o colui che chiede il beneficio, mostri la propria fede nella
missione che Gesù realizza nel mondo, per opporre alla sua catastrofe umana una
via di salvezza resa possibile da Dio. Chi si trova fin da ora su questa strada
può già nella sua forma creaturale avere la grazia divina.
C’è
nella fede un nuovo ordine del mondo che include ed esclude, ma la parola di
Gesù deve diventare un insegnamento, e questo insegnamento deve avere dei
maestri del sapere che lo diffondano nel mondo. Nella stessa figura degli
apostoli si scopre un compito che è rivolto agli ebrei convertiti e ai
cristiani (come vengono chiamati i greco-romani), ma perseguire questo disegno,
che ha già in quel mondo una sua universalità, è come mandare pecore tra i
lupi. Matteo ricorda una terribile minaccia, che probabilmente deve apparire
come la difesa stessa dalla predicazione dei discepoli di Gesù in un mondo
avverso. In questa prospettiva il Vangelo di Matteo contiene anche una difesa
dell’opera di diffusione della “buona novella” che vale nel passato, ma la cui
eco e il suo effetto vogliono valere anche nella contemporaneità. D’altra parte
è comprensibile una minaccia agli oppositori, perché Gesù stesso aveva
insegnato che la sua parola porta nel mondo la spada più che la pace. La spada
è il taglio violento tra due epoche, tra due stadi di esistenza, tra il
desiderio del regno di Dio e l’ignoranza colpevole che si pone come giustizia. Nella
sua narrazione Matteo, nell’indicare questo conflitto, indica già un epilogo.
Introdurre una spada nel mondo, uno stravolgimento del suo equilibrio,
significa provocare una reazione di una violenza del tutto diversa: una
violenza che vuole uccidere il corpo nella convinzione di uccidere la parola.
Tutta la procedura successiva, dall’arresto di Gesù alla sua crocifissione, ha
un senso per i peccatori, per i custodi della potenza del tempio, per gli
armati romani, ma è un’altra storia che svelerà il suo senso pieno con la
resurrezione di Gesù.
La
consapevolezza che Gesù abbia creato una situazione conflittuale è confermata
dalla difesa autoritaria della loro tradizione da parte dei sacerdoti farisei.
Gesù mette in crisi la presunzione che un ordine consuetudinario che ha il
valore di legge (come il digiuno e l’astensione dal lavoro del
sabato) sia atto di devozione, mentre si tratta solo di cerimonialità che consentono
la coesione sociale di un potere “di classe”. Il conflitto è difficile perché
da una parte vi è una solidarietà di casta che, nella vita sociale, ha il
riscontro con una plebe che (nella sua maggior parte) identifica se stessa con
le leggi del potere e quindi è riluttante, o meglio contraria, a una
prospettiva che stravolge questa relazione. Questo mi pare un tema di grande
importanza che, nel Vangelo di Matteo, è visibile nell’appoggio popolare a
coloro che arrestano Gesù e nella curiositas
con la quale viene seguito il suo processo. La folla che seguiva la sua
predicazione è “scomparsa”, ma resta invece come apertura nel mondo attraverso
la diffusione dell’opera di Gesù tramite gli apostoli. Anche qui si riprodurrà
la forma del conflitto sociale e religioso, “visibile” per esempio nella sorte
di Paolo, e ben nota a tutti come persecuzione verso i cristiani, anche se
l’atteggiamento del potere imperiale è volto solo a mantenere un equilibrio
politico con il potere dei farisei, mentre non vede alcuna colpa nella
predicazione di Gesù. La legalità imperiale deve solo mantenere i patti
politici che ha istituito con il potere religioso; essa non ha, al momento,
alcuna preoccupazione che il messaggio di Gesù tocchi la sensibilità dei
“piccoli”, i più aperti - come sappiamo- ad accogliere un messaggio che conosce
la loro disponibilità nei confronti della fede. I “piccoli” sono i destinatari
privilegiati della parola di Gesù: essa ha un senso alternativo al modo in cui
è loro dato di essere.
La
fede in Dio non è però una proprietà acquisita una volta per tutte. È
una continua prova della propria esistenza, e Gesù più di una volta parla di
“uomini di poca fede”. Credo che in questa prospettiva vada letta la
considerazione secondo cui è imperdonabile la bestemmia contro lo Spirito, che
è la sola importante dotazione antropologica per il rapporto con Dio: è la
gioiosa esaltazione delle virtù del corpo. La “poca fede”segna la difficoltà di
uscire da quel labirinto mondano che è educazione, obbedienza, abitudine. La
fede non scende a patti, e Matteo ricorda che Gesù disse che sulla pietra di
Pietro (Simon) si edificherà la sua
chiesa. Lo scrittore non “profetizza: il futuro grammaticale corrisponde a un
presente fattuale di cui è certamente parte anche la scrittura evangelica.
Riguardo
al rapporto tra le parole di Gesù e l’Antico Testamento, Matteo ne ribadisce la
continuità (il che, ovviamente, è il modo per ampliare l’adesione del mondo
ebraico) e alla curiosità di Pietro risponde una voce: «Gesù
è il mio figlio prediletto; ascoltatelo». Così si chiude la
lunga storia ebraica iniziata con Mosè; si chiude e si realizza in una
universalità che può nascere solo con la trasgressione alla mondanizzazione
delle Scritture. Ma è una trasgressione aperta, che non ha nulla di segreto,
anche se agli apostoli saranno richieste, in un mondo tutt’altro che semplice e
disponibile, contemporaneamente «le virtù dei serpenti e
delle colombe». Quindi una tattica idonea a saper contrastare
in modo efficiente la repressione «che vi porterà nei
tribunali. E qui quello che dovrete dire vi sarà suggerito e non lasciate
cadere le parole poiché il nostro disegno non ha nulla di segreto»
ed è un proposito spirituale. Ma predicando la fede si provoca comunque un
rovesciamento dei valori della vita: chi suppone di avere trovato la propria
vita la perderà; chi accoglierà la parola del profeta la troverà. Trovare la
propria vita vuol dire ritenere che vi sia una corrispondenza tra il
conseguimento dei beni naturali e il riflesso psicologico di questa situazione.
Perderla significa vivere secondo quanto è rivelato dal profeta, sia rispetto
alla forma delle relazioni mondane, sia per quanto riguarda l’attesa del regno
di Dio: i due aspetti che la “buona novella” richiede nella fede. La fede
inaugura una nuova parentela nel mondo, non più quella naturale, ma quella che
deriva da una comunità di fede dove vive la parola, mentre il cibo naturale si
trasforma in nulla.
Gesù
annuncia a Pietro quello che accadrà: l’ingresso a Gerusalemme, la condanna dei
sacerdoti, la morte e la resurrezione. Gesù condivide con Pietro il proprio
destino e quindi la ragione del proprio destino, tuttavia questo sapere non
farà di Pietro un seguace di Cristo privo di timore. Quando la violenza si
scatenerà, l’assemblea dei cristiani sarà affidata a un uomo la cui fede è
stata impari al suo desiderio di sfuggire il pericolo: Pietro non è un bambino
privo della tentazione del valore della propria esistenza in quanto essa è,
così come è stata formata nelle relazioni con il mondo. Nell’uomo il rapporto
fondamentale non è tra parola e silenzio, ma tra parola della fede e parola
mondana. Matteo ricorda che anche la fede si mondanizza, può avere i suoi
compromessi; essa si manifesta allora nella concreta lontananza dal mondo: «lascia
la tua vita come si è costruita, vendi i tuoi beni e il ricavato dallo ai
poveri, lascia la tua casa e i tuoi fratelli». Questa rinuncia è la
strada del regno di Dio, il modo in cui cominci a vivere la vita dello spirito
e l’umiliazione del mondo.
Sappiamo
che Gesù alla folla parla per parabole: ci sono stati studi importanti sul
genere comunicativo della parabola e sulle relazioni con scritture di
differente tonalità spirituale. Ogni parabola ha la caratteristica di
rovesciare quella che pare la convinzione comune della vita sociale e delle sue
valutazioni relative ai valori della vita. La parabola insegna a vedere a
rovescio ciò che nella valutazione sociale pare normale, poiché la fede non è
sul mercato dei beni: è un’illuminazione che riguarda ognuno secondo il suo
tempo. Probabilmente il modo in cui nasce la fede in Paolo è il modello di
parabole come quella dei braccianti che vengono pagati allo stesso modo
nonostante il diverso impegno orario di lavoro. Rispetto al giudizio del mondo
sui primi e sugli ultimi, secondo la misura del loro merito, il giudizio che
deriva dalla fede come strada della salvezza rovescia questo criterio. Il più
prezioso è l'ultimo, quello che rischiava di andare perduto. Quello che conta è
il momento della decisione, che supera ogni altro criterio di valutazione
tipico del vivere sociale. È una tradizione che viene da Giovanni Battista, che
mostra come la fede del pubblicano e della prostituta è più pronta di quella di
altri.
«Molti sono chiamati e pochi gli eletti»:
pare difficile interpretazione che appaia coerente con il testo di Matteo.
Tuttavia: molti sono quelli cui arriva la voce di Gesù, la via della salvezza;
pochi sono quelli che resteranno saldi nella loro fede e nella scienza di Dio -
che ha aperto la scena del mondo che conosciamo -: sono “eletti”, cioè scelti.
E tuttavia il detto che riassume l'insegnamento morale di Gesù è molto semplice:
come a Dio si deve la fede, così agli uomini si deve lo stesso amore che
ciascuno ha per se stesso. Questo è quanto Matteo ricorda, nel momento in cui
questo Vangelo sarà per tutto il mondo che è verso la fine. Il tema della fine
del mondo si ritrova nei passi: «"non passerà questa
generazione»; «sarà come il diluvio di
Noè». La fine del mondo sarà segnata da tribolazioni;
il mondo verrà scosso da terribili fenomeni distruttivi. E dopo quel giorno la Terra
si oscurerà, verrà meno la luce, cadranno gli astri. Nelle nubi si vedrà il
ritorno di Gesù. La distruzione della fine sarà così traumatica da confondere
anche gli eletti. Questo è il giorno del giudizio: “se avrete fatto qualcosa
per i fratelli più piccoli vostro sarà il regno dei cieli, altrimenti il fuoco
eterno”.
La
narrazione della fine del mondo è un tratto narrativo che introduce un rapporto
drammatico con il compito universale di redenzione che viene assolto sino alla
crocifissione del figlio di Dio. La storia del Salvatore va compresa in una
dimensione storico-cosmologica che è il giudizio di Dio sul mondo, la prova
della sua esistenza nella quale l'uomo, segnato originariamente dalla colpa per
la presunzione intorno a sé stesso, ha il compito di non far prolificare il
proprio dominio sino a una situazione di colpa che viene istituzionalizzata
dalla trasformazione dell'eredità scritturale in un sistema di potere che
deriva dalla Legge, dai suoi comandi, dalla sua forma di legalità sociale. La
storia di Gesù deve essere capita in questo quadro universale intorno al mondo.
E così la sua polemica durissima contro i farisei, che tradiscono il senso del
rapporto con Dio, e la forma di credenza che ne deriva, condizionata solo dalla
morale di un reciproco riconoscimento e dalla fede in Dio attraverso l'opera di
Gesù.
È
in questo quadro generale che il riconoscimento della resurrezione di Gesù segna
il momento in cui il mondo riprende la sua la sua sembianza di creazione
divina. Ora si può leggere, senza una radicale riduzione antropologica, la
storia di Gesù che, in generale, è ben nota. È l'ultima cena, in cui Gesù
spezza il pane e versa il vino come figure del suo prossimo sacrificio, pane e
vino che possono rendere prossimo il sacrificio di Gesù all'universalità dai fedeli.
«Uno
di voi mi tradirà»: e qui possiamo leggere la storia di Giuda che
consegna Gesù ai suoi persecutori per trenta monete d'argento, ricompensa della
quali poi si pentirà restituendola al Sinedrio, che, del resto, non la vorrà
perché i denari sono macchiati di sangue, e verranno utilizzati solo per
comperare lo sterile campo del vasaio. La fine di Giuda è il suicidio. La
storia di Giuda è molto importante poiché mostra che, come la fede e
un'avventura che impegna. tutto il “sé stesso”, così accade anche per il
giudizio intorno alla colpa. Al di fuori delle regole scritte, esiste un auto-riconoscimento
della propria colpa, e un'impossibilità di accettare, nel tribunale della
propria individualità, il vivere nella colpa. È una drammatizzazione della
stessa impossibilità antropologica di vivere con una colpa così grave come
quella di vendere, a rischio di morte, il prossimo: certo, il prossimo qui è la
figura di Gesù, ma l' “insegnamento della storia” ha una validità universale.
In quali esperienze non possiamo non risentire la vicenda infame e tragica di
Giuda?
Altro
significato, rispetto al venale tradimento, è il caso della fragilità umana che
nasce dal timore per la propria sorte e dal desiderio della propria incolumità.
È il caso di Pietro che dovrà rinnegare la sua dipendenza “spirituale” da Gesù,
“tre volte prima che il gallo canti”. Sulla fragilità umana si può costruire l’avvenire
di una Chiesa, poiché la fede è un’educazione di se stessi. La fede può essere
una illuminazione ma poi diventa una pratica di vita capace di unire una
collettività.
Gesù
dice: «quello che si deve compiere si compia, ma la mia
anima è triste sino alla morte». Pilato, che vede “dall'esterno”
il processo contro Gesù condotto da Caifa, supremo sacerdote, dice che non ha
commesso nulla, ha solo diffuso la sua parola. Alla domanda di Caifa Gesù
risponde che è “figlio di Dio”. La verità della sua esistenza appare nel momento
terminale; la sua natura divina, che è il suo compito relativo alla salvezza,
si manifesta proprio in quella “incarnazione” che è la necessità del suo
compito, e quindi anche la sofferenza e la tristezza appartengono al suo
destino di morte: non c’è altra sorte poiché tutta la storia appartiene già a
un disegno divino, anche se la sentenza, la crocifissione e il decesso saranno
oggetto di scherno e di pietà. Come sempre cielo e terra, spirito e corpo non
possono congiungersi. Ed è per questa condizione costitutiva che Gesù durante
il processo non si difende. Il valore della parola del tribunale è decaduto
ormai nelle procedure della giustizia del mondo che, come Pilato vedeva, non
era che la forma di giustificazione di una “invidia”, anche se la parola
scivola in una psicologia che è solo l’apparenza della scena. La risposta di
Gesù è la verità di se stesso e del tempo nuovo: “D’ora in poi vedrete il
figlio dell’uomo seduto sulla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo”.
Questa affermazione, che è la fine della vicenda, è soprattutto il tempo di una
nuova storia che si è aperta sull’abisso del mondo.
La
storia della condanna a morte di Gesù è notissima ma, forse, si può aggiungere
qualche osservazione. Nel giorno festivo era consuetudine che il potere politico
potesse graziare un condannato e Pilato propose alla folla di scegliere tra
Gesù e Barabba, personaggio noto della delinquenza comune o, forse, della
ribellione politica. La folla decise per la crocifissione di Gesù, ed è la
medesima folla che aveva accompagnato il suo arresto con bastoni e un
atteggiamento feroce. C’è una alleanza tra il potere del tempio e l’umore
aggressivo della plebe contro chi annuncia una vita che è l’opposto di ciò che
la folla plebea identifica simile a se stessa. È l’identità di sé con se stesso,
il sapere comune, il conformismo volgare che si assume il compito di dare la
morte. Non può stupire l’assenza della folla che seguiva Gesù nelle sue
predicazioni, la stessa che lo aveva accolto trionfalmente al suo ingresso a
Gerusalemme, se anche Pietro, durante il processo, disconosce il suo rapporto
con chi gli aveva dato il compito di fondare la sua Chiesa.
Il
racconto storico di quella crocifissione è quanto di più conosciuto vi sia nel
Vangelo di Matteo, ma credo sarebbe opportuno leggere l’uccisione di Gesù nel
quadro complessivo del Vangelo. Quivi, oltre la sua drammaticità, acquista un
senso che la connette con tutta la narrazione del Vangelo: è la morte di chi si
è opposto al mondo come proliferazione del peccato, e ha offerto la propria
vita come certezza del regno di Dio al solo, tuttavia difficilissimo, esercizio
della fede. Al mondo è offerta una seconda prova dopo il gesto iniziale che segna
la sua creazione. La crocifissione è il modo più tragico per mettere il mondo
di fronte all’immagine di se stesso. Un’immagine che è la tortura della carne,
carne che il mondo ha sempre amato come la sua realtà felice e il suo costume
naturale. La resurrezione di Gesù apre l’incognita di un’altra storia che nella
fede ha la vittoria sulla morte. Ma nulla è certo, e la fede un difficile
abbandono della astrazione mondana di noi stessi.
***
BREVE MANZONIANA
di Fulvio Papi
Salvatore Natoli |
L’ottimo libro di Salvatore Natoli sui Promessi Sposi (L’animo degli offesi e il contagio del male, Il Saggiatore pagg. 98
€ 11,00) nella bibliografia manzoniana si segnala in quel rinnovamento degli
studi interpretativi che fa seguito alle opere ormai classiche di macchia e
Raimondi. (Qui non si fa questione dello straordinario lavoro filologico di
Dante Isella e della sua scuola). Il tema che Natoli predilige è quello,
filosoficamente molto desto del male, considerato qui nell’esperienza comune
come nella proporzione degli eventi storici. Quel male che, come una epidemia
(l’epidemia ne è una metafora atroce?) attraversa i reticoli dell’esperienza
comune secondo quell’oscura dialettica per cui il male fatto provoca negli
offesi un desiderio di reazione dove il male ha messo i suoi semi. L’esempio
più semplice nell’opera di Manzoni è quello di Renzo che, ragguagliato dal
desiderio futile e violento del signorotto locale don Rodrigo, nei riguardi
della sua promessa sposa, Lucia, viene preso da un immediato desiderio di
vendetta. Qui siamo ai piani bassi della società, ma lo stesso accade nei
rimandi del male, ai vertici della società. La monaca di Monza si mette, se
pure in modo diverso e con violenze differenti, nella corrente del male, come
risposta alla violenza paterna che, per ragioni del patrimonio familiare, la
condanna alla vita monacale. Anche se in questo caso, la denuncia psicologica
interiore è più complessa. Questo è il tema centrale di Natoli intorno al quale
fiorisce il gioco complesso delle relazioni e dei fatti positivi che provocano
sentimenti, iniziative, possibilità dei personaggi che intrecciano le loro
possibilità con gli spazi che avanza loro la più grande storia, completamente
estranea al suo senso politico. Ci sono spazi lontani, ma pure intrecci,
immanenti alle vicende dei grandi e dei minori, non sempre canne al vento, in
virtù di una cultura, ad esempio, religiosa in Lucia, e, a poco a poco, mondana
in Renzo. Sarà la Provvidenza a dare, al fine, un ordine a questi intrecci
vitali: cioè lo scrittore e l’aspettativa del destinatario. (Anche se noi non
apparteniamo al genio di alcuno scrittore). Ma in questa narrazione l’autore
domina con tutte le note possibili della sua sinfonia mondana, la facciata del
reale. Per questo mi pare difficile trovare un tema dominante dal punto di
vista romanzesco, mentre è facile individuarlo nelle sue relazioni oggettive,
nel violento disordine degli eventi, nella destinazione dei protagonisti del
teatro mondano. Renzo è un ingenuo sull’esposizione di sé ai ritmi della folla
e ai criteri di giustizia, ma è abile nella fuga da Milano verso il confine
dell’Adda: è il suo modo per aggiustare le cose, così diverso dal colloquio tra
il conte zio di Rodrigo e il padre generale dei frati. Qui pesano le parole, là
la prudenza dei passi. Non sempre il potere sul piano necessario può estendersi
alla prudenza di un qualsiasi montanaro in cerca di salvezza. So che gli studi
storici sulla dominazione spagnola in Italia non mostrano uno spettacolo così
ignobile come appare al Manzoni, ai romantici sino alla Yourcenar; ma, a
vantaggio degli scrittori, credo si possa dire che il vissuto può, forse meglio
delle intelligenti categorie interpretativa, dare sensazioni e immagini che
fanno rivivere il tempo. All’ottimo studio di Natoli desidero solo aggiungere
una considerazione. Non so che cosa Manzoni, oltre che il desiderio di
salvezza, mettesse nella testa di Renzo in fuga. Ma il passaggio dell’Adda era
qualcosa di più di un successo della fuga. Renzo lasciava il territorio
spagnolo fondato su una parassitaria, ma potente, economia monetaria. Entrava
nella Serenissima dove qualche congiuntura negativa non cancellava uno sviluppo
secolare di una economia commerciale e un diverso stile sociale. Per un
lavoratore con un mestiere sicuro è una porta aperta. E in questo clima di
Venezia ricomincia, alla fine del romanzo, delle avventure e delle catastrofi,
la vita di Renzo e Lucia diviene una differente impresa produttiva aperta sul
mercato, una casa ospitale, figlioli felici, parenti opportuni. È una happy
ending che dimentica “l’addio ai monti”, non c’è nessun sentimento per un
Heimat perduto. Inizia il mondo delle merci dove identità e riconoscimenti sono
diversi rispetto al “luogo” d’origine. Quivi è la vendita di quello che resta
delle cose e dei beni a un signorotto, questa volta buono e protettivo. La
vendita sarà fruttuosa, e l’accoglienza del nobile generosa, il clima emotiva
felice. Ma l’Heimat (i “monti sorgenti dalle acque...”) sono solo un
palcoscenico senza rimpianti. Una via di passaggio che ha condotto i due sposi
in quella corrente sociale del mercato che il loro autore ben conosceva dagli
economisti del ’700 illuminista e che certamente riteneva una via del
progresso. Eppure chi scrive (che conosce bene la casa di Manzoni a Lesa sul
Lago Maggiore) se fosse solo una briciola di uno scrittore di quell’eccezionale
livello, avrebbe inventato (“reazionario” in senso husserliano) un altro
finale.
***
FRANCO FERGNANI: LA PASSIONE FILOSOFICA
di Fulvio Papi
Franco Fergnani |
Sono molto contento che
un gruppo di allievi e-o amici di Franco Fergnani ha voluto dedicare un lavoro
alla sua preziosa opera filosofica e al modo di renderla pubblica attraverso un
generoso e puntuale insegnamento prima
nei licei e poi per trent’anni alla Statale di Milano. Personalmente in questo prezioso libretto (Il gesto e la passione. Sull’insegnamento di
Franco Fergnani, Autori Vari, Farina Ed. 2017) ho visto confermata
l’immagine filosofica che con gli anni mi ero fatta dell’opera di Franco. Sullo
sfondo c’è l’orizzonte marxista evocato soprattutto dal soggettivismo storico
che trova il suo ordine teoretico nella lettura sartriana dell’antropologia di Essere e tempo di Heidegger (che sempre
Franco ha rifiutato di interpretare secondo l’Heidegger del dopoguerra). Si
formava così una radice esistenzialistica che invece di chiudersi nel suo
circuito intellettuale, apriva le sue possibilità teoretiche in una pluralità
di direzioni dove Kierkegaard neutralizzava ogni esito enfatico in senso
umanistico. Le cose, dal punto di vista analitico, sono più complicate,
soprattutto per le letture criptiche che Franco dedicava ai suoi autori, ma il
perimetro è quello di una filosofia che doveva dare una difficile identità a
chi intraprendeva la strada che ha la riflessione (o il pensiero) come mezzo e
come fine.
Queste
osservazioni sono un po’ da antologia filosofica, ma di Franco so molto di più.
Quando ho letto l’intervista della sorella, ho ritrovato Franco vivente, dico
come stile dell’esistenza poiché dei suoi rapporti familiari (a parte la
cortesia della madre) o affettivi, zso molto poco e in una forma così
superficiale da condurre alla chiacchiera vera. Persino non mi sono ben noti i
rapporti di Franco con il padre, avvocato, uomo colto, catturato dai nazisti e
salvo, come si dice, “per miracolo”. Ma di Franco, sedicenne entrato nella
Resistenza in una Milano difficilissima, potrei fare una piccola antologia
raccontando fatti e imprese che Franco ha sempre taciuto, ma che mi ha
raccontato il suo compagno Quercioli poi divenuto un dirigente nazionale del
PCI. Potrei raccontare la sua amicizia con Giulio Preti che lo orientò,
all’inizio degli anni Cinquanta, verso il pensiero di Dewey. Così anche il suo
lavoro al “Calendario del Popolo” che andrebbe ricuperato come un documento
culturale talora più interessante delle cose più note. C’è fra l’altro un
magistrale saggio su Banfi che, nei nostri colloqui, rimproverava di non
impegnarsi più a fondo nella filosofia di quegli anni. E credo che qui il
dovere della critica lo portava a una certa incomprensione della personalità
del maestro. E così di ricordo in ricordo, potrei raccontare una storia degli
abissali anni Cinquanta riflessi nell’esistenza di un giovane di eccezionale
ingegno.
Qui
desidero ripetere quello che, molto in breve, ho detto in un’altra circostanza:
il mio debito personale con Franco Fergnani. Immaginate l’inizio dell’anno
universitario (1949-50) in un autunno così grigio che temo di inventarmelo
adesso. Franco frequentava il secondo anno di filosofia teoretica, tenuto dal
prof. Barié. Doveva tenere una relazione il cui titolo era questo: “Hegel, il
problema dell’essere, da Spaventa a Gentile”. Franco, con quell’aria sempre
insoddisfatta, e quella pronuncia, con un’erre di una musica reticente, fece
una relazione che valeva una libera docenza. Il prof. Barié fece esplodere la
sua ammirazione in quel modo un poco chiassoso che, qualche volta, veniva a
galla.
Dal
canto mio, matricola troppo esposta ai venti delle vette, non capii niente. La Logica di Hegel erano tre volumi laterziani
del ’27 che avevo comperato per poi lasciarli nel loro riposo storico. Spaventa
mi era ignoto. Gentile era un filosofo fascista di cui conoscevo solo la fine
atroce nel 1944. Franco, durante gli elogi di Barié guardava per terra qui e
là, come avesse smarrito qualcosa. Ebbi l’impudenza di rompere quel silenzio,
ma Franco ascoltò attento le mie banali e improprie osservazioni, e poi si
ricominciò tutto da capo. In una serie di incontri extrauniversitari, Franco mi
spiegò l’inizio della Logica di
Hegel, la tradizione idealistica napoletana, e l’atto puro di Gentile. Franco
aveva solo tre anni più di me, ma era un insegnante perfetto e sono certo che
devo alla sua cortesia se in qualche settimana entrai in quello che potrei
anche chiamare il ritmo della filosofia. Banfi non spiegava, nelle sue lezioni
il pensiero volava troppo alto, diventava uno spettacolo dell’intelligenza.
Furono
due o tre (al massimo) anni di una stretta collaborazione con il filosofo già e
l’acerbo apprendista che oggi direi aveva troppa fretta di crescere e di essere
accolto nel mondo che amava.
La
prima destinazione di Franco dopo la vincita della cattedra fu lontana da
Milano. E qui: o Franco non amava la posta, o le mie riflessioni gli parevano
banalità, com’era possibile, o si stava facendo strada la sua predilezione per
la solitudine come condizione del fare la “tua filosofia”, infatti non si
faceva vivo: certo Kierkegaard più che Gramsci, e, in fondo, anche Sartre
poiché gli amori, anche filosofici, hanno i loro segreti, lo assorbivano
totalmente. Rividi Franco molto più tardi come commissari entrambi in un
concorso universitario. Sapevo molto del suo lavoro, e avrebbe potuto
intervenire con competenza e chiarezza sui titoli del concorso, ma lasciò fare
tutto a me. Poi scomparve di nuovo. Anzi non scomparve più.
La copertina del libro |
IL “GRAMSCI PERDUTO”
di Fulvio Papi
Se confronto la imponente bibliografia sapientemente
filtrata nella esemplare opera storica di Angelo d’Orsi sulla vita e l’opera di
Gramsci con quella che era stata la mia prima esperienza filosofico-politica gramsciana
tra il 1948 e il ‘55, si possono fare alcune considerazioni su quella recezione,
oltre l’ovvia, ma importante, precisazione: essa avveniva sulla prima edizione Einaudi
dei Quaderni. Essa poi, come tutti
sanno, ha subito le necessarie correzioni storico-filosofiche che ci avrebbero
dato una visione fedele al lavoro di Gramsci, priva delle strumentazioni
politiche di quel tempo, segno ulteriore che, anche nel periodo della massima
diffusione e nel più vivo riconoscimento dell’opera gramsciana, non mancava
quella tonalità selettiva che, se si fa eccezione per qualche breve tratto
della sua esperienza politica, non era in fondo mai mancata alla sua opera di interprete
e di teorico della tradizione marxista, del suo sviluppo internazionale e
interno all’URSS, della nostra storia nazionale e del destino politico del
movimento operaio italiano. Nonostante le conoscenze che la filologia storica
ci ha recato, forse anche un ricordo di quella prima recezione (almeno nel mio
ambiente milanese) può essere un documento di una storia che abbiamo
attraversato e che merita la memoria della sua verità, che è poi il modo in cui
essa è stata vissuta con un suo senso fondante.
Rievoco qui alcuni temi
che entreranno in una idealità etico-politica, molto sicura di se stessa nei
confronti di altre interpretazioni della filosofia di stato sovietica, ma anche
delle interpretazioni dialettico-materialiste che derivavano dalla tradizione
francese comunista.
Riassumo: 1) La critica
ad ogni forma di positivismo storico, quello che aveva costituito la tradizione
dominante del socialismo in Italia, rinverdita dalla componente evoluzionista. Sarebbero
state necessarie analisi molto più puntuali, ma ciò che contava era la soggettivazione
della classe operaia come forza storica opposta ad ogni obiettivismo metafisico,
e la sufficienza ideale della sua cultura storica. Qui convergevano le letture
antiche sul socialismo italiano di Labriola e Engels. 2) Lo storicismo non
era affatto il modo per “contemplare” il processo della lotta di classe, ma era
il quadro storico nel quale aveva senso la nostra stessa identità. Il modello
eticamente inarrivabile era quello gramsciano, soggettivamente inarrivabile per
piccoli borghesi collocati, più o meno, in strutture burocratiche dei partiti,
ma, in ogni caso, per formazione, carattere, aspirazioni, per la propria
complessiva identità a distanza stellare dalla figura gramsciana, anche nella
ben più facile situazione politica del dopoguerra. C’è sempre una distanza tra
il consumo delle parole e lo stile di una esistenza. 3) Questa posizione
sembrava il rovescio dell’idealismo storico crociano. Lo spirito (metafora
filosofica delle classi dirigenti) è la realtà storica di una classe sociale. 4)
Queste considerazioni costituivano un orizzonte politico nel quale si misurava,
più o meno, ogni posizione di sinistra. Diversa ovviamente era la posizione liberal-socialista
della quale solo pochi comprendevano le ragioni critiche.
Può essere che l’enciclopedia
della mia memoria sia un poco disordinata come lo erano gli studi di allora, ma
sono sicuro che almeno l’effetto pratico del partito come “nuovo principe”
diventava, più che una vera esperienza di Machiavelli - com’era in Gramsci-, una
realtà storico-ideologica che faticò tanto nel decostruirsi dalla “metafisica”
che dovette pagare il prezzo della sua dissoluzione.
La disputa intorno al senso
e alla formazione del partito faceva risuonare (se non delle parole indegne di
Togliatti e di Gramsci nei confronti di Turati) l’eco della antica critica
comunista all’inerzia del PSI nel 1920, al tempo della occupazione delle
fabbriche. E anche questa mi pareva (almeno a chiacchiere) una colpa da emendare
come socialista dalla parte dei socialisti. Avessimo studiato allora (non
adesso!) Sraffa, amico fraterno di Gramsci, per la teoria e Keynes per la
politica economica avremmo evitato più di un effetto paralisi da dogmatismo
intellettuale. Ma, appunto, la “storia” è spesso compresa con l’immaginazione
metafisica piuttosto che con una posata razionalità.
Siccome non vorrei dare
al lettore un’idea sbagliata (o peggio enfatica) delle mie cognizioni,
trascrivo qui sotto quella che mi pare fosse la mia bibliografia essenziale.
Domenico Zucaro (di cui ho
un affettuoso ricordo), Vita dal carcere
di Antonio Gramsci;
ed. «Avanti!», Milano, 1954
Lucio Lombardo Radice e
Giuseppe Carbone, Vita di Antonio Gramsci
ed. di Cultura sociale, Roma
1951
Nicola Matteucci, Gramsci e la filosofia della prassi ed. Giuffrè, Milano 1951
Benedetto Croce, Materialismo storico ed economica marxista,
Laterza, Bari, 1900
a cura di B. Croce, Laterza, Bari, 1939
Giovanni Gentile, La filosofia di Marx. Studi critici, ed. 1899.
Devo ricordare che fruivo
dei lunghi colloqui con Franco Fergnani, uno specialista dello hegelo-marxismo; con
Gianni Bosio, teorico della cultura delle “classi subalterne”; avvenne più
tardi l’incontro con Mario Spinelli, lettore raffinato di Gramsci anche dal
punto di vista letterario.
Valeva forse la pena di
rievocare queste memorie per capire da quale distanza proveniva una attenzione
a Gramsci, se pure in modo superficiale, dato che i miei studi volgevano ormai
verso la filosofia teorica. Ferma era la mia devozione per un personaggio di
una eticità superiore, assassinato dal regime fascista e, da quel che appare,
emarginato dalla politica del Comintern, dato che fin dal 1923 Gramsci aveva un
disegno politico “costituzionalista” che nasceva da una riflessione teorica
sugli eventi politici e che si sarebbe mantenuto nel tempo, avendo a livello
internazionale il problema di evitare irreparabili fratture nel gruppo
dirigente che aveva condotto e guidato il processo rivoluzionario.
Negli anni ho letto -
per la verità frettolosamente - le ricerche filosofiche che hanno restaurato
nel suo ordine il lavoro teorico, la partecipazione politica, le vicende
carcerarie vessatorie e quelle familiari, distinguendo sempre l’obiettività
analitica dalla scrittura ad uso dell’opportunismo politico o anche
comunicativo, la verità biografica dalle occasioni per gossip eclatanti. La lettura
del libro di d’Orsi ha precisato molto meglio queste distinzioni ed ha
consentito di valutare con obiettività storica le congiunture politiche. Per
essere chiari: non ho dubbi sul fatto che Gramsci in carcere non si trovò in
armonia con i conflitti interni al Comintern che mettevano, a suo giudizio, in
gioco l’unità politica del gruppo rivoluzionario e facevano pensare a sviluppi
negativi nella società civile e politica.
Gramsci, con l’aiuto del
lavoro di d’Orsi, ci appare sempre un uomo politico della rivoluzione sociale con
una prospettiva propria che nasceva, com’è comunemente ammesso, dall’analisi della
sconfitta storica del socialismo italiano. Ne derivava una riflessione che,
probabilmente in maniera indiretta, poteva valere anche per considerare gli
effetti politici dei conflitti ideologici all’interno del Comintern . Su questo
terreno, nella seconda metà degli anni Venti, la posizione di Gramsci in carcere
era certamente differente da quella del vecchio amico Togliatti, al centro
politico del Comintern e quindi conoscitore e interprete delle posizioni
politiche che si stavano affrontando. La valutazione di Gramsci del resto non
poteva essere più di tanto analitica, anche se sufficiente, perché si trovava
in una posizione marginale nella comunità politica comunista nelle carceri
italiane. Quivi Gramsci sperimenterà un trattamento iniquo, quasi a rendergli
la vita ancora più difficile, privo della pur minima attenzione alle sue gravi
condizioni di salute. Gramsci ne era consapevole e rifiutava ogni intervento
esterno per migliorare la situazione poiché gli era chiaro che qualsiasi concessione
avrebbe avuto, più o meno direttamente, un prezzo politico. E il regime, sotto
questo prospettiva, non mutava una virgola, con lo stile del suo massimo duce
(che controllava ogni referto della polizia) che aveva il suo storico
precedente nell’assassinio nel ‘24 del leader socialista Matteotti.
A questo punto solo la
giusta misura della mia competenza mi dissuade dal tentare un tracciato della
figura psicologica del duce e, in fondo, anche della fascinazione che aveva
avuto nel partito socialista del periodo anteguerra, forse con guasti retorici
che andarono oltre il periodo antecedente alla sua espulsione. Sono tutte cose
note, ma mi è grato ripeterle perché non hanno costituito un sapere storico
diffuso, forse nemmeno a livello di quella che chiama “alta cultura”.
Mette quindi anche conto
di seguire l’ottimo tracciato del libro di d'Orsi (del resto già molto ben recensito in questa
rivista da Fabio Minazzi), al fine di indicare quali a me (interprete in un
altro clima storico) paiono i punti salienti del suo pensiero.
Tutti sanno che nel ‘22 Lenin
non appoggiò la scissione del gennaio del 1921 della frazione comunista del PSI.
Posso solo supporre che Lenin avesse molto chiaro che la sua azione
rivoluzionaria aveva potuto avere pieno successo perché essa s’innestava in un
clima rivoluzionario che durava dal febbraio senza il conseguimento della pace e
di un ordine sociale che andava al di là di una democrazia liberale. Queste
condizioni pratiche non esistevano in Italia e, in genere, nei paesi
occidentali: sia l’avanguardia dei teorici torinesi (e la forma del loro
rapporto con la classe operaia) che l’estremismo rivoluzionario bordighiano non
potevano interpretare condizioni sociali “rivoluzionarie” che non si mostravano
presenti. La sconfitta storica della occupazione delle fabbriche (al tempo della
“grande paura”, come Bosio definì nel periodo) si trovò di fronte, intatte,
tutte le forze sociali, politiche, istituzionali di una struttura statale.
Gramsci del resto era ormai nel gioco delle correnti del partito, dove sino al
1926 era netta la prevalenza di Bordiga, e anche in una linea differente da
quella del Comintern. Dal lavoro di d’Orsi noi però sappiamo che secondo Gramsci la linea
corretta contro il fascismo era, già dal 1923, una costituente che non ripetesse
il vecchio codice monarchico-liberale (del resto già ignorato dalla monarchia),
ma costituisse una alleanza delle forze antifasciste dove il partito comunista
svolgesse una funzione di avanguardia. Non credo che qui si debba trovare una
linea politica o teorica definitiva. Ma la riflessione di Gramsci poteva avere
un riflesso su quella condizione obiettiva che, secondo il suo stesso giudizio,
mostrava che in quel momento le fondamentali organizzazioni che nascevano dal
mondo operaio erano ancora guidate dal partito socialista (l’esempio di Milano
era tipico).
Nel dicembre del 1923 Gramsci
è a Vienna, dopo aver trascorso un anno e mezzo a Mosca. In URSS, dopo la morte
di Lenin nel ‘24 (tanto i tempi brevi erano pesanti), cominciava a prendere
forma il contrasto politico tra Trockij,
Zinov'ev, Bucharin e la maggioranza dell’Internazionale.
Gramsci si trovava dalla parte della maggioranza, ma con il proposito che il
dissenso dovesse essere composto conservando l’unità del gruppo politico che
aveva fatto e difeso con la guerra la rivoluzione. È del tutto noto che l’obiettività
politica con la sua durezza diede torto a Gramsci, il quale già nel ‘24
(soltanto nel ‘26 al congresso di Lione divenne segretario del partito) organizzò
la nuova serie dell’«Ordine nuovo», una rivista più teorica di quanto non fosse
interessata alla cronaca politica.
In una ricerca che
andasse oltre le preziose pagine di d’Orsi, sarebbe significativo interessarsi
dei temi che Gramsci veniva sviluppando. Gramsci - sostiene d'Orsi - non va ancora nella
direzione di un ripensamento dalla sconfitta storica della classe operaia (che
è comune opinione considerare come il nucleo centrale delle ricerche dei Quaderni dal ‘29 al ‘33). La direzione della
rivista, nonostante la sua prevalente direzione teorica, era in una situazione
molto diversa da quella degli esordi del partito. Era finita - dice Gramsci - la
“festa massimalista”, espressione che vale per l’estremismo di Bordiga e
certamente anche per i socialisti massimalisti. Una linea più aderente alla
situazione, per esempio alla Machiavelli (come Althusser), forse era ancora
nell’ombra perché Gramsci, alla morte di Lenin, scrisse un celebre articolo in
cui nel politico russo vede una figura storica universale, proprio come avrebbe
detto Hegel. Una idealizzazione, forse suggerita anche dalle circostanze, che “storicamente”
si trovava in altro spazio ideale rispetto ai conflitti che si aprivano per il
potere politico dopo la morte di Lenin. Gramsci, per così dire, ha un vizio
d’origine che, se non sfuma nell’astrazione, è un pregio fondamentale: una
politica va pensata nella sua contingenza e nel suo fine. Che è un’altra cosa
dal pensare la politica in una ontologia storica. A mio parere Gramsci si trova
ancora stretto tra le due prospettive, situazione che si può pensare di
dirimere con il “pensiero”. Nel suo testo d'Orsi sottolinea che Gramsci, rispetto alla tradizione
giacobina e idealista “dall’alto”, parla di una dittatura espressa “dal basso”.
Politicamente era un rovesciamento rispetto all’esito autoritario e burocratico
dello Stato, tuttavia è ancora una posizione idealistica, come se una mutazione
dei rapporti sociali e della struttura dello Stato potesse derivare da una “coscienza”
collettiva popolare.
Gramsci continua a
riflettere sul problema del partito all’interno di una nuova coalizione
antifascista e nel ‘24 fonda «l’Unità», dove il titolo indica anche il fine: un
pensiero che, avverso alla linea di Bordiga, l’aveva occupato anche l’anno
precedente. Ma, e qui è lo sguardo un poco parassitario che mette ogni fatto in
“storia”, la resistenza al fascismo, dopo il superamento della crisi del
delitto Matteotti, era ormai impossibile. Posso aggiungere alle valutazioni
preziose di d’Orsi che a volere la sconfitta non solo del movimento operaio ma
del sistema democratico era anche la spregevole figura del re, cui faceva
riferimento ancora l’apparato burocratico e militare. Tuttavia, un vero senso
critico era assente anche nell’area comunista, se il partito rivolgeva inutili
critiche al PSU, come d'Orsi testimonia
nelle sue pagine. Credo si possa dire che si era ancora nella festa ideologica,
il cui costo per Gramsci fu distruttivo; per il paese il prezzo fu il cammino
verso la costruzione di uno Stato-potenza quando mancavano anche le condizioni
strutturali che potessero condurre una nazione alla forma-Stato. Ciò aveva a che vedere con il tema dell’unità
d’Italia che Gramsci studiò in modo esemplare, sottovalutando forse le forme “mafiose”
che costituivano parte essenziale della riproduzione sociale complessiva.
Gramsci, nonostante le prerogative di deputato, viene arrestato nel novembre
del 1926.
La storia della
carcerazione di Gramsci è stata scritta molto bene da Ruggero Giacomini ne Il giudice e il
prigioniero. Il carcere di Antonio
Gramsci, Castelvecchi, Roma,
2014. È una vicenda tragica e nel suo profondo,
volutamente punitiva: i feroci trasferimenti, il trattamento violento, la
mancanza di cure necessarie alle sue condizioni di salute. E poi gli inganni
cui è sottoposto dalla procura e, al contrario, i tentativi generosi, vari, ingenui
e anche controproducenti della cognata Tatiana, i talora non facili rapporti
con gli stessi compagni. Un labirinto aggressivo nel quale Gramsci mostrava
tutta la sua forza morale: memorabile il suo incontro con Sandro Pertini. Ne ho
ricavato l’impressione che, in ogni caso, riguardo alla vita intellettuale e
affettiva di Gramsci in carcere vi fosse sempre non solo la vigilanza della
polizia, ma il voler sapere da parte del capo del governo. Con una condizione
sempre pendente sul capo di ogni carcerato: la grazia era possibile solo alla
condizione di una dichiarazione di sottomissione e obbedienza al regime. Ciò
che si voleva era, al di là della punizione dello sconfitto, la sua umiliazione
morale, la sua distruzione interiore. Gramsci rimase fino all’ultimo giorno di
vita il segretario del partito comunista. Su questi temi lascerei volentieri l’attenzione
al libro già citato di Ruggero Giacomini, che intitola una degli ultimi
capitoli dell’opera “L’assassinio”.
Dal punto di vista dell’analisi
culturale sarebbero molti i temi da discutere, così come del resto è avvenuto
nella tradizione storiografica. Ne privilegerò solo alcuni, dove mi pare di non
essere superfluo. Fondamentale è il concetto di egemonia culturale e sociale,
senza la quale non è possibile un progetto di trasformazione dei rapporti
produttivi e dei loro rapporti sociali. Non si tratta di contare i voti
elettorali (esito cui del resto Gramsci non era indifferente), ma di agire politicamente
con un consenso che derivava da una comune partecipazione ad un ethos. In questa prospettiva una
funzione particolare di guida morale e di sentimento collettivo spettava all’importante figura degli intellettuali. Fu
una prospettiva che ebbe successo nei primi anni del dopoguerra (anche se non
mancava affatto il costume volgare e contraddittorio della sorveglianza
ideologica). Oggi l’egemonia del costume, del comportamento, della mimesi e della
speranza è passata ai mezzi di comunicazione di massa che formano gli
intellettuali secondo i loro codici. Un secondo tema riguarda il modo storico
(la famosa rivoluzione passiva) attraverso cui è nato lo Stato italiano del
Risorgimento, come azione intellettuale e politica dei ceti dirigenti senza una
autentica partecipazione popolare. Il voto popolare del referendum, dopo la
conquista statale-piemontese del Sud, così come viene descritto nel Gattopardo, ne è una esemplificazione.
Sono conseguenze che arrivano sino ad oggi, se si analizzasse di più la cultura
locale in senso antropologico e di meno nella sua forma di rappresentazione e
di potere statuale.
Terzo tema gramsciano
che a me non pare sia stato convenientemente sviluppato: lo studio iniziale del
modo tecnico di produzione americano che, dopo la grande crisi del ‘29 e la
ripresa economica dell’economia di guerra, diventerà, assieme allo sviluppo del
capitalismo, il modello della produzione mondiale. L’aver individuato, nel
quadro culturale italiano, questa dimensione economica non eurocentrica credo
che vada segnalato come un merito intellettuale di Gramsci, specie se è paragonato
sia alle “teorie” marxiste sia all’economia politica universitaria. Riguardo a una
considerazione dello sviluppo produttivo americano, che avrebbe portato con sé
una trasformazione mondiale del capitalismo, il marxismo italiano era rimasto
piuttosto silente, se teniamo presente che le categorie interpretative del Comintern
erano quelle del Capitale, per lo più
dogmatizzate e tolte della loro dinamica storica. A mio avviso fu proprio
questa critica e questo sviluppo che mancò alla cultura marxista italiana, al
contrario di Gramsci che aveva intuito le potenzialità del nuovo sistema
produttivo che avrebbe agito non solo sul mercato, ma sulla trasformazione dell’immaginazione
sociale. La comprensione del mondo americano, che fu più semplice per la cultura
mitteleuropea, in Italia ebbe un’eco importante nella letteratura degli anni Trenta,
ma non ebbe una risonanza sufficiente nell’analisi storica del capitalismo. Per
essere sincero devo dire che, da quello che ho letto nelle biografie di
dirigenti comunisti clandestini, ho la convinzione che le loro analisi fossero
molto lontane dalla realtà.
Non desidero certo che i
limiti della mia informazione agiscano sul giudizio, ma la storia politica di
Gramsci ha la radice del suo epilogo: nella famosa lettera del 14 ottobre del ‘26
quando egli, rispetto al Comintern, prese posizione per l’unità del partito uscito
dalla rivoluzione, quindi del tutto in opposizione allo scontro politico che
emarginava Trockij, Zinov'ev, Kamenev dalla
direzione politica e ne faceva, al contrario, degli oppositori degni delle più
grandi pene. La lettera di Gramsci, come si sa, non fu consegnata da Togliatti al
destinatario del vertice comunista, in quanto documento non opportuno. Gramsci
ebbe una reazione molto dura e noi oggi, anche senza entrare in particolari
analisi ben valide nell’orizzonte della verità storica, possiamo dire che
Gramsci, nella solitudine carceraria, pur essendo il segretario del partito
comunista, fu una figura marginale rispetto alla forma politica che aveva preso
il comunismo internazionale diretto dall'URSS. La vera e possibile risposta di
Gramsci, tra il ‘29 e il ‘33, fu il suo lavoro culturale consegnato ai Quaderni. La conclusione sembra poi a livello
del senso comune: la politica comunista dopo il ‘44 fu, contemporaneamente,
attenta all’egemonia e all’insegnamento della gestione politica machiavellica
(e non hegeliana), mentre Gramsci diventava il punto di riferimento di un’intera
cultura, almeno storicista, anche con quella censura politica che all’“intellettuale
collettivo” pareva più opportuna. I testi furono valorosamente restaurati, ma
ormai era un lavoro che entrava nella ontologia filologica, un poco
professionale. Gramsci era “oggettivato”
in quello che era la sua corretta e giusta verità, sempre per quanto possibile.
Non so nei paesi del Sudamerica, dove la concezione gramsciana delle “classi
subalterne” ha avuto certamente un’eco importante, ma da noi - va detto - la verità
di Gramsci coincide con un Gramsci perduto.
Addendum. Studi storici
Tra
i più recenti studi storici un suo rilievo ha il lavoro di Andrea Ginzburg
Two traslators: Gramsci and Sraffa, «Contributions to Political
Economy»,
34, 31-76,
2015 di cui do qui il testo dell’Abstract.
Abstract
Through the Prison Notebooks and the papers left by
Sraffa, it is possible to attempt a reconstruction of the intellectual paths
taken by the two authors and discover unexpected convergences, as well as
obvious differences. The key concept employed here is that of the
'translatability of scientific languages'. From this concept, Boothman has
argued, stems the 'open' character of
Gramsci's Marxism. The theme of the translatability of languages is also
present in Sraffa: in a Note written after the important theoretical turning
point of the summer of 1927, he states his intention to write a book that will
consist in the translation of Marx into English, that is in the translation of
the 'metaphysics' of Hegel into that of Hume. It can be shown that issues that
have a prominent importance in Gramsci's thought help us to understand the
meaning and importance of Production of Commodities by Means of Commoditie.
***
PAZZI -SERENI:
Un carteggio
di Fulvio Papi
Vittorio Sereni |
Su Roberto Pazzi non posso dire molto di più
rispetto a quanto non percepisco dallo stesso epistolario. L’ignoranza ha le
sue pene. Dall’epistolario con Sereni deriva una figura di giovane alla ricerca
di sé attraverso il riconoscimento del proprio desiderio di essere poeta. Il
luogo d’incontro è Bocca di Magra che, come tutti sanno, fu per anni lo spazio
marino di frequentazione di una grande parte degli intellettuali (del Nord) di
altissimo livello. Un “luogo-storia” che ha avuto il suo eco poetico nel
celebre poemetto di Sereni Un luogo di vacanza,
che resterà come uno dei documenti più importanti della letteratura del ’900.
Un testo molto studiato, ma difficile dal punto di vista stilistico poiché lo
stile muta come se ogni livello fosse un’ouverture. Il rapporto morale sotteso
con Fortini è, al contrario, molto semplice da comprendere. Ma ora devo dire
qualcosa su Sereni “pedagogista” che intrattiene un lungo rapporto epistolario
con il devotissimo (e ambizioso) giovane Pazzi che desidera indirizzarsi verso
un’esperienza poetica autentica che gli consenta di specchiarsi come candidato
alle cime del Parnaso, al di là di ogni piccolo narcisismo. Per chi come me,
del resto filosofo, ha conosciuto la vita, il lavoro, gli umori, le emozioni
tacite di Vittorio, questo epistolario è, in un certo senso, straordinario.
Credo che solo Franco Loi, Raboni e qualche altro poeta di valore che però non
ricordo, abbia ottenuto l’attenzione che Pazzi ha ricevuto da Sereni. In fondo
il giovane Pazzi da Sereni vuole due cose in realtà incompatibili tra loro. Chiede
implicitamente come si diventa poeta, e desidera che l’autorità letteraria di
Vittorio riconosca la positività dei suoi passi iniziali. Sono due richieste
che Sereni, per tutta la vita, ha tenuto lontano da sé. Fu un tema che
travagliò il suo difficile e affettuoso rapporto con Fortini. Questo rapporto
resterà fondamentale nella storia letteraria del ’900.
Roberto Pazzi |
Al giovane “in erba”
(l’espressione è di Pazzi), Sereni in un groviglio di giudizi, consigli,
opportunità, si trova a provare a insegnare (non si può) come si diventa poeti,
e quale possa essere, nel caso, l’accoglienza del mondo. Il secondo tema
-dicevo- è difficile da insegnare a chi voglia un proprio posto al di là del
silenzio. Il primo tema, la poesia, è impossibile. Per insegnare qualcosa
bisogna che essa sia pubblica, cosa difficile per ogni poesia (non è questione
di “soggetti”), impossibile per quella di Sereni. Forse il giovane Pazzi non
indovinava quanto difficile fosse questa relazione per Vittorio. Una poesia
come ogni cosa, nasce in un contesto, ma in Sereni il contesto generico della poesia serve solo per trovare una
possibile identità propria che è un lavoro interiore per il quale è necessario
il consumo vitale del tempo. Quello che appare immediatamente è invece un
vedere, un sentire, un immaginare senza profondità, una dispersione del
soggetto nella pluralità del mondo; le parole volano come vento anonimo. Invece
nella prospettiva di Sereni le parole ritornano come antiche sculture che hanno
il loro giardino sottratto alla “comunicazione comune”, traducono una sua
memoria già lontana. Selezionare così la scrittura poetica è un faticoso
destino. Come si può insegnare? A Pazzi cui ho dato così poco, vorrei solo
ricordare il comune amore per Ferrara. Fui chiamato alla cattedra di quella Università
nel 1970 e vi rimasi un solo anno che ricordo sempre per l’architettura
preziosa e l’amabilità delle persone, la disponibilità dei colleghi, la
gentilezza delle mie allieve che con diligenza seguirono un ostico corso
teoretico, piuttosto estraneo ai colori della loro vita. Un ricordo così rimane
come un’architettura interiore, anche se io sono solo un filosofo.
Roberto Pazzi- Vittorio Sereni
Come nasce un poeta
Epistolario 1965-1982
A cura di
Federico Migliorati
Minerva Ed.
2018
Pagg. 176 € 15.00RENZO E L’ECONOMIA POLITICA
di Fulvio Papi
Manzoni doveva conoscere, tenuto
conto del suo tracciato intellettuale, gli elementi essenziali dell’ormai nota
economia politica, autori francesi e traduzioni in francese della cultura
economica inglese. Credo sia un sapere carsico che tuttavia emerge, rilevante,
a livello narrativo. Se la vita quotidiana è dominata dalla coscienza
religiosa, quando essa si riflette sulle scelte individuali, intese come
“bene-essere” appare dominata dal denaro. Il denaro nei potenti è invisibile
perché, quasi da solo, prende il suo cammino sociale senza che il proprietario
abbia da comparire in primo piano; il denaro è sempre trasfigurato nella forma
di vita come appropriato al proprio rango sociale. Suppongo, per esempio, che il
palazzo Borromeo (per stare ai cognomi manzoniani) che domina, con il suo
giardino, l’Isola Bella, in termini di denaro sia costato una cifra enorme.
Tuttavia del tutto sopportabile in relazione alla rendita fondiaria della
famiglia Borromeo. Il nobile, il “potente”, dispone del denaro in modo simile
all’acqua, dell’aria o delle mani. L’investimento fondiario appartiene solo
molto alla lontana ai calcoli economici, è piuttosto una dotazione
dell’identità della famiglia e della certezza di sé. Sono i poveri che, aiutati
dalla provvidenza, sanno fare i calcoli economici più elementari che li
riguardano, perché nelle loro condizioni il denaro, diviene necessariamente il
tramite del loro desiderio di una vita buona dal punto di vista dell’agio
possibile: nella loro mentalità siamo al confine tra il denaro come “tesoro” e
come “equivalente universale”.
La storia
del Renzo manzoniano diventa esemplare da questo punto di vista. Il giovane
povero e sprovveduto, nei giorni bollenti di Milano per la carenza del pane,
non comprende qual è, anche se apparentemente invisibile, il potere pubblico
dell’autorità dominante e, per incapacità a riflettere sull’obiettività della
situazione, diventa, nella sua ingenuità, una figura di criminale, per anni
ricercato dalla polizia, ma in quella situazione di carenza, ottimo autodidatta
della potenza del denaro, e della relazione tra il valore d’uso della sua
abilità di tessitore con il valore di scambio riconosciuto da tutti.
Una delle
pagine più giustamente famose del romanzo di Manzoni, è quella che interpreta
il sentimento dei fuggiaschi, attraverso il percorso necessario per le acque
quiete del lago: “Addio monti sorgenti...”.
Stando le cose come si erano messe, non c’era probabilmente altra via per la
salvezza. Nell’animo di chi fugge nasce un inno all’Heimat, il luogo che per
ragioni facilmente intuitive, diventa la condizione della propria vita, il
riconoscimento sereno di se stessi, che, per le persone semplici, ha un valore
vitale, almeno pari a quello della necessità di denaro, una condizione
spontanea della propria vita. Se dovessimo fare una questione di personaggi,
questo sentimento interiore pare, come l’affetto e la dipendenza dalla madre,
appartenere soprattutto a Lucia. Come il segreto nascosto della sua vita. Renzo
è costretto ad assumere l’identità che i poteri pubblici gli hanno conferito:
un colpevole che deve nascondersi con l’aiuto di calcoli elementari che nascono
dalla sventura. Renzo ha una sua capacità, una capacità opportuna di decisione,
una intuizione dei pericoli suggerita da una spontanea strategia per la propria
difesa. I suo “reati” restano nella burocrazia giudiziaria, un segno la cui
efficacia può essere neutralizzata attraversando l’Adda per raggiungere la
terra di Bergamo, sotto la giurisdizione di Venezia, tutt’altro che in
condizione amichevole con l’occupazione spagnola di Milano e dintorni. Nella
nuova situazione Renzo valorizza la sua abilità di tessitore, un lavoro
“socialmente utile”, e anche in tempo di crisi, questa proprietà personale e mercantile
è il solo denaro di scambio che garantisce sicurezza. Il prezioso e commovente
Heimat ha guadagnato il silenzio. Non è il caso di rievocare le vicende
lavorative di Renzo, se non per indicarne la strada maestra, da abile operaio
dipendente a piccolo imprenditore, in società con il cugino. Rilevano una
piccola manifattura ereditata da un giovane, dominato dal piacere, che vuole
convertire al più presto l’immobile in denaro per i suoi scopi. Immoralità del
piacere e moralità dell’uso produttivo del denaro, vengono sulla scena. Sono
“valori” dell’esistenza che Renzo ha respirato nell’aria, facilitati
dall’economia mercantile della “Serenissima” piuttosto che dall’uso
consumistico del denaro, tipico dell’occupazione spagnola di Milano. Per questa
via di una nuova esistenza socialmente strutturata, cade nell’oblio il
sentimento che nasceva dalla perdita del proprio “luogo”, l’addio ai monti, al
lago: l’Heimat diventa una dimenticata scenografia, forse un ricordo
ornamentale di cui non si parla nemmeno. L’economia politica comincia, come
sentimento di sé, dal basso. L’estetica appartiene alla ricchezza invisibile
che costruisce uno stile. Se vogliamo ricordare la lezione dell’antropologia
che, in ogni caso, fa questione del maschile e del femminile, possiamo immaginare
che Lucia, magari attraverso la figura della madre, custodisca una sua memoria.
Al maschile va invece l’idea del denaro come provvidenza terrestre che
distribuisce le condizioni di esistenza. L’individualismo sociale nasce come
difesa dei poveri, l’individualismo dell’anima come tormentato costume dei
ricchi? Non è l’abbozzo di una interpretazione, ma solo una debole traccia.
Nel
bellissimo libro di Karen Blixen La mia
Africa si legge: “Strappare ad un uomo la terra dove è nato significa
strappargli il suo passato, l’identità, le sue radici, togliergli ciò di cui è
abituato, vedere ed aspettarsi di vedere, è un po’ come portargli via gli
occhi. E questo vale soprattutto per i popoli primitivi”. Renzo nostro è un
analfabeta ma non un primitivo, quindi facile a diventare scolaro del pubblico
sapere e della personale adesione alla potenza sociale del denaro: annuncia la
modernità.
Il denaro è
“fra i significanti il più annichilente ogni significazione”, con Lacan nel Seminario della lettera rubata.IL TRAMONTO DELLA SCRITTURA E…
di Fulvio Papi
La vecchia battaglia dell’ottimo Tullio De Mauro per
l’alfabetizzazione come forma di libertà e di democrazia, è accaduta come
poteva accadere materialmente. C’è un italiano, mediamente televisivo, che è
piuttosto comune, tuttavia molto povero. Poi com’è naturale vi sono numerosi
idioletti. Che questo avvenga in settori specifici della vita sociale è ovvio,
anche se la prosa burocratica (e bancaria) potrebbe anche essere più al
servizio di chi deve capire. Ma quanto avviene in politica è più grave: quivi il
significato si circoscrive a parlanti di una corporazione che stabilisce i
termini di intesa o di conflitto in una specie di autobiografia semantica
condivisa, povera all’origine, e, impoverita da Tivù e Internet (cerchiamo di
ricordare quanto aveva detto Eco). In ogni caso lontana dall’antico tentativo
politico di cercare, nel rapporto col linguaggio-realtà, un’idea di bene
collettivo.
Chateaubriand |
“sorridente” per indicare il pregio della località che cercavano di favorire.
De Mauro |
Ovviamente qualsiasi potere fa tranquillamente a meno della competenza linguistica, l’importante è che la lingua, divenuta occasione di segni performativi, ottenga il suo risultato pratico. Ma non bisogna identificare il potere con gli stati autoritari, il potere è diffuso per molte vie nelle società e, invisibile, detta in luoghi diversi le pratiche di comportamento. Quando Popper, decantato più del necessario, parlò di “società aperta” aveva in mente il rapporto legislativo dello stato con le condizioni di libertà dell’individuo. Solo molto tardi criticando gli effetti sociali della televisione, fu costretto ad accorgersi che i poteri erano vari, diffusi, legali, consensuali, eppure potevano produrre risultati negativi. Così viene spontaneo il ritenere che quando un pensiero non è più adatto per comprendere una situazione, è importante cercare di disegnare la storia di questa decadenza. La scrittura era diventata un pregio, una possibilità, un lusso o un vezzo di chi poteva permetterselo, mentre “i più” potevano farne a meno nella loro prassi. Ed era proprio la mancanza della necessità di questo sapere che ne provocava la decadenza, perché non era così importante la sua trasmissione. I robot per esempio non parlano nel senso comune, ma la grande industria è robotizzata. Al contrario provate a pensare al tempo quando esistevano i manuali per le lettere d’amore poiché qualsiasi personaggio del lavoro e delle armi, riteneva più conveniente comunicare con l’amata attraverso forme scritturali che elevavano i suoi sentimenti, operazione desiderata, ma purtroppo, estranea alla sua competenza linguistica. Può sembrare strano ma all’analfabetismo di ritorno, a livello della cultura alta, la scrittura era sottoposta a un esame critico molto sottile. La scrittura per esempio non era molto amata dai giovani antropologi, allievi di Lévi Strauss. Essi vedevano in alcune popolazioni amazzoniche la lontananza da tutte le strutture sociali repressive (quanto usata male la parola freudiana!) del nostro Occidente: lo stato, le leggi, lo scambio economico capitalistico, l’organizzazione della produzione. Erano “estremisti” un po’ fuori strada, ma scrittori di una lingua esemplare che, per la verità, si tramandava in Francia più che da noi, e così capitava che, come per il maestro, anche per i più giovani, bisognava rievocare le pagine di Chateaubriand. E poi c’è la parte filosofica che vedeva nella scrittura di tipo concettuale, il superstite superbo della catastrofe di un parlare metaforico, prossimo all’esperienza della vita, senza voli scritturali nel cielo delle idee da dove nasce il fiore unico e “nefasto” della metafisica.
Ho preso il problema un poco dall’alto, ma mi perdoneranno i miei così cari colleghi, se dirò che non ho mai sentito far seguito alle loro sottilissime, importanti e decisive critiche tipiche del nostro mestiere, la richiesta dell’abolizione dell’insegnamento della scrittura nella scuola. La filosofia ha diritto a tutte le prove libere del pensiero, come la società ha diritto a conservare al meglio possibile i suoi risultati sociali e collettivi. L’identità di due livelli è un pessimo segno. Ma è proprio questo il punto più complicato. La vita sociale non deriva dal pensiero, essa accade secondo ragioni che sono quelle che sono e niente di più.
Tabucchi |
La società, la nostra società che si globalizza in seguito alla sua globalizzazione economica, ha uno sviluppo (non dite “progresso”) straordinario: produttivo, tecnologico, finanziario, mercantile, e, a livello delle soggettività che ne derivano, ludico, materialmente individualistico, spettacolare, consumistico, assente dai bisogni del miliardo di uomini che nel mondo hanno ancora mancanza di cibo sufficiente. Forse posso dire che noi occidentali consumiamo il mondo: noi non sappiamo quello che siamo. Forse ho allargato troppo il panorama, ma la critica non è indignazione, ma è sapere, conoscenza attraverso relazioni, nuove prospettive di apprendimento, saper distinguere. Ora la crisi della scrittura va connessa in modo diverso con alcune prospettive che ho evocato, così come la scrittura è stata una forma fondamentale della modernità. Ora abbandoniamo i “picchi” più elevati, del resto appena sfiorati, intorno alla scrittura. La scrittura come abilità pratica, che può essere praticata a diversi livelli, ha caratteristiche simili a ogni altra pratica dell’esistenza. Non c’è nessun corridore in bicicletta che non abbia imparato da piccolo a maneggiare le due ruote, non c’è idraulico che non abbia imparato facendo, sotto una buona guida, il suo mestiere. Saper praticare la scrittura non ha nulla di sostanzialmente differente, solo che la bicicletta o gli strumenti dell’idraulico, nel caso della scrittura, è certamente la lettura. Nessuno impara a scrivere se non attiva particolari possibilità di mimesi attraverso la lettura. Do per scontate tutte le riforme che sono nate intorno all’apprendimento della scrittura e anche le altre che hanno arricchito (in linea di principio) i rapporti tra gli insegnanti e gli scolari, ma l’obiettivo della comune conoscenza della scrittura doveva essere rigorosamente mantenuto. È corretto favorire le attività relative all’espressione immaginaria, così come quelle che derivano dal corpo come sistema di segni, è giusto favorire ogni forma di socializzazione dei bambini sottraendoli alla solitudine operativa tra se stessi e il modello della scrittura, ma questo arricchimento non doveva rendere fragile, com’è avvenuto, l’apprendimento della scrittura. Il che, come ho già detto, può avere successo se si stabilisce un rapporto tra lettura e scrittura. Non sto parlando della “Gente di Dublino” ma delle avventure del corsaro nero. Se si legge, opportunamente guidati, si impara anche a ripetere e, con un opportuno addestramento, anche a ripetere attraverso la scrittura che diventa il proprio mezzo fondamentale di comunicazione. E qui si apre un problema che è di cattivo gusto mettere da parte. Se tirassi dritto per la strada che ho preso, potrei dire che se la narrazione viene argomentata secondo una sequenza di immagini, l’apprendimento della scrittura tende a deperire. E qui mi trovo di fronte alla straordinaria (e da me molto amata) figura di Umberto Eco che non ha mai messo al margine i fumetti, sino a farne quasi un libro. Qui il problema è il rapporto tra parola, immagine, tempo di lettura. L’immagine non annichila affatto il significato della parola, la fissa, la circoscrive e la tipicizza. Il che riduce l’apprendimento “polisemico” del significato, ma rafforza l’apprendimento di quel significato. Può risultare un mondo fatto di modelli, ma l’esperienza poi li modifica e ne mantiene la memoria come un’esperienza di un’altra età. La questione della povertà della scrittura oggi ha motivazioni più complesse.
Roland Barthes |
Per esempio la fruizione dell’immagine televisiva è completamente differente, essa, in breve, ha una sua temporalità che si manifesta in un campo prevalentemente visivo che si rinnova nella forma di un costante presente. Non c’è lettore (fumetti compresi) c’è solo lo spettatore che non ha nulla di “aristotelico” (sto pensando al teatro), ma è puro consumo di rappresentazioni che non possono diventare nemmeno in minima parte, esperienze, conoscenze, mitologie interiorizzate. Il che ha necessariamente le sue conseguenze nella propria capacità di una espressione scritta, per il semplice fatto che non c’è niente da esprimere. Non sottovaluterei nemmeno l’influenza sul linguaggio, soprattutto giovanile, da parte del lessico delle canzoni. Non è affatto raro trovare testi che hanno un loro valore comunicativo di natura fortemente emozionale. Anche le parole che appartengono a brevi racconti musicali hanno la medesima caratteristica. Se la tradizione della poesia omerica era “il sapere della tribù”, possiamo dire che le forme emotive e sapienziali delle canzoni contemporanee spesso costituiscono un sapere diffuso e ampiamente condiviso. Questo vuol dire che il significato della parola acquista un forte valore emotivo, e, tuttavia, esso viene circoscritto, proprio dalla sua dizione musicale, al significato emergente nella canzone medesima. Può essere ripetuto nel canto, individuale o corale, ma non diventa una pedina polisemica in un gioco linguistico, intensifica l’emozione ma riduce l’arco significativo. La conseguenza di questa frequentazione, prevalente rispetto alla lettura anche di classici della poesia, è certamente un impoverimento del linguaggio e quindi della forma corretta della sua scrittura. Capisco che ho rovesciato la tesi del giovane Nietzsche a proposito della musica di Wagner: ciascuno nella sua gerla ha quello che ha. Inoltre: se non si è capaci di saltare un corda alta cinquanta centimetri, è probabile che questa incapacità sia vissuta come una frustrazione. Non accade affatto la stessa cosa relativamente alla povertà del proprio linguaggio, poiché vi sono supplenze tecnologiche che, di fatto, selezionano socialmente la competenza linguistica, provocando, esse, un insegnamento di base. Qualsiasi comunicazione è orale, e la rappresentazione scritturale, nel caso, ne è solo la copia. Abbiamo così una comunicazione ridotta a poche parole che abbassano la loro possibilità di significato a quella di segno. Tutti sanno che il segno “apre” e “chiude” e nel momento stesso indica una esperienza, il significato può impegnare il destinatario a una interpretazione che lo mette in gioco sulla sua capacità di manipolare significati. Lo scambio dei segni impoverisce la comunicazione, il colore della vita, la conoscenza della scrittura.
Tolstoj |
Credo che queste forme dominanti dell’esperienza che vanno dalle elementari all’università, siano sufficienti a mostrare il processo di impoverimento della lingua. Ma, ovviamente, i fenomeni sono molto più complessi. Non molto tempo fa si sosteneva che la comunicazione Internet (l’auto-convocazione) sarebbe stata la realizzazione piena della democrazia, perché ognuno sulla Rete avrebbe potuto dire quello che pensa o desidera. Il modello più antico era quello della “piazza” della Rivoluzione francese. E qui l’errore è stato fatale: ricordo la fase di un semiologo di prima grandezza: “adesso il guaio è fatto”. La comunicazione in Rete deve essere fatta in poche righe, il pensare è invece un’operazione relazionale e analitica che richiede un lessico ampio e una dimensione temporale relativamente ampia. È accaduto che in Rete corrono solo luoghi comuni, tracotanti banalità, intenzioni vagamente benefiche, stupidi raggiri et similia, provocando una lettura e un procedimento di apprendimento e di risposta a livello del “puer iracondo” che rimette in circolo le poche parole d’origine in un processo che va all’infinito. Poiché, salvo eccezioni, questo modello stilistico condiziona giornalismo, saggistica e letteratura. E credo, sia giusto dirlo, ma non è poi strano che, nell’insieme delle condizioni che ho cercato di evocare, i ragazzi perdono (poiché di questo si tratta) il tesoro della lingua. Mi auguro che sia passato il tempo in cui ogni invenzione tecnologica sia pensata come “progresso”, senza riflettere, in generale, sulle sue conseguenze (progetti e profitti). Non è affatto arguto farsi prendere dalla nostalgia per la penna d’oca di Goethe.
Dostoevskji |
Ma si dovrebbe osservare che nel prezzo pagato per fruire di microtecnologie molto utili, sia proprio l’impoverimento della lingua e l’inesperienza delle sue possibilità. E qui non è il caso di universitari che confondono l’arringa con l’aringa, il problema è più grave poiché da tempo siamo quasi tutti d’accordo che il linguaggio costituisce la nostra possibilità di essere. Per questo chi era nell’aria socialista pensava che fosse necessario rendere possibile alla “forza-lavoro” di saper dire se stessa, una questione di istruzione e di libertà. Teoricamente non c’è nulla di cambiato, storicamente sì. A formare le esistenze è ormai la povertà e l’inquinamento del linguaggio come limite e impossibilità del proprio essere. Per un grammatico (di quelli che cento anni fa non piacevano a Croce) un errore è solo un errore, invece è di più, impoverisce ogni atto della vita, riduce molto le sue potenzialità così faticosamente acquisite, valorizza solo i linguaggi formali che sono essenziali, ma non sufficienti. In teoria c’è una marcia indietro, ma il problema è sociale: potrà invece essere solo un giardino di Adone dove la fioritura è del tutto fuori stagione?
***
“L’idea di socialismo”. Sul libro di Axel Honneth
di Ferruccio
Capelli
La copertina del libro |
1. Discutiamo seriamente il libro di
Axel Honneth, “L’idea di socialismo”:
la scelta stessa di uscire con un libro di questo genere, con questo titolo, con
questo argomento, rappresenta un fatto
culturale. Erano anni che il socialismo era scomparso dalla pubblicistica,
quasi come un “residuato bellico, un
sopravvissuto”. Ora è il direttore del celebre Istituto per la ricerca
sociale di Francoforte, l’allievo di Habermas, che ci invita a rimetterlo nell’agenda
culturale e politica. Si tratta di un’occasione da non farsi scappare.
Axel Honneth |
2. “Socialismo”: questa parola ha una storia lunga alle spalle.
Honneth ne rintraccia le prime apparizioni addirittura nel XVIII secolo: sembra
venisse usata in modo spregiativo contro i sostenitori del diritto naturale che
volevano fondare l’ordinamento giuridico sul naturale impulso umano alla
socialità e non sulla rivelazione divina. In realtà nel significato che noi
conosciamo, ovvero come parola che vuole indicare una nuova forma di
organizzazione sociale, appare in Francia verso
il 1830, probabilmente grazie alla penna di Pierre Leroux. Era la Francia
che aveva appena dietro le spalle la cesura storica della Rivoluzione francese:
Honneth giustamente stabilisce un legame strettissimo tra gli ideali della
rivoluzione francese e la nascita dell’idea stessa di socialismo. Generalmente
si è soliti dire che l’idea di socialismo
nasce in contrapposizione a quella di individualismo
che inizia ad emergere negli anni immediatamente successivi alla
rivoluzione francese.
Honneth sposta leggermente l’accento: depura o lascia sullo sfondo questo elemento polemico e sottolinea un nesso inscindibile tra l’idea di socialismo e due valori portanti della rivoluzione francese: la libertà e la fraternità. Nella Francia post-rivoluzionaria, argomenta il nostro autore, si comincia a pensare che la libertà non può essere un privilegio di qualcuno, che la libertà di ciascuno non deve essere vista come un limite, ma piuttosto come un ausilio per la libertà di tutti gli altri. Insomma, si comincia a ragionare su un’idea non individualistica di libertà, su una nuova libertà sociale: è il concetto di fraternità che permette di ripensare e tenere assieme libertà e comunità. Questo angolo visuale permette a Honneth di recuperare e valorizzare le primissime esperienze e le primissime teorizzazioni socialiste (i socialisti utopisti, avrebbe detto Engels): sono esperienze in cui i motivi ispiratori, le categorie più ricorrenti, sono soprattutto associazione, cooperazione, comunità. Sono queste probabilmente le pagine più belle del libro, anche perché Honneth vede proprio in questa tensione associativa, nella reinvenzione del concetto stesso di comunità, nella spinta a cooperare, l’operazione più affascinante del movimento socialista, quella che può tornare a parlare anche all’oggi, quella più densa di attualità.
Honneth sposta leggermente l’accento: depura o lascia sullo sfondo questo elemento polemico e sottolinea un nesso inscindibile tra l’idea di socialismo e due valori portanti della rivoluzione francese: la libertà e la fraternità. Nella Francia post-rivoluzionaria, argomenta il nostro autore, si comincia a pensare che la libertà non può essere un privilegio di qualcuno, che la libertà di ciascuno non deve essere vista come un limite, ma piuttosto come un ausilio per la libertà di tutti gli altri. Insomma, si comincia a ragionare su un’idea non individualistica di libertà, su una nuova libertà sociale: è il concetto di fraternità che permette di ripensare e tenere assieme libertà e comunità. Questo angolo visuale permette a Honneth di recuperare e valorizzare le primissime esperienze e le primissime teorizzazioni socialiste (i socialisti utopisti, avrebbe detto Engels): sono esperienze in cui i motivi ispiratori, le categorie più ricorrenti, sono soprattutto associazione, cooperazione, comunità. Sono queste probabilmente le pagine più belle del libro, anche perché Honneth vede proprio in questa tensione associativa, nella reinvenzione del concetto stesso di comunità, nella spinta a cooperare, l’operazione più affascinante del movimento socialista, quella che può tornare a parlare anche all’oggi, quella più densa di attualità.
3. Vi sarebbero, però, - scrive Honneth
- tre tare originarie del socialismo
con cui fare i conti. I nodi che solleva sono grossi e meritano di essere
discussi puntualmente. Con la prima tara non si può che concordare: la
sottovalutazione della libertà
individuale. L’accento posto sulla libertà sociale fa scivolare in
second’ordine la libertà della singola persona: qui stanno sicuramente le
radici di tanti guai successivi. Oggi penso che siamo tutti d’accordo
sull’impossibilità di pensare il socialismo senza le libertà individuali. Più
problematiche appaiono le altre due questioni: la visione della storia e il rapporto con il mondo del lavoro
industriale. Oggi è un luogo comune prendersi gioco della teleologia, della visione finalistica della storia che fin dalle
origini ha attraversato in varie forme il movimento socialista.
Le ragioni sono evidenti: nelle nostre mani si è disfatto non solo il materialismo storico, ma anche, perfino, la fiducia illuministica nel progresso. Eppure, mi sembra che la questione meriti qualche ulteriore riflessione. Proviamo a guardare all’indietro, a collocare storicamente il problema: davvero qualcuno pensa che i militanti socialisti avrebbero potuto affrontare gli immensi sacrifici della loro lotta senza la visione di una meta, senza la speranza di una nuova società? Penso a quegli uomini che dovevano affrontare prove tremende: licenziamenti, miseria per sé e per le proprie famiglie, arresti e deportazioni. Davvero avrebbero potuto farlo senza quella cosa, la “fede nel socialismo”, che oggi viene liquidata con tanto sufficienza?
Le ragioni sono evidenti: nelle nostre mani si è disfatto non solo il materialismo storico, ma anche, perfino, la fiducia illuministica nel progresso. Eppure, mi sembra che la questione meriti qualche ulteriore riflessione. Proviamo a guardare all’indietro, a collocare storicamente il problema: davvero qualcuno pensa che i militanti socialisti avrebbero potuto affrontare gli immensi sacrifici della loro lotta senza la visione di una meta, senza la speranza di una nuova società? Penso a quegli uomini che dovevano affrontare prove tremende: licenziamenti, miseria per sé e per le proprie famiglie, arresti e deportazioni. Davvero avrebbero potuto farlo senza quella cosa, la “fede nel socialismo”, che oggi viene liquidata con tanto sufficienza?
Ma soffermiamoci sull’oggi. Abbiamo alle
spalle trent’anni e più di postmoderno che ci hanno abituati a liquidare ogni
visione di lungo periodo, a concentrare l’attenzione solo sul presente, a
vivere il presente come unica dimensione della vita, a immergerci nel presente.
Eppure la mia impressione è che il futuro, il
problema del futuro, che era stato liquidato con tanta leggerezza, stia
tornando prepotentemente tra noi. O meglio, la mia impressione è che il futuro
in modo del tutto imprevisto abbia cominciato a rotolarci addosso. Che cos’è
l’inquietudine che ci circonda se non la sensazione nuova, inquietante che il
mondo stia cambiando tumultuosamente, che il nostro ambiente di vita stia radicalmente
cambiando senza però, attenzione: qui sta il punto, senza che siamo noi a
deciderlo? Siamo entrati dentro una “nuova
grande trasformazione”, ma a ridisegnare il mondo sono due grandi forze impersonali: la globalizzazione e
l’innovazione tecnologica e scientifica. La globalizzazione ridisegna i
rapporti tra le varie parti del globo e accelera la circolazione dei
cambiamenti mentre l’innovazione tecnologica e scientifica ridefinisce il
nostro rapporto con la natura, i lavori, le nostre modalità di relazione, la
durata stessa della nostra vita. Ogni giorno si accumulano nuove conoscenze nelle
tecnologie digitali, nelle biotecnologie, nelle nanotecnologie, nella robotica,
nelle neuroscienze: e ora incominciano a intuire che la loro ibridazione
determinerà un vero e proprio salto di paradigma tecnologico e noi stiamo
arrivando propri lì.
Ma non appena ci rendiamo di cosa sta davvero accadendo
incominciamo a domandarci: dove ci
stanno portando questi tumultuosi cambiamenti? C’è qualcuno che guida e
orienta le scelte o dobbiamo accettare semplicemente che esse accadano
automaticamente (oggi si direbbe: di default?).
Dobbiamo solo prendere atto dell’inesorabilità o possiamo ragionare di fini e di valori con cui orientare
questa immensa trasformazione? Sono domande cruciali dei nostri tempi ed esse
ci costringono nuovamente a fare qualcosa cui ci eravamo disabituati, a non
crogiolarci nel presente. Il problema dei soggetti della storia umana, dei fini
e dei valori verso cui orientare il
futuro sta ritornando tra di noi: sarà bene che ricominciamo ad attrezzarci
teoricamente per affrontarlo. In poche parole: dobbiamo pensare al futuro anche
se non siamo in grado di prevederlo. A me sembra che così si dovrebbe
interpretare la proposta di “sperimentalismo
storico” con cui Honneth chiude le sue considerazioni al riguardo.
Qualche riflessione merita anche la terza presunta “tara”:
l’ancoraggio del socialismo al mondo del
lavoro industriale. Qui temo di non concordare con Honneth: sento
riecheggiare tesi antiche, il clima che fa da sottofondo alla Scuola di Francoforte, la ben nota
sfiducia di Adorno e Horkheimer verso la classe operaia. A me sembra, invece,
storicamente indiscutibile che l’idea di socialismo si è diffusa nel mondo ed
ha avuto la forza che ha avuto proprio perché si è intrecciata profondamente
con la vicenda della classe operaia.
Per tante ragioni, fra queste anche per la lucidità con cui alcuni pensatori, e qui il più importante è stata sicuramente Marx, hanno intravisto il
possibile ruolo sociale e politico del proletariato industriale.
Per altro nel loro pensiero non c’era alcuna banalità meccanicistica: a tutti noi è ultranota la distinzione tra classe in sé e classe per sé, insomma il ruolo della battaglia delle idee, della paziente costruzione politica e ideale del movimento operaio.
Per altro nel loro pensiero non c’era alcuna banalità meccanicistica: a tutti noi è ultranota la distinzione tra classe in sé e classe per sé, insomma il ruolo della battaglia delle idee, della paziente costruzione politica e ideale del movimento operaio.
Ancora una volta: lo sguardo attuale applicato troppo
semplicemente al passato può trarre in inganno. Noi oggi stiamo vivendo un
fenomeno doloroso, di immensa portata politica: la dissoluzione del movimento
operaio, di quel soggetto potente della storia che era fatto dall’intreccio di
sindacato, soggetto politico e visione ideale. Il movimento operaio si è
dissolta negli ultimi trent’anni. Non per questo possiamo svalutare il ruolo
che ha avuto per centocinquant’anni: esso è stato una forza sociale e politica
fondamentale per oltre un secolo. Aggiungo: la crisi verticale del movimento
operaio non ci autorizza a svalutare il ruolo che il lavoro può e deve svolgere
anche oggi: ma su questo punto cercherò di fare almeno alla fine del
ragionamento.
4. Permettetemi però di andare oltre, di
sollevare una questione più di fondo: secondo me per tornare a discutere
seriamente dell’idea di socialismo bisogna fare un passo ulteriore rispetto allo
stesso Honneth, bisogna che ci liberiamo di un certo irenismo che attraversa tutto il libro, bisogna guardare più in faccia la realtà. Mi
spiego meglio: tutto il ragionamento di Honneth si dispiega nel cielo delle
idee, in un confronto tra teorie politiche. Le sue riflessioni, secondo me,
avrebbero assunto ben altra forza se fossero state inserite nella dura, cruda cronaca
politica di questi tempi. Forse Honneth è stato danneggiato proprio dal fatto
che ha saputo anticipare i tempi, che ha fiutato l’aria prima di eventi
confermativi del suo ragionamento. Il suo libro è uscito in Germania nel 2015,
probabilmente pensato e scritto nei due - tre anni precedenti. E in questi
ultimissimi anni sono accadute tante cose.
Da quando Honneth ha scritto il libro è accaduto un fatto
letteralmente impensabile: che si è cominciato a parlare di socialismo là dove
sembrava impossibile che potesse accadere, negli Stati Uniti, durante la
campagna elettorale: il candidato Bernie
Sanders si è dichiarato socialista, si è presentato con una piattaforma
socialista e ha conteso fino alla fine la nomitation
ad Hillary Clinton. La cosa ancora più incredibile era che i sondaggi
continuavano a dire che, tra i due sfidanti, era Sanders quello che aveva più
possibilità di battere Trump. Notate bene: stiamo parlando di qualcosa che era
completamente fuori dalla logica politica fino a pochi mesi prima. E lo
sorprese non sono finite: i supporters di Sanders, come sapete, erano i più
giovani e chi si occupava di cose americane non poteva esserne meravigliato:
personalmente avevo capito che stava accadendo qualcosa di molto importante e
sorprendente quando mi sono imbattuto nella rivista “Jacobin”, una rivista di giovani americani che è senza dubbio la
più interessante rivista socialista di questi tempi.
Ma Bernie Sanders
purtroppo non è la sola novità di questi tempi. Tante altre cose sono accadute
in pochissimo tempo: Trump, la Brexit ispirata da Farage, i populismi
che dilagano (Le Pen, in tanti altri paesi dell’Europa Occidentale, per non
parlare di quello che sta accadendo in Ungheria dove il nazionalista di destra
Orban subisce la concorrenza dello Jobbit, una formazione che non nasconde
nostalgie neonaziste e in Polonia dove imperversa una formazione politica che
si è affermata al grido di: Dio, patria e famiglia), l’UE sottoposta a tensioni inquietanti.
C’è qualcosa che accomuna questi populismi: chiusure
nazionaliste, pulsioni xenofobe, aggressività verso nemici ricercati o
inventati, leadership tendenzialmente autoritarie. Ancora: a ogni piè sospinto
vengono agitati la paura e il rancore.
Di fatto si tratta di un’onda populista di destra
che sembra attraversare tante parti del mondo (non solo occidentale: si pensi
all’India, alle Filippine, al Messico di Nieto o agli ultimi sviluppi in
Argentina e Brasile). E dinanzi a tutto questo il mondo progressista è in
difficoltà, come mai dal dopoguerra ad oggi.
Questa afasia della sinistra è il punto più allarmante ed è proprio su
questo che dobbiamo soffermarci. Cosa sta accadendo? A me sembra che il
discorso brutale, semplificato, aggressivo dei populismi accarezza paure e
insicurezze diffuse, la paure e le insicurezze provocate proprio dalla
globalizzazione liberista e dall’ondata di innovazioni tecnologiche. Dinanzi ai
cambiamenti la destra populista dice: costruiamo barriere difensive,
chiudiamoci a riccio, voltiamo lo sguardo ad un passato rassicurante. Ecco la
riscoperta della nazione-comunità:
da sempre la nazione è la comunità più rassicurante attorno alla quale
costruire barriere e fili spinati. Questo messaggio scende in profondità, tocca
e coinvolge proprio gli strati più
popolari: non a caso le sirene populiste sono ben attente proprio ai
bisogni della parte più debole del popolo. Pensiamo a Trump: protezionismo per
creare posti di lavoro operaio. Oppure pensiamo all’Ungheria e alla Polonia: le
destre urlano ai quattro venti che difenderanno a ogni costo lo stato sociale e
bloccheranno le privatizzazioni.
E la sinistra, quella che abbiamo conosciuto in questi ultimi
anni, appare in singolare difficoltà: in Ungheria e Polonia addirittura buttata
fuori dal Parlamento. Dove sta la sua difficoltà? A me sembra che il suo vero
grande problema sta nel non riuscire a
tenere assieme i due grandi perni della
narrazione progressista, da un lato
la crescita della soggettività, la libertà e il rispetto dei diritti umani e
dall’altro lato la solidarietà, la giustizia e l’uguaglianza sociale. I due
perni della narrazione progressista si sono allontanati, si sono separati e
dentro questa smagliatura, dentro questa frattura si stanno inserendo
minacciosamente i nuovi populismi di destra.
Il fenomeno può essere guardato da più punti di vista: c’è
chi, nei suoi gruppi dirigenti, si è lasciato attrarre dalla sirena neoliberale
fino al punto, clamoroso qui il caso di Tony Blair, da identificarsi con le
élites globali liberali. C’è chi più nobilmente ha vissuto con generosità il
fascino della narrazione dei diritti e soprattutto dei diritti umani e ha
spostato tutto l’accento sulla questione della libertà. In ogni caso, qualunque
sia stata la motivazione, i gruppi dirigenti della sinistra hanno dato
l’impressione di avere dimenticato la grande lezione di quello che era il
nascente movimento socialista: l’uguaglianza dei diritti non basta e può
perfino essere ingannevole se ad essa non si accompagna l’uguaglianza sostanziale.
I discorsi sui diritti, la stessa democrazia, possono diventare un velo che
nasconde la crescita delle disuguaglianze. Detto diversamente: il liberalismo
delle élites, quella che è prevalso in questi tre ultimi decenni, è cosa molta
diversa da un liberalismo incorporato in un sistema democratico e socialista.
Detto in altro modo ancora: libertà e sicurezza si sono dislocati su due piani
diversi e a nessuno sfugge quanto può diventare pericolosa la lacerazione e la
contrapposizione fra questi due valori essenziali per la vita umana: può
prendere corpo l’idea che la sicurezza, nel senso più ampio possibile, deve
venire garantita ad ogni costo, anche a prezzo dei diritti di libertà.
5. A nessuno può sfuggire, o per lo
meno questo è il cuore del mio ragionamento, che siamo dentro una svolta, un passaggio storico, di grande portata: a me sembra di poter dire che siamo nel
pieno di un sommovimento periodizzante, di una frattura che segna un passaggio
della storia. Tante cose stanno cambiando con una rapidità sorprendente: tutti
stanno aggiornando e rivedendo l’agenda politica e culturale. È dentro questo sommovimento che sta ritornando l’idea di socialismo. La storia è affascinante per
la sua imprevedibilità: ha degli scarti del tutto imprevedibili. Il socialismo
è riapparso nel mondo anglosassone, in quell’America dove non aveva mai
attecchito.
Ma pensiamo anche agli scossoni che si stanno succedendo in tutti i
partiti socialisti: Gran Bretagna, ora Francia, qualcosa del genere in Germania:
le leadership si spostano -bene, male?- a sinistra, recuperano linguaggi,
valori, proposte della tradizione e della cultura socialista. Honneth aveva
fiutato bene: l’idea di socialismo da residuato bellico, da sopravvissuto
ritorna nell’agenda del confronto politico e culturale.
Per concludere il ragionamento vorrei provare, però, a
scavare un attimo più a fondo. Proviamo a riflettere ulteriormente sulla genesi e sui momenti in cui è stata più
forte la presa dell’idea di socialismo: la sua forza e il suo fascino stavano
in qualcosa che andava oltre la spinta alla cooperazione e all’associazione.
Per dirla con il linguaggio del tempo passato, un linguaggio però che
rifletteva rigorosamente processi reali, il motivo ispiratore del socialismo,
quello davvero unificante, stava nell’idea di emancipazione della classi subalterne. Emancipazione: un’idea
letteralmente sradicata. Cosa vuol dire? Viene da ex mancipium. Mancipium: facoltà di godere e disporre di cose e di
schiavi. Ex mancipium: estrarre da questa condizione, rompere
l’assoggettamento, spingere verso l’alto le classi subalterne: questa, l’emancipazione, è stata la vera, straordinaria funzione storica del movimento
socialista. Ma non stiamo parlando di qualcosa, di un nodo, che sta ritornando di
straordinaria attualità?
Tutti i dati ci dicono che la mobilità sociale si è
bloccata, che le disuguaglianze sociali
stanno crescendo vertiginosamente, che si sta formando una nuova élite globale che concentra nelle sue mani ricchezza e
potere. Notiamo bene: i populismi traggono alimento proprio da questa denuncia.
Essi propongono una soluzione barbarica a questo problema: l’identificazione
della gente semplice con un capo che li guida e protegge e la mobilitazione
contro qualche capro espiatorio. Ma non è compito delle forze progressiste pensare e
organizzare una propria risposta, riprendere in mano e rielaborare la questione
dell’emancipazione ovvero della riapertura della mobilità sociale, di un nuovo
orizzonte di giustizia? Certo, ritornare su questa strada non sarà - non
sarebbe una passeggiata. Tornare a ragionare sul socialismo non è un problema
di vintage lessicale: questo semplice
fatto rimetterebbe in discussione la scala delle priorità, rimescolerebbe l’agenda
politica e sociale delle forze progressiste.
Provo ad esemplificare alcune delle conseguenze. Oggi sembra
un luogo comune, una verità non discutibile, che bisogna abbassare le tasse.
Talmente scontato che un ex presidente del Consiglio pochi giorni fa ha potuto
parlare dei governi Prodi come di “governi Dracula”, con un “fisco vampiro”
mentre lui al contrario avrebbe puntato tutto sull’abbattimento delle tasse.
Meno tasse sembra l’orizzonte scontato, ma meno tasse equivale a meno stato
sociale e meno stato sociale vuol dire allargare l’insicurezza sociale, il che -ci dice la cronaca di questi mesi- spinge i cittadini più poveri nelle braccia
del populismo. È un giro vizioso, senza vie d’uscita.
A meno che si cerchi di ragionare
diversamente, in base ad altri presupposti e ci si interroghi se in questi anni
si è andati nella direzione giusta. Prendiamo un dato semplicissimo: nel 1945
l’aliquota marginale negli States era del 94 % (!), scesa via via
progressivamente: ora un gruppo come
Apple paga l’1,5 % (!) di tasse sui profitti. Per questo saltano le misure di
sicurezza sociale e allora mi chiedo: non sta lì la ragione dell’ascesa di
Trump? Possiamo bloccare la deriva populista, antidemocratica, senza pensare
diversamente, senza recuperare altri presupposti di pensiero?
Un altro esempio. Sembra scontato oggi pensare all’azienda come una realtà che ha un’unica
funzione: produrre valore per gli
azionisti. Al punto che gli azionisti, si dice e si legifera di
conseguenza, possono sbarazzarsi della forza lavoro come e quando vogliono. Ma
siamo certi che questa sia la concezione migliore di un’azienda, che non si
possa pensarla diversamente, come un societas
che trae la sua forza dalla convergenza di interessi e dalla sostanziale
solidarietà tra tutti coloro che interagiscono con essa? E per quale ragione
un’azienda pensata in quest’altro modo dovrebbe essere meno efficiente di una
in cui gli azionisti fanno ciò che vogliono? Vi sono argomenti seri, e tante
verifiche storiche, per sostenere che un’azienda che valorizza il lavoro riesce
a competere meglio di altre. La valorizzazione
del lavoro, idea centrale del progetto emancipatore socialista, riacquista
nuova pregnanza e forza.
Come si vede rimettere in campo l’idea di socialismo, l’idea
limite di una società giusta, potrebbe avere profonde conseguenze: si
tratterebbe di un’operazione che rimetterebbe in sinergia elaborazione
culturale, teorica, e la vita pubblica.
Un’ultima considerazione, per concludere. Permettetemi di
affrontare la questione da un punto di vista leggermente diverso. Proviamo per
un attimo a guardarci attorno. Il campo
progressista non è povero di risorse: esse lavorano però isolate le une
dalle altre. Vi è chi mette in primo piano la difesa dei diritti delle persone,
chi si impegna per la cura delle persone più disagiate, chi dedica le proprie
energie a ripensare il rapporto con la natura. Mondi diversi che camminano fianco a fianco, ma non interagiscono
tra di loro, quasi fossero autistici, incapaci di dialogare e di costruire una
prospettiva comune. Ciò che si è dissolto è una prospettiva comune, una
narrazione che potesse tenere assieme tante diversità. E allora mi chiedo - ma
qui davvero pongo la questione sotto forma di una domanda non retorica - se la
riscoperta dell’idea di socialismo, ovvero di una società democratica e giusta,
non possa permettere di rimettere in
moto una narrazione unitaria, un punto di convergenza nel
quale possano interagire virtuosamente
e tenersi assieme le mille e mille diversità in cui in
questi anni si è frantumato il campo progressista. Concludo, come vedete, con
un interrogativo, ma forse questa è la dimostrazione migliore di quanto il
breve saggio di Axel Honneth meriti di essere letto e riflettuto.
***
IL FILOSOFO E LE
MUSE.
La filosofia come
"musica altissima" e "sinfonia dell'anima"
di Franco Toscani
È noto che
l'Accademia platonica, come θίασος (associazione cultuale al
servizio delle Muse), fu consacrata al culto di Apollo e delle Muse e che al suo interno si
trovava un altare dedicato alle Muse. Nonostante le sue perplessità e ben note
posizioni sulla poesia e sull'arte, Platone istituisce un fecondo rapporto tra
il filosofo e le Muse. Nel Cratilo (406 a 3-5) leggiamo
che il nome stesso alle Ποῦσαι (Muse) e alla μουσική
(musica) sembra derivare dal μῶσθαι (aspirare, cercare) proprio della ricerca e della
filosofia. Nella Repubblica (VIII, 548 b8-c1) la "vera
Musa", quella da non trascurare, sempre "si accompagna ai discorsi e
alla filosofia". Le profonde corrispondenze tra musica, poesia, arte in
generale e pensiero ci riguardano da vicino ancor oggi, si pensi soltanto, fra
il XIX e il XX secolo, alle opere e agli esempi straordinari di Friedrich
Nietzsche, Martin Heidegger e María Zambrano. Nel Fedro il
filosofo è per Platone l'uomo capace dell'ἀνάμνησις (reminiscenza) di ciò che un tempo vide la nostra anima,
capace di pensare la totalità con uno sguardo libero, universale,
disinteressato, dall'alto; è l'uomo "posseduto dal dio",
"ispirato" (ἐνθουσιάζων), in cui rinascono - per quanto è possibile
(κατὰ δύναμιν) ai mortali - le ali dello spirito, sorretto dall'amore per la
sapienza e la verità; è un uomo ritenuto strano e "folle" dai più,
perché rivolto a cose alte, divine e lontano dalle beghe e macchinazioni, dalle
occupazioni prevalenti, dai traffici e dagli interessi dominanti in cui si
risolve la vita della maggior parte degli uomini (cfr. Fedro, 246
c; 248 d; 249 b-d).
Il filosofo è devoto alle Muse, amante della
bellezza, dedito all'amore, al pensiero e al sapere; col desiderio di questo
tipo che sempre porta con sé, egli acquisisce le ali e si libra in volo
(cfr. Fedro, 249 d-e). Molto platonico è in questo senso
pure Giordano Bruno, quando nel XVI secolo scrive, con le ali del suo schietto
spirito filosofico, in una poesia premessa al dialogo De l'infinito,
universo e mondi (1584): "fendo i cieli, e a l'infinito
m'ergo".[1] Come grande pensatore e cantore
dell'universo infinito, Bruno riprende il motivo platonico delle ali nel De
innumerabilibus, immenso et infigurabili, seu De universo et mundis libri octo (il
cosiddetto De immenso, 1591): "Alla mente che ha ispirato il
mio cuore con arditezza d'immaginazione piacque dotarmi le spalle di ali e
condurre il mio cuore verso una meta stabilita da un ordine eccelso: in nome
del quale è possibile disprezzare e la fortuna e la morte. (...) Così, io sorgo
impavido a solcare con l'ali l'immensità dello spazio, senza che il pregiudizio
mi faccia arrestare contro le sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente
dedotta da un falso principio, affinché fossimo come rinchiusi in un fittizio
carcere ed il tutto fosse costretto entro adamantine muraglie. Ma per me migliore è la mente che ha disperso ovunque quelle nubi e ha
distrutto l'Olimpo, che accomuna gli altri in un'unica prigione dal momento che
ne ha dissolto l'immagine, per cui da ogni parte si espande il sottile aere. Mentre mi incammino sicuro, felicemente innalzato da uno studio appassionato,
divengo Guida, Legge, Luce, Vate, Padre, Autore e Via: mentre mi sollevo da
questo mondo verso altri mondi lucenti e percorro da ogni parte l'etereo
spazio, lascio dietro le spalle, lontano, lo stupore degli attoniti".[2]
Nella lettera al rettore e al senato accademico
dell'università di Wittenberg premessa al De lampade combinatoria
lulliana (1587), Bruno dichiara di sentirsi in Musarum curia
alumnus ("un allievo alle cure delle Muse").[3]
In Bruno l'ispirazione delle Muse è congiunta pure
(nel primo dialogo de La cena de le Ceneri, 1584) a una vena
scopertamente erotica e il fiorire delle Muse è legato alla presenza di un
clima favorevole alla tolleranza e alla libertà di pensiero. Bruciato vivo sul
rogo dall'Inquisizione cattolica nel febbraio 1600, il filosofo pagherà
duramente le sue idee e l'amore delle Muse, rimanendo vittima dell'intolleranza
e della repressione della libertà di pensiero. Nell'Oratio consolatoria stampata a Helmstedt nel 1589, Bruno
descrive la sua vita di esule, "forestiero ed estraneo"; per amore
delle Muse, "spregiai, abbandonai, perdetti la patria, la casa, la
facoltà, gli onori, e ogni altra cosa amabile, appetibile, desiderabile
all'infuori di loro".[4] Col suo coraggio e con la sua determinazione, con la sua forza e libertà di
pensiero, Giordano Bruno ci ha lasciato una testimonianza straordinaria e
mirabile di cosa possano significare le ali, il volo del pensiero e l'amore per
le Muse.
Dopo questa parentesi, torniamo a Platone. Come
leggiamo pure nello Ione, soltanto la Musa forma gli ispirati e può
costituirsi una "catena", una comunità di coloro che sono invasi da divina
ispirazione (cfr. Ione, 533 e-534 a).
Nel Fedro Socrate ha l'impressione
che le cicale, come "attendenti delle Muse", col loro canto
ininterrotto nell'afa estiva, ci stiano osservando, ascoltando e possano
riferire alle Muse gli umani discorsi (cfr. Fedro, 259 a-d).
Diventa allora importante per noi porre attenzione
ai discorsi. Il filosofo è l'uomo che, ispirato dalle Muse, cerca di dare forma
alla propria vita, secondo uno stilecomplessivo di esistenza di cui
fa parte anche il modo di parlare e di scrivere, il ricorso a discorsi
non superficiali e sciatti, ma pronunciati e scritti "nell'anima" (ἐν
ψυχῇ. Cfr. Fedro, 278 a).
La filosofia può porsi così come μεγίστη μουσική (musica altissima. Cfr. Fedone, 61 a 3-4) quando
e, anzi, soltanto quando la vita di un uomo riesce ad
armonizzare e ad accordare in una effettiva consonanza le
azioni e le esperienze vissute con le parole, i pensieri e i discorsi. La
"musicalità" specifica della filosofia indica "l'arte delle
Muse" (μουσικὴ τέχνη), intesa in senso ampio come capacità di indirizzo,
educazione, cultura, formazione, controllo, disciplina di sé, orientamento
positivo e costruttivo della propria vita.
Nel Lachete, proprio Lachete afferma di poter sembrare di volta
in volta φιλόλογος ("amico dei discorsi") - quando i λόγοι si rivelano coerenti coi fatti e le esperienze della propria vita -
oppure μισόλογος ("nemico dei discorsi"), quando questi ultimi si
palesano in contraddizione coi comportamenti reali: "Quando infatti sento
un uomo che dialoga sulla virtù o su una qualche forma di sapienza (ἀνδρὸς περὶ
ἀρετῆς διαλεγομένου ὴ περὶ τινος σοφίας), se è veramente un uomo all'altezza
dei discorsi che tiene, ne traggo un enorme piacere, considerando al tempo
stesso chi parla e le cose dette, come siano consentanei l'uno all'altro e in
perfetta armonia; e un tal uomo mi sembra proprio un musicista (μουσικός), che
vive accordando in perfetta armonia (καλλίστη ἀρμονία) non una lira o strumenti
frivoli, ma davvero lui stesso la propria vita, rendendola consonante nei
discorsi rispetto alle azioni (...). Un tal uomo, quando parla, mi fa gioire e
sembrare a chiunque amante dei discorsi (φιλόλογος) - con tanto slancio accolgo
ciò che dice -, mentre chi agisce in modo opposto mi provoca un fastidio, che è
tanto maggiore quanto meglio costui sembra parlare, e mi fa apparire nemico dei
discorsi (μισόλογος)".[5]
Nella Repubblica (IV, 430 d-e), a proposito del nesso
importantissimo e inscindibile istituito nella πόλις fra σωφροσύνη (moderazione) e δικαιοσύνη (giustizia), si parla
della σωφροσύνη come di "una sorta di accordo (συμφωνία) e di
armonia (ἀρμονία)", che indica l'esigenza dell'ordine, del controllo dei
propri impulsi, del necessario disciplinamento delle proprie forze ed energie,
del potere su di sé, insomma. Un potere su di sé finalizzato a una vita
migliore sia a livello dei singoli individui sia a livello politico e sociale,
nella convivenza sociale e nella condivisione della vita.
Sempre nella Repubblica (IV, 443
d-e; IX, 591 c-d), si parla dell'armonia necessaria fra le tre parti dell'anima
(concupiscibile, irascibile e razionale) e del fatto che l'uomo assennato è
"impegnato ad accordare l'armonia del corpo in vista della sinfonia
dell'anima".
Anche nelle Leggi viene ribadito
che non vi può essere alcuna φρόνησις (saggezza) senza συμφωνία (consonanza,
accordo); "anzi la più bella e la più importante delle consonanze si può
legittimamente definire come grandissima saggezza di cui partecipa chi vive secondo
ragione (κατὰ λόγον), mentre chi ne è privo risulterà ogni volta che
rovina per ignoranza la propria casa e non può essere il salvatore (σωτήρ)
della sua città, bensì il contrario" (Leggi, III, 689 d-e).
Nel dare forma ai suoi pensieri, il filosofo intraprende una sorta di
composizione che ha in sé qualcosa di artistico ed è anch'egli, a suo modo,
formatore del bello. E' una composizione in cui risuona la "musica" -
ossia il ritmo, l'accordo, la consonanza, l'armonia, la sinfonia - della vita,
del pensiero, delle cose stesse, del mondo, della verità. La filosofia, intesa
in questo senso e insistendo sul suo carattere formativo, è anche un tutto
artistico.
Nel filosofo ispirato e "posseduto"dal dio, cioè nell'uomo che si
pone al servizio genuino della verità, il volo dello spirito si fa ardimentoso,
libero, vasto, coraggioso.
Come Platone ben sapeva, la μεγίστη
μουσική (musica altissima) della filosofia risuona, non troppo
facilmente, soltanto quando gli uomini riescono a dare il
meglio di sé nell'amore, nel sapere, nella condivisione della vita, nella
tensione alla giustizia e alla verità.
L'ascolto di questa "musica
altissima" risulta ancor oggi ostacolato fortemente dalle condizioni
oggettive del mondo dato, ma questo ascolto rimane decisivo
per rendere possibile la "sinfonia dell'anima", che non va
interpretata in un senso spiritualistico-astratto o soggettivistico-metafisico,
ma nella direzione della salvaguardia del mondo, dell'umanità, delle cose,
dell'essere, della verità.
La "sinfonia dell'anima" propria della
filosofia non è un mero appannaggio e dominio del filosofo, perché il filosofo,
se è veramente tale, non pensa mai soltanto per sé, non difende mai meri
interessi o idee personali, ma è rivolto essenzialmente a ciò che è più degno
di essere pensato e vissuto, al bene comune e alla verità universale.
Platone si rende conto del fatto che il vero
filosofo non può esaurire il discorso filοsofico o illudersi di farlo in uno
scritto, perché la verità è inesauribile e noi possiamo soltanto amarla e ricercarla,
perché i pensieri stessi più profondi del filosofo
sono il frutto del suo complessivo stile di vita quotidiano, del suo modo di
vivere e tutto ciò non può risolversi una volta per tutte in un testo scritto,
che - per quanto si renda anch'esso necessario e ineludibile - rimane sempre
una cristallizzazione, una sorta di congelamento di ciò che è vivo e
appassionato, di ciò che è costantemente in divenire e appartiene al complesso,
problematico e ricco processo dell'esperienza di pensiero. Nulla dunque può sostituire il valore del dialogo autentico, vivo e diretto
fra esseri umani, del pensiero espresso con franchezza, libertà e tensione alla
verità (la παρρησία), della comunicazione fra persone capaci di ascoltare
e di parlare tenendo conto delle buone ragioni - almeno parziali - di tutti.
Tale dialogo, almeno finché vi saranno esseri umani viventi, è effettivamente
inesauribile, come è inesauribile la verità.
Note
[1] G.
Bruno, E chi mi impenna, e chi mi scald'il core? (1584),
in Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio
introduttivo di M. Ciliberto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000, p. 322.
[2] G.
Bruno, De immenso, I, 1 (1591), in G. Bruno, Opere latine,
a cura di C. Monti, Utet, Torino 1980, pp. 417-418.
[3] G.
Bruno, De lampade combinatoria lulliana (1587), in G.
Bruno, Opere lulliane, Edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di
M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, Adelphi, Milano 2012, pp. 206-207
(trad. it. leggermente modificata).
[4] G.
Bruno, Oratio consolatoria (1589), cit. nella Cronologia,
a cura di M. E. Severini, in G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani,
a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano 2000, p. CIV.
[5] Platone, Lachete 188
c-e, in Platone, Teage Carmide Lachete Liside, a cura di B.
Centrone, BUR Rizzoli, Milano 2012, pp. 344-345.
***
PER LELIO BASSO
di Fulvio Papi
Lelio Basso |
Il
bel libro di Giancarlo Monina “Lelio
Basso, leader globale” mi offre l’occasione e l’emozione di riflettere
ancora una volta sulla mia memoria culturale, politica e affettiva per Lelio.
Per un liceale quale io ero, nell’immediato dopoguerra, conoscevo naturalmente
almeno il nome e qualche cosa in più degli altri dirigenti del partito
socialista, ma Lelio mi dava la dimensione intellettuale di una educazione
politica. Frequentavo pochissimo il gruppo dei giovani che faceva capo alla
sezione Venezia, in via Cadamosto, ma andai ad esprimere il mio parere contro
il “Fronte popolare” sul quale Lelio, sebbene allora segretario del partito,
non era d’accordo, e che pervicacemente, era voluto da Nenni che aveva la
maggioranza in direzione. E ancora oggi, forse perché non sono uno storico, non
riesco a capire il perché di una risoluzione così suicida. Oggi dunque ritrovo
Lelio nel libro fatto molto bene da Giancarlo Monina, storico universitario, e,
tanto per stare in questa dimensione accademica, credo di essere certo che nel
suo lavoro usa le fonti primarie e secondarie con grande cura e intelligenza.
Mi permetterei solo di osservare che, abilissimo nell’evocare l’ambiente
milanese e affettivo di Lelio, andrebbe un po’ modificato il suo giudizio sulla
situazione del partito a Milano, quando si ebbe la divaricazione tra
autonomisti di Nenni e sinistra. Bosio e Della Mea erano su posizioni
rigidamente classiste, del resto da tempo, ma esisteva un gruppo di giovani
bassiani che avevano una visione politicamente più complessa. Poi, cosa da
nulla, correggerei la notizia relativa al Congresso internazionale di
sociologia del 1959 che si svolse a Stresa non a Milano al Palazzo dei
Congressi, dove trascorsi il tempo libero con Spinella, Rossana Rossanda,
Luporini, Lucien Goldman, Pierre Noville e, naturalmente Basso e poi Parri. Ma
sono banalità, o mie memorie malinconiche. Invece come filosofo, in primo
luogo, sono interessato a quelle che sono le strutture genealogiche del modo di
pensare politico di Lelio, quelle che si possono ritrovare come segni del tempo
nel modo stesso di pensare politico e storico di Lelio, e che si possono
reperire solo interrogando con cura le parole essenziali che ritornano nei suoi
studi.
1. In primo
luogo il marxismo che è interpretato nella dimensione umanistica, storicistica,
classista, etica che derivava dagli scritti giovanili marxiani editi al tempo
della sua giovinezza in contrasto con la visione positivistica, talora
evoluzionistica, che lo stesso Labriola aveva osteggiato. Poi naturalmente il “Manifesto”, le critiche al processo di
unificazione dei due partiti socialisti tedeschi, e il famoso programma di
Gotha, e molto importanti, gli scritti storici di Marx. “Il Capitale” è solo sullo sfondo, ma vale la sua lezione secondo
cui ogni analisi politica è sempre relativa a una situazione sociale e
necessaria analisi sociale può prescindere dalle relazioni economiche
dominanti.
2. Questa
prospettiva era destinata a incontrarsi con quella di Rosa Luxenburg, soprattutto
con il suo pensiero politico secondo cui il marxismo può nascere come movimento
collettivo e unitario della classe operaia, e non da minoranze colte e
professioniste dal punto di vista politico, come nel caso del leninismo. Anche
se Lelio distingueva, come Rosa, Lenin e il marxismo tedesco tra una
prospettiva sindacale e una prospettiva politica, distinzione che era meno
ridicola nell’ambiente politico inglese.
3. È
fondamentale nella studiosa giovinezza di Lelio la collaborazione con la
rivista di cultura religiosa protestante Gengale, “Conoscentia”, alla quale
collaborò anche Banfi. L’integrità della propria coscienza, l’evitare sempre la
taciturna menzogna o la mossa puramente tattica senza una visione generale di
senso, una strategia finalistica, che costituiscono l’unione e
contemporaneamente la metamorfosi della “salvezza” con la “liberazione”.
4. Infine
per il rigore della coscienza (non priva però di una vera affettività nei
confronti di amici, ma anche di avversari politici come Nenni e Morandi), una
coscienza che si incontrava con una visione religiosamente laica della vita
personale come quella del maestro filosofico, all’Università di Milano, Piero
Martinetti.
Lelio Basso |
Potrei mostrare nella
semantica di Lelio queste permanenze giovanili, e per quanto riguarda la
dimensione religiosa non va dimenticato l’apertura anche elettorale di Lelio
nei confronti dei valdesi, un compito che è rimasto anche a me stesso.
Tenendo presente queste
prospettive, potrei dire che quando Lelio in una celebre e tardiva intervista,
descrive la sua esperienza come un fallimento, questo giudizio derivava dalla
convinzione che il movimento operaio italiano ed europeo, non avevano più nella
sua aura l’aspetto di una liberazione sociale, che mancava quasi di una
sotterranea “renovatio” religiosa.
Ora mi limiterò ad alcune
osservazioni politiche più che storiche, quasi personali, sul tragitto politico
di Lelio dall’inizio degli anni Cinquanta al 1963. Quando a poco più di 21 anni
andai all’Avanti! era il tempo dell’emarginazione, se non
persecuzione, di Lelio da parte del suo vecchio amico universitario e politico,
al tempo del “gruppo interno” clandestino a Milano, del 1937, Rodolfo Morandi.
Dopo la rivincita di Nenni sulla corrente antifrontista nel 1949, il
vice-segretario Morandi, che pure era uomo colto e di sottile ingegno, optò per
un partito di quadri, una rete di poteri locali molto forte e organizzata nelle
federazioni che gli assicurava il controllo del partito stesso. Devo dire che,
fatta eccezione di qualche vertice e di qualche intellettuale, questi
funzionari erano più che mediocri, dogmatici, autoritari, risentiti, imitatori,
al peggio, dei comunisti. Lavorando al giornale e alla terza pagina alla quale
collaboravano firme di primo piano della cultura di area socialista, mi
accorgevo molto meno, se non per qualche ventata rigorosamente classista, dello
stato dogmaticamente imbalsamato del partito. Per onestà devo dire che Morandi,
Vecchietti e Valori mi trattarono sempre con un amichevole atteggiamento pur
accorgendosi che, io, allievo di Banfi, avevo tutt’altra cultura, rispetto alla
loro. Restava però forte il mio interrogativo: e Lelio? Sapevo della sua
emarginazione dalla direzione del partito, conoscevo bene Ladaga, Vicinelli e
Bosio, sospettoso e infastidito della mia forma culturale di stile
un po’ cosmopolita, lui che era un filologo della cultura delle classi
subalterne, di un livello certamente elevato.
Lelio nel clima più duro
della guerra fredda, fu come Sartre, dalla parte dell’URSS. E questo allora, in
un clima di ignoranza collettiva e di storicismo dialettico, poteva anche
sembrarmi l’essenziale. L’analisi di Molina mostra molto bene come Lelio,
allontanato dalla vita del partito, si dedicò con grande stile e fermezza
politica ai temi della libertà e della democrazia in Italia, nella egemonia
democristiana, della difesa della Costituzione, del patrocinio legale di molti
partigiani chiamati in giudizio da una magistratura che aveva capito poco della
Costituzione, e, ancora meno, delle condizioni della guerra partigiana. Era un
nuovo ruolo pubblico che diede a Lelio una visibilità e una grande estimazione
pubblica. Andavo a sentire le sue relazioni alla casa della Cultura e mi
bastava come decisiva educazione sociale una prospettiva come quello che cito
adesso: “Lo Stato italiano veniva assumendo a poco a poco la figura di un
sindacato di privilegiati, ciascuno preoccupato di tagliarsi la propria fetta
di favori, di concessioni e di privilegi: precisamente l’opposto di quello che
deve essere uno stato democratico”. Chi
aveva il potere, era classe dominante mai classe dirigente. (pag. 107).
In queste condizioni
parlare di una radicale alternativa al potere era una proposta etica e storica
totale che, in prospettiva, non mancava più di una capacità tattica che non
doveva abbandonare l’obiettivo strategico.
Lelio Basso |
È un momento in cui gli eventi precipitano: nell’estate
del ’55, in una clinica di Milano, muore Morandi che qualche mese prima, in un
colloquio con l’antico amico Basso, che pure aveva duramente vessato, riconosce
il suo fallimento politico. Lelio riprende in mano il suo marxismo e sostiene,
contro il modello sovietico, che vi sono più condizioni storiche per la
transizione al socialismo. Era un Marx molto interpretato, soprattutto dal socialismo
mitteleuropeo, perché Marx sosteneva che una rivoluzione anticapitalistica
poteva avere luogo nei paesi arretrati solo con il loro sviluppo capitalistico,
anche se dedicò un interesse particolare ai villaggi russi con una loro
autonomia culturale ed economica. In ogni caso Lelio apriva il discorso su
spazi internazionali.
Ai primi di novembre del
’56 c’è l’insurrezione degli operai e degli studenti contro l’invasione
sovietica in Ungheria. Non ho avuto il minimo dubbio su quello che bisogna
fare: avevo visto Lukácas poco prima, e avevo intuito
la situazione. Nenni parlò di “crimine imperialistico”, ma la vittoria storica
apparteneva a Lelio che non aveva mai identificato un’interpretazione teorica
marxista con l’ideologia sovietica dallo stato guida. Tuttavia il partito era
inchiodato ai sistemi di potere che si erano stabilizzati. Al celebre congresso
di Venezia del ’57, la sinistra, cui rimproveravo sempre la approvazione all’aggressione
sovietico in Ungheria (come quella di Ingrao che gli pesò per tutta la vita),
ebbe 40 seggi contro i 27 Nenni e i 14 di Basso. Nel congresso del ’59 Nenni ne
ebbe 58, la sinistra 32, Lelio 7.
Il nostro storico segue
con finezza analitica le vicende interne al partito che qui non posso ripetere.
Lelio che aveva una sua posizione, alla quale aderivo, di un radicale marxismo
hegeliano, criticò anche la concezione del “controllo operaio” di Panzieri. La
sua tesi di fondo resta quella del rapporto tra la spontaneità sociale delle
masse che diviene coscienza politica. Questa è una figura storica, e Lelio non
è affatto un utopista e, senza entrare qui nei particolari che allora abbiamo
vissuto con esagerate emozioni, la situazione si può riassumere così: Lellio
attaccava la posizione di Nenni che avrebbe condotto a un centro-sinistra
organicamente governativo (e qui si può distinguere tra chi sosteneva che non c’era altro da fare, e gli opportunisti volgari che valutavano solo
i vantaggi pratici). Tuttavia Lelio pensava alla possibilità di un
centro-sinistra “programmatico”, e quindi
capiva e considerava la posizione di
Lombardi, Codignola, Giolitti. Tuttavia in molte federazioni le due
sinistre si univano aderendo alla tesi di Vecchietti secondo cui era il solo
modo per vincere il congresso. E siamo nella primavera del ’63. Lelio, che
aveva guardato a Lombardi, era molto meno convinto dell’alleanza con la DC.
Quando nel 9 giugno del ’63 gli accordi con la DC furono respinti dal Comitato
Centrale, sembrava che la situazione potesse mutare. Ma al congresso di Roma
della fine di ottobre i giochi sono fatti. Lelio guarda ancora al Lombardi
delle grandi riforme, ma ora Riccardo è convinto di poter condizionare la linea
di Nenni stando all’interno della sua corrente vincitrice. Lelio è angosciato, non
vorrebbe la scissione e scrive a Nenni: “ Sono nella situazione più angosciata
che si possa immaginare, con la sensazione che sta per spezzarsi tutto quello
che ha costituito il senso della mia vita”.
Lelio Basso |
Ma il 12-13 gennaio del ’64
avviene la scissione. Vecchietti, Valori, forti del vecchio apparato, fanno un
partito il PSIUP, (che era la sigla del ’45). Lelio è in quel partito e
Vecchietti e Valori ne stimano il prestigio, tuttavia con un certo disagio. Più
tardi Lelio ne riconoscerà il fallimento: 750 mila voti buttati via, la sola
strada aperta era il PCI. Lelio non sarà più un leader socialista per lo meno a
livello di un partito, ma pur sempre una personalità straordinaria nella
cultura politica del secolo scorso.
Personalmente, dopo un più
che cordiale colloquio con Lelio in cui sostenevo che non avrei mai coabitato
con i vecchi “carristi”, passai, assieme
ad altri bassiani, con il gruppo di Lombardi. Scrissi un mediocrissimo
libretto che cercava una sintesi tra le due posizioni: accettavo appieno il
programmismo di Riccardo che mi pareva la sola strada praticabile, ma sostenevo
che esso poteva vincere solo con un radicale consenso popolare, che mancò per
il mancato appoggio del PCI, fermo sulla “rendita di posizione” della sua statura
egemone. Tentai con entusiasmo la “rivoluzione riformista” di Lombardi, e persi
totalmente. Tornai all’Università per 40 anni, ma la giovinezza politica con
Lelio non l’ho dimenticata mai.
Giancarlo Monina
Lelio Basso, leader globale.
Un socialista nel secondo Novecento
Carocci Ed. 2016
Pagg. 439 € 39,00
La copertina del libro |
***
L'anima umana e la "potenza del
negativo"
di Franco Toscani
L'autentica conoscenza umana presuppone per
Platone una conversione (περιαγωγή) verso l'"uomo interiore" (cfr.
Repubblica, IX, 589 a-b), un'ascesa (ἐπάνοδος) dell'intera anima (cfr.
Repubblica, VII, 518 c-d, 521 c), capace di consentirle la contemplazione di
quanto vi è di "più luminoso" (τὸ φανότατον) nell'ambito dell'essere,
un'intenzionalità etica e una tensione verso il buono come condizione etica
imprescindibile per ottenere il riorientamento e il pieno dispiegamento delle
conoscenze umane più alte. Il discorso platonico è
tutt'altro che ingenuo e superficialmente ottimistico; egli sa perfettamente
quale sia l'immensa diffusione del male nel mondo ed è pienamente cosciente
dell'efficienza delle intelligenze malvage e della portata dei danni da esse
prodotti: "Non hai mai notato come l'anima meschina dei cosiddetti
'malvagi intelligenti' abbia la vista acuta, con quanta precisione discerna ciò
verso cui è rivolta: infatti non ha la vista debole, ma è obbligata a metterla
al servizio del male, sicché quanto più acutamente vede, tanto maggiori sono i
mali che produce?" (Repubblica,
VII, 519 a).
L'anima meschina dei
malvagi intelligenti ha da sempre fatto molti danni, è sciagurata e va evitata
come la peste. Nell'uomo c'è però una parte divina, l'intelligenza connessa a
moderazione e saggezza, che, se emerge e prende il sopravvento sulle altre parti,
rende buone tutte le cose che sono ad essa sottomesse (cfr. Repubblica, IX, 589 c-d, 590 d).
Per quella marionetta
nelle mani degli dei che è l'uomo, la vera libertà non consiste nell'arbitrio e
nella pratica della dismisura, ma nella consapevolezza della sua
partecipazione, del suo attivo prender parte alla vita dell'immenso Tutto.
L'uomo che s'insuperbisce,
tutto dedito all'inseguimento affannoso di ricchezze, onori e potere, conduce
alla rovina sé stesso e la città intera, perde il suo nesso con la divinità e
con lo spirito di verità che le è proprio.
Per Platone l'anima,
affine alle idee e alla verità, come esse è immortale (cfr. Repubblica, IX, 585 c; Fedone, 79 d-e) e non appartiene
all'ambito della γένεσις e della φθορά (cfr.
Repubblica, VI, 485 a-b).
Una volta liberata e
purificata dalla comunanza col corpo, l'anima rivolta all'amore per il sapere
(φιλοσοφία) si rivela congenere (συγγενής) a ciò che è immortale, divino,
eterno (cfr. Repubblica, X, 611 c-e).
L'uomo giusto (δίκαιος) è caro agli dèi (θεοφιλής) e, praticando la virtù (ἀρετή),
è capace di rendersi simile a un dio, per quanto è possibile all'uomo (cfr. Repubblica, X, 613 a-b).
Nel Teeteto leggiamo che, per evitare i mali che necessariamente si
diffondono fra i mortali e nel nostro mondo, "bisogna sforzarsi di fuggire
quanto prima da qui verso lassù. Fuga è il rendersi per quanto possibile simili
al dio (ὁμοίωσις θεῷ κατὰ τὸ δυνατόν); e questo rendersi simili è diventare
giusti e santi, acquistando saggezza"[1]. L' "assimilazione al divino"
esprime l'essenza profonda del platonismo, la sua tipica tensione in avanti, la
direzione incessante di senso che lo caratterizza e ne costituisce la più
perdurante vitalità. Diventare simili al dio è un compito della vita pratica e
teoretica, della vita umana in questo mondo.
Qualsiasi meschinità
(σμικρολογία) resta lontana da "un'anima (ψυχή) sempre tesa verso l'intero
e il tutto del divino come dell'umano" (cfr. Repubblica, VI, 486 a). Ed è proprio questo il compito del
pensatore: osare pensare, alzare lo sguardo verso il tutto del divino -
comunque lo si intenda - e dell'umano. A questo livello risiede la differenza
essenziale tra le nature filosofiche e le nature non filosofiche.
Platone riteneva che la
provvidenza divina offrisse protezione ai giusti e ai buoni (cfr. Repubblica, X, 613 a-b; Leggi, X, 899 d
sgg.).
Noi, invece, mettiamo oggi
in discussione questa visione provvidenziale, consapevoli della sterminata
potenza del negativo, del forte lato tragico e doloroso della storia e della
vita umane.
Come si sa, è stato il grande
Hegel, nella Vorrede alla Phänomenologie
des Geistes (1807), a porre in evidenza die ungeheure Macht des Negativen
("l'immane potenza del negativo") e l'esigenza profonda, ineludibile
per la vita dello spirito (das Leben des Geistes), di sopportarne e valutarne
il peso e la forza: "La vita dello spirito (...) non è quella che si
riempie d'orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e
dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta (erträgt) la morte e si
mantiene in essa.
Lo spirito conquista la
propria verità solo a condizione di ritrovare sé stesso nella disgregazione
(Zerrissenheit) assoluta. Lo spirito è questa potenza (Macht), ma non nel senso
del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo
in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare subito a
qualcos'altro. Lo spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia
il negativo e soggiorna presso di esso (dem Negativen ins Angesicht schaut, bei
ihm verweilt). Tale soggiorno (Verweilen) è il potere magico (Zauberkraft) che
converte il negativo nell'essere".[2]
Tale "potere
magico" (Zauberkraft) dello spirito ha però dei limiti, perché la potenza
del male e del dolore non può essere facilmente superata e le ferite/lacerazioni
dell'esistenza restano in tutto il loro spessore e gravità. È questa, credo, una delle lezioni migliori e di valore
permanente che ci viene dal pensiero esistenzialistico novecentesco.
Come allora far fronte in
qualche modo alla sterminata potenza del negativo, che rischia sempre di
devastare e annichilire le nostre esistenze? Non vi sono proprio facili
ricette, nessuna consolazione è possibile, nessun colpo magico di bacchetta, ma
forse - come l'umanità più matura ha sempre fatto - potremmo cominciare a
rispondere così: col dolore sacro e necessario, col silenzio della meditazione
e del raccoglimento, col conforto della parola avveduta e ben spesa, con la
forza e il coraggio dell'amore.
Note
[1] Platone,
Teeteto o Sulla Scienza, 176 a-b,
trad. it. di L. Antonelli, "Introduzione" di S. Natoli, "Saggio
critico" di D. Spanio, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 128-129.
[2] G.W.F.
Hegel, Vorrede alla Phänomenologie des
Geistes (1807), trad. it. e a cura di V. Cicero, Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, Bompiani,
Milano 2011, pp. 84-87.
***
IL FILOSOFO E LE MUSE
La filosofia come "musica altissima" e
"sinfonia dell'anima"
di Franco Toscani
È noto che l'Accademia platonica, come θίασος
(associazione cultuale al servizio delle Muse), fu consacrata al culto di
Apollo e delle Muse e che al suo interno si trovava un altare dedicato alle
Muse. Nonostante le sue perplessità e ben note posizioni sulla poesia e
sull'arte, Platone istituisce un fecondo rapporto tra il filosofo e le
Muse. Nel Cratilo (406 a 3-5) leggiamo che il nome stesso alle Ποῦσαι (Muse)
e alla μουσική (musica) sembra derivare dal μῶσθαι (aspirare, cercare) proprio
della ricerca e della filosofia. Nella Repubblica
(VIII, 548 b8-c1) la "vera Musa", quella da non trascurare, sempre
"si accompagna ai discorsi e alla filosofia".
Le profonde corrispondenze
tra musica, poesia, arte in generale e pensiero ci riguardano da vicino ancor
oggi, si pensi soltanto, fra il XIX e il XX secolo, alle opere e agli esempi
straordinari di Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger e María Zambrano.
Nel Fedro il filosofo è per Platone l'uomo capace dell'ἀνάμνησις
(reminiscenza) di ciò che un tempo vide la nostra anima, capace di pensare la
totalità con uno sguardo libero, universale, disinteressato, dall'alto; è
l'uomo "posseduto dal dio", "ispirato" (ἐνθουσιάζων), in
cui rinascono - per quanto è possibile (κατὰ δύναμιν) ai mortali - le ali dello
spirito, sorretto dall'amore per la sapienza e la verità; è un uomo ritenuto
strano e "folle" dai più, perché rivolto a cose alte, divine e
lontano dalle beghe e macchinazioni, dalle occupazioni prevalenti, dai traffici
e dagli interessi dominanti in cui si risolve la vita della maggior parte degli
uomini (cfr. Fedro, 246 c; 248 d; 249
b-d). Il filosofo è devoto alle Muse, amante della bellezza, dedito all'amore,
al pensiero e al sapere; col desiderio di questo tipo che sempre porta con sé,
egli acquisisce le ali e si libra in volo (cfr. Fedro, 249 d-e).
Molto
platonico è in questo senso pure Giordano Bruno, quando nel XVI secolo scrive,
con le ali del suo schietto spirito filosofico, in una poesia premessa al
dialogo De l'infinito, universo e
mondi (1584): "fendo i cieli, e a l'infinito m'ergo".[1]
Come grande pensatore e
cantore dell'universo infinito, Bruno riprende il motivo platonico delle ali
nel De innumerabilibus, immenso et infigurabili, seu De universo et mundis
libri octo (il cosiddetto De immenso,
1591): "Alla mente che ha ispirato il mio cuore con arditezza
d'immaginazione piacque dotarmi le spalle di ali e condurre il mio cuore verso
una meta stabilita da un ordine eccelso: in nome del quale è possibile
disprezzare e la fortuna e la morte. (...) Così, io sorgo impavido a solcare
con l'ali l'immensità dello spazio, senza che il pregiudizio mi faccia
arrestare contro le sfere celesti, la cui esistenza fu erroneamente dedotta da
un falso principio, affinché fossimo come rinchiusi in un fittizio carcere ed
il tutto fosse costretto entro adamantine muraglie.
Ma per me migliore è la
mente che ha disperso ovunque quelle nubi e ha distrutto l'Olimpo, che accomuna
gli altri in un'unica prigione dal momento che ne ha dissolto l'immagine, per
cui da ogni parte si espande il sottile aere.
Mentre mi incammino
sicuro, felicemente innalzato da uno studio appassionato, divengo Guida, Legge,
Luce, Vate, Padre, Autore e Via: mentre mi sollevo da questo mondo verso altri
mondi lucenti e percorro da ogni parte l'etereo spazio, lascio dietro le
spalle, lontano, lo stupore degli attoniti".[2]
Nella lettera al rettore e
al senato accademico dell'università di Wittenberg premessa al De lampade combinatoria lulliana (1587),
Bruno dichiara di sentirsi in Musarum curia alumnus ("un allievo alle cure
delle Muse").[3]
In Bruno l'ispirazione
delle Muse è congiunta pure (nel primo dialogo de La cena de le Ceneri, 1584) a una vena scopertamente erotica e il
fiorire delle Muse è legato alla presenza di un clima favorevole alla
tolleranza e alla libertà di pensiero. Bruciato vivo sul rogo dall'Inquisizione
cattolica nel febbraio 1600, il filosofo pagherà duramente le sue idee e
l'amore delle Muse, rimanendo vittima dell'intolleranza e della repressione
della libertà di pensiero.
Nell'Oratio consolatoria stampata a Helmstedt nel 1589, Bruno descrive
la sua vita di esule, "forestiero ed estraneo"; per amore delle Muse,
"spregiai, abbandonai, perdetti la patria, la casa, la facoltà, gli onori,
e ogni altra cosa amabile, appetibile, desiderabile all'infuori di
loro".[4]
Col suo coraggio e con la
sua determinazione, con la sua forza e libertà di pensiero, Giordano Bruno ci
ha lasciato una testimonianza straordinaria e mirabile di cosa possano
significare le ali, il volo del pensiero e l'amore per le Muse.
Dopo questa parentesi,
torniamo a Platone. Come leggiamo pure nello Ione, soltanto la Musa forma gli
ispirati e può costituirsi una "catena", una comunità di coloro che
sono invasi da divina ispirazione (cfr. Ione, 533 e-534 a).
Nel Fedro Socrate ha l'impressione che le cicale, come "attendenti
delle Muse", col loro canto ininterrotto nell'afa estiva, ci stiano
osservando, ascoltando e possano riferire alle Muse gli umani discorsi (cfr.
Fedro, 259 a-d). Diventa allora importante per noi porre attenzione ai
discorsi. Il filosofo è l'uomo che, ispirato dalle Muse, cerca di dare forma
alla propria vita, secondo uno stile complessivo di esistenza di cui fa parte
anche il modo di parlare e di scrivere, il ricorso a discorsi non superficiali
e sciatti, ma pronunciati e scritti "nell'anima" (ἐν ψυχῇ. Cfr.
Fedro, 278 a).
La filosofia può porsi
così come μεγίστη μουσική (musica altissima. Cfr. Fedone, 61 a 3-4) quando e, anzi, soltanto quando la vita di un
uomo riesce ad armonizzare e ad accordare in una effettiva consonanza le azioni
e le esperienze vissute con le parole, i pensieri e i discorsi. La
"musicalità" specifica della filosofia indica "l'arte delle
Muse" (μουσικὴ τέχνη), intesa in senso ampio come capacità di indirizzo,
educazione, cultura, formazione, controllo, disciplina di sé, orientamento
positivo e costruttivo della propria vita.
Nel Lachete, proprio
Lachete afferma di poter sembrare di volta in volta φιλόλογος ("amico dei
discorsi") - quando i λόγοι si rivelano coerenti coi fatti e le esperienze
della propria vita - oppure μισόλογος ("nemico dei discorsi"), quando
questi ultimi si palesano in contraddizione coi comportamenti reali:
"Quando infatti sento un uomo che dialoga sulla virtù o su una qualche
forma di sapienza (ἀνδρὸς περὶ ἀρετῆς διαλεγομένου ὴ περὶ τινος σοφίας), se è
veramente un uomo all'altezza dei discorsi che tiene, ne traggo un enorme
piacere, considerando al tempo stesso chi parla e le cose dette, come siano
consentanei l'uno all'altro e in perfetta armonia; e un tal uomo mi sembra
proprio un musicista (μουσικός), che vive accordando in perfetta armonia
(καλλίστη ἀρμονία) non una lira o strumenti frivoli, ma davvero lui stesso la
propria vita, rendendola consonante nei discorsi rispetto alle azioni (...). Un
tal uomo, quando parla, mi fa gioire e sembrare a chiunque amante dei discorsi
(φιλόλογος) - con tanto slancio accolgo ciò che dice -, mentre chi agisce in
modo opposto mi provoca un fastidio, che è tanto maggiore quanto meglio costui
sembra parlare, e mi fa apparire nemico dei discorsi (μισόλογος)".[5]
Nella Repubblica (IV, 430 d-e), a proposito del nesso
importantissimo e inscindibile istituito
nella πόλις fra σωφροσύνη (moderazione)
e δικαιοσύνη (giustizia), si parla della σωφροσύνη come di "una sorta di accordo (συμφωνία) e di armonia (ἀρμονία)", che
indica l'esigenza dell'ordine, del controllo dei propri impulsi, del necessario
disciplinamento delle proprie forze ed energie, del potere su di sé, insomma.
Un potere su di sé finalizzato a una vita migliore sia a livello dei singoli
individui sia a livello politico e sociale, nella convivenza sociale e nella
condivisione della vita.
Sempre nella Repubblica (IV, 443 d-e; IX, 591 c-d),
si parla dell'armonia necessaria fra le tre parti dell'anima (concupiscibile,
irascibile e razionale) e del fatto che l'uomo assennato è "impegnato ad
accordare l'armonia del corpo in vista della sinfonia dell'anima".
Anche nelle Leggi viene
ribadito che non vi può essere alcuna φρόνησις (saggezza) senza συμφωνία
(consonanza, accordo); "anzi la più bella e la più importante delle
consonanze si può legittimamente definire come grandissima saggezza di cui
partecipa chi vive secondo ragione (κατὰ λόγον), mentre chi ne è privo
risulterà ogni volta che rovina per ignoranza la propria casa e non può essere
il salvatore (σωτήρ) della sua città, bensì il contrario" (Leggi, III, 689
d-e).
Nel dare forma ai suoi
pensieri, il filosofo intraprende una sorta di composizione che ha in sé
qualcosa di artistico ed è anch'egli, a suo modo, formatore del bello. È una composizione in cui risuona la "musica"
- ossia il ritmo, l'accordo, la consonanza, l'armonia, la sinfonia - della
vita, del pensiero, delle cose stesse, del mondo, della verità. La filosofia,
intesa in questo senso e insistendo sul suo carattere formativo, è anche un
tutto artistico.
Nel filosofo ispirato e
"posseduto"dal dio, cioè nell'uomo che si pone al servizio genuino
della verità, il volo dello spirito si fa ardimentoso, libero, vasto,
coraggioso.
Come Platone ben sapeva,
la μεγίστη μουσική (musica altissima) della filosofia risuona, non troppo
facilmente, soltanto quando gli uomini riescono a dare il meglio di sé
nell'amore, nel sapere, nella condivisione della vita, nella tensione alla
giustizia e alla verità.
L'ascolto di questa
"musica altissima" risulta ancor oggi ostacolato fortemente dalle
condizioni oggettive del mondo dato, ma questo ascolto rimane decisivo per
rendere possibile la "sinfonia dell'anima", che non va interpretata
in un senso spiritualistico-astratto o soggettivistico-metafisico, ma nella
direzione della salvaguardia del mondo, dell'umanità, delle cose, dell'essere,
della verità.
La "sinfonia
dell'anima" propria della filosofia non è un mero appannaggio e dominio
del filosofo, perché il filosofo, se è veramente tale, non pensa mai soltanto
per sé, non difende mai meri interessi o idee personali, ma è rivolto
essenzialmente a ciò che è più degno di essere pensato e vissuto, al bene
comune e alla verità universale.
Platone si rende conto del
fatto che il vero filosofo non può esaurire il discorso filοsofico o illudersi
di farlo in uno scritto, perché la verità è inesauribile e noi possiamo
soltanto amarla e ricercarla, perché i pensieri stessi più profondi del
filosofo sono il frutto del suo complessivo stile di vita quotidiano, del suo
modo di vivere e tutto ciò non può risolversi una volta per tutte in un testo
scritto, che - per quanto si renda anch'esso necessario e ineludibile - rimane
sempre una cristallizzazione, una sorta di congelamento di ciò che è vivo e
appassionato, di ciò che è costantemente in divenire e appartiene al complesso,
problematico e ricco processo dell'esperienza di pensiero.
Nulla dunque può
sostituire il valore del dialogo autentico, vivo e diretto fra esseri umani,
del pensiero espresso con franchezza, libertà e tensione alla verità (la
παρρησία), della comunicazione fra persone capaci di ascoltare e di parlare
tenendo conto delle buone ragioni - almeno parziali - di tutti. Tale dialogo,
almeno finché vi saranno esseri umani viventi, è effettivamente inesauribile,
come è inesauribile la verità.
Note
[1] G. Bruno, E chi mi impenna, e chi mi scald'il core?
(1584), in Dialoghi filosofici italiani,
a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, Arnoldo Mondadori Editore,
Milano 2000, p. 322.
[2] G. Bruno, De immenso, I, 1 (1591), in G. Bruno, Opere latine, a cura di C. Monti, Utet,
Torino 1980, pp. 417-418.
[3] G. Bruno, De lampade combinatoria lulliana (1587),
in G. Bruno, Opere lulliane, Edizione
diretta da M. Ciliberto, a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi,
Adelphi, Milano 2012, pp. 206-207 (trad. it. leggermente modificata).
[4] G. Bruno, Oratio consolatoria (1589), cit. nella
Cronologia, a cura di M. E. Severini, in G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo
di M. Ciliberto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000, p. CIV.
[5] Platone,
Lachete 188 c-e, in Platone, Teage
Carmide Lachete Liside, a cura di B. Centrone, BUR Rizzoli, Milano 2012,
pp. 344-345.
***
LIBRI
CARO COMPAGNO CERVETTI
di Fulvio Papi
Gianni Cervetti |
Chi, senza alcun sussulto della memoria o
alcuna interrogazione sui tempi precipitati nel nulla, incontrasse oggi il
dott. Gianni Cervetti, non avrebbe alcun dubbio di trovarsi di fronte a un
personaggio di una spontanea e reticente eleganza interiore, conoscitore di
musica e di arti, esperto di transiti filosofici più di quanto non desideri far
credere, bibliofilo appassionato e in questa predilezione amico di Umberto Eco
(di cui sempre sentirò con dolore la mancanza), dirigente di enti culturali con
una paziente efficienza comunicativa, e con il gusto, questo veramente fuori
dal comune, di ascoltare i discorsi altrui, di comprenderne il senso, per dare
una risposta che favorisca la prosecuzione dell’incontro. A un interlocutore,
incerto sulla storia del suo personaggio, suggerirei di prestare attenzione al
modo operativo, sintetico e veloce di trarre le conclusioni. È un anglo molto modesto ma, nel suo
tratto, si può aiutare a capire la vicenda di un personaggio abituato al
discorso politico, specie di quello proprio del PCI nel quale, dall’inizio
degli anni Cinquanta sino “alla fine”, Cervetti ha militato percorrendo tutto
il cursus homorum dalla segreteria della sezione “Gramsci” a Milano, alla
direzione e alla segreteria del partito. Fu il personaggio (raccontò lui stesso
questa storia) che aveva da fare con i dollari di Mosca che dovevano sostenere
il partito, sino a quando nel 1978, comunicò al dirigente sovietico che questo
aiuto avrebbe dovuto cessare perché incompatibile con la libertà di progettazione
e di azione politica del partito, sempre più coinvolto direttamente nello
scenario italiano ed europeo e sempre meno in tramite della politica sovietica.
Lo so che la prigionia ideologica, specie delle origini, è una complicata
ragnatela fatta di abitudini, di conformismi, di fedeltà, di obbedienze, ma non
riesco a togliermi dalla mente i vantaggi che ne sarebbero derivati se molti
anni prima “l’oro di Mosca” fosse diventato un vuoto modo di dire di un’età
dimenticata. Un’altra curiosità che nel suo libro Cervetti non soddisfa, è la
cronaca di quel colloquio sui dollari che non poteva essere ridotto al dare e
all’avere, ma doveva avere tutta una scena politico-verbale. Cervetti, che sa
di teatro, perdonerà la natura della mia curiosità.
Il
ragazzo Gianni nasce nell’ambiente popolare (virtù e vizi, insegnamenti e
nullità) dell’osteria-trattoria paterna a Milano in una zona che non conosco ma
che allora aveva confini tra l’area “bassa” e quella dei ceti abbienti. Il
ragazzino fa bene la sua scuola, ma sono le lingue che gli creano problemi. In
casa fiorisce un piemontese monferrino, ma con gli ospiti dell’osteria i
genitori hanno dovuto imparare un milanese che ora pochi sanno parlare, ma tra
gli anni Trenta e Quaranta era la lingua popolare. Durante la Resistenza gli
infilano nella cartella volantini e messaggi, certi al 99 per cento che la
custodia era sicura nel tragitto dalla trattoria al luogo prestabilito. L’uno
per cento lo riservo a me che, più grande di età, (e in un altro luogo)
conoscevo la gratuita violenza dei fascisti, soprattutto delle brigate nere. Arriva
il liceo: la conoscenza dell’insegnante di latino, il prof. Siro Attilio Nulli,
colto, intransigente, critico di ogni pensiero cristallizzato quindi anche del
comunismo. Di Nulli ricordo di aver letto un libro su Erasmo nei primi anni
Cinquanta. Il giovane Gianni, in compagnia con Paolo Santi (figlio del
sindacalista nazionale di cui io, nel gruppo dei socialisti “lombardiani” a
Roma nel ’60-’65 sperimentai la cultura e l’intelligenza politica) erano ormai
sulla strada del PCI. Nell’organizzazione del PCI (degna di un modello
burocratico weberiano con la cura e la disciplina di una comunità protestante)
il ragazzo mostra tutta la sua intelligenza, la devozione, la disponibilità che
vengono apprezzati dai dirigenti. Desiderano farne un quadro importante del
partito, ed era ancora il tempo in cui la cultura era un elemento decisivo per
avere un riconoscimento nel sistema politico. Ero socialista, non avevamo
un’organizzazione nemmeno paragonabile a quella del PCI, ma allora non ho mai
conosciuto un dirigente mediocre o, peggio, imbecille; ciascuno, dal suo punto
di vista, poteva essere un valore per dottrina e/o esperienza. I comunisti
erano molto più rigorosi: “un giovanotto di belle speranze politiche” deve
andare a Mosca per imparare la cultura di base di un buon “quadro” e cioè
l’economia politica e i suoi riflessi storici e sociali. Dunque “Addio Milano
bella” con un certo tuffo al cuore, ma se si è in una organizzazione rigorosa
(il partito, come la chiesa, la banca, una cooperativa, l’esercito) non resta
che obbedire, figurandosi un avvenire ignoto ma molto interessante e formativo
per la propria persona. E così il giovane promettente Gianni si trova a Mosca
in una accogliente “casa dello studente”, un piccolo stipendio, trenta compagni
italiani con cui discutere di politica russa (eravamo al tempo emozionante di
Krusciov), ma anche dei riflessi in quella italiana. I suoi anni di Mosca non
erano solo lo studio, ma la frequentazione di ambienti culturali e politici,
sino ai margini di quelli che potevano anche essere fragili (ma esistenti)
frange in un clima non privo di una sottaciuta indulgenza. All’Università i
professori, al di là dei rituali ideologici, insegnano l’economia della grande
tradizione, che Cervetti proseguì con lo studio di Marshall, Keynes, Sraffa. E
qui mi permetto un’osservazione teorica. Il celebre libro di Sraffa è vero
(come dice Cervetti) che non serve per risolvere alcuna situazione economica
concreta, ma chiude definitivamente il problema marxiano del “valore” che aveva
una sua incompatibilità tra il I libro del “Capitale”
e il III libro. Il che è molto educativo.
Mosca, per Cervetti, proprio dal
punto di vista educativo intellettuale e politico, assomiglia molto alla Parigi
per i pittori italiani del primo Novecento. Sensibilità e intellezione nascendo
nell’ascesa di Krusciov, sono poi messe in ombra nella “rassegnazione”
successiva. Dall’Italia arrivano dirigenti di primo piano con i quali i ragazzi
(ma ormai sono cresciuti) discutono di linea politica con una certa libertà.
Cervetti, che è il segretario politico di quei giovani, mi pare riuscisse a
conciliare due caratteristiche: la esecuzione in generale della posizione del
partito (anche con i sovietici) e una dignità della propria pensare, un’ombra
di riserva critica che avrà una sua storia nella sua lunga vicenda di dirigente
del PCI. Mi ha divertito la lettura laddove racconta di aver addomesticato il
terribile Pajetta, che io ricordo nel ’47 quando a Milano fu destituito il
prefetto Troilo e questo fatto provocò una mezza insurrezione che,
fortunatamente, finì nel nulla per la saggezza del comandante militare della piazza
di Milano. Si racconta che da allora Togliatti prendesse sottobraccio
l’inquieto compagno e gli chiedesse: “Allora, Pajetta, come va la
rivoluzione?”.
Torniamo
a Gianni Cervetti che, dopo quasi sei anni, torna a Milano da Mosca, oltre che
con la sua formazione, anche con una moglie, l’adorabile Franchina, e un
figliolo. Si mette subito a disposizione della federazione dove la segreteria
era passata da Alberganti (finito, con il suo operaismo in un sogno, anche
violento, di giovani del ’68 che dell’insegnamento di Marx non avevano capito
niente) a Cossutta che ricordo bene nel suo rigore partitico (non mi lasciò
ricordare Banfi ai comunisti poiché io non lo ero) e però nella sua cordialità.
Cervetti con tanti libri nella sua personale enciclopedia, era persino
imbarazzante come “quadro”, e fu spedito all’ufficio studi della Camera del
Lavoro dove trovò come collega socialista il mio tanto caro e indimenticabile
amico Palermo Patera. L’ufficio studi era un osservatorio molto importante che
educava un’intelligenza formata dalla “scuola” a conoscere le “cose stesse”
nelle loro differenze sociali, ambientali, culturali, e, tuttavia, connesse fra
loro, era necessariamente uno sguardo che abbandonava il particolare per
poterlo leggere su uno schermo complessivo. Che è quanto più giova a un
sindacato che ha nella sua natura il desiderio di essere un fattore importante
di identificazione civile nello stato. Credo che Cervetti questa esperienza
l’abbia metabolizzata nel suo linguaggio politico senza nemmeno farci caso.
Poiché l’ora strettamente politica era venuta con la designazione alla
segreteria della federazione di Milano. In queste pagine si può leggere una
storia politica della città, che (sarò troppo severo) è stata più o meno
accorta, ma sempre incapace di trovare una via laterale al dominio finanziario
e genericamente mercantile che trasformava la città. Probabilmente non era
possibile, e la politica cominciava lentamente a diventare la parodia del “gioco
delle palle di vetro”, l’ultima opera di Hesse. Il destino di Gianni Cervetti
era invece scritto nelle stelle del cielo politico. Il polo magnetico è Roma. E
se posso aprire una parentesi, qui è l’errore storico: la assoluta prevalenza
della centralità statale che agisce sulla stessa struttura del partito.
Cervetti deve lasciare il suo ambiente milanese, il Piccolo Teatro, la Scala,
gli amici di sempre tra i quali gli indimenticabili Treccani, e tante altre
frequentazioni che formavano un’esistenza e probabilmente ampliavano il senso.
Gli dispiace. Ma il riconoscimento politico è una carriera. Il partito è
unitario ma tra Amendola e Ingrao (poi seppe di “volere la luna”) correva già
un’aria differente. C’è la tragedia cilena, e nel ’73 Berlinguer probabilmente
timoroso della scena internazionale, lancia il tema del “compromesso storico”.
“Storico” l’avrei lasciato agli storici, mi sarei limitato a dire “utile per il
governo del paese”. Ma tant’è distorta la sapienza dei sopravvissuti.
Adesso io
non sono in grado di seguire tutti i congressi del PCI e del contributo dato in
ogni circostanza da Gianni Cervetti. Qui la biografia diviene storia e forse
ciò che preme di più all’autore sono proprio queste pagine. Gli farò
sicuramente un torto poiché alle vicende storico-politiche provo più interesse
per il personaggio. Perché Gianni non ci resti male gli confesserò che mi è
accaduta la stessa cosa con il libro di Rossana Rossanda. A Roma le strategie
politiche - che pure sono decisive per un partito - appaiono come grovigli che
solo uno storico, non un lettore comune, può sgrovigliare sino all’assoluta
chiarezza.
A Roma Cervetti è nella
direzione e nella segreteria, è un personaggio di primo piano nei giornali.
Cercava di tornare a Milano per contribuire alle difficili sorti della città,
soprattutto aiutando una significativa svolta a sinistra dell’amministrazione.
Mi piace immaginare una consonanza tra l’azione di Cervetti e le abilità del
mio indimenticabile amico Iso Aniasi. Le vicende romane nel libro meritano un
puntiglio storico unito a una elegante discrezione personale. Dopo la “svolta”
di Berlinguer, il partito perde la sua ingessatura tradizionale e le opinioni
si diversificano, il partito mostra più anime (che immaginavamo latenti) e i
discorsi hanno più che sfumature diseguali. Berlinguer viene sempre notato da
Cervetti con simpatia forse indovinando quello stile lontano da qualsiasi
euforia , e prossimo invece a quella meditazione segnata da un sottile
pessimismo che è tipica di chi non è mai abbandonato dalla riflessione.
Personalmente (l’aggettivo va preso molto sul serio perché non sono né uno
storico e, tan poco, un conoscitore delle vicende del PCI) credo che la
scomparsa di Berlinguer nel 1984 sia stata un autentico disastro per il
partito. Probabilmente Berlinguer avrebbe saputo condurre il partito attraverso
le traversie sociali e politiche che lo attendevano. “Come” ovviamente non lo
so.
Il “come” fu trovato dai segretari successivi, vittime di un tempo
precipitoso che cancellava il passato nel caso migliore come un’illusione o, in
realtà, anche molto peggio. Lo stile politico della democrazia
liberal-democratico vinceva la sua partita con il dirigismo comunista, ma, a
mio vedere, soprattutto il processo di globalizzazione economica cambiava la geografia
economica del mondo. Ricordo che Cervetti fu uno dei dirigenti del partito (dai
nomi cangianti) che cercò di mantenere una rotta (molto difficile) nella
situazione che si era capovolta. Soprattutto doveva mutare, e con fatica,
nell’intellezione di coloro che continuavano a pensare a una possibile
relazione tra teoria e prassi. La società non aveva più alcun riflesso politico
nel senso tradizionale. Addio identità tra teoria e prassi che, forse, tutti si
erano dimenticati che, in Italia, era stata l’invenzione di Giovanni Gentile
interprete di Marx (1899 ). Il contrario di questa prospettiva è politicamente
il riformismo. In questa prospettiva Cervetti rivendica nel suo libro una sorta
di prudente riformismo da sempre latente, ma che ora era venuto alla luce tra
molti dirigenti del partito, sotto il “papato” di Giorgio Napolitano. La
domanda che molti si fanno: perché non prima? Senza una documentazione storica
che si dà agli uomini quello che potevano essere, è una domanda solo
emozionante, quelle che servono per costruire una storia contro-fattuale. Era
il tempo della Lega che trionfava a Milano per punire i partiti che
accumulavano per la propria organizzazione e per i propri dirigenti, denari
illeciti. Dal punto di vista giudiziario fu l’epoca di “mani pulite”; nella
legislazione era una reato (corruzione o concussione che fosse) che i partiti
godessero di finanziamenti provenienti da varie fonti, ma in ogni caso
illeciti. Bisognerà scriverla con rigore questa storia che è molto più
complessa di quella che fu stoltamente creduta solo un’opera di pulizia. Tant’è
che adesso i denari illeciti non vanno più ai “partiti”, ma a singoli
personaggi in un’opera di corruzione che quasi ci fa vincere il relativo
campionato mondiale della corruzione. Sono malattie “infettive”, e,
paradossalmente il vaccino lo dovrebbero trovare proprio quelli che cadono nel
malanno. A suo tempo Cervetti fu ingiustamente coinvolto, (con la mentalità di
“ogni erba un fascio”) e ne uscì con onore, e con i complimenti del PM, cosa che
non è comune. Quanto sia cambiato il
mondo e quali siano le metamorfosi del vecchio PCI e con quali effetti, penso
sia complesso anche per uno storico. Cervetti ne dà un tracciato nel suo libro
del tutto plausibile. Ma la storia, sembra strano, è multicolore. E adesso?
Cervetti nei giorni scorsi mi ha detto che, nonostante tutto, qualcosa di quel
lungo lavoro resta e si trasforma in nuove forme di vita. Dal canto mio che il
cambio d’epoca sarà più crudele, più distruttivo, più incognito. È vero come ho sostenuto in altri
giorni, che fin che c’è pensiero da spendere funziona anche in un piccolo
mercato. Ma c’è pensiero?
Gianni Cervetti
Il compagno del
secolo scorso.
Una storia
politica.
Bompiani
Editore 2016
Pagg.
350 € 19,00
La copertina del libro |
***
FILOSOFI
FRANCO
FERGNANI
di Fulvio Papi
In un tempo in
cui noi, intendo dire gli studenti di filosofia tra il 1949 e il ’53,
ascoltavamo con ammirata attenzione le lezioni di storia della filosofia di
Antonio Banfi che aprivano i più ampi orizzonti della cultura sullo sfondo di
uno storicismo marxista, Franco
Fergnani mostrava qualche insofferenza. Egli avrebbe desiderato che il
maestro, più che riprendere il tesoro della sua sapienza nel quale, ad
ascoltare bene, era perfettamente visibile la tessitura teoretica del “razionalismo
critico”, entrasse direttamente in una relazione critica con la nascente
filosofia contemporanea. Questo compito, anzi, gli pareva la parte che la
stessa presenza politica avrebbe dovuto suggerire. Franco sottintendeva non solo
il continente esistenzialista che avrebbe dovuto essere esplorato al di là
delle sue tonalità morali, ma la potenzialità pragmatista che derivava dalla
filosofia di Dewey, la prima diffusione della filosofia analitica (allora era
di “moda” Ryle) e, forse, anche una attenzione meno veloce alle prime cose di
Adorno, lasciando pure nell'ombra Heidegger sul quale gravava la collaborazione
diretta con il partito nazista. Banfi allora -cerchiamo di rivivere l'atmosfera
di quegli anni- viveva, anche filosoficamente, la convinzione di trovarsi
sull'onda positiva della storia, la conclusione di quella “crisi” che da
decenni era stata centrale nel suo pensiero. In questa prospettiva apparivano
secondarie meditazioni filosofiche appartenenti più a un’area accademica o
mondana che al corso obiettivo del mondo.
Fergnani stesso era comunista, aveva lavorato
come redattore della rivista della federazione milanese del partito e poi al «Calendario
del popolo». Era quindi un po' un ritardo con gli esami universitari, ma la
capacità teoretica viveva in lui con grande energia: attento, per questa
ragione, più a Giulio Preti, allora fondamentalmente deweyano, e al Cantoni
che, a fronte di quello che gli pareva un “umanesimo enfatico”, valorizzava uno
scrittore-filosofo religioso come Kierkegaard e un altro grande autore come
Dostoevskij (che Banfi una volta definì “pericoloso”). Era questo stile
intellettuale e la sua naturale cordialità pedagogica che mi fecero nascere
subito il desiderio di poter contare sull'amicizia di Franco Fergnani. Per affascinarmi ancor più
avrebbe potuto raccontarmi della sua partecipazione alla Resistenza a Milano
nel “Fronte della gioventù”, quando gli era affidato il compito di disarmare
isolati militi fascisti, impresa che io appresi più tardi da un altro ormai ex-giovane
del “Fronte della gioventù” (la dirigenza del quale era di Curiel con l'apporto
intellettuale proprio di Banfi). Ma su questo passato, del resto di pochi anni
addietro, Franco manteneva un totale silenzio, infastidito com'era da ogni
atteggiamento celebrativo.
Lo
conobbi nei primi mesi della mia frequenza al corso di filosofia teoretica del
professor Bariè, che aveva tradotto l'originaria metafisica di Martinetti in un
quadro teoretico di ascendenza gentiliana. Fergnani doveva svolgere una esercitazione sulla interpretazione
di Spaventa della categoria dell'essere nella Logica di Hegel. Un'impresa che richiedeva certamente una
sottigliezza interpretativa, e una capacità di frequentare testi e problemi con
una certa disinvoltura teoretica. Ricordo certamente la ammirata valutazione
del professor Bariè, ma soprattutto ricordo il mio smarrimento che mi conduceva
a riflettere seriamente sulla mia capacità filosofica di orientarmi su certe
vette del pensiero. Chiesi allora a Fergnani
se avrebbe avuto la pazienza di spiegarmi il suo lavoro; Franco mi disse che,
per comprendere bene il contesto e il senso stesso della sua esercitazione,
avrei dovuto conoscere, in primo luogo, meglio Hegel e, in secondo luogo, era
indispensabile conoscere la critica di Gentile a Hegel. Fergnani capì subito che da solo non sarei stato capace di
percorrere questo cammino, e allora si offrì di spiegarmi con pazienza questi
tragitti filosofici. Il nostro appuntamento era al Motta (c'è ancora o no?) di
piazza Cadorna, e quivi in un appartato tavolino, libri e carte alla mano, in
alcune sere Franco mi spiegò quello che dovevo sapere. Una commessa si fermava
qualche volta ad ascoltare, e sul suo viso, con divertita ironia di Franco, si
poteva leggere un disarmato stupore sul fatto che si potesse parlare in quel
modo. Ma per quanto mi riguarda, furono proprio quegli insegnamenti che mi
aprirono la strada all'analisi teoretica dei problemi filosofici e dopo questo
apprendistato, per il tempo dell'Università, l'amicizia di Franco Fergnani, pur con i suoi riserbi, fu
sempre preziosa. Aggiungo: anche per capire bene il “trascendentalismo della
prassi” che allora era l'orientamento filosofico di Mario Dal Pra.
Franco,
come ho già detto, era iscritto al partito comunista. Ma non l'ho mai sentito
assumere toni liquidatori o arroganti nei confronti di chi avesse un
orientamento diverso. La sua arma fondamentale era l'argomentazione rigorosa,
paziente, priva di aggressività. Ricordo come spiegò il concetto di “nazionalità”
a un giovane filofascista che lo declinava in “nazionalismo”. E poi fu la volta
di una occasione che ebbe una sua celebrità, perché fu citata da Garin nelle
sue Cronache di filosofia italiana
come un sintomo importante dell'anti-stalinismo italiano. Nelle pagine di «Società»,
la rivista teorica del PCI, uscì un indegno articolo (non nomino l'autore, del
resto allora “travestito”, per evitare il cattivo gusto storico che rimane
anche al di là della verità storica) in cui, in due parole, si sosteneva che
Dewey era il filosofo dell'imperialismo. Franco, che era anche influenzato dal
pensiero di Giulio Preti, pensò che si dovesse reagire. Coinvolse me stesso e
Vittorio Strada (poi personaggio di primo piano nella conoscenza della letteratura
e della storia russa) in un testo che reagiva con energia, ma con misura
critica, alle quelle note di «Società» degne di Ždanov. Il nucleo fondamentale dell'articolo era opera di Franco, noi vi
portammo qualche marginale ritocco. Fu pubblicato su «Società» in corpo 6, vale
a dire al confine con l'illeggibile, ma la verità filosofica era ristabilita.
Dopo
l'università persi di vista Franco, che andò a insegnare in un liceo di Ascoli
Piceno. Divenne un po' irraggiungibile per un carattere introverso che
diventava sempre più difficile. Poi tornò all'Università di Milano come
assistente di Remo Cantoni, e poi insegnante di Filosofia morale. Dal Pra
desiderava fargli vincere il concorso per la cattedra, ma Franco si tirava
indietro dicendo che doveva scrivere ancora qualcosa che lo persuadesse a pieno.
Era il suo stile, quello che apparve evidente anche nella lontana tesi con
Banfi sulla critica marxiana alla Fenomenologia
di Hegel. Il maestro allargava il suo discorso in un apprezzamento molto
convinto, Franco talora interrompeva la relazione, esponendo dubbi e incertezze
sulla sua stessa interpretazione. Alle tesi non si era mai visto un
comportamento del genere.
Ora
dovrei, da antico universitario, fare la rassegna bibliografica. Chiunque la
può trovare su Internet. Qui dirò solo che i suoi studi su Sartre e su Kierkegaard
occupano i primi posti tra le ricerche su questi autori. La sua frequentazione
dei “contemporanei”, da Dewey a Merleau-Ponty, anticipò forse anche i tempi.
I suoi allievi alla Statale di Milano ne hanno un ricordo riconoscente e affettuoso,
i colleghi una grande stima professionale che confinava con una disciplina - mi
dicono - così rigorosa da passare, talvolta, la misura. A me è rimasto un
ricordo profondo, affettuoso, con il rammarico, forse la pena, di essere un
ricordo un poco incompiuto. ***
IN RICORDO DI RENATO SOLMI
di Fulvio Papi
Renato Solmi |
Probabilmente il non aver saputo un
anno fa della scomparsa di Renato Solmi dipende dalla mia scarsa attenzione
alle notizie. Non è certo un comportamento da vantare, e tuttavia penso che i
mezzi di comunicazione di massa che ci raggiungono o, meglio riescono a
scovarci dovunque, una notizia decisamente visibile avrebbero potuto darla. Il
fatto è che Renato dopo una stagione presso Einaudi, dove ha tradotto Adorno,
Horkeimer, Benjamin, Anders, e aver continuato la sua opera di traduttore di
opere che sono diventate fondamentali nella nostra cultura, si era chiuso in
una partecipazione solitaria alle riviste della tradizione della sinistra
radicale. L’espressione “partecipazione solitaria” può sembrare strana, ma corrisponde
allo stile di Renato: la più ampia esposizione pubblica del suo pensiero, ma la
minima esposizione personale. In tempi di “visibilità” il suo comportamento
etico e reticente, per lo più in epoca di facilissimo oblio, la sua presenza
nel mondo è destinata a passare come un soffio di vento. Dopo gli anni da
Einaudi aveva vissuto a Torino come insegnante di filosofia nei licei. Dove
avrà certamente lavorato con il suo grande impegno, la devozione alle buone
cause, la spontanea moralità. Quando qualche anno fa uscì la sua
“Autobiografia” ci sentimmo al telefono, e, dopo anni, mi viene incontro una
vita che affondava le sue radici in uno stile desueto, nobile, ostinato in una
cronaca di fatti, quasi a mostrare che non c’è nessun senso che vada oltre il nostro
fare nello spazio che si è in grado di esprimere nel mondo. Le sue erano cause
politiche rilevanti, come la guerra in Vietnam, sepolte nel ricordo da una
velocità dei sentimenti simile a quella della diffusione capitalistica, delle
sue forme di potere e della sua pubblica felicità. Renato era un personaggio
dei nostri indimenticabili anni Cinquanta.
Renato Solmi |
Ricordo quando, all’inizio del
decennio, nella bella casa di Armanda Giambrocono (ottima critica fra Banfi e
Della Volpe), si riuniva un gruppo di intellettuali di sinistra, Guiducci in
testa, partigiano e olivettiano, per discutere di “cultura politica” in piena
libertà e fuori dagli schemi della “vulgata” comunista del tempo, Renato ci
tradusse un capitolo di “Storia e
coscienza di classe” di Lukács del 1922, testo sul quale pesava la critica
decisa dall’internazionale comunista, e, proprio per questo, prezioso per la
formazione di chi voleva percorrere a sinistra una strada di libertà. Di questo
libro allora era possibile consultare alla biblioteca Feltrinelli solo una
copia del 1922 scampata alla distruzione. Ricordo l’eco profonda della sua
traduzione di Anders “Diario di Hiroshima”
in un tempo in cui l’equilibrio atomico era la condizione, per lo più rimossa,
nella vita quotidiana, della nostra esistenza. E perché dimenticare le
perplessità anche di Renato che l’aveva tradotto, dinnanzi a un testo come “Minima Moralia” di Adorno, dove la
dialettica di Hegel non era “rovesciata”, ma costituiva la teorica
intellettuale della critica sociale.
A sin. Roberto Guiducci con Silvio Ceccato |
Renato l’ho
sentito l’ultima volta al telefono quando fu pubblicata la sua autobiografia.
Desideravo ripetergli l’ammirazione che avevo sempre avuto per la sua vita e mi
trovai all’ascolto di una vita piena di saggia e dolente rassegnazione per
quello che a noi pareva il precipitare della storia, del sapere, del senso, del
gusto. Sul piano personale metteva in ombra i suoi meriti e le sue preziose
attenzioni, come opere di un tempo che non ci apparteneva più. Sarà perché ora
so che Renato Solmi non c’è più, ma quegli anni pieni di filosofia di
frontiera, di impegni che invadevano ogni tonalità dell’esistenza, mi sembrano
un dono smarrito che tuttavia occorre ricordare con giusto pudore.
***
La fenomenologia di Michel Henry
di Carolina Frabasile
Michel Henry |
Michel Henry compare sullo scenario filosofico
francese intorno agli Sessanta del secolo scorso, elaborando un nuovo modello
di metafisica, antitetica alla classica ontologia dell’oggetto, che riconsidera
il rapporto pensiero-essere, sottraendo il ruolo egemonico al pensiero e
individuando l’essere quale elemento fondante di tale rapporto. Abbandonata la
filosofia dell’oggetto, Il modello metafisico nascente, esposto nella sua opera
princeps, L’Essenza della manifestazione,(*)
affronta in modo innovativo la questione della manifestazione, dell’apparire
dell’essere. Henry dimostra l’impossibilità di risolvere il problema al cuore
della fenomenologia entro gli schemi di una filosofia riflessiva tale che inizi
e si fermi alle pure forme di pensiero. Il fenomenologo francese, presupponendo
un quid pre-riflessivo in cui la
filosofia riflessiva affonderebbe le sue radici e dal quale trarrebbe
nutrimento, impronta la sua indagine allo svelamento di tale matrice
pre-riflessiva. In primo luogo Henry indaga la natura del preriflessivo e le
relative implicazioni fenomenologiche-ontologiche, soppiantando il soggetto
trascendentale classico, funzione formale, con un io in carne ed ossa che, nel
suo primo volgersi verso il mondo, non coglie le cose tramite un pensiero
rappresentante-scientifico, ma attraverso un atto percettivo e senziente.
Henry, stabilito che le cose siano più di puri oggetti del pensiero, individua
la centralità del problema della manifestazione e della rivelazione dell’essere,
criticando l’impianto fenomenologico di Husserl per il quale il soggetto va
verso le cose mediante un atto intenzionale e riflessivo e, dirigendosi verso
esse, ne rende possibile l’esperienza, rivelandole. Il filosofo francese,
distaccandosi dalla soluzione che Husserl offre al problema fondamentale della
modalità di manifestazione dell’essere, nega la visione quale via di accesso al
reale mediante uno sguardo, ovvero mediante la relazione che si instaura tra un
atto di vedere e un oggetto visto. Il trascendentale, attraverso cui Henry si
volge al di fuori, è il corpo vivente e, questo trascendentale è riconosciuto
quale principio di tutto ciò che si manifesta. Il corpo di cui parla il
filosofo francese è in grado di far apparire qualcosa dal momento che si tratta
di un leib che, sentendo in primo
luogo se stesso, sente il mondo.
L’autopercezione del corpo vivente, la percezione che il leib ha di se stesso ancora prima che
percepisca le cose esterne, si pone come il fattore fondamentale della natura
della manifestazione dell’essere. Henry ha scoperto nel corpo la potenzialità
reale di sentire le cose. Tuttavia Il corpo, prima di rivelare un oggetto
esterno toccandolo, deve essere rivelato a se stesso in una modalità diversa
rispetto a quella in cui viene rivelato l’oggetto toccato, ossia rispetto ad un
atto intenzionale: il leib, prima di
dirigersi verso un oggetto da toccare, deve rendere noto a se stesso il proprio
potere di toccare. In questo corpo che sente il mondo si individua quella
struttura che dovrebbe precedere l’intenzionalità e fondarla. L’intento di
Henry non è quello di squalificare l’intenzionalità di Husserl, ma di fondarla,
riportando alla profondità dell’essere, identificata con la vita e il suo logos,
sorgente prima e ultima della manifestazione.
Lo studio fenomenologico proposto da Henry si fa carico
delle aporie che il pensiero husserliano ha lasciato insolute, avendo egli
attribuito il ruolo originario dell’apertura della manifestazione ad un atto e
ad un potere ontologico relegato nell’ambito della non visibilità e della non
manifestazione: l’intenzionalità. L’atto intenzionale di Husserl, puro
‘riferimento a’, è così radicato nella purezza formale da dover trarre
dall’esterno la propria materia e i propri vissuti per mettersi in moto, non
dimostrandosi dunque la prima sorgente della manifestazione.
Il concetto di ‘coscienza di’, a cui è riconducibile
l’intenzionalità, oltre a non essere il principio primo della fenomenalità, in
quanto forma pura è strutturalmente impossibilitato ad essere dimora
dell’affettività originaria, non possedendo lo statuto fenomenologico per
accogliere le Stimmungen, o tonalità
affettive. Henry pone il vissuto a luogo originario della manifestazione, da
una parte dimostrando che un atto privo di contenuti e vuoto di vissuti non può
vedere né far vedere nulla, dall’altra sottolineandone l’incapacità di fondare
l’affettività. Il fenomenologo francese trapianta la genesi della
manifestazione nell’immanenza del vissuto, nel sostrato che precede e fonda
ogni relazione e ogni trascendenza verso l’oggetto.
L’immanenza del vissuto è automanifestazione, essendo
immediatamente noto a se stesso, in quanto primariamente provato da sé, a
prescindere da qualsiasi rapporto soggetto-oggetto e atto intenzionale. La
rivoluzione fenomenologica compiuta da Henry, avendo rovesciato la
fenomenologia husserliana della forma intenzionale in una fenomenologia della
materia o del vissuto, formula un nuovo concetto di soggettività che si esprime
ora nell’immanenza e nella rivelazione immediata dell’io a se stesso. Il
soggetto si definisce all’interno della vita la quale è identica al pathos che lo pone viso a viso con se
stesso dal momento che in primo luogo il soggetto è vivente e solo in seguito
si relaziona con la sfera della rappresentazione. All’interno della scienza
fenomenologica Henry chiarisce l’esistenza di due modi di manifestare tra i
quali è sotteso un rapporto fondativo: il modus
manifestandi, per cui l’essere si manifesta fuori di sé, nella sfera della
visibilità, della trascendenza e della rappresentazione, conduce ad una forma
di sapere che rimanda ad una primigenia modalità di manifestazione che non
ricade nel visibile, inerendo alla sfera immanente della vita, opposta alla
sfera della trascendenza e della rappresentazione.
La vita, in quanto essere che sorge e si rivela in se
stesso, provandosi nel patimento di sé e nella profusione del suo essere
interiore e vivente, si serve dell’invisibilità per manifestarsi rivelandosi
nella sua assolutezza.
(*)M. Henry, L’essenza
della manifestazione, tr.it. a cura di D. Sciarelli e M. Anzalone,
***
Umano e divino in Platone
di Franco Toscani
1. Il divino e il problema della verità in
Platone.
Tenteremo qui una riflessione sul rapporto fra
umano e divino in Platone, tesa a porre in evidenza il fatto che nella
problematica e complessa nozione platonica di divino è contenuto il riferimento
a tutto ciò che vi è di più alto e nobile nell'uomo e nell'universo intero.
In
questione è dunque il riferimento essenziale alla verità; l'amore per la
verità, per la giustizia e la vita buona sorregge tutta la filosofia platonica
e la sua tensione al divino. Leggiamo infatti nelle Leggi: "La verità (ἀλήθεια) è al vertice di tutti i beni per
gli dei come per gli uomini, e possa esserne partecipe fin dal principio chi
vuole diventare beato (μακάριος)e felice
(ευδαίμον), affinché trascorra nella verità la maggior parte del tempo della
sua vita" (Leggi, V, 730 c).[1]
Il passo
è importante anche perché qui l'autore parla di partecipazione dell'uomo alla verità e non di possesso: è una precisazione essenziale, come vedremo anche in
seguito.
Noi ora
cercheremo di rileggere le riflessioni platoniche circa il rapporto
umano-divino intendendo per divino tutto ciò che si riferisce all'immenso
ambito della verità.
Da
questo punto di vista, non si tratta per noi innanzitutto di essere platonici o
antiplatonici, metafisici o antimetafisici, favorevoli o contrari alla
"teologia" platonica, ma di raccogliere le indicazioni di questo
straordinario pensatore per contribuire a nostra volta a sviluppare un discorso
veritativo, a servire la verità,
ossia ad assolvere il compito specifico della filosofia e pure quello della
teologia, soprattutto di una nuova teologia ben lontana dalle secche del
vecchio dogmatismo metafisico.
Noi
proviamo un senso di vertigine e di reverenza al cospetto della verità, della
sua maestà e del suo splendore che noi uomini così spesso ignoriamo,
sottovalutiamo o calpestiamo. E' una verità impadroneggiabile, ma il
riferimento umano alla verità è fondamentale.
Noi non
la possediamo e non la possiamo possedere, ma possiamo amarla e ricercarla,
respirarne l'aria, la splendida atmosfera. Possiamo vivere della verità, senza però pretendere di esaurirla in noi e in
tal modo possiamo vivere senza idolatria, senza trasformare la verità stessa in
un idolo e senza dunque mutare la
terra in un'aiuola che ci rende tanto feroci.
Rileviamo
un'ambivalenza profonda delle religioni storicamente date, che hanno sempre
oscillato fra il potere, l'intolleranza, la violenza, l'odio, il fanatismo da
un lato e l'amore, la pietà, la misericordia, la generosità, la giustizia
dall'altro.[2]
Nel nome di Dio si è commesso di tutto e Dio è stato sovente un alibi per
mascherare interessi "umani, troppo umani". Nulla di tutto ciò in
Platone, dove il discorso complesso sul divino rinvia sempre all'immenso ambito
della verità, al di là di ogni σμικρολογία (meschinità).
La
verità è umana e, nel contempo, supera l'uomo, lo comprende in sé
infinitamente. Al suo cospetto noi proviamo un costante senso di inadeguatezza,
mancanza, privazione, ma avvertiamo pure - e tutto ciò è davvero molto
"platonico", nel senso migliore del termine - l'esigenza del
coraggio, del giusto e necessario ardimento, di ciò che Giordano Bruno chiamava l' "eroico
furore", un "furore" d'amore che non ha nulla a che fare con la
violenza che da sempre percorre e tormenta la terra.
Note
[1]Platone, Leggi, V, 730 c, "Introduzione" di F. Ferrari,
"Premessa al testo" di S. Poli, trad. it. di F. Ferrari e S. Poli,
"Note" di S. Poli, BUR Rizzoli, Milano 2007, pp. 398-399 (trad. it. leggermente
modificata). A questa edizione dell'opera noi per lo più qui faremo
riferimento.
[2]Su tale ambivalenza
si veda il bel saggio di Ernesto Balducci,
La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Edizioni Cultura della
Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1992.
Ancora su Banfi e il PCI
di Fulvio Papi
La copertina del libro |
Il libro Banfi
a Milano. L'università, l'editoria,
il partito a cura di Alice Crisanti, (ed. Unicopli, Milano, 2015), nasce da
una di quelle circostanze fortuite che, se bene interpretate, arricchiscono il
materiale documentario e storico a disposizione degli studiosi. Cominciamo
dalla narrazione del caso fortuito. Daria Banfi quando preparò il libro
biografico su (di) Antonio Banfi, mise insieme “alcune casse di libri e
documenti” (cito dalla “Premessa all'opera” di Amedeo Vigorelli, molto
pregevole per il suo ufficio) che ebbero la sorte di finire nel mercato
antiquario. La biblioteca dell'università di Milano con sicura saggezza ha
acquistato questi materiali “provvedendo alla loro catalogazione scientifica”.
Un lavoro impegnativo, coordinato da Amedeo Vigorelli. Marzio Zanantoni e Alice
Crisanti. Il successo di questo più che meritevole impegno ha dato luogo a una
interessante mostra documentaria, “inaugurata contestualmente” a una giornata
di studi su Banfi relativi ai temi indicati nel titolo del libro che di quel
convegno rende pubbliche le relazioni.
Come testimonianza orale - che forse
potrebbe avere una sua utilità, data la mia consuetudine di otto anni
(1949-1957) con Antonio Banfi, nei ruoli di studente e di assistente - il
filosofo era solito dire che non amava “guardarsi nello specchio”. Non è un
sintagma privo di qualche difficoltà per comprenderlo bene nel suo senso
profondo. Per esempio Italo Calvino sostiene che non aveva mai voluto cadere
nel rischio psicologico di un’autobiografia. Non è la stessa cosa: uno
specchio, per poco che ci rifletta, ci parla di una storia, pone alcuni
interrogativi. Banfi, al contrario, amava guardare a se come a una prospettiva
aperta nel futuro. Questo atteggiamento morale ha dei vantaggi, evita quel tipo
di colloqui con se stessi che, più di una volta, prendono la forma inquieta e
dolente del “diario intimo”, ma anche degli svantaggi, e quale sia uno di questi
svantaggi nel caso di Banfi è presto detto.
Il filosofo nei primi anni Cinquanta e,
entro certi limiti, anche nella celebre lettera a Bertin del ‘42 (ingiusta nei
confronti del suo giovanile amico Clemente Rebora) dava una ricostruzione
biografica simile a una personale “storia della filosofia” selettiva, nel suo
esito, della attualità. Un qualsiasi biografo era così messo fuori strada, e
magari non poco. Basti pensare che la sua poderosa opera filosofica i Principi di una teoria della ragione
(1926) non l'ha mai nominata a lezione e nemmeno in colloqui privati. Ne sono
venuto a conoscenza tramite l'acquisto del libro che una carissima compagna d'Università
che ora non c'è più, Lella Monti, riuscì a fare presso un antiquariato di
Venezia. Negli anni Trenta i “grandi allievi” di Banfi quest'opera l'avevano
studiata tutti. Non era una differenza da poco che segnava l'ultima generazione
e, in particolare, la sua possibilità di uno sguardo biografico al di là della
strategia della memoria che il maestro attuava spontaneamente. La vita era
cominciata da poco, forse nell'ebbrezza morale e psicologica della
partecipazione alla Resistenza. Dopo la scomparsa di Banfi era già un problema
procurarsi i documenti più importanti della sua storia filosofica, quel suo
tessuto teoretico che, sul lungo periodo, veniva lavorato con solitaria
costanza e che oggi mi pare da riprendere nel suo senso più approfondito di una
ricerca teoretica.
Per quanto riguarda l'interpretazione del
filosofo, non credo che nessuno dei suoi allievi (che erano abituati dal
maestro a cercare la loro verità) abbia mai avuto una tonalità apologetica,
anche se spesso - i maggiori come i minori, i teoretici come i politici - hanno
ricordato il loro debito intellettuale. Basta pensare al Paci del Diario fenomenologico o alle
testimonianze di Tortorella (laurea su Spinoza), uno dei massimi dirigenti del PCI
e direttore dell'«Unità». Al punto che ho trovato strana una pagina del diario
postumo di Anceschi che, dopo aver sostenuto per tutta la vita la sua
discendenza estetologica da Banfi, mostrava dubbi sulla sua ventura. Banfi ebbe,
sino all'ultimo giorno (si legga il suo intervento del 1956 al Congresso internazionale
di Estetica di Venezia), una grande attenzione per l'arte d'avanguardia, fosse
la musica elettronica o il disegno industriale, ma certo non coltivò mai una
avanguardia come invece accadde ad Anceschi con il “Verri” a Bologna. Dicevo i “minori”:
parole di riconoscimento teorico, morale e pedagogico avevano per Banfi Luciano
Raimondi e Angelo Peroni, professori di filosofia ai licei e combattenti
partigiani nella seconda divisione Garibaldi “Redi”, comandata dal mio
indimenticabile amico “Iso” Aniasi, per anni sindaco di Milano.
Due
parole ancora quanto al metodo. I documenti storici non devono mai essere letti
come rivelazioni di una nostra pre-cognizione, che diverrebbe così certezza,
prova. Occorre, al contrario, avere la pazienza genealogica di comprendere
documenti e fatti nelle relazioni temporali che li possono rendere
comprensibili nella loro forma di verità (anche se, al nostro sguardo, poco
gradevole) e quindi nel loro senso, che deve essere poi l'oggetto della intellezione.
Non c'è altra strada.
In
breve, i saggi. Direi magistrale quello di Andrea Di Miele (con il suo
bellissimo saggio su Banfi e Paci). Quando scrive «gli scritti giovanili del
periodo prebellico (1915 nda)
mostrano, in diversa misura, quanto il dispositivo teoretico che avrebbe
costituito, un lustro più tardi, l'impianto dei Principi di una teoria della ragione, benché ancora ruvido, fosse
già formato» ha perfettamente ragione. E coglie, esistenzialmente, la forma di
solitudine studiosa e meditativa del giovane Banfi. E - ancora - quando
sostiene che «l'idea di purezza del trascendentale […] si mostra come
dispositivo che scompone l'identità logico-metaforica, mentre postula
l'integrazione della multilateralità dell'esperienza» coglie il punto
fondamentale del criticismo di Banfi e della sua filosofia della cultura. Il
punto dal quale la riflessione teoretica può riprendere il suo corso in piena
libertà.
Preziosissimo
il lavoro di Nicola Del Corno, non solo per la rievocazione dell'amicizia
giovanile di Andrea Caffi con Banfi, ma per l'intelligente ripresa di tutta la
fioritura di studi e di ricerche attuali su Caffi, sulla sua forma di
socialismo libertario, sulla sua stessa persona, affascinante e sempre fedele a
una libertà nutrita di intelligenza storica e sociale e di una elevata
concezione morale.
Il
lavoro di Emilio Renzi è la memoria viva, ricca, coinvolgente di tutto il
tessuto intellettuale che corre a latere della centralità banfiana. Penso che
ogni rievocazione storica dei personaggi centrali di quella scena storica
meriterebbe la trasformazione in un dialogo teatrale così come egli ha saputo
condurre tra Paci e Ricoeur. Immagino il dialogo tra Monicelli e Mondadori sul
cinema, quello tra il conte Bompiani e il Banfi direttore di collana editoriale
(con un “voi” che stento a credere solo fascista). Nuova, almeno per me, la
notizia della fondazione da parte del diciottenne Mondadori della rivista «Camminare».
A un narratore così sapiente e puntuale come Renzi ricordo solo una
dimenticanza: Vittorio Sereni, prima di andare a lavorare alla Pirelli (Lalla
Romano diceva che qualche volta i tradimenti sono inevitabili), era stato
professore al liceo Carducci. A questa notizia ci tengo perché al tempo, come
studente, c'ero anch'io.
La
ricerca storica di Alice Crisanti sui documenti della carriera universitaria di
Banfi è ammirevole per la cura e la diligenza. Per quello che si può ricavare
da questi materiali universitari, si ha l'idea di una esternazione molto
positiva dell'ambiente accademico nei confronti dell'opera banfiana. Ricordo qui
anche le sue pagine sull'epistolario Banfi-Gentile, nel quale Banfi, in più
circostanze, mostra di richiedere l'aiuto di Gentile con parole di
considerazione personale e filosofica. Se però si va a leggere - come si deve -
le pagine su Gentile dei Principi di una
teoria della ragione, si trova
chiara la critica teoretica alla filosofia dell'atto. Essa, inevitabilmente,
proprio nella forma gentiliana della critica della dialettica hegeliana,
riproduce nella concezione vitalistica dell'atto (Gentile nel ‘43 su «Primato»
farà valere questa sua posizione come un esito già teoreticamente accaduto
rispetto alla “esistenza” della nuova corrente filosofica) ancora una volta una
oggettivazione. Quindi una narrazione, non un uso critico della ragione, cioè
una “retorica”, che è poi la parola con cui Giulio Preti (anche nelle sue lezioni a Pavia) considererà la filosofia di Gentile.
Fuori dalla filosofia, non v’è dubbio che Banfi, nella sua carriera, fa capo
spesso a Gentile chiedendone l'appoggio, approfittando della considerazione che
Gentile stesso aveva del suo lavoro teorico e, anzi, contraccambiando con
attestazioni della propria stima. Pochi - tra questi non Banfi - sfuggono alla
diplomazia accademica, come sarà più chiaro ancora di quanto “sappiamo” (nel
senso che la parola “sapere” ha nel famoso scritto di Pasolini) quando saranno
note non poche delle 5000 lettere degli archivi Banfi custoditi dal professor
Fabio Minazzi all'Università dell’Insubria.
La
domanda successiva è ben conosciuta: come poteva Banfi, dopo quel rapporto con Gentile,
scrivere la famosa dura nota sulla clandestina «Nostra lotta» di orientamento
comunista dopo l'uccisione di Gentile? Fortunata giovinezza che non ha vissuto
quei tempi terribili, ma qualcosa si deve dire, con equilibrio storico, proprio
prendendo in considerazione il saggio di Zanantoni. L'autore può facilmente
mostrare come Banfi - sia agli “operaisti” milanesi (chi non ricorda la
posizione di Pajetta dopo la rimozione scelbiana del prefetto Troilo a Milano?),
sia ai crociani “rovesciati”, di eco terzinternazionalista e zdanoviano, del
centro di Roma - fosse difficile da capire e quindi sospetto. Rossana Rossanda
capì subito la situazione con grande lucidità. Questa stonatura, per chi ha
memoria e la sa evocare, era già visibile nell'immediato dopoguerra, quando Banfi
a Milano organizzò, con tutta la sua scuola, un convegno filosofico in sostanza
di natura criticista. Tra il filosofo e la dirigenza PCI (non con la base, né
nel collegio di Abbiategrasso nel ‘48, né in quello di Cremona nel ‘53) c'era
sempre una certa lontananza e una certa incomprensione.
Per
i dirigenti del PCI (il famoso mito della egemonia intellettuale) Banfi era una
figura fortemente rappresentativa; il filosofo ricambiava questa considerazione
evitando motivi di crisi, anche perché convinto che la “storia”, hegelianamente,
non appartiene mai a un intelletto giudicante. Tema che ha svolto perfettamente
nel suo ottimo libro Guido Neri: perché non tenerne conto?
Io
stesso ho sperimentato questa situazione nel ’52, quando con Fergnani e Strada
scrivemmo un articolo per «Società» in opposizione a un giudizio di rara
volgarità contro Dewey apparso in quella rivista del partito. Si poteva dire
che eravamo influenzati da Preti (come in seguito Dal Pra), e si poteva
dissentire in merito, ma dal punto di vista della libertà filosofica avevamo
ragione noi. Garin lo riconobbe, dicendo che quella replica di giovani era il
primo segno di una posizione antistalinista nel quadro della cultura comunista
(io, per la verità, ero socialista). Tutta la faccenda passò sotto il silenzio
di Banfi, i cui motivi appena esposti già allora eravamo in grado di capire.
Allora era già accaduto il caso Canepa–Cantoni su «Studi filosofici» narrato
più volte. Va forse detto che la fine di «Studi filosofici» non fu esattamente
uguale a quella del «Politecnico» di Vittorini. Fu Banfi a prendere quella
decisione nel ‘49 proprio perché tutta la situazione era mutata: gli allievi
andavano per la loro strada, la rivista rischiava di diventare un’eco “politicamente
corretta” di un marxismo filosoficamente molto problematico per Banfi (Cornu, Lukács). Era certo una “libertà negativa”, ma fu una
decisione che aveva una sua opportunità.
Farò
ora qualche osservazione aggiuntiva al saggio di Zanantoni. Non credo abbia
torto quando afferma che il marxismo di Banfi (come sosteneva Guido Neri) aveva
una tonalità baconiana. Questo lo si vide meglio dopo il contatto diretto del
filosofo con il marxismo cinese. Ma Banfi, nello stesso tempo, poteva scrivermi
(la lettera l'ho donata all'archivio del prof. Minazzi) che il marxismo è una
prospettiva filosofica da costruire. A parte le opzioni sul tema, la questione
va approfondita con una conoscenza che tenga conto della bibliografia
secondaria dove, per esempio, notava come la interpretazione della teoria del
valore di Marx, chiara nel 1920 e poi non più ripresa, assomigliasse a quella di
Simmel e di Richter. Era inevitabile che questa distanza da quel problema
centrale dovesse condurre a una filosofia della storia simile, nella differenza,
al tracciato husserliano sulla soggettività europea (perduta). Avevano quindi
ragione - su questo tema filosofico di Banfi - sia Preti che Paci, ma un esame
teoretico dei loro principali lavori non conduce a un umanesimo che ha un vizio
analogo?
Sulla
data dell'adesione diretta di Banfi al PCI la tesi corretta è quella che
sostiene essere accaduta subito dopo il 25 luglio del ‘43, come ho scritto in
un recentissimo saggio su “Banfi e la resistenza” pubblicato su una autorevole
rivista di tradizione cattolica. Il che non esclude rapporti personali, come
quelli, in Liguria, con l'ingegnere Fillak, padre del giovane resistente poi
ucciso dai nazifascisti.
Veniamo
ora all'uccisione di Giovanni Gentile. Zanantoni conosce bene la letteratura
relativa e le sue tesi sono pertinenti. Gli risparmio la mia testimonianza - che
deriva da un lontano colloquio con un giovane allora militante del partito
d'azione (poi passato al PSI) - che era contrario alla decisione comunista. Lo
scritto apparso su «La nostra lotta» mi pare proprio (come mostra Zanantoni)
nato nello stesso clima resistenziale di Curiel. Non lo leggerei nemmeno come
l'esecuzione di un compito assegnato al filosofo dal PCI (ma quale era, in
concreto, l'organizzazione del partito a Milano nel ’44?), ma piuttosto come
testimonianza di quel clima feroce di guerra, difficile da evocare bene per chi
non c'era. Teniamo poi presente che, se l'ambiente è quello del “Fronte della
gioventù” (risparmio qui la conoscenza analitica delle sue caratteristiche),
subentrava anche una sorta di dura “didattica della lotta” dove l'aura
filosofica perde il suo stile per finire nella famosa antinomia amico-nemico.
Del resto anche la parola di Gentile nel ‘44 non era più il discorso autorevole
del filosofo del regime, né il suo animo quello - ben noto - della tolleranza
nei confronti degli allievi liberal-socialisti, ma, di fatto, una chiara presa
di posizione nel conflitto, della cui gravità - nella convinzione di essere una
milizia storica nella verità - non era, forse, del tutto consapevole. Non
dimentichiamo che Curiel, dieci mesi dopo la morte di Gentile, dopo una inutile
fuga viene ucciso in piazza Baracca da una pattuglia fascista. I tempi, i
pensieri e le azioni vanno capiti tutti nel loro senso contingente, tragico in
quell'anno, che trasforma le stesse figure dei protagonisti. Per quanto
riguarda il nostro autore, amichevolmente, gli rimprovererei di non aver tenuto
presente il grandissimo disagio di Banfi nel ’56 - intorno al quale esiste una ampia
documentazione: un disagio alla soglia di interrogativi drammatici sulla
propria vita e sulla filosofia, del tutto confermato dalle lettere ancora
inedite del periodo. E poi, perché non tenere conto del proposito di Banfi - sempre
del ‘56 - di riprendere la pubblicazione di «Studi filosofici»?. Questa
decisione certamente corrispondeva alle critiche che Banfi al congresso avrebbe
mosso all'organizzazione culturale del partito. Nell'estate del ‘56 in casa
Banfi - nella prospettiva della ripresa di «Studi filosofici» - vi fu una
riunione alla quale presero parte i “grandi allievi” del filosofo che avevano,
in qualche modo, compreso la situazione. Io stesso (si parva licet) ebbi il compito di una critica al “realismo” di Lukács
dal punto di vista della concezione banfiana della “vita dell'arte”.
Da
un'analisi più ampia dei fatti e delle relazioni che sono accadute ne esce una
figura etica di Banfi, accanto a quella teoretica, molto più drammatica, quasi
uno dei simboli della tragedia della modernità.
***
LIBRI
Mondobugia. Undici variazioni sul mentire
La copertina del libro |
Le Edizioni Mimesis hanno pubblicato circa un anno
fa un interessante testo, che ve segnalato per i contributi che contiene, tutti
incentrati sul tema della bugia. Si tratta di una raccolta di undici saggi di
autori vari, che hanno partecipato a un ciclo di conferenze organizzato
dall’Associazione Remo Gaibazzi di Parma nel 2009.
Quello del mentire è un mondo vasto e articolato;
qui è visto in diversi ambiti: giornalismo (Maurizio Chierici), etologia (Vittorio
Parisi), economia (Roberto Tesi), psicoanalisi (Maurizio Balsamo), letteratura
(Maurizio Pincio), arti figurative (Marco Vallora), politica (Mauro Simonazzi),
musica (Marcello Conati), cinema (Leonardo Quaresima). Infine va segnalato, last
but not least, l’articolato intervento di Andrea Calzolari relativo alla
filosofia, ricco di puntuali e calzanti riferimenti storici e teorici.
Tra i saggi più pertinenti dal mio personale punto
di vista, menzionerei innanzitutto In
forma d’introduzione di Mario Lavagetto e Si può dire una menzogna in musica? di Marcello Conati. Mi fa
piacere che attraverso questi due autori il nome di Verdi risulti
indirettamente o direttamente presente: Lavagetto è autore quanto meno di una
fondamentale ricerca sui libretti verdiani; Conati a Verdi ha praticamente
dedicato la propria intera vita di musicista e studioso, pubblicando su di lui
numerosi competenti e suggestivi saggi.
Lavagetto ha tuttavia dedicato la propria
introduzione a Mondobugia alla
letteratura, con interessantissimo osservazioni sulla Bibbia, sull’Odissea,
(“un grande, intricatissimo labirinto di bugie”), ma non mancano penetranti
riferimenti a Agostino, al Collodi di Pinocchio,
a Dostoevskij, a James in particolare.
Segnalerei poi il saggio di Marco Vallora su Arti figurative. Irrapresentabile menzogna
rappresentata, assai ricco di riferimenti che vanno da Cesare Ripa a Giulio
Paolini, passando per le rappresentazioni pittoriche di grandi personaggi
letterari, di scene bibliche e mitologiche, da parte di grandi pittori passati
e presenti.
Non nascondo tuttavia la mia maggior inclinazione
per il tema della menzogna in musica. Il testo di Marcello Conati è chiaro
nell’impostazione del problema a livello teorico: “è solo attraverso le parole
del libretto e l’azione scenica che la musica può essere coinvolta, suo
malgrado, in un mendacio. Per sua stessa natura, per le leggi che la governano
[…] non le è consentito di esser altro che se stessa”.
Ma, per quanta riguarda il teatro drammatico, in
cui la menzogna è onnipresente, assai preziosi sono i riferimenti, oltre che di
sfuggita a Rossini, Puccini e altri, a opere fondamentali di Mozart e
naturalmente di Verdi.
Andrea Calzolari (a cura di)
Mondobugia. Undici variazioni sul mentire
Mimesis Edizioni, 2014
Pagg.
238 € 20Cenni del monte Ragola. Sulla benedizione del Semplice
di Franco Toscani
Veduta del Monte Ragola |
Nel silenzio dei monti osservo spesso a lungo il
monte Ragola (m. 1700 di altitudine), che da molti anni scorgo con nettezza
dalla finestra della mia casa nel bosco, a monte Armano, nell'alta val Nure
dell'Appennino ligure-emiliano. E' una zona di notevole bellezza, poco
turistica e frequentata, sulla linea di confine tra le province di Piacenza,
Parma e Genova.
Il Ragola mi fa compagnia nei mesi estivi che ogni anno
trascorro in gran parte in questi luoghi sin dalla mia adolescenza. La sua
vista non cessa di stupirmi ed è fonte continua di domande, malinconia,
pensiero, interrogazione. Ho sovente l'impressione che tra me e il monte Ragola
ci sia una sorta di dialogo, in cui esso "parla", senza ovviamente
poter impiegare parole umane. Nell'inquietudine e nel travaglio della mia
coscienza, lo interrogo molte volte. Non mi limito dunque a interrogare me
stesso, come voleva Eraclito nello splendido frammento 101: "Ho interrogato
me stesso" (ἐδιζησάμην ἐμεωυτόν). Anche se poi bisogna aggiungere che, per
ovvi motivi, interrogare il monte coincide nel contempo, naturalmente, con
l'interrogare sé stessi.
In ogni caso, che cosa pare dirmi il monte? Esso può
"insegnarci" qualcosa? A me sembra che esso sfidi e risponda a suo
modo al Socrate del Fedro platonico, che afferma: "Amo imparare (φιλομαθὴς
γάρ εἰμι), ma i campi e gli alberi non vogliono insegnarmi niente, al contrario
degli uomini che vivono in città" (Platone, Fedro, 230 d). La
"sfida" - una sfida senza guerra alcuna, la quale viene anzi
interamente lasciata alle vicissitudini, alla responsabilità e alle scelte dei
mortali - è qui silenziosamente lanciata al presunto primato assoluto del
λόγος, della ragione e dello spirito umani.
Quelli del monte sembrano, più che altro, silenziosi,
molto silenziosi e maestosi cenni, da interpretare. Tutto è rinviato alla
nostra capacità di ascolto e di interpretazione.
Winke (Cenni) è fra l'altro pure il titolo di una
raccolta di testi poetici di Martin Heidegger stampata privatamente a Meβkirch
nel 1941.
Per me si tratta dei cenni del destino, di ciò a cui
siamo inviati, della φύσις-ἀλήθεια (natura-verità).
Ma cerchiamo di rispondere o di corrispondere in qualche
modo ai cenni suddetti.
Intanto, noto che, di anno in anno, scarsi o nulli
appaiono i cambiamenti del monte, al contrario dei miei. Sembra che non abbia
rughe, metaforiche o non metaforiche.
Esso è allora per me l'emblema della stabilità, di ciò
che è duraturo e permanente. Così piaceva a Platone pensare le caratteristiche
essenziali delle idee, del mondo delle idee, contraddistinto dalla perfezione e
dall'immutabilità rispetto a tutto ciò che nel mondo sensibile e terreno è
transeunte, caduco, corruttibile, imperfetto.
Ecco, il monte Ragola, con la sua imponenza e stabilità,
è per me quasi come un'idea platonica, ma sottolineo il "quasi".
Insieme alla stabilità e all'imponenza, a una sorta di eterna giovinezza, alla
maestosità, esso fa pensare pure alla semplicità. Il monte Ragola non sembra
"complicato" e vivere come noi travagli, tormenti, gioie,
inquietudini, etc. . Sta lì da tempo immemorabile, fermo, solido, calmo,
imperturbabile, con o senza nuvole attorno, sia col cielo sereno sia quando
s'intravede malamente o scompare alla vista a causa della nebbia, della notte e
del maltempo. Continuamente, ai nostri occhi, esso si manifesta e si cela. E'
questo il suo modo di giocare? Del resto, non scrisse Eraclito (frammento 123)
che "la natura ama nascondersi" (φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ)?
Dal monte proviene forse ciò che - riprendendo
un'espressione di Martin Heidegger - ho chiamato altrove la "benedizione
del Semplice".
Baita sul Monte Ragola |
Vi è uno splendore e nel contempo una modestia, una
semplicità essenziale di ciò che è, di ogni cosa, monte Ragola compreso. Ciò
che è risplende infatti nella modestia e nella bellezza del suo semplice
essere. Dicevo prima che il monte Ragola sembra "parlare", così
almeno da tempo penso, se non sono folle. Naturalmente, gli è estraneo il
linguaggio umano, eppure, in un certo senso, dal monte sembra provenire una
sorta di "dire essenziale", più dicente, un dire inaudito che ci
raggiunge in profondità e cattura interamente l'ascolto e l'attenzione. E' il
"dire" che proviene dalle silenziose e profonde regioni dell'essere,
dalla benedizione del Semplice.
Poeti e pensatori rimangono in ascolto di tale dire e
infatti sono per questo motivo i più arrischianti fra i mortali, nel senso che
arrischiano il linguaggio cercando di palesarne l'essenza nobile, al di là del
chiacchiericcio massmediatico dominante che lo svilisce e lo concepisce in modo
puramente strumentale. Il dire essenziale, più dicente è proprio della grande
poesia e del grande pensiero. Ma le parole della grande poesia e del grande
pensiero possono oggi davvero essere ancora ascoltate, comprese, fatte proprie?
Non è facile interpretare il "linguaggio" peculiare del monte, almeno
per me. Lo stesso si può e deve dire per l'esser-cosa della cosa e per
l'esser-mondo del mondo.
Non sempre noi mortali siamo capaci di ascoltare, di
vedere o di cogliere in qualche modo la benedizione del Semplice, indaffarati e
presi come siamo nella rete dei nostri quotidiani traffici, occupazioni,
calcoli, manipolazioni e macchinazioni.
Per certi aspetti, il monte Ragola sembra salutarmi e
rassicurarmi, accennare a una vita limpida e serena come il cielo sul quale si
staglia e si protende; ciò mi vien suggerito proprio in virtù della sua
solidità, stabilità, imponenza e (apparente) immutabilità. Quando il tempo è
mite e il monte si manifesta in tutta la sua bellezza, esso sembra addirittura
invitarmi alla festa, alla danza e scaldarmi il cuore come non mai. Per altri
aspetti, esso sembra dirmi, senza parole umane - alle quali invece io faccio
inevitabilmente ricorso: miracolo e ricchezza del linguaggio umano -, ciò che
abitualmente, troppo spesso, non ascolto da voci umane. Il silenzio delle
sterminate regioni dell'essere qui domina e rivela, fa cenno. Cerco di
ascoltare tutte le voci del destino, quelle umane e non umane.
Allora il monte Ragola sembra ancora salutarmi, ma in un
altro modo rispetto a quello precedente, un modo molto meno rassicurante e
radioso, anzi per me struggente e beffardo, che mi riempie di malinconia, per
dirmi all'incirca: "O caro, ci siamo fatti buona compagnia per tanto
tempo, sei stato rispettoso e leale con me, ti invio ancora un saluto
affettuoso, ma presto o tardi - nessuno lo sa - non mi vedrai più, mentre io
resterò qui ancora a lungo, molto più a lungo di te, come un vecchio guardiano
a vegliare sulla valle".
Queste parole sembra dirmi il monte, alle quali posso
rispondere solo con uno sguardo mesto di abbandono e il cuore gonfio di pena.
Il cenno del monte Ragola è per noi mortali
l'assegnamento senza parole del destino.
***
VITE LUMINOSE
Pubblicato il
carteggio del partigiano socialista Andrea Lorenzetti
di Fulvio Papi
Della splendida figura di resistente e di
socialista di Andrea Lorenzetti non vi è traccia (che io sappia) nelle opere
complessive dedicate alla Resistenza e alla storia del movimento operaio. È
stata quindi una impresa di grande valore morale e di testimonianza storica la
pubblicazione a cura di Guido Lorenzetti delle lettere di Andrea alla moglie
Milena e al figlioletto Guido., lettere partite dal campo di concentramento di
Fossoli, dopo 45 giorni di isolamento a san Vittore, e prima di essere inviato
a Gusen Mauthausen dove morì di stenti il 15 maggio del ’45. La storia politica
e soprattutto morale di Andrea Lorenzetti va ricordata per una memoria
doverosa, anche se la sua vicenda meriterebbe un’attenzione molto più empatica
e diffusa. Lorenzetti (erede di una sapienza politica paterna derivata
dall’ammirazione per Andrea Costa, primo socialista romagnolo nel Parlamento),
entrò in contatto con la militanza socialista già nel gennaio del 1943. Dopo il
25 luglio raccolse tra amici e simpatizzanti il denaro per pubblicare l’Avanti!
Clandestino al quale collaborò direttamente con suoi interventi. La sua era
stata una vita operosa e agiata in una famiglia unita da un affetto e da una
premura che si riflettono nelle lettere dalla prigionia. È da questa sicurezza
che Lorenzetti esce per partecipare alla Resistenza: non aveva alcun obbligo
militare o d’altro genere per prendere una decisione così radicale. È piuttosto
un pericoloso dono di una coscienza libera e desiderosa di non mancare
all’appuntamento etico che si apriva in Italia nel ’43. È dall’inizio di
quest’anno (1943) che entra a far parte di un gruppo di socialisti che operano
clandestinamente a Milano. Dopo gli arresti dei compagni dell’11 novembre del
’43, prese il posto di coordinatore dei militanti nelle varie zone della città.
Il suo impegno fu fondamentale alla redazione dell’Avanti! Tra l’8 settembre e
il maggio del ’44 assieme a Guido Mazzali, poi direttore del giornale non più
clandestino nel ’45 (Mazzali fu un personaggio colto, intelligente, aperto ai
giovani che mi fu particolarmente vicino nei miei esordi socialisti, e che io
ricordo con immutato affetto). Ma l’attività di Lorenzetti non fu affatto solo
pubblicistica. All’inizio del marzo del ’44 organizza la partecipazione degli
operai socialisti -in accordo con la dirigenza del PCI- al grande sciopero del
1° marzo del ’44. A Milano gli scioperanti sono oltre 120.000. È il momento in
cui la resistenza ai nazi-fascisti prende il volto di un movimento collettivo e
assume un’eco internazionale. Lorenzetti, grazie a una spiata di un
doppiogiochista, viene arrestato il 10 marzo. In 45 giorni di isolamento non
gli strapparono una sillaba che compromettesse i compagni. E qui inizia la
corrispondenza con la moglie che prosegue dopo il trasferimento al campo di
Fossoli. Prima che ne avessi notizia storica, Fossoli nella mia conoscenza di
ragazzo era il luogo dove venne fucilato Poldo Gasparotto, amico della mia
famiglia, per parte di mio zio. Per tutti noi fu un gravissimo trauma emotivo.
Lorenzetti, al campo di Fossoli, divenne uno straordinario organizzatore dei
prigionieri cercando di provvedere con opportune iniziative ai bisogni delle
famiglie più disagiate, private con la prigionia dell’unica fonte di
sostentamento. Delle lettere alla moglie dirò una sola cosa: vanno lette come
un documento di straordinaria misura etica, specie oggi dove molto spesso la
moralità è in grande crisi, forse la più grave del paese. In ogni lettera
Lorenzetti mente alla moglie dicendo che le sue condizioni di vita sono più che
tollerabili, addirittura buone. Non vuole assolutamente che la sua compagna
abbia a dolersi più del necessario. Guido Lorenzetti, poco tempo fa, mi disse che
sua mamma non credeva a queste rassicurazioni. Un altro elemento di una storia
personale che mostra la figura di Lorenzetti, una personalità forte e generosa.
Il 15 maggio del ’45 quando la morte gli è prossima, a Gusen, detta all’amico
Ravelli l’estremo messaggio dove si legge: “Desidero che Guido sia allevato
secondo i sentimenti che hanno ispirato la mia vita. Prego i miei di perdonarmi
il dolore che arreco loro, non mi pento di quello che ho fatto, malgrado tutto
quello che ho sofferto, sarei pronto a ricominciare, perciò non mi compiango”.
Poco dopo aver firmato il documento, Andrea morirà.
La copertina del libro |
Andrea Lorenzetti
Prigioniero dei
nazisti.
Libero sempre.
Lettere da San Vittore e da Fossoli,
Marzo-Luglio 1944
a cura di Guido Lorenzetti
Mimesis Edizioni - 2014
Pagg. 152 € 16,00LIBRI
PERSONA
UNA ANTROPOLOGIA FILOSOFICA NELL’ETÀ
DELLA GLOBALIZZAZIONE
“La libertà si fonda sulla irriducibilità ad ogni istanza, persino a
ogni più o meno fondato, “valore” (storia, biologismo della razza eletta,
progettualità ideologica, normatività dell’Assoluto) che non sia la persona
stessa”.
Sommario:
Capitolo I.- Persona nella storia; Capitolo II.- Genealogia della persona;
Capitolo III.- Personalismo fenomenologico; Appendice
Le quattro stagioni di Paci; Capitolo IV.- Persona e comunitarismi; Capitolo V.- Persona e socialismo comunitario; Capitolo
VI.- Persona e cosmopolitismo
Persona,
cosa intendiamo con questo termine?
Anzitutto il soggetto,
ossia l’io nella pienezza del proprio vissuto (coscienziale, inconscio e
biologico). Poi relazione: relazione con il me stesso e con l’altro. Infine
oggetto di ricerca (ad esempio nelle neuroscienze).
In altre parole il termine
persona contiene in sé anima, soggetto, corpo, conoscenza, etica ed anche
diritto, dato che nel diritto non ci sono che le personae, le res e le actiones.
Questo è lo studio che
affronta Emilio Renzi (allievo di Enzo Paci e docente di Semiotica alla Scuola
di Design del Politecnico di Milano), nel suo ultimo recente saggio interamente
dedicato alla persona ed alla sua totale irriducibilità ad ogni istanza, ivi
compreso ogni - più o meno fondato - “valore” (storia, biologismo della razza
eletta, progettualità ideologica, normatività dell’Assoluto) che non sia la
persona stessa. Perché l’uomo non è un’idea ma è una persona e persona è il
soggetto in carne e ossa, unità vivente di pensiero, esperienze, attività,
relazioni.
In questa ricerca della
persona, Renzi muove dalla sua genealogia etimologica: per/sonum ossia la maschera indossata dagli attori per dar pienezza
alla voce e inequivocità all’espressione, quindi completezza al personaggio in
contrasto con gli altri attori. Ne ripercorre gli studi a partire da Cicerone,
Agostino, passando per Renouvier, Maritain, sino alla scuola fenomenologica che
studia la persona nelle sue relazione col
mondo circostante. Senza dimenticare la scuola italiana (Bobbio,
Calamandrei, Banfi, Paci) che trova il punto di equilibrio tra società e
persona nella partecipazione democratica e mette in guardia contro il pericolo
di assorbimento totale della persona nello Stato (carattere tipico del
totalitarismo).
Proprio nell’idea – tipica
di Paci - che la persona sia un centro di relazioni col il mondo, Renzi traccia
il percorso persona / comunità (che esalta la soggettività responsabile della
persona), interrogandosi sulle forme di comunità moderne a partire dalla
comunità in rete (con tutti i pro e i contro che la rete comporta).
Sabrina Peron
La copertina del libro |
Emilio Renzi
Persona - Una Antropologia
filosofica nell’età della globalizzazione
ATi Editore, 2015,
Pagg. 138, € 15
***
FILOSOFIA E IDEOLOGIA
di Franco Toscani
Costanzo Preve |
La filosofia
non va confusa con la scienza, ma nemmeno con l'ideologia, specie nel momento
in cui la coscienza ideologica si presenta soprattutto come coscienza
mistificata, mistificante e alienata.
Le ideologie sono peraltro necessarie e con la loro
"falsa coscienza necessaria" - che va distinta dalla menzogna
consapevole e cosciente, pure assai diffusa - svolgono sempre, in un modo o
nell'altro, una funzione sociale, sono rivolte a garantire la compattezza di
una comunità, compresa l'attuale ideologia che vorrebbe sancire "la fine
delle ideologie", proclamando in realtà la fine delle ideologie
anticapitalistiche e l'affermazione delle ideologie funzionali al dominio delle
oligarchie economico-finanziarie attualmente al potere. Oggi l'ideologia
trionfa nella forma dell'abdicazione a ciò che immediatamente è.
Bisogna ripartire da ciò che il giovane Marx ravvisava
come la contraddizione fra bourgeois e citoyen, tra la diseguaglianza realmente
esistente a livello di società civile e l'eguaglianza proclamata a livello
giuridico-statuale formale, che - come ha lucidamente rilevato Franco Fergnani
- "dà luogo ad un nesso dialettico realtà-apparenza in cui l'apparenza
avvolge e nasconde la realtà: tuttavia non in qualità di elemento accessorio,
di epifenomeno, ma di maschera intrinseca alla realtà stessa, di velo che la
storia si mette da sé (secondo l'espressione di Labriola). Questa apparenza,
che non è parvenza (Schein), contraddice la realtà, ma essendo radicata in
essa. O meglio: la realtà è così costituita da non potersi non coprire e
travestire. E' appunto questo nesso indissolubile realtà-apparenza, questa
struttura mistificata-mistificante presente nella cosa stessa e tipica della
società borghese, a costituire un luogo specifico di cultura e di sviluppo
della falsa coscienza e dell'ideologia che traduce quest'ultima in termini di
discorso universaleggiante".[1]
Le ideologie presentano certo spesso in primo piano -
specialmente per quel formidabile critico delle ideologie che è stato Costanzo
Preve - la manipolazione, il mascheramento, l'occultamento, la "falsa
coscienza necessaria", etc.; ma soprattutto occorre tener presente che
"le ideologie razionalizzano e giustificano interessi, individuali e
collettivi, mentre la filosofia, quando è veramente tale, è sempre e soltanto
una disputa per la verità, ed in quanto tale è proprietà indivisa dell'intera
umanità, e non di classi, ceti, religioni o gruppi sociali diversi" (LSU
17).
Parliamo qui di terreni diversi: "l'ideologia non è
il terreno della verità (filosofica) o della certezza (scienza moderna), ma
dell'utilità di gruppo in una società divisa in classi" (LSU 42). Insieme
ad Heidegger - un autore a lui certo non congeniale ma sempre profondamente
rispettato e preso sul serio - il filosofo italiano sottolinea con forza il
valore della libertà di pensiero propria della filosofia, che non sopporta in
alcun modo irreggimentazioni e strumentalizzazioni, controlli e
amministrazioni, al contrario delle ideologie che volentieri s'accompagnano
agli apparati e alle strutture partitiche, statuali e istituzionali di
controllo (cfr. ST 456).
Facendo autocritica rispetto alle proprie stesse
posizioni giovanili, il Preve maturo non accetta la definizione ideologica data
da Althusser della filosofia come "lotta di classe nella teoria" e
non l'accetta perché la filosofia, al di là di ogni "classismo",
mirando al vero nella sua interezza è patrimonio indiviso dell'intera umanità,
come l'arte, la letteratura e tutta la grande cultura (cfr. LSU 103-104).
L'ultimo Preve insiste parecchio - autocriticamente ed
efficacemente, aggiungiamo e sottolineiamo - sulla distinzione fra attività
filosofica veritativa, conoscenza scientifica e pratica ideologica. Leggiamo ad
esempio nel saggio Elogio della filosofia (2005) questa franca e lucida
ammissione: "La filosofia come ancella della scienza (che ha semplicemente
sostituito, e non migliorato, la concezione cristiana medioevale della
filosofia come ancella della teologia), oppure la filosofia come strumento
dell'ideologia (comunista e proletaria) sono state due cose che mi sono state
insegnate negli anni Settanta in modo talmente radicale che liberarmene (senza
perdere le cose che avevo imparato pur sotto il dominio di queste concezioni
errate) è stato uno sforzo di una intera vita".[2]
In realtà filosofia, scienza e ideologia si sovrappongono
spesso in uno stesso autore in modo inestricabile e anche per questo va
ribadito con forza il carattere democratico, dialogico, comunitario, veritativo
della filosofia, che ha bisogno come l'aria di un dialogo libero, aperto,
interminabile, attento e rispettoso.
Note
[1] F. Fergnani, "L'ambiguità dell'ideologia e il pensiero
marxista", Capitolo I della Parte Prima, in F. Fergnani, R. Prezzo, L.
Frasconi, Ideologia e scienze storico-sociali, Edizioni Libreria Cortina,
Milano 1978, pp. 33-34.
[2] C. Preve, Elogio della filosofia. Fondamento, verità
e sistema nella conoscenza e nella pratica filosofica dai greci alla situazione contemporanea, in AA.VV., Dialettica
oggi, "Koiné" nn. 3-4 (anno XII), luglio-dicembre 2005, Editrice
Petite Plaisance, Pistoia, p. 47.
***
IN FONDO AL GIARDINO
Una testimonianza memoriale di Gabriele Scaramuzza
di Fulvio Papi
L'opera di
Scaramuzza, “In fondo al giardino -ritagli
di memorie-” pubblicata recentemente è del tutto originale, trova il suo
spazio vitale tra le condizioni letterarie possibili e impossibili intorno a un
repertorio autobiografico. Il testo ha l'andamento di un essenziale mihi venit in mentem secondo
ritmi diversi e, probabilmente, tempi diversi come foglie galleggianti in un
ruscello che se ne va, ma lascia una traccia, un'aspettativa per la successiva
serie autunnale. La parola del sottotitolo “ritagli” è perfetta perché si
rivolge a chi legge e ne riferisce il codice autentico, mentre una “storia”,
bene o male deriva quasi sempre da un insieme di fatti che la scrittura conduce
linearmente nella rappresentazione raffigurativa di una memoria “educata” dalla
continuità di un “io”.
La scrittura e la composizione in generale hanno lo spazio
di interruzioni che mimano il rapporto tra il ricordare attuale e l'oggetto del
ricordo. Appartengono a questo “realismo privato” che chiede qualcosa in più di
una fiction.
Le narrazioni ricordano un'infanzia percorsa tra gli anni di
guerra e l'immediato periodo successivo in un paese, Inzago, che è sulla strada
che da Milano, via Cernusco, Gorgonzola, Cassina dè Pecchi, conduce all'Adda.
Questa la geografia minima. Oggi l'urbanista del luogo, l'architettura, l'uso
del territorio secondo i criteri che via via sono diventati prevalenti
ricordano poco il passato, dimenticano consuetudini e personaggi, se non per
quello sguardo che, al di là della vita, è capace di far riapparire lo scenario
della memoria che si è custodito al di là delle “storie” del tutto comprensibili,
poiché, almeno idealmente, condivisibili, se pure con la sensazione incerta di
una mancanza.
La cittadina, la recita dei suoi abitanti, il “respiro della
campagna” l'abbondanza delle sue acque, hanno subito le trasformazioni di mezzo
secolo che, al di là di qualsiasi sentimento, è difficile per ognuno non
considerare come parti e forme della propria vita. Ma il silenzio di quello che
è perduto è simile a quello della morte che solo Dio può evitare.
In questa cornice elementare si può cominciare ad avvicinarsi
all'opera che rievoca tratti e frammenti che, quale che sia la loro verità,
pure conducono con sé l’aura del “tempo perduto” o delle “isole felici”. C'era
una volta un bambino che nel paese, nella nominazione dei luoghi, nel mutare
degli orizzonti degli immediati dintorni, nello scintillare delle rogge,
sentiva il profumo leggero di prati, erbe e fiori, tratti di sentieri, dialoghi
brevi che segnavano il modo di essere vivi, e comandi severi nelle domande
confessionali intimidatorie (e un poco ridicole) sulle questioni del sesso e
del piacere che rendono solo più difficile la crescita, quasi spezzando in due
la certezza di sé, (che non riesco a capire che senso abbiano nell'essenziale
messaggio cristiano).
Posso aggiungere che rispetto ai percorsi letterari
dell'infanzia, qui prevale la scoperta di un mito segreto e non bene inteso che
tuttavia costruisce una solitudine e una sensibilità che nessuna idealistica “intersoggettività”
può risolvere. Col tempo il tesoro nascosto diventa la certezza di un “sottosuolo”
del suo personaggio che col tempo e col “mondo” ha trovato prima la sua mimesi,
poi l'individualità delle sue predilezioni o scelte mondane, infine le sue
abilità e il pubblico riconoscimento.
Capita a tutti, ma in modi molto diversi. Al nostro autore è
capitato di dover trasportare se stesso da una specie di giardino magico del
silenzio alle maschere (necessarie) del mondo. C'erano di sicuro problemi,
tuttavia risolti bene. Ma Inzago rimaneva una profonda verità che nel
necessario bricolage della vita
poneva le sue condizioni magari chiamate con altri nomi di superficie. Poteva
sortire qualche esitazione che aveva al suo confine tra un'assoluta fedeltà
d'origine e una fedeltà a quel “se stesso” che si era costruito tra centinaia
di circostanze dell'esistenza. Alfine questo dubbio di sé, invisibile da
chiunque ha desiderato dissolversi in quel secondo mondo che ci consente di ri-vivere
nella scrittura.
Il libro non dimostra nulla che possa trovare il suo nome
nella fretta dei nostri giudizi. È prigioniero della sua verità. È un libro che
non solo affascina, ma finisce col porre una domanda difficile: c'è nella mia
vita una Inzago segreta? Non si può che lasciare la domanda inevasa.
Gabriele
Scaramuzza
In fondo al
giardino
Mimesis
Ed. 2014
Pagg.
134 € 14,00
SULLA LIBERTÀ
di Fulvio Papi
Fulvio Papi |
Siamo nella Vienna del
1913 descritta da uno dei romanzi più difficili del ’900, “Luomo senza qualità”
di Musil. Nel terzo libro dell’opera troviamo il prof. Linder, autorevole
insegnante del ginnasio che dice ad Agathe: “Quando l’uomo è libero è infelice.
Quando l’uomo è libero è un fantasma. Al contrario è il dovere: ciò che l’uomo
più semplice ben conosce nel suo intimo purché viva con sincerità”. È una
proposizione che va bene per la scuola dell’imperial-regio governo, probabilmente
per quella inglese, per quella prussiana più militarizzata, e che nell’infanzia
ho conosciuto anch’io dopo la fascistizzazione totale della scuola decisa nel
1935-36 dal ministro De Vecchi. Queste affermazioni appartengono ai sistemi più
o meno autoritari dello stato o del costume che vogliono costruire una
omogeneità tra interiore e pubblico, tra morale e diritto di modo che la
libertà venga considerata secondo questa coincidenza, e mai come una
opportunità da spendere secondo motivi e sollecitazioni che derivano dalla
propria persona, se pure in un periodo incerto di formazione. E in ogni caso
rivolta sempre verso una nuova obiettività che può persino assumere il
carattere ideale di una interiorizzazione. È proprio da questa situazione di sdoppiamento
nel riconoscersi che può nascere il segreto della propria libertà. Un tema
sottile e difficile che lascerò subito per ricorrere a un esempio molto più
comprensibile. Quando tra il gennaio e l’aprile
del 1945 (un tempo che nella memoria più che lo stile della storia ha
preso quella della leggenda), mi procuravo il “Fuorilegge”, il foglio della 7ª
brigata partigiana della divisione Valtoce, non ero né infelice, né un
fantasma, ma ero invece un ragazzo felice che immaginava quello che doveva
pensare o fare proprio perché stava vivendo una esperienza di libertà che lo
costituiva come “Io” in relazione ad un’altra comunità, almeno ideale.
L’espressione “esperienza di libertà”, nella sua semplicità, ha un
valore teorico, perché la libertà fa sempre parte di una esperienza connessa
con diverse situazioni di fatto o di pensiero, ed è una presunzione credere di
racchiudere la libertà in un concetto di un sistema chiuso o come il delirio di
una libertà soggettiva, cosa che Hegel sapeva benissimo contro lo stile
romantico. Se devo dire il problema con un degno linguaggio filosofico, allora
devo affermare che la libertà è un’idea trascendentale. Tuttavia ora devo
argomentare questa definizione vuota di libertà, e tuttavia, proprio per
questo, aperta ad ogni circostanza concreta. Possiamo vedere questa situazione
teoricamente rigorosa ricordando alcune circostanze. Vi è una libertà di
tradizione stoica per cui un uomo ha la libertà relativa al proprio corpo e, in
alcune circostanze non tollerabili, ha la libertà filosofica di uccidersi. “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa
chi per lei, vita rifiuta”.
Robert Musil |
Ma questa libertà che
cosa ha a che vedere con quella che i comuni italiani del Medio Evo
contestavano come proprio diritto all’Imperatore. E tutto ciò che cosa ha a che
vedere con la libertà della più antica formula “civis romanus sum”. E tutto ciò
con la costruzione della libertà come condizione naturale dell’uomo di
Rousseau. E, filosoficamente, con il rovesciamento di Kant secondo cui la
libertà è la condizione necessaria per una vita morale?
Questa condizione del
tutto plurale della libertà (e si potrebbero fare ben altri esempi) mostra che
non avevamo torto nel mostrare il carattere trascendentale della libertà. Ma
questa è questione di correttezza filosofica. Quando leggevo il “Fuorilegge”
non sapevo nulla di quello che ho qui ricordato, ma vivevo una esperienza
straordinaria di libertà e nello stesso tempo -e questo è l’aspetto oggettivo-
imparavo una forma storica di libertà. In un editoriale del foglio clandestino
l’autore sosteneva che nessun governo è degno del suo ruolo politico se
limitato a garantire il pane (che poi non era vero) e negava la libertà ai
cittadini. Allora questo bastava.
Oggi e ormai da molto
tempo so che l’autore aveva in mente la struttura, il potere del popolo, le
garanzie oggettive di uno stato della tradizione liberale. Questa idea di
libertà diventava un processo e un impegno di liberazione: libertà e
liberazione coincidevano come finalità e
come azione concreta. Forse alle spalle dell’editoriale clandestino c’era
il Croce del ’38 con l’idea di libertà come azione (e prima come destino
dell’Europa). Come dall’altra sponda del lago sulla collina vi era chi
considerava come valore centrale della libertà la “libertà di coscienza” derivando
la lezione da un altro filosofo, Martinetti. Ma queste sono memorie di quella
libertà che costava la morte, e per questo hanno un valore importante per noi
che viviamo la libertà come una condizione ovvia del nostro consumo nel mondo e
del mondo. Tuttavia il cammino storico della libertà come valore (e poi crisi)
della civiltà occidentale è molto più
complesso e, se pure brevemente, ne darò il tracciato essenziale che ci
condurrà molto indietro nel tempo. Cercherò di mostrare come la libertà nel
mondo moderno sia un problema di liberazione che nasce sempre in quella figura
simbolica che è l’individuo (figura assente in altre concezioni del mondo).
Così che la storia della libertà (cioè i suoi significati) è la storia delle
liberazioni che l’individuo affronta nelle sue mutazioni in relazione con il
mondo.
John Loke |
La nascita
dell’individuo moderno intorno al quale si sviluppa l’idea di libertà, la si
può ricavare astraendo alcuni temi di Locke dalla sua produzione filosofica che
interpretano e riflettono una situazione sociale tipica dell’Inghilterra che è
la forma più forte dello sviluppo dell’Occidente.
Dal punto di vista
storico l’evento più importante sul finire del ’600 fu la figura di Guglielmo
III al Bill of right che stabiliva un governo costituzionale come compromesso
tra il potere regale e le prerogative della società civile rappresentata nel
Parlamento dopo mezzo secolo circa di conflitti durissimi. Locke era sempre
stato dalla parte dei diritti di libertà della società civile che reclamava
vita nella pace, nella sicurezza e nella proprietà. In concreto la borghesia
commerciale voleva fondare il suo potere sul lavoro che non è da intendersi in
senso antropologico, ma come intervento produttivo sulle terre incolte sì da
formare una grande proprietà fondiaria. Il lavoro in questo modo legittimava la
proprietà che incrementava lo scambio economico. Lo scambio economico avveniva
in una dimensione monetaria. E quest’ultima nella sua stabilità nel tempo
stabiliva l’identità dell’uomo libero. La libertà era stata la liberazione
politica dal potere autocratico del re, la sua legittimazione nel Parlamento
dell’esercizio libero del commercio, la propria identità libera garantita dalla
ricchezza monetaria.
Il popolo è costituito
dall’unità dei proprietari e questa concezione è la realizzazione del processo
di liberazione e del suo successo in una condizione di libertà personale e
sociale. Quindi una matrice potente della libertà occidentale come costruzione
dell’uomo libero viene dal processo economico e dalla classe sociale che lo
interpreta. Tuttavia dopo più di un secolo che la società inglese forma il
proprio costume sociale sulla libertà economica che è in relazione con la
pratica religiosa, con il costume sociale, con le abitudini e i giudizi di una
società che consumava in un tacito totalitarismo pubblico la sua originaria
libertà, un grande filosofo come Stuart Mill pose da capo il problema della
libertà. Il centro di questa libertà era la figura storica dell’individuo selezionata dalla esperienza
occidentale, ma i diritti della sua libertà andavano contro le limitazioni del
conformismo e del costume, per stabilire, in un processo di liberazione, che
erano da riconoscere all’individuo tutte le iniziative libere che non
limitassero la libertà altrui. Stuart Mill era un economista liberista (con
alcuni limiti) ma la sua concezione della libertà dell’individuo apriva un
orizzonte che andava ben oltre la dimensione economica che, all’origine, aveva
selezionato l’individuo occidentale moderno.
Naturalmente qui non posso
seguire questa storia contemporanea, ma credo di essere certo che tutte le
analisi intorno alla libertà personale e all’ampliamento dei suoi diritti
civili, hanno la loro radice nel libro di Stuart Mill sulla libertà. L’analisi
dei diritti derivanti dalla libertà dell’individuo, divengono sempre più
pertinenti e relativi alle concrete figure sociali degli individui: i diritti
di chi lavora, delle donne, i diritti dell’autodeterminazione della propria
vita, i diritti all’istruzione dei bambini e alla cura degli anziani
costituiscono una complessa enciclopedia intorno alla libertà che dal punto di
vista giuridico, ha il suo fulcro nel libro sulla libertà di Mill, e dal punto
di vista storico concreto, sulle figure sociali che hanno dato luogo a potenti
movimenti di liberazione, in primo piano quello del movimento operaio con la
richiesta di una diminuzione dell’orario di lavoro sostenuto dalle Trade
Unions, prospettiva che poi si estese dall’America a tutta l’Europa, sino al
movimento femminista che dava altri contenuti alla parola libertà, concessa con
la loro individualità sociale e personale, nel suo processo di liberazione.
John Stuart Mill |
Che cosa ho cercato di
dimostrare con questo breve excursus storico? Sostanzialmente che la parola
libertà assume sempre i contenuti di un processo collettivo (ma anche
individuare, come mostra il romanzo di formazione) che si pone obiettivi di
liberazione. La libertà anticipa nel pensiero una condizione reale che deve essere
raggiunta come necessità, come diritto e anche come senso. Nella rivoluzione
francese libertà non aveva la stessa radice che abbiamo veduto nella storia
economica e sociale inglese. Voleva dire che a tutti i cittadini spettava il
diritto di prendere decisioni politiche che riguardavano i provvedimenti dello
stato. Il tema della libertà non passava tanto per la libertà d’impresa, quanto
per una dimensione statale che doveva nascere dal consapevole consenso dei
cittadini. La sovranità passava dalla legittimazione del potere del re dalla
volontà divina, alla legittimazione della sovranità popolare attraverso l’argomentazione
filosofica. Era la forza del discorso filosofico che apriva la legittimazione
della libertà del popolo. Storicamente le due grandi tradizioni hanno fuso
alcuni elementi fondamentali costituendo la figura dell’individuo libero in un
sistema politico democratico. C’era molta retorica in tutto questo, ma sta di
fatto che la Iª guerra mondiale fu rappresentata come uno scontro decisivo tra
democrazie dove esisteva un regime di libertà e gli imperi centrali autoritari
e dispotici. Non dimentichiamo che Heinrich Mann, fratello di Thomas, scrisse
un libro dal titolo “Il suddito”.
E per riprendere il
discorso d’inizio possiamo ricordare che nel giugno del 1944 il CNL decise che
tutte le formazioni partigiane divenissero il “Corpo di Liberazione Nazionale:
anche qui libertà e liberazione hanno un rapporto diretto. Con questo non
voglio affatto negare che la parola libertà, nel mondo della comunicazione
totale, possa diventare una esteriore e falsa sollecitazione immaginaria, come
tutti noi sappiamo molto bene. Così come desidero riconoscere che sul tema
della libertà vi sono teorie importanti, in Italia di derivazione crociana,
altrove e in modo più rilevante, queste teorie hanno sullo sfondo la realtà
storica dell’individuo occidentale con la sua fondamentale simbolizzazione
intellettuale che ha nell’opera di Stuart Mill la sua riflessione teorica
originaria. Dal canto mio ho preferito mostrare il significato della parola
libertà in quei più ampi contesti storici in cui essa era il termine simbolico
di un processo di liberazione. Ma, per esempio, se fossi uno scolaro del grande
psicologo di tradizione junghiana, come Hillman, direi che tutta la nostra
individuale possibilità di libertà è condizionata dal modo in cui riusciamo a
elaborare quella morte che è il nostro destino dalla nascita. Il luogo
interiore Hillman lo chiama “anima”. Aggiungerei solo che questa concezione
teorica nasce in connessione con una prospettiva terapeutica. È inutile e
parassitario fare una questione di teorie. Hillman è un grandissimo psicologo.
James Hillman |
Da parte mia, al solito. “si parva licet componere magnis” ho elaborato un
discorso che nasce dall’esperienza simbolica della filosofia quale deriva da un
realismo storico. E poiché un finale bisogna pure trovarlo, allora dirò che c’è
anche un rischio nell’uso della parola libertà. Se la libertà non è una parola
di un processo di liberazione, ma diviene la certezza che deriva da un acquisito
sistema giuridico-istituzionale, per buono che esso sia nella sua concezione,
allora la libertà può decadere in un costume sociale del quale noi siamo quasi
soltanto eredi passivi, incapaci di vedere un poco più in là rispetto al dove
ci è capitato di essere. In filosofia questa condizione attiva si chiama
trascendenza. Ma se questa esperienza o questo desiderio di libertà non accade
mai, allora la nostra vita, pur tra mille cose nuove che l’attraversano, è in
realtà prevalentemente il rituale di una religione forte ed esteriore di cui
non conosciamo nulla.
ARTURO SCHWARZ, SUREALISMO SEMPRE
di Giorgio Colombo
In copertina André Breton |
La figura di
Arturo Schwarz si erge imponente ad abbracciare quasi un secolo di Surrealismo
intorno al suo principale ispiratore e conduttore, André Breton. Ne riassume
questa vicenda, frutto di vent’anni di lavoro, il volume ora uscito per SKIRA e
presentato dallo stesso Autore al Teatro Parenti il 24 novembre scorso, 540
pagine, “Il Surrealismo ieri e oggi”.
Il Surrealismo sempre e ovunque. 26 Paesi convocati, dal Belgio alla Cina, ai
Caraibi, ai Paesi Arabi. E poi, oltre alla Bibliografia, il repertorio dei
periodici e delle mostre (sarebbe stato utile anche un elenco dei nomi). Il Surrealismo come un carattere permanente
dell’uomo in quanto tale. Non è qui il luogo di riassumere una storia lunga,
complessa, affascinante che Schwarz, poeta, studioso, gallerista,
collezionista, ha più volte presentato in diverse pubblicazioni, valendosi
anche della conoscenza diretta di molti dei principali attori del ‘Movimento’,
di cui lui stesso ne fu (e si sente tuttora) parte. Vorrei soltanto accennare
ad alcuni dati biografici dei due ‘personaggi’, Schwarz e Breton.
Arturo Schwarz nasce nel
1924 ad Alessandria d’Egitto, città cosmopolita, da un padre tedesco di
Dusseldorf e da una madre milanese, entrambi
ebrei. Frequenta l’Università dove si parla francese e inglese. Nel ’44
legge Breton, ritrovandovi grande vicinanza e gli invia all’indirizzo di New
York (è tempo di guerra) le proprie poesie. La risposta, lungamente attesa, è
incoraggiante. Fonda nel 1946 la sezione egiziana della Quarta internazionale
Trotskijsta. Arrestato e condannato all’impiccagione, dopo una lunga
detenzione, viene liberato nel1949 con la fine della guerra tra Egitto e
Israele. Chiede la cittadinanza italiana e si stabilisce a Milano, dove inizia
la sua fortunata attività di libraio, editore, gallerista, saggista ecc. e
incontra finalmente, dopo una lunga attesa del ‘visto’, Breton a Parigi.
Schwarz con Philippe Daverio |
Torno indietro. L’incontro
giovanile, da lontano, con la ribellione surrealista di Breton e la valorizzazione
delle emozioni e del fantastico, si unisce alla lettura di Marx eTrotskij, in
quegli anni già condannato all’esilio. Surrealismo e cambiamento vitale,
singolo e collettivo, fin dall’inizio, fanno tutt’uno.
Ora passo al
secondo ’personaggio: André Breton. Nasce nel 1896 (28 anni prima di Schwarz).
Si appassiona a poeti come Baudelaire, Mallarmé, Huysmans e ad artisti come
Moreau, Bonnard, Vuillard, Signac. E’ attratto dall’arte cosiddetta primitiva.
Nel 1913, a Parigi, si iscrive alla facoltà di Medicina. Nel 1915-16,
sottoposto al servizio militare, conosce Jacques Vaché, di cui riconoscerà
l’importanza decisiva, si avvicina ad Apollinaire, si occupa di psichiatria,
conosce Babinski, legge Freud, (che andrà a trovare nel suo viaggio di nozze a
Vienna). Legge il “Manifesto DADA 3”, 1918, Zurigo, Cabaret Voltaire, e
nell’anno successivo si mette in contatto con il suo autore, il rumeno Tristan
Tzara, che, terminata la guerra, si trasferisce a Parigi.
Il 1924 è l’anno del primo
Manifesto surrealista, a cui segue “La Révolution Surréaliste”. Mi scuso di questo elenco,
ma intendevo soltanto riprendere alcuni punti di una vicenda complessa e
duratura, che si formalizza col ‘Manifesto’ proprio nell’anno della nascita di
Arturo Schwarz.
Schwarz con Sgarbi |
La guerra aveva dimostrato
la fragilità della Belle Époque e il crollo dei confini politici e mentali precedenti.
All’aspirazione di un “ritorno all’ordine”, si contrappone un avvio libertario
al disordine. Non sono le nuove macchine a stupire -già avevano dimostrato la loro capacità
mortuaria- non l’ambizione razionale, bei risultati! ma l’antica e sempre
attiva ‘psiche’ umana e il nuovo modo di analizzarla, la psicanalisi. Sotto la
superficie banale, ripetitiva, della quotidianità, brucia una forza nascosta e
sfuggente, l’inconscio. È ciò che il potere, tutti i poteri, vogliono ignorare.
Disturba le loro pretese. Gli intellettuali invece vogliono partire proprio da
lì, si cercano, si raggruppano, reclamano una nuova voce, vogliono farsi
sentire pubblicamente, riprendono il loro collaudato strumento, il Manifesto.
L’inconscio ha già una
lunga storia in mano alle varie scuole psichiatriche, da Charcot a Janet a
Freud. Ora sono gli artisti ad analizzarlo, a maneggiarlo. Smascherare la
superfice cosciente significa sollecitare l’emergenza di una realtà
sotterranea, che oscilla continuamente tra oscurità e lampi di presenza:
interruzioni del discorso, lapsus, dimenticanze, ossessioni, sogni,
allucinazioni. Non malattie, ma vita nascente, libido, pulsione eros. Non un pacifico venire alla luce e lì
rimanere, ma un continuo movimento di celarsi e apparire, un equilibrio
instabile tra principio di piacere e principio di realtà -che pure crea i suoi
traumi-, una irruzione che sconvolge la realtà trasformandola in sur-realtà. Il
Surrealismo prende la parola da Apollinaire, ma l’adopera per conto suo. Scrive
Breton: “automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di
esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altra maniera,
il funzionamento reale del pensiero”. Stati ipnotici, scritture automatiche,
immagini oniriche, espressioni incontrollate. La spinta amorosa, l’eros è
qualcosa di più del semplice sentimento d’amore, è Amour fou, una particolare
pazzia “convulsiva, erotico-velata, esplosiva-fissa” (Breton); un fuoco che
vive nella contraddizione, nella sorpresa, nell’apparizione.
Schwarz nel giardino della sua casa di Milano |
Seconda scusa delle righe
precedenti, cenni brevi e sempre necessariamente monchi.
Ora vengo ad un termine molto usato dal
Surrealismo e perciò da Schwarz, l’immaginario, e perciò alle immagini che lo
costituiscono. L’immaginario è il frutto dell’attività mentale che produce
immagini, qualcosa di determinato, visibile, ma non necessariamente riferito
alla realtà esterna, anche se ne assume alcuni caratteri. Il libro ora uscito,
un ampio repertorio scritto sull’immaginario,
riporta in copertina e sull’astuccio due
fotografie, la prima di André Breton, ripreso
da Arturo Schwarz nel 1961, la seconda, ‘La scacchiera surrealista’, un
montaggio di Man Ray del 1934, 20 foto dei principali esponenti surrealisti.
Scacchiera surrealista |
Fotomontaggio di Man Ray 1934: Breton, Ernst, Dalì, Arp, Tanguy, Char, Crevel, Eluard, de Chirico, Giacometti, Tzara, Picasso, Magritte, Brauner, Péret, Rosey, Mirò, Mesens, Hugnet, Man Ray
Adieu mes amis.
Semplici documenti? Testimonianze? Una
rassicurazione? C’è, ci sono proprio stati, loro, gli amici. Anche, ma non
basta. C’è qualcosa di più. L’addio è un modo di ri-vederci, di ri-pensarci. Schwarz racconta se
stesso attraverso i suoi amici, attraverso le loro fotografie (quante! non solo
le due di questa pubblicazione), lui stesso fotografo.
André Breton |
André Breton. Foto di Arturo Schwarz
La foto porta una firma.
Uno sguardo si rivolge a un modello, visto, viso, che rimbalza il suo sguardo,
lo volge, volto, su di me fotografo. Un modo di guardare e di ri-guardare,
ri-tratto. Non un oggetto qualsiasi, ma un viso-volto sul quale dal 1700 si è
occupata la ‘Fisiognomica’, scienza
dell’espressione. Un soggetto interroga, un viso esprime e risponde. Si nasconde?
Si maschera? Oppure concede se stesso, la sua essenza? No, né maschera né
essenza, perché si possono moltiplicare i ritratti su quel sé che rimane
invisibile. Se fosse tutto visibile acquisterebbe l’immobilità dell’icona
religiosa (v. H. Belting e J. Nancy). Se fosse tutto menzogna sarebbe un altro.
È il tutto che non funziona: o tutto così o tutto cosà. La mobilità del
viso-volto lo rende variamente ritrattabile, cioè può essere trattabile,
ritraibile, manualmente e con mezzi meccanici (lo fanno due surrealisti, Man
Ray e Arturo Schwarz), ma nello stesso tempo è un viso-volto sfuggente,
nascosto, sprofondato. E allora sì, con una maschera ingannevole. Meravigliosa
ambiguità. Non è forse il carattere dell’inconscio, della immagine surrealista?
Un grazie a Schwarz e ai
suoi Amici.
L’OCCHIO VISCERALE : Scrittori e fotografia
di Chiara Pasetti
Oggi
è data assolutamente per scontata la possibilità, offerta ormai da più
strumenti, di fermare l’attimo in un’istantanea fotografica che conservi nel
tempo il ricordo di quel momento; tuttavia nell’Ottocento, secolo in cui nacque
la fotografia, questa «invenzione fatale», come la definì negli anni Trenta del
Novecento Alberto Savinio, generò reazioni profondamente differenti a partire
da coloro che ne vennero maggiormente coinvolti e influenzati, ossia gli uomini
di lettere. Diego Mormorio, che da anni si occupa dei rapporti tra la
fotografia e la cultura filosofica e letteraria, e che nel 1988 aveva
pubblicato la prima antologia di testi letterari su questa arte dietro
consiglio di Leonardo Sciascia (che ne scrisse la prefazione), decide ora di
dare al suo tema d’elezione un respiro più ampio, concependo un’opera in dieci
volumi di cui il primo, Scrittori e fotografia. Un magnifico inizio
(1840-1870), edizioni Postcart, prende in esame i primi trent’anni della
fotografia. In particolare il testo racconta, anche attraverso numerose
immagini e un’ampia antologia che raccoglie alcune pagine fondamentali degli
scrittori dell’epoca, l’accoglienza che essa in quanto incarnazione più
profonda, secondo l’autore, dell’anima dell’Ottocento, espressione più viva
dell’«intimo sentire della cultura occidentale che sale dall’antica Grecia»,
ricevette ai suoi esordi. I risultati ottenuti da Louis-Jacques Mandé Daguerre
con il procedimento cui aveva dato il suo stesso nome, la dagherrotipia,
vennero illustrati il 7 gennaio 1839 all’Académie des Sciences dal fisico e
astronomo, nonché deputato della sinistra parlamentare francese, François Jean
Dominique Arago, che con la sua «prontezza d’intuito» comprese l’importanza e
la necessità di attribuire alla Francia la paternità di un’invenzione che in
realtà era in nuce già da tempo, e che fino a quel momento non aveva suscitato
particolare interesse. Subito dopo il governo francese acquistò da Daguerre il
brevetto, e il 19 agosto dello stesso anno, in una seconda relazione, Arago
svela all’Académie des Sciences e all’Académie des Beaux-Arts, riunite per
l’occasione in sede congiunta, le diverse fasi di realizzazione del
procedimento, rendendo ufficialmente pubblica la fotografia e attirando,
attraverso l’entusiasmo e la passione con cui presentò l’esordio di questa
nuova arte, l’attenzione degli intellettuali e del mondo delle lettere più
strettamente legati all’ambito scientifico e tecnologico. In realtà, come
illustra Mormorio, ancora per qualche anno la dagherrotipia rimase relegata
nell’alveo delle «curiosità parascientifiche», e si farà strada fra il grande
pubblico soltanto nel 1854, quando il fotografo Disdéri brevetterà la carte-de-visite
(che assomiglia appunto, per via della dimensione ridotta, a un biglietto da
visita): un ritratto di piccolo formato con il quale chiunque poteva ora avere
una propria immagine con una spesa molto contenuta. Molti gli scrittori che non
sfuggono alla tentazione di farsi ritrarre, che cedono alla seduzione
dell’obiettivo non soltanto per compiacimento narcisistico, ma anche per
diffondere sui giornali la propria immagine, un’effige che ne sancisca il ruolo
di uomini di lettere in relazione con il mondo.
Balzac |
Fra questi, Balzac, che vedeva
nella fotografia la dimostrazione della teoria democritea degli «idola», ossia
dell’esistenza di uno «spettro inafferrabile ma percettibile» in ogni oggetto e
persona, che il dagherrotipo era in grado di fissare in eterno; Edgar Allan
Poe, che si fece fotografare varie volte, con o senza baffi, da autori diversi
e in anni differenti, e scrisse nel 1840 «The Daguerreotype», il primo articolo
entusiastico sulla fotografia, definita «il più importante trionfo della
scienza moderna, se non il più straordinario». Tuttavia, poiché dal punto di
vista estetico essa non era in grado, secondo Poe, di cogliere e trasmettere
«il sentimento poetico», il Bello, che non ha nulla a che vedere con la verità
e la precisione, l’autore del Corvo la iscrisse irreversibilmente in un
contesto puramente scientifico e non artistico. Nathaniel Hawtorne, anticipando
molte teorie successive, vedeva nel ritratto fotografico la possibilità di
«rivelare» l’anima del soggetto fotografato.
Whitman |
E ancora Walt Whitman, che fu uno
dei poeti più fotografati dell’Ottocento e scrisse, in una poesia dedicata
proprio a un suo ritratto, che quest’ultimo era una «carta geografica del
cuore», opinione assolutamente non condivisa dal filosofo Emerson, il quale si
attendeva dal ritratto esclusivamente il compito di «porci davanti alla realtà
fisica del soggetto» e non a quella spirituale, poiché quest’ultima è un
continente misterioso che richiede altri mezzi di esplorazione. Carlyle,
vedendo un’immagine fotografica proprio di Emerson, la quale gli sembrò una
«povera Ombra» al punto da fargli immaginare che l’amico gli stesse parlando
dall’aldilà, inaugurò un accostamento affascinante che verrà molte volte
ripreso e indagato dagli studi successivi, quello tra la fotografia e il regno
dei morti. A partire dal 1855, grazie al perfezionamento delle tecniche, la
fotografia poté fregiarsi del titolo di «art nouveau» e guadagnare il suo posto
all’Exposition universelle, anche se, significativamente, in uno spazio
riservato all’Industria. La presenza continua all’interno dei Salons
provoca a questo punto una reazione decisa da parte del mondo delle lettere e
delle arti, chiamato a esprimersi relativamente a un fenomeno che nel giro di
pochi anni dalla sua comparsa è diventato anche una moda.
Baudelaire |
Tra le posizioni più
violente c’è sicuramente quella del più grande poeta del secolo, Baudelaire,
che scaglia una vera a propria invettiva contro la «nuova industria che ha
contribuito non poco a distruggere ciò che di divino forse restava dello
spirito francese». Nonostante fosse circondato da estimatori della fotografia
come Delacroix, Gautier, cui dedicherà i suoi Fiori del male, o ancora
Mérimée, e poi l’amico fedele Nadar, che peraltro lo fotografò diverse volte,
restituendoci le immagini più belle del poeta grazie al suo «occhio viscerale
che penetra nell’anima per divulgarla, attraverso i ritratti fotografici, nella
sua arresa nudità» (Luca Pietromarchi), Baudelaire nel suo articolo condanna
aspramente la fotografia. La definisce il «rifugio di tutti i pittori mancati»,
qualcosa che dovrebbe essere semplicemente «la serva delle scienze e delle
arti», anzi «la serva umilissima», e lancia i suoi anatemi contro un pubblico
incapace ormai di cogliere l’essenza del Bello, scioccamente appagato dal Credo
attuale che si esaurisce nel Vero, ossia nell’imitazione della natura; la
necessità di questa moltitudine sprofondata in una decadenza inarrestabile, in
un decadimento del gusto di cui la fotografia è al contempo causa ed effetto, è
stata esaudita da un «Dio vindice» che ha scelto in Daguerre «il suo Messia».
Nadar |
La posizione di Baudelaire è molto vicina a quella di Flaubert, poiché entrambi
vedevano nell’immaginazione la facoltà principe di ogni processo creativo e la
regina di ogni facoltà intellettiva. L’estetica di entrambi rifiutava la
fotografia perché risultava loro come una «sorta di calco», che non poteva
aspirare al Bello e al sogno, dunque all’arte. Flaubert fu anche più
decisamente “fotofobico” del poeta, poiché accettò pochissime volte di farsi
fotografare, e invitò l’amante Louise Colet a non inviargli il suo ritratto
fotografico, scrivendole di «detestare le fotografie nella misura in cui amava
gli originali»: esse «non sono mai vere». E quando Maxime Du Camp, con il quale
aveva compiuto il lungo viaggio in Oriente, venne insignito della Légion
d’honneur per il suo lavoro fotografico sul Medio Oriente (stampato nel
1852, con immagini inedite e dall’alto valore documentativo, che premiavano la
«mania» fotografica di Du Camp), Flaubert commentò così il successo dell’amico:
«un’ammirevole epoca, quella in cui si decorano i fotografi e si esiliano i
poeti», riferendosi chiaramente all’esilio di Victor Hugo. Chissà se al maestro
del grottesco e della bêtise, che come Baudelaire poneva l’immaginazione
al centro di tutto, e non tollerava alcun fanatismo borghese tra cui quello di
farsi ritrarre per contemplare la propria immagine «triviale» sul metallo,
sarebbe piaciuto il dagherrotipo del 1855 conosciuto come Uomo col guanto
nero forse sì, perché effettivamente
quest’uomo dall’aria spettrale e lugubre, vagamente sadica, e al contempo
enigmaticamente sorridente e ironica, ben incarna, e infatti Mormorio gli
assegna «un posto d’onore in un libro dedicato al rapporto tra gli scrittori e
la fotografia», lo spirito dell’epoca, fatto di contrasti e antitesi, e per
usare la celebre distinzione di Barthes, unisce e sollecita studium e punctum
in un’immagine suggestiva che davvero, questa sì, sembra parlarci dall’aldidà.
Per dirla con Oliver Wendel Holmes, questa è una fotografia «perfetta», perché
è «inesauribile».
Uomo col guanto nero |
Diego Mormorio, Scrittori e
fotografia. Un magnifico inizio (1840-1870),
vol.
I, Postcart, pagg. 324, euro 20.LA BIOGRAFIA IMPOSSIBILE
Angelo Gaccione
conversa con il filosofo Fulvio Papi sul libro
“La biografia impossibile” (Ibis
Edizioni, pagg. 128 € 14,00)
Fulvio Papi nel suo studio (Foto: Fabiano Braccini, 2014) |
Gaccione:
Se permetti vorrei cominciare dal titolo del tuo libro: La biografia impossibile. Tu dai ragione di questa impossibilità
nella nota introduttiva. Nella prefazione scrivi: “Si possono scrivere
biografie intellettuali, mondane, sociali e politiche perché in questo caso è
l’oggetto che seleziona la narrazione. Ma biografie che immaginino di
raccontare la verità di una esistenza sono impossibili”. È perché nessuna
esistenza è lineare; perché ogni vita appartiene ad altre vite; perché l’io non
fa che selezionare e ricordare solo alcuni frammenti rimuovendone altri, o per
la sua propensione alla menzogna? Per restituire un’immagine di sé sempre e
solo positiva, cioè mistificante e mistificatoria?
Papi:
“È
possibile che una autobiografia selezioni dalla propria esperienza quelle
memorie che al pubblico possono parere esemplari, o almeno possono riuscire
esemplari a se stessi. Si sceglie una immagine prediletta, quella che avrebbe
costituito la “realtà” delle ragioni che danno un particolare rilievo alla
stima di sé. Non credo alle menzogne costruite volutamente: penso che non siano
accettabili nemmeno da chi le scrive. È certo che c’è sempre una memoria che
valorizza e c’è sempre una rimozione. E tuttavia un tentativo di verità può
tentare di superare questi ostacoli. Tuttavia è sempre un tentativo perché ogni
vita è fatta da congiunture che si combinano tra di loro e ciascuna di esse è
costruita da elementi relativamente casuali che nel momento che accadono
mostrano una loro necessità, ma in quanto generano combinazioni nel tempo,
provocano una serie di linee spezzate, ciascuna delle quali può guardare al
percorso come appartenesse a una propria essenza, ed è da questo punto di vista
che nasce il pregiudizio di aver trovato la verità della propria vita. Questo
non significa che in assoluto non si possa scrivere, ma anche la scrittura, con
tutti i problemi che pone, è un problema congiunturale che può essere risolto
in modi molto diversi, ponendosi il problema della verità. Ma in questo caso si
dà luogo a una selezione che deriva da uno stile piuttosto che da un altro e
conduce a una forma di verità che è lo stile veritativo di chi scrive. In breve
si possono sempre scrivere autobiografie, ma si deve sapere che esse sono a
loro volta un frammento congiunturale della vita e che può essere costruito con
diverse e ottime intenzioni, ma non può immaginare di essere lo specchio
veritativo di un’esistenza che nel tempo abbia una sua finalità unica e
lineare”.
Gaccione:
Io sono un appassionato lettore di biografie e di epistolari: mi piacciono
soprattutto quelli degli artisti, dei letterati e dei musicisti. E anche quando
so che mentono spudoratamente, perché hanno l’occhio rivolto ai posteri, vi
trovo comunque frammenti utili, tratti psicologici preziosi, notizie
indispensabili. E se sono letterariamente valide, le biografie, ne apprezzo il
fascino dello stile che le riscatta come genere, e non mi preoccupo della
mancata verità o della menzogna aperta. Però il carteggio fra Van Gogh e il
fratello Theo, per esempio, scava in profondità dentro un’esistenza di dolorosa
verità umana, senza infingimenti. La biografia di Bonura Le radici del tempo, per citare un autore nostro contemporaneo, fa
altrettanto. L’autore si racconta con la spensierata ingenuità poetica di un
fanciullo. Quando ciò avviene, noi troviamo in quelle pagine, elementi utili
non solo per conoscere risvolti che servono ad illuminare il percorso di uno
scrittore, le sue manie, le sue idiosincrasie, ma finiscono per irrobustire le
nostre moralità per l’esemplarità in cui quelle vite si sono svolte, per la
tensione che le anima. Personalmente quando ho delle rovinose cadute
depressive, quando dubito che si possano cambiare le cose, rileggo le vite
umanissime ed esemplari di uomini come Carlo Cafiero o Errico Malatesta, e mi
ritempro. Sopporto con maggior forza le mie avversità. Penso, ad esempio, che
ogni pittore che non ha avuto il successo che merita, dovrebbe leggere le vite
degli artisti di Montmartre al Bateau-Lavoir nel primo decennio del Novecento,
o le biografie dei tanti musicisti la cui vita è passata attraverso mille
traversie. Ne trarrebbero insegnamenti salutari e giovamenti.
Papi:
“Le lettere sono molto importanti e possono essere documenti molto rilevanti
per costruire una biografia, tuttavia ogni lettera ha un suo tempo e una
relazione con l’esperienza. È il biografo che ordina, secondo un criterio che
gli pare pertinente, questo tessuto epistolare come documento veritativo di una
vita. Il che è del tutto normale; del resto nessuno crede che una storia della
battaglia di Stalingrado dia tutta la verità di quello che è accaduto, ma solo
un senso o più sensi che erano connessi con la battaglia. Le consolazioni
antidepressive con la lettura di importanti biografie è una tecnica molto
personale, efficace quando è efficace. Dal canto mio spesso penso alla casuale
nullità della mia esperienza proiettata nelle tragiche dimensioni del mondo che
mi invitano ad accettare quelle che sono (o credo di essere) piccole
circostanze del tutto casuali”.
Gaccione:
In una delle tante nostre conversazioni, facendo riferimento a questo libro, tu
hai usato un verbo che mi ha molto colpito, tant’è vero che mi è rimasto in
mente in maniera vivida e non l’ho più dimenticato. Mi ero sempre ripromesso di
chiedertene ragione. Il verbo è scorticato.
La frase completa era più o meno questa: “Scrivere questo libro mi è costato
molto, mi sono scorticato”. È per
quella sorta di pudore personale che ogni biografia che si fa pubblica deve vincere,
superare, o per qualcosa di più intimo, di più privato, di più esistenziale?
Papi:
“Scorticato (che per la verità ha un
suono un po’ eccessivo) vuol dire solo che ho cercato di togliere la corteccia
protettiva al mio albero della vita e vedere i fatti e le persone al di là del
modo in cui le ho metabolizzate nei due modi opposti: con una disattenzione
pragmatica o con una elaborazione mitologica”
Gaccione:
Il tuo libro mi è piaciuto molto per la sobrietà; per il modo austero con cui
tiene a bada l’enfasi dell’io, che in molte biografie tende a debordare.
Pericolo mortale che rischia di inficiare qualsiasi buona intenzione.
Papi:
“Dalla precedente riflessione deriva necessariamente un “io” che accetta le sue
varianti, le sue insufficienze, la sua povertà e il senso che ebbero le sue
azioni. Un io senza sintesi e senza divenire mai un personaggio”.
Gaccione:
La prospettiva da te scelta, in questa composizione, mi è parsa molto efficace;
l’indice stesso la chiarisce. Procedere per segmenti, desideri, sensazioni, a
volte per semplici impressioni, per scarti.
Un modo completamente diverso di strutturare una biografia: più da
montaggio filmico che da lineare canonico genere letterario.
Papi:
“Non ho affatto una conoscenza approfondita del genere filmico. Penso tuttavia
che un montaggio con un personaggio che è uguale e del tutto diverso possa
essere un poco sconcertante. Letterariamente mi pare più facile ottenere questo
risultato, basta abbandonare il genere ‘storia
di’”.
Gaccione:
Vorrei chiudere questa nostra conversazione con un episodio che nella biografia
tu racconti nel capitoletto intitolato Vergogna.
È un episodio che io trovo molto toccante e che mi ha particolarmente
emozionato. È quel mancato contatto su un tram
affollato (non so dire quanto volontario o quanto spensierato, ma pur
sempre colpevole), fra te giovane e tuo padre ormai anziano. Non vi dividevano
che pochi passi. Il fatto che tu vi ritorni con la memoria a distanza di tanti
anni e in un’età così matura, credo sia un gesto di risarcimento e che quel
senso di colpa ti abbia accompagnato a lungo. Non ti nascondo che mi ha fatto
frullare nella mente l’idea per un racconto. Mi ha fatto anche pensare alle mie
di distrazioni, per il tempo che ci divora, per aver rimandato certi incontri
come se il tempo concesso alle nostre vite fosse eterno. Mi porto dentro
anch’io molti di questi rimorsi. Ma soprattutto mi ha fatto pensare a certi
atteggiamenti meschini (questi sì, apertamente e deliberatamente colpevoli) di
miei conoscenti, figli di genitori umili. Divenuti studenti universitari o
migliorato lo status sociale -grazie ai tremendi sacrifici dei loro padri
onestissimi ma poveri, spesso analfabeti e dai mestieri umili,- ora si
vergognavano di loro, da piccoli borghesi in cui si erano trasformati. Essere
cresciuto in una famiglia comunista, mi ha almeno preservato da questo ipocrita
“decoro” piccolo-borghese. Io partivo dal principio che la loro povertà fosse
il segno tangibile della loro onestà. Di non aver sottratto nulla a nessuno. Da
giovane ne ebbi la certezza leggendo Balzac: “Dietro ogni grande fortuna c’è il
delitto”. I libri dei filosofi e dei teorici delle rivoluzioni, me ne daranno
in seguito la conferma.
Papi:
“L’episodio che tu ricordi quando un ‘me stesso’ egoista, stupido, privo di
riconoscenza, per il comodo della propria solitudine, evita per pochi passi, di
salutare il padre ormai anziano che si reca al lavoro, ha il giusto titolo di ‘Vergogna’. Più passano gli anni, più è
vivo in me un senso di insufficiente e colpevole disattenzione per quanto mio
padre, con una silenziosa donazione, ha contribuito alla mia ‘crescita’. La sua
vita piena di onestà morale (da socialista sfuggì tutti i lavori anche più
qualificati che richiedevano la tessera fascista) e di dedizione al benessere
familiare, e, principalmente al mio, mi appare oggi un esempio di rettitudine e
di donazione dell’esistenza. Che ho compreso (tardi) quando l’io ‘romantico’
concentrato su di sé, perdeva le sue proporzioni enfatiche e si comprendeva
sostanzialmente nel dovere come professore e nel lavorare come filosofo,
cercando di fare l’una cosa e l’altra al mio meglio, forse in questo
comportamento, c’era un po’ il ricordo del padre. Tuttavia troppo tardi per
riconoscergli il merito che del resto non avrebbe voluto riconoscere, tanto
generosa e schiva era la sua attitudine alla vita. Per questo, comunque siano
andate le cose, devo ritenere quell’episodio una vergogna”.
CONVERSAZIONE COL FILOSOFO FULVIO PAPI
In
occasione della pubblicazione del nuovo libro del filosofo Fulvio Papi “Dalla parte di Marx. Per una genealogia dell’epoca contemporanea”
(Mimesis Edizioni, pagg. 270, € 22,00), gli abbiamo rivolto alcune domande.
Angelo Gaccione e Fulvio Papi |
Gaccione:
Una rilettura del lavoro di Marx ad una
età più che matura, dopo anni di riflessioni e di opere che hanno segnato varie
stagioni della tua interpretazione. Una frequentazione con l’opera del filosofo
tedesco, la tua, che non si è mai interrotta. Qual è la domanda teorica che ti
sei posto nell’affrontare questo nuovo “attraversamento”?
Papi:
Il libro nasce dalla congiuntura attuale della globalizzazione capitalistica
con tutti i problemi che ne sono derivati nel nostro mondo. La domanda teorica
era questa: qual è la relazione tra l’analisi di Marx del capitale come si
presentava un poco oltre la metà dell’Ottocento e la situazione attuale perché
lo conosciamo come espansione del capitale finanziario, distruzione ecologica,
scelte tecnologiche, forme sociali del lavoro, forme comunicative,
immaginazione sociale. La risposta che ne derivava era questa: in tutte le
metamorfosi storiche del capitale si ripetevano categorie marxiane come
capitale, merce, denaro, salario, profitto. Il grande lavoro di Marx era la
genealogia della forma di riproduzione sociale contemporanea.
Gaccione:
Come hai proceduto nel
tuo lavoro e che metodo hai seguito? Nel tuo studio ho visto accumularsi
quadernoni zeppi di appunti, tutti rigorosamente manoscritti…
Papi:
Questa ricerca riguardava anche la mia lunga consuetudine con l’opera marxiana.
Ho attraversato lo storicismo marxiano, la versione antropologica di tradizione
sartriana, la versione epistemologica e strutturalista di Althusser e della sua
scuola. Qualche hanno fa ho ricominciato tutto da capo. Ho accumulato centinaia
e centinaia di pagine di note, riassunti, appunti, prove, interpretazioni. Poi
ho buttato via tutto e ho seguito un percorso filosofico che si era formato
durante questo lavoro.
Gaccione:
Come è proceduta questa tua
interrogazione del filosofo di Treviri?
Papi:
Ho considerato tutto il cosiddetto periodo giovanile di Marx che (sbagliando
del tutto) è stato la base del “marxismo occidentale”, come un processo di
autoeducazione teorica che conduceva un originale pensatore tedesco, e quindi
neohegeliano, a uno studioso della riproduzione economica contemporanea nel
luogo, in Inghilterra, dove aveva avuto luogo la riproduzione industriale
capitalistica del mondo moderno.
La copertina del libro di Papi |
Gaccione:
Un’autoeducazione teoretica che
presupponeva tuttavia un modello.
Papi:
L’analisi minuta dei testi marxiani mostrava che più o meno consapevole, il
modello teorico dominante era quello della “Logica” hegeliana non disgiunta
dalla permanenza in ogni esperienza teoretica di una dimensione umanistica. Nel
“sistema”, in particolare nel III libro, ho mostrato alcune situazioni
aporetiche marxiane che qui non conta esporre.
Gaccione:
Cosa puoi ribattere a quanti -da più
parti in verità- hanno in questi anni decretato una sorta di fine, o
superamento, del modello marxista, segnatamente al concetto di prassi e di
attualità?
Papi:
Nella mia ricerca ho abbandonato qualsiasi considerazione dell’opera di Marx
nella dimensione teoria-attualità-prassi. Modello intellettuale molto povero
che è stato tipico del marxismo accademico italiano e che, invece, ha avuto in
Italia la sua tragica gloria nell’opera e nella figura di Gramsci, qualsiasi
giudizio si voglia dare sull’insieme della sua storia politica. Questo modo
dogmatico di considerare l’opera di Marx ha condotto a due risultati opposti e
speculari: a) l’aver considerato compiuto il lavoro di Marx senza tenere conto
del suo processo di educazione teoretica e della sua relazione con la storicità
del capitalismo; b) proprio l’aver visto Marx in questa prospettiva, ha
condotto all’affermazione perentoria del “superamento” di Marx senza una
conoscenza della sua opera e senza nemmeno conoscere il significato della
parola “superamento” che è hegeliana ma significa tutt’altro che oblio.
Gaccione:
Il sottotitolo del tuo libro:
Per una genealogia dell’epoca contemporanea, pare voglia rimarcare come il pensiero marxiano sia in stretta
correlazione con una realtà effettuale che pur nella sua costante mutazione, vi
rimane continuamente in rapporto. È così?
Papi:
A quale conclusione sono arrivato attraverso questa interpretazione di Marx
come genealogia della contemporaneità? Le grandi categorie marxiane, anche
fuori dal “sistema” teoretico del “Capitale”
-come merce, denaro, salario, profitto- sono alla base della “enciclopedia
critica” dell’epoca attuale che riguarda il capitale finanziario, la
distruzione ecologica, le scelte tecnologiche, le forme comunicative,
l’immaginazione sociale. È in questa ricchezza analitica e culturale che si
legge l’attualità di Marx non in una ripetizione del suo testo, così come
rimane attuale il suo “umanesimo” europeo che oggi è la condizione per la
possibilità di una vita non disastrosa sulla terra.
MONTALEMBERT – PENSATORE
EUROPEO
Michela Beatrice Ferri conversa con
Mario Tesini sul pensatore Charles de
Montalembert
Ferri: Montalembert,
un cattolico liberale europeo: dove risiede l'originalità di questo pensatore,
vissuto nel pieno di un'epoca di profonde trasformazioni?
Tesini: Montalembert è realmente una personalità
che sta a sé. Consideriamo il suo anno di nascita: 1810. Appartiene alla
generazione che dopo i traumi della Grande Rivoluzione e dell'età napoleonica
si forma nel clima intellettuale e politico della Restaurazione. In Francia (e
in un certo senso anche in Europa, perché Parigi è davvero la capitale del XIX secolo)
è un'epoca di notevoli aperture intellettuali. Si definiscono le grandi linee
del pensiero liberale, si sperimentano per la prima volta in modo regolare
istituzioni rappresentative legate, attraverso la stampa, a un'opinione pubblica
in via di espansione. Ma è anche un tempo di profonde contraddizioni. C'è chi
rimpiange l'Ancien Régime, chi auspica il ritorno ad un alleanza tra il
Trono e l'Altare. Fino a determinare nuove e drammatiche cesure: il 1830, con
l'avvento della monarchia costituzionale e "borghese" di Luigi Filippo;
il 1848 con l'insorgere proprio a partire dalle barricate di Parigi di una questione
sociale ed 'operaia' destinata a segnare il volto dell'Europa nei successivi decenni.
Per arrivare a un ulteriore momento di crisi: il colpo di Stato del 2 dicembre
1851 di Luigi Napoleone Bonaparte, con la costituzione di un nuovo regime
autoritario, il Secondo Impero, destinato a durare per circa un ventennio. La
vita di Charles de Montalembert attraversa tutto questo. Giovanissimo è già un
protagonista della vita pubblica in Francia. Ad appena vent'anni, divenuto per eredità
membro della Camera dei Pari (appartiene ad una delle grandi famiglie
aristocratiche di Francia) subisce un pubblico processo, di grande risonanza,
per avere contribuito alla fondazione di una Ecole libre: atto
dimostrativo contro il monopolio scolastico statale di derivazione napoleonica.
Sono gli anni in cui il giornale l'Avenir fondato dall'abate Lamennais,
i cui scritti conoscono uno straordinario successo, diffonde il programma del
cattolicesimo liberale. In esso si afferma la solidarietà di tutte le libertà:
di coscienza, di stampa, di associazione ed anche, appunto, nell'ambito delle
attività educative. E al tempo stesso, sulle pagine de l'Avenir e
proprio attraverso la penna del giovanissimo Montalembert, si dichiara il
sostegno alle grandi cause nazionali, i diritti di libertà dei popoli oppressi:
la Polonia, il Belgio, l'Irlanda... È un fatto nuovo, intellettualmente e
politicamente rivoluzionario. Metternich, preoccupato del contagio che simili
dottrine possono esercitare tra le popolazioni europee, arriverà a negare a
Montalembert il passaporto per viaggiare negli stati asburgici; l'ambasciatore dello
Zar a Roma arriverà a chiedere al papa, Gregorio XVI, di censurare
pubblicamente quel gruppo di teste calde che in nome del cattolicesimo e della
libertà rischiano di appiccare il
fuoco della rivoluzione a tutta l' Europa.
Il papa... Un
clamoroso tentativo verrà fatto di conquistare Roma alla causa liberale e dei popoli
oppressi: assieme a Lamennais e a un giovane prete di grande carisma, Lacordaire,
il poco più che ventenne Montalembert compirà un viaggio a Roma rimasto celebre
come quello dei trois pèlerins de Dieu et de la liberté. Ricevuti con
freddezza dal papa, durante il viaggio di ritorno saranno raggiunti da un'
enciclica di sostanziale sconfessione di tutto il programma del cattolicesimo
liberale: la Mirari vos. Lamennais abbandonerà la Chiesa, Montalembert
compirà l'atto di sottomissione ma manterrà le sue idee di libertà. Per
rispondere alla sua domanda: qui, mi sembra, sta l'originalità di Montalembert.
Nessuno più di lui, nel suo secolo, ha testimoniato una così viva passione per
la Chiesa (catholique avant tout, amava definirsi) e una altrettanto
forte passione per le idee di libertà come irrinunciabile conquista, a livello
del pensiero così come delle istituzioni politiche, dell'epoca moderna.
Aggiungerei anche: con una grande personale adesione a tutti gli aspetti della
vita: le arti figurative, la letteratura, la musica, le relazioni sociali, familiari,
affettive, amicali... Insomma, per usare l'espressione dello Zarathustra di
Nietzsche, Montalembert fu davvero un cristiano "fedele alla terra".
Il che nel suo tempo (non soltanto nel suo, del resto...) era tutt'altro che
scontato.
Ferri: Quale
è la sua opera più importante?
Tesini: Va detto innanzitutto che non esiste
una 'grande opera' di Montalembert. Questo, se si vuole, è un suo limite,
qualcosa che rende a noi difficile accostarci a lui e al suo pensiero. Non ha
scritto una Democrazia in America come Tocqueville, o condensato in
poche pagine brillanti la sua visione della storia e dei rapporti sociali come
fa Marx nel Manifesto, per citare due tra i suoi grandi contemporanei.
Montalembert divenne celebre in Europa (oltre ai già citati Tocqueville e Marx,
Cavour, Victor Hugo, Gladstone e infiniti altri avevano ben presente il suo
nome) attraverso un genere letterario, importantissimo per tutto l'Ottocento ma
oggi decisamente desueto: l'oratoria parlamentare. Qui Montalembert, sia alla
Camera dei Pari negli anni della monarchia orleanista sia sotto la seconda
Repubblica nelle Assemblee Costituente e Legislativa, si rivela un autentico
maestro. Ma si tratta di testi che, anche nella loro eloquenza e non di rado
originalità di pensiero, non sono di percezione immediata. Al lettore di oggi
richiedono uno sforzo di contestualizzazione storica e
ambientale non sempre facile. E poi c'è il problema della mediazione
linguistica. Concepiti per essere pronunciati nel vivo della battaglia
parlamentare, in traduzione perdono molto della loro efficacia. Altri scritti
sono legati ad occasioni particolari e anch'essi vanno rapportati al contesto
storico: come ad esempio Des intérêts catholiques au XIXe siècle,
il libro con cui nel 1852 Montalembert revoca l'iniziale adesione all'impero bonapartista
e si sforza di riportare i cattolici francesi nell'alveo di una tradizione
costituzionale e liberale. Ma anche qui non voglio eludere la sua demanda: se
dovessi indicare un'"opera principale" di Montalembert, in grado di
'parlare' con una certa immediatezza al lettore dei giorni nostri, indicherei i
due discorsi pronunciati a Malines sul tema della libertà religiosa e della
libertà politica, pubblicati con il celebre titolo L'Église libre dans
l'État libre. Si rimane impressionati a considerare l'anno in cui questi
discorsi furono pronunciati nella città belga davanti ad una platea entusiasta
di oltre tremila cattolici di diversi paesi lì convenuti per un congresso
europeo: il 1863! Non soltanto l'anno che precede quello della pubblicazione del
Sillabo (che fu probabilmente una 'risposta' a Montalembert come la Mirari
vos era stata, oltre trent'anni prima, una risposta a l'Avenir) ma
anche -ironia o suggestione della storia-esattamente un secolo prima
dell'inaugurazione, 1963, del Concilio che avrebbe certamente, ma con quanto
ritardo, realizzato i generosi e lucidi auspici del vecchio combattente della
causa cattolica. E possiamo anche considerare come un fatto simbolico che tra i
maggiori protagonisti di quell'evento vi fosse proprio un arcivescovo di
Malines - Bruxelles: il cardinal Suenens.
Ferri: Un
pensatore francese che guarda all'Italia e all'Inghilterra. Come vengono
recepiti da Montalembert i punti deboli della storia e della politica di questi
due Paesi? E ai suoi occhi quale ruolo assume la Francia -sua patria- di fronte
ad essi?
Tesini: L'Inghilterra era per Montalembert
come una seconda patria. Era del resto nato a Londra, aveva cominciato
a pensare in lingua inglese ancor prima che in francese e il suo primo precettore
e maestro (si vorrebbe quasi dire amico, nonostante la differenza dell'età) era
stata una singolare figura di nonno materno, di grandi passioni intellettuali ed
esperienze di vita, in cui si rifletteva la ricca eredità di una tradizione culturale
anglo-scozzese che in termini politici significava costituzionalismo,
tolleranza religiosa, un alto senso delle tradizioni parlamentari e della
tutela dei diritti. Sono aspetti della prima formazione intellettuale che non
abbandoneranno mai Montalembert il cui liberalismo, come del resto quello di
tanti suoi contemporanei, come Guizot e lo stesso Tocqueville, avrà sempre un'accentuata
intonazione anglofila. Nel solco del resto di una tradizione i pensiero francese
che risaliva a Montesquieu. Tutto il pensiero politico del XIX secolo è animato
da uno spirito comparatistico tra Francia e Inghilterra, tra tradizione
britannica e quella che potrebbe definirsi la tradizione continentale.
Montalembert non fa in questo eccezione. Ammira l'Inghilterra per le sue tradizioni
di self-government contrapposte al centralismo francese di derivazione napoleonica,
ed anche per gli effetti che la libertà produce sulla vita economica. È ben lungi
dal rifiutare, o addirittura demonizzare l'industria e i progressi tecnici
legati alla produzione. E tuttavia riconosce, pur con qualche iniziale esitazione,
i mali profondi del pauperismo, le nuove ingiustizie e diseguaglianze alle
quali una logica esclusivamente liberale della politica non riesce a offrire
adeguati rimedi. Montalembert è un cattolico-liberale cui, soprattutto dopo la
crisi del 1848 (nel corso della quale assume posizioni rigorosamente e, occorre
dirlo, anche duramente conservatrici) non sono estranee le ragioni e le
esperienze del cattolicesimo sociale.
Ferri: La
professoressa Manuela Ceretta dedica il suo capitolo alla
"metamorfosi" del mito irlandese in Montalembert. Che cosa significa
parlare di "metamorfosi" in questo caso?
Tesini: Montalembert era uomo di passioni e
l'Irlanda è stata una delle sue grandi passioni. Fin dal suo viaggio giovanile,
raccontato in avvincenti pagine di diario ove, nello spirito romantico
dell'epoca, si sovrappongono sentimenti e descrizioni di paesaggi, l’"isola
verde" è stata sempre al centro dei suoi pensieri. Da un certo punto di
vista, con i suoi semplici costumi e con la sua vigorosa fede religiosa,
l'Irlanda costituiva per lui un modello per la nazione francese e per l'intera
Europa. Lo attraevano i costumi di un clero cattolico abituato a condividere
problemi e difficoltà di una popolazione oppressa, sostanzialmente colonizzata
da una classe di dominatori inglesi e protestanti. Ammirava lo spirito di resistenza
e le aspirazioni di riscatto sociale degli irlandesi guidati da preti che
agivano in spirito di assoluta indipendenza rispetto alle istituzioni statali.
Ma attenzione: il riconoscimento dei torti storici degli inglesi in Irlanda non
incrinava la sua sostanziale anglofilia. Era merito degli inglesi avere
introdotto in Irlanda quella dinamica costituzionale e parlamentare di cui gli
irlandesi avrebbero sempre più saputo avvalersi. Come dimostrava il caso di
O'Connell che una volta eletto alla Camera dei comuni, avrebbe con gli
strumenti istituzionali di Westminster -la parola, il dibattito, il voto-
saputo conquistare l'emancipazione, premessa di ulteriori progressi. La
successiva parabola storica dell'Irlanda, con il suo considerevole successo
economico degli ultimi decenni (alla fine del XX secolo è divenuta addirittura
terra di immigrazione!) sembra proprio aver dato ragione alla prospettiva
sociale, ma al tempo stesso liberale, di Montalembert.
Ferri: Che
cosa dice degli Stati Uniti dell'Ottocento il cattolico Montalembert?
Tesini: Gli ambienti cattolico-liberali
mostrarono una grande attenzione al tema della schiavitù. Uno dei migliori
amici di Montalembert, Augustin Cochin aveva scritto un documentatissimo
trattato in due volumi sull'Abolition de l'esclavage. E al termine della
guerra di secessione Montalembert pubblica prima sulla sua rivista, il Correspondant,
poi in volume un saggio dal titolo La victoire du Nord (il sostegno alla
causa dell'Unione era tutt'altro che scontato nell'opinione pubblica francese,
anche liberale). Ma gli Stati Uniti interessavano Montalembert anche in una
prospettiva più ampia. La grande opera di Tocqueville, come riflessione
d'insieme sul fenomeno democratico, diviene negli ultimi anni per lui occasione
di riferimento costante. E al manifestarsi della malattia che dopo anni di sofferenze
l'avrebbe condotto alla morte (malattia che avrebbe sopportato con una laboriosità
intellettuale davvero eroica) era in procinto di imbarcarsi per l'America.
Ferri:
Infine, per concludere questo "tour" geografico virtuale nel suo
pensiero: la Mitteleuropa. Che cosa rappresenta per lui il cuore del continente?
Tesini: In riferimento a Montalembert, per
tutta la vita instancabile e appassionato viaggiatore, quella di tour
geografico-intellettuale è in effetti un'espressione pertinente. Aveva una visione
dell'Europa fondata su una comune eredità storica e spirituale. Soprattutto era
interessato all'esperienza del monachesimo occidentale al quale avrebbe
dedicato un'opera colossale, Les Moines d'Occident. L'interesse per le
nazioni dell'Europa centrale legava il tema delle origini comuni alle
rivendicazioni per l'identità e l'indipendenza di quelle realtà nazionali. La
difesa dei diritti della Polonia -la 'nazione martire'- fu un'altra delle
passioni intellettuali e politiche della sua vita. Così come si sentiva legato
ai ceti dirigenti di estrazione aristocratico-liberale in Ungheria. Era un uomo
e un pensatore europeo che si sentiva a casa propria a Londra come a Monaco, a
Parigi ed a Roma, a Budapest e a Bruxelles. In questo era favorito da una
straordinaria conoscenza linguistica. Il francese, l'inglese ed anche il
tedesco erano per lui altrettante lingue-madri. Leggeva Dante
nell'originale (e lo citava senza errori) e in italiano conversava con i papi
che ebbe occasione di incontrare. Il polacco lo aveva studiato per tradurre
l'opera poetica di Mickiewizc. Amava l'Italia e la percorse più volte visitando
i tanti capolavori artistici. A Milano rese visita a Manzoni che aveva in
particolare apprezzato la vita di Santa Elisabetta di Ungheria, regina e terziaria
francescana: il primo libro scritto da Montalembert e all'epoca quasi un
best-seller. A Torino, che gli era peraltro parsa "ville d'une tristesse
mortelle" aveva avuto la gioia di ricevere in una modesta locanda (à ma
vilaine auberge) la visita inattesa di Silvio Pellico, l'eroe dello
Spielberg che aveva entusiasmato la sua giovinezzaromantica. Amava l'Italia ma
non comprese tutte le implicazioni della causa nazionale italiana, si oppose
con asprezza alla politica di Cavour e con decisione avrebbe fino all'ultimo avversato
l'esito storico del Risorgimento. Tra il 1848 e il 1849 era stato tra i
principali promotori della expédition de Rome che avrebbe posto termine
all'esperienza della Repubblica romana. Ci fu forse da parte sua un'eccessiva
difesa della sovranità temporale. Ma non va sottovalutato il trauma per la coscienza
non soltanto cattolica causato dagli eventi di Roma del novembre 1848: Pellegrino
Rossi (che era stato collega di Montalembert alla Chambre des Paris)
pugnalato davanti al palazzo della Cancelleria; Pio IX costretto a fuggire dopo
che la folla in tumulto era arrivata ad uccidere uno dei suoi segretari,
incautamente affacciatosi a una finestra del Quirinale... Il giudizio di
Montalembert sul processo storico attuatosi a partire dalla Rivoluzione è complesso. Da un
lato riconosce il valore delle libertà da essa scaturite e la rivista da lui rifondata,
il Correspondant, avrebbe rivendicato la matrice cristiana dei princìpi
di libertà e di eguaglianza. Al tempo stesso ravvisava il germe che si sarebbe
poi definito totalitario che quegli eventi contenevano. L'autore politico che
probabilmente egli amava di più era Edmund Burke, il primo grande critico della
Rivoluzione francese. Montalembert ebbe dunque una vita di straordinaria
intensità. I suoi scritti apparsi sulla prestigiosa Revue des deux-mondes su
quella che oggi chiameremmo la "difesa del patrimonio" avrebbero
contribuito a sensibilizzare l'opinione pubblica per il restauro di tanti monumenti
dell'arte gotica, a partire dalla cattedrale di Notre-Dame, allora in stato didecadenza
e di rovina (è una campagna che avrebbe condotto in sintonia con Victor Hugo,
prima della clamorosa rottura politica). Mi ha chiesto poc'anzi quale potrebbeessere
considerata 'l'opera principale' di Montalembert. Certo, tra gli scritti
pubblicatidurante la sua vita e dal punto di vista del l'influenza sulle successive
vicende della cultura politica e religiosa fino al Concilio Vaticano II, i due
discorsi di Malines hanno un'importanza cruciale. Ma c'è un'opera, di assoluta
originalità, che sotto altri profili, può essere considerata il 'capolavoro'
letterario di Montalembert: si tratta del Journal intime, un diario
pressoché quotidiano che copre oltre cinquant'anni, dal giorno della prima comunione
all'immediata vigilia della morte. Sono migliaia di pagine raccolte in otto
volumi l'ultimo dei quali apparso pochi anni fa che da un lato rappresentano
l'affresco di un'epoca, e dall'altro -unitamente
alle numerose lettere, solo in parte edite, che Montalembert scrisse a interlocutori
illustri o sconosciuti- un' intera vita vista al microscopio. Che interagisce
con tutti gli eventi del XIX secolo: dalle prime rappresentazioni delle
sinfonie di Beethoven a Parigi alle rivoluzioni che avrebbero portato al potere
Luigi Filippo d'Orléans, i repubblicani del '48, infine Napoleone III. Con
sullo sfondo, basso continuo della vita tumultuosa di Montalembert, la
battaglia per il rinnovamento della Chiesa e la sua conciliazione con la
società moderna e i suoi ideali di libertà. Nei suoi appunti quotidiani Montalembert
parla di sé e del mondo in cui vive, con sobrietà e con passione, senza autocompiacimenti
ė senza fronzoli letterari. Davvero, un documento unico. Il volume si chiude
con alcune belle pagine dell'abbé Jean de Montalembert, non solo discendente ma
in un certo senso anche custode ed interprete di quella tradizione intellettuale
e familiare (viene in mente l'ethos aristocratico che, come aveva auspicato Tocqueville,
assume ai nostri giorni forme e caratteri diversi). L'abbé de Montalembert è uomo
di cultura e autore di diversi libri e ha vissuto a lungo in Argentina, come
cappellano della comunità francofona. Immagino che debba avere avuto una qualche
frequentazione con l'arcivescovo di Buenos Aires. A chi sul piano storico ha
rilevato l'immensa importanza del ruolo di Charles de Montalembert in uno dei
più critici momenti della storia della Chiesa e del mondo, può anche venire
l'idea che, in un prossimo concistoro, una nomina cardinalizia nel
nome di Montalembert sarebbe non priva di significato simbolico. In verità, se
c'è una cosa che la lontana vicenda del 1832 insegna è che dare consigli a un
papa è l'ultima cosa che sia prudente fare (anche se, a dire il vero, con papa
Francesco varie cose sembrano meno impossibili rispetto al passato...). Mi
limito dunque a una considerazione, esclusivamente di carattere storico: la
conciliazione del cristianesimo e dell'idea di libertà, in tutte -nessuna
esclusa- le sue molteplici implicazioni intellettuali e morali è da tutti
considerata oggi un grande valore per il mondo contemporaneo. Essa ha avuto in
Montalembert un coraggioso testimone e un interprete in grande anticipo sui tempi.
In momenti difficili, quasi da solo ha indicato la strada giusta, che poi è
stata quella effettivamente intrapresa. Ha ricevuto da parte dell'istituzione
da lui per tutta la vita appassionatamente difesa, un riconoscimento adeguato?
SUL LAVORO, LA COMPLESSITÀ
E LA DECISIONE
POLITICA
di Fulvio Papi
Fulvio Papi parla con Gaccione (a sinistra di striscio) a destra il poeta F. Esposito, sul tavolo "Odissea". Stresa, luglio 2011 |
Non c’è giorno che, a livello della
comunicazione sociale, non si senta dire giustamente che il problema centrale
del paese, per quello che potrebbe essere il suo equilibrio sociale, è quello
del lavoro. Non è certamente una nozione nuova quella che ci ricorda come in un
ambiente storico dominato dallo scambio economico, esista una larghissima
quantità di persone che possono scambiare solo la possibilità di una propria
qualità di lavoro. Se non esiste questo scambio, appare all'orizzonte nelle
forme sociali che ha assunto nel tempo, la famosa “legge dei poveri” tanto
avversata in Inghilterra nella rivoluzione industriale poiché rischiava di
sottrarre forza-lavoro al processo di espansione capitalistica. Il principio di
“compassione” per chi si trovava ai margini della vita, era stato resuscitato
dalla tradizione morale inglese, dal più rigoroso neoliberismo che così
risolveva il problema di ordine sociale. Tanto si dovesse agli emarginati, nel
mentre il mercato avrebbe funzionato bene con chi vi aveva un ruolo adeguatamente
adeguato. Questa prospettiva fa parte dell'individualismo di tradizione
anglosassone, nota proprio a livello della rivendicazione della autonomia
economica rispetto ai poteri dello Stato centrale e assolutistico. Già nel
Settecento l'Inghilterra a livello dei poteri politici ed economici trovò un
equilibrio accettabile dalle due parti che poi socialmente furono la proprietà
fondiaria e il capitalismo industriale.
In primo piano Fulvio Papi. Stresa, luglio 2011 |
La nostra
tradizione (così poco amata dai “fondamentalisti” americani) è tutt'altra. Noi
parliamo non solo della necessità del lavoro ma del diritto al lavoro come
elemento che, nel nostro mondo, fonda la dignità della persona. Questo spiega
perché nel nostro paese la mancanza di lavoro venga non solo considerata,
almeno dalle persone civili, come la caduta nelle condizioni di povertà, ma
come un rischio serio per quanto riguarda la comunità nazionale. Anche se, a
questo proposito, il discorso dovrebbe essere più complesso. In ogni caso
quella considerazione, genericamente etica, viene ripetuta in tutte le sedi
della comunicazione sociale, da quelle più autorevoli alla chiacchiera
mediatica così che essa finisce col produrre una retorica simile a quella che
necessariamente commenta in modo pietoso i disastri di un terremoto o di
qualche altro disastro naturale. Questo stile provoca un'abitudine e un effetto
deplorevole, quello di un abbassamento della conoscenza. Il “perché” -e poi
sono numerosi i perché- vi sia in Italia (come in altri paesi, se pure con
morfologie differenti) una disoccupazione così rilevante non è per lo più un
problema di obiettiva analisi storica, ma l'occasione per suggerire rimedi
superficiali e generici che servono, per lo più, solo a tenere in vita gli
attori di queste enunciazioni. Non voglio dire affatto che manchino le persone
molto più informate e più attrezzate culturalmente di quanto non sia io su
questi problemi capaci di dare sia la genealogia che le ragioni attuali di
questo dissesto. Sostengo soltanto che queste prospettive non appartengono al
sapere che viene diffuso da quelle forze sociali che hanno il potere di far
diventare queste analisi, nella loro essenza, come opinione diffusa.
L'atteggiamento assunto a questo riguardo, sia per convenienza demagogica o per
penuria di elementi analitici, finisce col complicare la situazione. Spesso non
si misura quanto possa esservi nella diffusione di luoghi comuni o di
semplificazioni immaginarie, di diseducativo dal punto di vista sociale. Poiché
“cittadino” non si è né per nascita, né per diritto divino, e nemmeno attraverso
una congelata garanzia giuridica, ma tramite una consapevolezza aiutata a
svilupparsi nei modi in cui possa esservi un'attenzione particolare per una
conoscenza che diventi un luogo comune condiviso. E su questi temi andrebbe
discussa la questione della libertà di informazione che non nasce storicamente
secondo il criterio del “dico quello che voglio” o della merce che si vende di
più.
Fulvio Papi al centro della foto con in mano "Odissea". A sinistra Gaccione, a destra F. Esposito. Stresa, luglio 2011 |
Se si
circoscrive il problema del lavoro si dice comunemente che esso può essere
risolto a livello di un incremento degli investimenti, della semplificazione
dell’amministrazione pubblica malata di elefantiasi, di intelligenza solo
giuridica, di mancanza di iniziativa propositiva. Si aggiunge l’esigenza di una
riforma del lavoro e di in abbassamento della tassazione alle imprese e a
soggetti sociali differenti. Sono tutte comunicazioni in astratto vere e in
concreto utili a qualche soggetto sociale. Ma per lo più non vengono pensate
nell’insieme di relazioni che occorre prevedere nel caso di una loro
realizzazione. Credo anch’io che vi siano sprechi di danaro pubblico sia
nell’insieme della rete politica centrale e locale, ma, al di là di queste
modifiche, come si può formare il bilancio dello stato diminuendo la spesa
pubblica? Che cosa in concreto della spesa pubblica si può tagliare, se non si
vuole arrivare a quelle privatizzazioni che consentono una scuola e una salute
garantita solo a chi possiede risorse private? In questo caso sarebbe bene dire
che il potere economico privato è un bene che annulla i famosi “diritti di
cittadinanza”. Ma in questo modo nemmeno i più spregevoli barbari riescono a
organizzare il discorso e così circolano stupidaggini e ingannevoli banalità.
Piuttosto perché non cerchiamo di capire come
si è costituito uno spazio pubblico troppo caro per la sua scarsa efficienza?
Perché non guardiamo allo specchio la vita positiva delle iniziative pubbliche
e il loro senso nel processo storico della nostra democrazia?
Qualche riflessione: i finanziamenti. Sono ovviamente
necessari ma vanno compresi bene nella loro possibilità (da dove e come possono
venire i denari?) e in un loro scopo efficace. Non basta ripetere l’equazione
puerile: finanziamenti uguale sviluppo quindi occupazione. Questa equazione
senza un senso storicamente e socialmente determinato diviene una chiacchiera
ideologica che ha consentito un uso delle risorse non solo sbagliato, ma spesso
vergognoso, irresponsabile e idiota (che etimologicamente vuol dire privato). I
segni sono in un territorio pieno di opere inutili, incompiute, inutilizzate,
segno di finanziamenti sbagliati gestiti da cricche locali e consentite da una
cultura civile inesistente. Da noi una politica economica keynesiana (che,
contrariamente a quello che pensava Keynes, ha un suo spazio astratto) ha
condotto a risultati del genere, quanto non ha sbagliato completamente
obiettivi in piena buona fede come, per esempio, è accaduto nel caso di
Taranto. Bisogna leggerla questa storia perché ci pesa addosso come la
condizione materiale ineliminabile del significato dei discorsi dell’oggi:
sarebbe bello che questo non avvenisse se gli enunciati di giovani signore
invece che di antichi navigatori dello spazio politico, annullassero questa
dipendenza. Anche se capisco che, a livello della comunicazione sociale, si
parli solo dei sintomi attuali di una storia, e mai della storia stessa. Quanti
sanno rispondere alla domanda: chi ha scritto il libro sulla storia come
pensiero e azione? So che l’emozione è di moda e il pensiero sembra un abito
usato, ma l’azione politica richiede un “panorama simbolico” della situazione.
Non lo dico io (che non conta proprio nihil)
ma, se ci pensate, “la cosa stessa”. Altrimenti, mi spiace per i giovani illusi
della democrazia informatica, ma sono solo chiacchiere pericolose che nel mondo
circostante si diffondono con urla da circo o con sorrisi triviali.
Fulvio Papi ultimo a destra. Biblioteca Sormani, decennale di "Odissea" Milano, 27 settembre 2013 (foto di Fabiano Braccini) |
I finanziamenti: tutti sanno che di un finanziamento (a
parte il caso di imprese che hanno già un buon funzionamento) è un investimento
di capitale che a priori calcola la sua efficacia in quanto anticipazione dei
costi di produzione, attraverso la velocità di rotazione in quanto prodotto per
un mercato, attraverso la concorrenza, ecc.: tutti calcoli necessari per
ipotizzare un profitto. L’investimento non prescinde mai da questi calcoli. E
senza fare l’elenco di diseconomie storiche, credo si possa dire che da noi un
rapporto che consenta la massimizzazione dell’effetto economico secondo una
linearità tra capitale investito, tecnologie, rapporti con il credito, ambiente
sociale, forme sociali del lavoro, prodotto, mercato, non è certo dei migliori.
Direi che, salvo eccezioni, è una situazione molto complessa che probabilmente
occorre correggere in alcune fondamentali cause materiali. Non si può solo dire
o sottintendere che occorre rivedere gli oneri riflessi sul costo del lavoro.
Poiché, al contrario, si potrebbe citare il caso di imprese che sono diventate
cooperative tra lavoratori che, con un salario calcolato in modo solidale e
adeguato, restano bene nel loro mercato. Certo c’è caso e caso. Ma poi quando
si parla genericamente di finanziamenti bisognerebbe dire anche per produrre
cosa, come, a quali condizioni, per quale mercato. Di solito l’analisi di
questi fondamentali elementi di conoscenza per una qualsiasi impresa economica
vengono risolti nel linguaggio pubblico con la parola “competitività”, come se
le altre necessarie conoscenze fossero note, cosa che invece non pare vera. La
parola in questo caso diventa retorica. Ovviamente non chi investe che questi
conti li sa fare benissimo, ma per chi dovrebbe favorire l’investimento a
favore del lavoro e contro la disoccupazione, queste conoscenze sono
necessarie, almeno quanto le affermazioni generali che indicano una via di
principio, dal punto di vista etico, pienamente comprensibile. So bene che il
rapporto indicato nella Costituzione tra libertà di iniziativa, utilità sociale
e dignità del lavoro è, per parlare filosoficamente, un’idea trascendentale che
come tale non ha mai potuto evitare contrasti e collisioni che in concreto
hanno caratterizzato la storia del lavoro. Inoltre non è un sapere segreto che
la mondializzazione economica e finanziaria ha favorito molto di più di quanto
non fosse nel passato l’autonomia della sfera economica rispetto a quella
politica. I fatti poi hanno dimostrato che quest’ultima si è adattata alla
nuova situazione con i risultati notissimi che nelle aree più povere vi è stato
un miglioramento e, al contrario, un peggioramento nei ceti intermedi delle
aree più ricche.
Papi e Gaccione, Milano 6 gennaio 2014 nello studio del filosofo (foto di D. Pericolosi) |
Allo stato delle cose, poiché è fallita la
provvidenzialità sociale del mercato, come era ovvio, non c’è nessuno che con
un colpo di genio o di forza possa dominare questo stato di cose che se viene
proiettato in una dimensione futura, secondo un rapporto tra demografia,
produzione, stato del territorio, non può che apparire ancora più difficile.
Per quanto riguarda il nostro paese chi usa lo slogan “rifare l’Italia” è
costretto a sapere che non picchierà la testa solo contro abitudini, privilegi,
rappresentazioni lobbistiche presenti nelle istituzioni politiche, ma, più in
generale, contro la resistenza del modo in cui è stata costruita una storia
che, di contingenza in contingenza, ha raggiunto l’inerzia di una necessità. La
quale comprende il modo in cui si è strutturata la comunicazione che è la
formazione del senso comune. Esso non è in grado di separare gli elementi
realistici dalla finzione, luogo equivoco dove prosperano personaggi pubblici,
più o meno ripugnanti. E allora? In questo discorso il lettore deve
accontentarsi dell’immaginazione intellettuale di un filosofo. Ma a rigore, su
questi temi dovrebbero cimentarsi i politici, fedeli alla etimologia del
termine e quindi studiosi delle cose come sono e dei valori sociali come
dovrebbero essere (è un’indicazione a chi ha vinto le elezioni). Magari lo si
dice poco, ma è certo che noi abbiamo un paese da “ristrutturare” materialmente. Dobbiamo chiudere i
guasti, le incurie, la pessima connivenza di interessi, custodire il nostro
migliore passato e preparare il paese a una nuova condizione materiale che va
dalle clamorose e pericolose mutazioni climatiche, alle nuove esigenze
energetiche, alla difesa del territorio, a una trasformazione delle condizioni
“normali” dell’esistenza che comporta un diverso consumo delle risorse. Questo
mi pare un compito fondamentale per chi abbia una nozione del tempo che superi lo
spazio di un anno e la sorte di un gruppo politico. Senza trascurare alcuna
connessione e riforma a livello europeo, noi abbiamo uno spazio “autarchico”
che è un’occasione fondamentale per investimenti, per tecnologie, per
innovazioni, per lo sviluppo dell’occupazione. E se è consentito, per mettere
davanti agli occhi dei cittadini la realtà del paese e così ottenerne il
risveglio possibile. È un pensiero troppo in grande? Pur parlando di cose materiali,
si sfiora il pensiero utopico? La risposta non è una sola, a meno che non si
inganni la teoria. La risposta è piuttosto morale poiché i progetti e il loro
senso derivano dal prendere decisioni, e le decisioni misurano i mezzi, e così
si misurano le possibilità nel tempo. Una ragione non enfatica trova questi
problemi. Se restiamo in tutte le dimensioni contemporanee del futile,
rischiamo di più di quello che possiamo immaginare.
IL TEMPO E LA SUA QUALITÀ SOCIALE
Di Fulvio Papi
I fascisti della prima ora amavano gridare:
“Me ne frego di Bombacci e del sol dell’avvenire”. Cercherò di spiegare il
violento sintagma perché il tempo passa, e la cultura storica diviene molto
rara, soprattutto dalle parti di Montecitorio dove dovrebbe essere ricca come i
conti dei ricchi nelle banche straniere. “Me ne frego” vuol dire qualcosa in
più di “non me ne importa”, infatti sta a significare uno stile personale che
si compiace della sua aggressiva specularità.
“Non me ne importa” lo può dire un funzionario di banca o
delle assicurazioni. “Me ne frego” è un’espressione di qualcuno che immagina se
stesso come un guerriero di giusta e superiore barbarie, cioè un fascista dello
squadrismo, quello che come oscura nostalgia, simile a una vendetta, nasce nel
giugno del 1944 quando Pavolini militarizzò il partito fascista repubblicano.
Quanto a Bombacci è stato dapprima socialista, dopo il gennaio del 1921 divenne
comunista, e poi divenne dirigente del partito fascista immagino per problemi
di una coerenza nota soltanto a lui stesso o a pochi amici stretti. Ebbe in
sorte di essere fucilato alla fine di aprile del 1945 indicato come
“supertraditore” dalla “Radio di Milano liberata” che ascoltai nella casa di un
compagno di scuola che confinava con la sponda del lago Maggiore. Ma
l’interessante della spiegazione sta nel rapporto tra il sole e l’avvenire. Il
sole, come donatore di vita ebbe culti in quasi tutte le religioni
dell’antichità, e nel neoplatonismo per un tema comunissimo che ebbe il suo
trionfo urbanistico ne “La città del Sole”
di Campanella. Poi rimase sempre come un elemento donativo di felicità, persino
nella letteratura nordica. Niente di strano dunque se la sua immagine si ripete
nella mitologia popolare del movimento operaio. Tuttavia qui con una
coniugazione importante, quella del tempo. Il sole sorgerà nel cielo del
prossimo avvenire che l’idea e la militanza del movimento operaio stanno
preparando nel presente.
Per lo
squadrista fascista il presente è tutto, è il tempo che conta, quello in cui
può misurare l’efficacia delle sue gesta aggressive e le conseguenze penose per
i suoi avversari. Credo che psichicamente assomigli a una crisi delirante. Il
tempo di sinistra invece assomiglia a una fede che ha invaso gran parte
dell’Occidente: verrà il regno di Dio. Naturalmente socialisti e comunisti non
avevano una prospettiva religiosa, ma ritenevano che l’avvenire avrebbe portato
a una società più giusta per tutti: il presente era un momento di passaggio
destinato a preparare un futuro migliore per tutta la società. Per la verità il
fascismo, come forma istituzionale dello Stato, non poté ripetere lo stile di
aggressivo vitalismo dei suoi progenitori. Ma qui non è un problema le
differenze ideologiche che convivevano nel potere autoritario del fascismo con
le sue demagogie e i suoi tribunali speciali, ma piuttosto una concezione del
tempo. Una cosa è certa: il sole dell’avvenire, come mitologia di una società
veramente giusta, magari se lo sognano non pochi, ma non ci crede nessuno. Sono
stati i poteri della storia economica, sociale e politica contemporanea che
hanno tagliato i ponti verso l’avvenire nell’opinione comune. Il tempo è molto
più breve. Questa prospettiva la posso anche argomentare e condividere.
Tuttavia rimane, in un tempo molto circoscritto, la differenza tra il meglio e
il peggio come condizione condivisa della vita. Ci sarà una differenza tra il
vivere in un luogo distrutto dall’immondizia anche tossica, e il vivere in un
luogo pulito. Ci sarà una differenza veder distrutto dalle frane e dalle
alluvioni un territorio ricco di importanti tracce d’arte e di sapienza
architettonica e conservarne la memoria come propria identità e tesoro da
mostrare a un mondo che cambia, piuttosto che assistere alla sua distruzione..
Ci sarà una differenza tra organizzare un lavoro decoroso e un’assoluta incuria
degli esseri umani ridotti puramente a costi di produzione. E così molte altre
differenze. Che non appartengono solo alla “letteratura” degli uomini di una
vecchia cultura, ma sono scelte che hanno a che vedere con l’immediata
sicurezza della vita e del suo valore.
Se fosse utile
argomentare in termini di una storia controfattuale, direi che, dopo la
ricostruzione del paese, l’unico momento politico che avrebbe potuto avere un
autentico effetto riformistico sarebbe stato quand’era possibile coniugare una
programmazione economica con una politica dei redditi. A tanti anni di distanza
mi pare tuttora chiaro che la programmazione aveva incorporato alcuni
pregiudizi intorno al progresso industriale, piuttosto che nascere come
sviluppo che usava di un metodo razionale tenendo presente le caratteristiche
strutturali del paese. In ogni caso da nessuna parte vennero osservazioni di
questo tipo, ma ci fu uno strillare che proveniva, occasionalmente, dai parti
opposte. Non credo poi sia il caso di parlare dell’ultimo ventennio quando la
comunicazione demagogica, ripetendo all’infinito slogan liberisti che erano
noti altrove e avevano alle spalle altre tradizioni storiche, rubò ogni spazio
pubblico a una ragionevole critica e favorì lo sperpero, l’incompetenza,
l’interesse privato e il dilagare di un costume di potere che confinava spesso
con le inchieste penali.
Torniamo però
al tempo e al meglio e al peggio. Il meglio è più difficile di quanto non
credano in molti. Richiede un chiaro progetto intellettuale intorno alle
priorità del paese, una forte solidarietà sociale che superi il potere di
organizzazioni potenti e di demagogici particolarismi, un uso proporzionato
delle poche risorse. Per queste ragioni il meglio richiede una pur sempre
controllata dimensione del tempo futuro, un lavoro continuativo, paziente,
costante dove i vertici politici godano, nel progetto, di un credito
intellettuale e, e fondamentalmente morale. Noi oggi siamo quasi all’opposto di
una condizione del genere senza la quale non ci sono indici economici che
possano segnare la fine di una divisione tra privilegi, luoghi dei privilegi e
collere mediatiche prive per loro natura di alcuna efficacia che non serva, a
sua volta, i più abili protagonisti.
Così l’attuale abolizione del tempo non evocherà un
bellicoso “me ne frego”, ma, purtroppo, un barbaro e silenzioso “a me non
importa, non è un fatto mio”. È il lessico privo di arditismo, ma pur sempre
efficace perché ha un rapporto con la vita comune dove interi ceti stanno
precipitando economicamente, il mercato “tiene” solo attraverso un
peggioramento dei consumi, l’intelligenza sociale è paralizzata dalla
spettacolarizzazione universale, e sono indotte abitudini a convivere con la
spazzatura e a gratificarsi con microtecnologie che, nell’insieme, collaborano
all’abolizione del tempo. Che, tra altre caratteristiche dell’esperienza, è una
qualità sociale.
CETO POLITICO E
MORALITÀ
Dovrebbe sentirsi
investito dei più alti doveri
non fatto segno a
privilegi materiali
Ernst Toller |
Ernst Toller è
un autore di opere teatrali credo poco conosciuto in Italia. Ricordo una
rappresentazione al Piccolo Teatro di Milano negli anni Cinquanta di “Oplà wir leben” che ebbe una buona
accoglienza ma non uno strepitoso successo. Nel 1933 Toller pubblica ad
Amsterdam (nel Reich nazista le sue opere servono per alimentare i giochi
politici) il libro “Una giovinezza in
Germania” dove racconta la storia di un giovane studente che, come gli
studenti del romanzo di Remarque (“Niente
di nuovo sul fronte Occidentale”), accecato dai bagliori dell’impero
tedesco e dal diritto della Germania di partecipare al banchetto imperialista
del mondo, si arruolò volontario e finisce per un anno in mezzo all’orrore
delle trincee delle due parti dove si consuma una guerra di posizione dopo il
fallimento della prima grande offensiva tedesca che doveva arrivare a Parigi.
La storia di Toller poi cambia completamente orientamento, e come socialista di
sinistra (allora si diceva socialista “indipendente”) partecipa a tutte le
vicende delle “due” rivoluzioni in
Baviera, l’una senza un ordine e una strategia precisa con i comunisti critici
di questa situazione, la seconda (non è solo una seconda fase) dove i comunisti
hanno la prevalenza nelle cariche direttive ma il disordine strategico non
cambia. Quello che il libro di Toller permette di vedere con assoluta chiarezza
è che la rivoluzione ha la totale adesione della classe operaia bavarese (il
che non vuol dire una lunga, uguale, solida persistenza della propria identità
storico-politica. Brecht in “Madre
coraggio” diceva che è necessaria una “rabbia lunga”) e l’opposizione
intransigente e anche feroce di ogni strato della borghesia, dell’esercito
regolare aiutato dal governo di Berlino che aveva già chiaro la sua partita con
la rivoluzione spartachista con l’uccisione di Liebnecht (che si era sempre
opposto alla guerra) e di Rosa Luxenburg. Il libro di Toller, a fronte dei
manierismi letterari correnti, è da leggere, non fosse altro per non
dimenticare quel tratto di storia tedesca che in Baviera vede le prime prove
politiche di Hitler, e per capire come i sogni rivoluzionari (allora si pensava
Baviera + Austria + Ungheria) abbiano avuto in Europa risvegli negativi e
crudeli, proprio immaginando di poter ripetere quella che era stata la
congiuntura favorevole della rivoluzione bolscevica.
Sono cose che si dovrebbero sapere con una certa
chiarezza, il che non vuol dire affatto che la politica della maggioranza del
partito socialdemocratico tedesco nel 1914 come nel 1919 “avesse ragione”. Le
vicende storiche sono molto complicate anche se richiedono spaventosi sacrifici
umani. Toller paga il prezzo del suo comportamento politico, ma riesce
ugualmente ad essere uno scrittore che fa parte del nostro migliore Novecento.
Toller |
Ma se devo dire la verità, non è questa rievocazione che
più che tanto mi solleciti a scrivere, quanto il desiderio di citare un brano
del libro di Toller “Senza dubbio il socialismo su un determinato piano
significherà uguaglianza, nel senso che ciascuno avrà uguale diritto al
nutrimento, all’alloggio, all’istruzione, ma su un altro punto sarà proprio il
socialismo a condizionare una società differenziata, in quanto gli uomini che
hanno particolari attitudini politiche sociali e culturali verranno a
costituire non già una aristocrazia della nascita, bensì l’aristocrazia dello
spirito (Thomas Mann intendeva “nobiltà dello spirito”), della capacità
creativa, della produttività. Saranno investiti di più alti doveri, non fatti
segno a privilegi materiali”.
Tutto ciò appartiene a quella storia dell’utopia che
qualcuno cerca di scrivere. Ma anche in una società come la nostra continuo a
pensare (il diritto di pensare) a un ceto politico che dovrebbe sentirsi
investito “dei più alti doveri, non fatto segno a privilegi materiali”. Se non
è così, se coloro che passeggiano al sole davanti Montecitorio non si sentono
così, allora non meritano una chiassosa e volgare indignazione plebea, ma un
silenzioso e tuttavia definitivo disprezzo.
Fulvio Papi
CADUTA DEI CONSUMI E SOBRIETÀ
di Fulvio Papi
Sarà perché quand’ero giovane, e non solo,
sono stato perseguitato da problemi di metodo -metodo della storiografia, delle
scienze, della filosofia, della psicoanalisi-, ma oggi quando la televisione dà
una notizia in percentuale vengo immediatamente invaso da un sentimento di
incredulità se non di ostilità. Chi avrà fornito alla tivù quei dati e
attraverso quale metodo li avrà mai acquisiti? Questi sentimenti forse sono
esagerati ma su un punto credo di avere ragione senza dubbio. I consumi
natalizi dice la tivù sono diminuiti dell’8 per cento circa. Questo dato
suppone che consumi e consumatori appartengano a una identica unità, il che è
un errore teorico e una superficialità comunicativa che non fa un buon servizio
per la famosa utenza. Il dato va disaggregato in due direzioni: quali consumi e
quali consumatori. Combinando insieme i due elementi si può avere, sempre
approssimativamente, qualche dato interessante dal punto di vista sociale e non
da quello di una statistica in cui tutte le vacche sono nere come diceva Hegel
del primo Schelling. Per esempio se i beni di lusso non avessero avuto
flessioni, mentre quelli medio-bassi relativi all’abbigliamento fossero calati
del 20 per cento, avremmo una informazione interessante che corroborerebbe un’ipotesi
che, peraltro, ha avuto una sua realizzazione nella forma di mercato in
Inghilterra che si costituì al tempo del fanatismo liberista, quando il mercato
fu diviso in due parti: l’una corrispondente alla riproduzione sociale dei ceti
medio-alti, l’altra -il 30 per cento- esclusa ed emarginata, salvata dalla paupertas (non dalla inopia) dalla
benevolenza pubblica. I dati disaggregati possono darci un’idea se anche noi
siamo condizionati dal medesimo destino che non è poi una notizia trascurabile.
Nelle
statistiche televisive appare un dato molto interessante: il settore dove la
flessione dei consumi si è rivelata quasi nulla è stato quello dei giocattoli
per i bambini. È una osservazione benevola quella che afferma: gli adulti
avranno rinunciato a qualche leccornia o a qualche capo di vestiario alla moda,
ma hanno desiderato che i bambini non soffrissero privazioni, e che il loro
babbo Natale non fosse diventato molto più avaro rispetto alle loro
aspettative. Sui giocattoli c’è una ormai antica posizione romantico-idealista
che dice: sono buoni giocattoli quelli che sollecitano l’immaginazione creativa
dei bambini, non sono buoni quelli che esigono solo una esecuzione passiva.
Dicevo che è un’antica concezioni, in fondo debitrice di una concezione del
mondo non solo astratta, ma anche sbagliata, perché l’immaginazione infantile
non è un dono dell’età sempre uguale per tutti e in ogni situazione. Anche l’immaginazione
infantile è una variabile storica. Basta un esempio: i famosi soldatini, dono natalizio
delle infanzie degli anni ’30-’40, era in questa prospettiva, un gioco senz’altro
positivo, perché l’immaginazione infantile era stata educata alla guerra. Ora
si tratta, molto migliorati e più costosi -i soldatini- di oggetti da
collezione. Quanto alla quantità di giocattoli contemporanei dominati da
sistemi elettronici, sarebbe un gusto passatista sostenere che sono solo
elementi di esecuzione passiva. Da quello che ho potuto vedere molti di questi
giocattoli propongono una capacità reattiva, e una possibilità di apprendimento
che interessano sia elementi della contemporaneità che quelli del mondo
immaginario infantile. Naturalmente un’analisi più approfondita condurrebbe a
informazioni più interessanti. Ma c’è un problema che purtroppo mi interessa di
più. I genitori e i nonni hanno cercato di impedire, quando potevano, la
frustrazione dei bambini e di continuare anche ora quel clima festivo per i
bambini che è nella mitologia pubblica e nella realtà sociale.
Le proiezioni
della nostra futura realtà sociale, tenuto conto dell’insieme delle
modificazioni economiche del mondo -fondamentale la distribuzione planetario
del lavoro- che tutti più o meno, sanno, per noi non sono gradevoli. Temo che
andremo incontro a una congiuntura verso il basso (come dagli anni Sessanta per
un trentennio, per svariate ragioni, anche non tutte positive, abbiamo avuto
una congiuntura verso l’alto). Credo sarebbe utile che gli adulti potessero
trovare soddisfazione anche in una forma di vita più sobria che nel passato.
Non è difficile, è solo questione di educazione che, sino a certi livelli,
quindi a parte le condizioni infami di vera povertà, non provoca alcuna
sofferenza, proprio perché i beni in eccesso abituano a una effimera felicità. Lo stesso discorso credo vada introdotto nel
mondo infantile. Non sto varando la bassa retorica della palla fatta di pezze
di stoffa. Sto pensando a una gioia infantile che possa rimanere quale è, anche
in un consumo, e quindi a una appropriazione minore, di oggetti. Educare vuol
dire “trarre fuori” e non solo da un periodo “infame” della vita naturale, ma
da una situazione ad un’altra. Questa possibilità la considererei un problema.
E per quanto mi riguarda, se questa nota autobiografica può interessare in un
Natale precedente la guerra, ricevetti come unico regalo, con una grande gioia,
un tamburo. Non fu però una gioia per i miei genitori e per i vicini di casa.
LO SGUARDO CORTO
DEL POTERE
di Fulvio Papi
Da quello che
si riesce a capire da parte di chi non è uno specialista di analisi economiche
pare (nel senso di apparire) che l’economia che domina l’Occidente, cioè quella
americana, passato il peggio della bufera, ricominci ancora dal punto in cui
era cominciata la famosa “crisi”. Le cause per l’intelligenza critica erano ben
note, anche se devo riconoscere che i libri dei grandi economisti americani che
ho letto terminavano sempre con una terapia di natura etico-politica che
concludeva degnamente il lavoro, ma apriva in una direzione antropologica che
era fuori controllo rispetto ai poteri materiali che, senza essere profeti, si
poteva immaginare avrebbero cercato, e anche facilmente, di riprodurre se
stessi. A questo proposito avverrà probabilmente che i più sosterranno che
questo modo di produzione, con tutti i suoi aspetti, finanziari, tecnologici,
di mercato, ecc, appartengono a una inevitabile natura non proprio come tra
Settecento e Ottocento, perché storica.
E altri esperti, probabilmente i meno ricchi, riprenderanno, aggiornate,
le loro analisi critiche. Da un punto molto generale, tenuti presenti gli studi
dei competenti, si può forse dire che le prossime limitate catastrofi potranno
essere medicate facendo pagare i costi a chi càpita càpita, tra le chiacchiere,
spesso volonterose, e per questo non prive di dignità, di chi, in un paese
marginale come il nostro, ormai alle prese con una sua storia disastrosa,
dominata da intraprese errate e da criminalità diffuse, desidera mostrare che
la vita migliorerà. Per quello che resta della nostra vita potremmo procedere
in questa commedia che la televisione mostra come realtà, e Internet fa
risuonare di opinioni che derivano da più che comprensibili lamenti, ma sono
anche utopiche, sconsiderate, paranoiche, quando non addirittura promosse da
animi meschini, menti povere e linguaggi volgari. Tutto questo può durare a
lungo, e addirittura formare un costume. Ma quando, a causa del riscaldamento
dell’atmosfera, l’acqua invaderà inevitabilmente terre abitate, e vi saranno un
miliardo e trecento milioni di profughi?
Per fare una
previsione anche modestissima, bisognerebbe avere una mappa geografica di
questa catastrofe per capire l’insieme di effetti che verranno provocati.
Tuttora temo che esse esistano negli studi degli scienziati specializzati, ma
non sulle scrivanie dei “potenti” del mondo che, in una prospettiva del genere,
mostrano una potenza molto limitata o, addirittura teatrale. Che libri leggono
questi personaggi importanti, quali riviste, quali relazioni, a chi danno
ascolto?
L’impressione è che, per lo più, siano autogeni, creano
il proprio mondo vedendolo riflesso sui
mezzi di comunicazione dove la prospettiva temporale è quella del giorno dopo e
poi dell’oblio, e quindi di un nuovo inizio. Il tempo del resto non è un ente,
appartiene al modi di pensare e al modo di essere. E quindi può essere adattato
facilmente a una solitudine che, per il luogo dove è, e per come è in quel
luogo, si può considerare autosufficiente e un poco divina.
Faccio solo un caso di vicende che credo di conoscere
dalla riforma Gentile in poi in un modo raro tra i “dirigenti” di adesso, e
cioè la questione universitaria. Non sto a discutere vent’anni di errori dovuti
a culture fuori luogo, a incompetenze clamorose, a programmi in realtà
destinati a distruggere l’Università pubblica per favorire enti privati, ecc.
ecc. Mi limito a notare che tempo fa un filosofo italiano, forse il più
illustre, scrisse che le misure relative alla selezione del personale
universitario erano “demenziali”. Ora penso che se qualcuno dicesse dei miei
scritti che sono poco perspicaci, incompleti, deludenti, mi terrei la critica e
ci penserei. Ma se leggessi che sono “demenziali” sarei costretto almeno a
difendere il mio stato di natura mentale. Invece il Palazzo, comunque
frequentato, tace sempre.
E allora è
solitaria presunzione del potere secondo cui tu leggi, studi, scrivi,
pubblichi, ma resti come la natura in Plotino “prope nihil”, oppure si può dire volgarmente, ma non mi va, in un
dialetto della penisola.
QUAL È IL BERUF DEI POLITICI CONTEMPORANEI?
di Fulvio Papi
Beruf è una
parola che si trova negli scritti politici di Max Weber e che un tempo (non so
adesso) qualsiasi studente del primo anno di discipline politico-filosofiche
sapeva tradurre con professione-vocazione, sapendo anche che la traduzione
irrigidiva nel significato italiano quel tanto di impegno vitale che ha nella
sua origine filosofica. Ricordo anche che tanti anni fa un filosofo, molto
valido per la sua qualità intellettuale, anche se oggi, a mio gusto, troppo
impegnato a tenzoni mediatiche che non aggiungono nulla al suo livello mentre
promuovono degli imbecilli nella considerazione pubblica, mi disse: “Vorrei
conoscere il Beruf degli attuali uomini politici”.
Mi parve, allora, un po’ troppo severo, perché la
dedizione personale è un compito che talora può essere anche un po’ inferiore
-si capisce non troppo- al disegno operativo che è sottinteso nella parola
weberiana. E se oggi ci rivolgessimo la stessa domanda? Sono certo che, a livello medio-colto, molti
risponderebbero che l’insieme della vita politica ha subìto un deterioramento
così ampio che l’uso di questa parola sarebbe un po’ ai margini di una indagine
sociale. E, aggiungerei, magari per complicare le cose, quale dei significati
possibili ha assunto oggi la parola “popolo”.
Poiché nel
discorso il significato delle parole è costretto a una sua coerenza, non solo
volubile, ma anche portatrice, proprio nella sua coerenza, di una vera
contraffazione rispetto ai significati originari. Beninteso, si può parlare e
comunicare usando la contraffazione come coerenza: l’interprete, alla lunga,
non ha più molti dubbi, e l’inconscio desiderio di credere, soprattutto se condizionato da un mitragliamento
mediatico, finisce col prevalere. Così, per tornare a una osservazione
precedente può capitare che degli imbecilli siano presi per menti originali,
cosa che si diceva non potesse, ai bei tempi di Roth o di Zweig, capitare a
Vienna, anche se, purtroppo, poteva capitare il contrario.
Se rileggiamo
una pagina di Fogazzaro del 1895 troviamo che un patriota veneto, alla vigilia
della guerra del 1859, dice a Luisa, protagonista del romanzo “Piccolo mondo antico” facendo
riferimento ai coraggiosi volontari in partenza: “Le paion teste di far l’Italia?”
“Neppure suo marito
sa, ma per fare l’Italia niente. Vedrò quello che verrà fuori. I nostri figli
ci faranno il monumento, ma dopo verranno, lei mi capisce, con licenza, quelle
porche figure dei nipoti, che mi pare di sentirli: Come l’han fatta da
cani, diranno, quei vecchi insensati
l’Italia”.
Lo scrittore, con il vantaggio dei tempi, fa diventare il
suo personaggio un profeta della critica, un po’ superficiale, del modo, tutto
sommato volgare in cui è stata governata l’Italia unita rovinando il patrimonio
di intelligenza e di moralità del periodo risorgimentale. Se qualcuno ricorda
il finale de Il Gattopardo di Tomasi
di Lampedusa, la scena è la stessa. E del resto l’autore del romanzo non deriva
un po’, nell’aura morale, da quel “Padri
e figli” di Pirandello (1913) che mostra come gli ideali “garibaldini”
fossero finiti in ipocrite celebrazioni che coprivano uno spirito d’affari
privati all’ombra dei poteri dello stato, e delle cariche pubbliche?
Un “Beruf” non lo si improvvisa con
generici, anche se ammirevoli, ideali politici. Esso è un’attitudine
individuale e collettiva a creare una buona legislazione a favore del proprio
popolo: non per niente Weber che era, si direbbe, un moderato, ammirava il ceto
politico degli avvocati socialdemocratici che erano presenti nel Parlamento
tedesco. Da noi invece prevalsero due casi differenti: dalla idealità
risorgimentale derivò un’idea di popolo molto retorica e ridondante che fu
propria del nazionalismo e, poi, un tema centrale del fascismo. Così quel
popolo che, per la prima volta nella guerra mondiale si era “trovato unito
nella vita tragica delle trincee e degli insensati assalti, diveniva la “prova
empirica” di una ideologia totalitaria, aggressiva che proclamava un’ “Italia
proletaria e fascista in piedi”, e Giovanni Gentile, dal canto suo, riprendendo
il tema della filosofia italiana di Spaventa puntava su una continuità ideale
del fascismo con la cultura risorgimentale. E, come tutti sanno, Gabriele
D’Annunzio portò il suo contributo storico-retorico, però non si deve buttare
tra la spazzatura la sua eredità poetica. Se non fosse che tutto questo portò
alla tragedia della guerra, si potrebbe descrivere come un rapporto tra
minoranze ideologiche e masse popolari simile a gigantesche rappresentazioni
teatrali che non escludevano dedizioni di fede.
All’ombra delle quali, nonostante i tentativi di
moralizzazione di Starace (ma quanti vi credono?), fioriva la seconda
caratteristica dalla scena politica italiana che escludeva lo spirito del “Beruf”, e di cui gli scrittori
“siciliani” avevano colto subito, anche favoriti dall’ambiente sociale, le
caratteri-
stiche centrali: l’affarismo, l’uso privato di poteri
pubblici, il proprio interesse personale all’ombra della politica.
L’antifascismo
-e qui adopero la parola in modo molto elementare- fu una cultura, nelle sue
differenze, di minoranze colte che nel rinnovato clima politico portavano
proprio lo stile di un “Beruf” ch’era anche educativo per un paese che doveva
rinascere. Fu ancora questa minoranza che cercò di dare al “popolo” una identità
positiva nel lavoro inteso come modalità originaria dell’essere umano e che,
storicamente, accanto ai doveri impliciti, apriva il cammino per il
riconoscimento di diritti che trasformavano il cittadino “giuridico” in un
cittadino che, attraverso il lavoro, l’estensione dei suoi diritti, la
partecipazione politica, costruiva una comunità nazionale. Certo molti fattori
contribuirono alla ricostruzione, ma nessuno può negare a quel ceto politico
l’esercizio di un Beruf autentico. E certamente fu questo senso attivo,
intraprendente, vocazionale, intelligente che rese possibile la nascita della
Costituzione del 1947. La Costituzione, come ogni documento storico che cerchi
di organizzare, come legge suprema, l’ordinamento dello stato, subisce
l’entropia che deriva dal tempo storico. Diverso il caso di costituzioni che
enunciano solo alcuni principi generali derivati da una visione antropologica.
E come ogni costituzione di questo tipo acquista la sua forza nella
applicazione. Poi, ed è la storia della decadenza dalla prima repubblica in
poi, sono intervenute nuove e radicali condizioni storiche che hanno
selezionato in modo diverso da quelli precedenti, il ceto politico dirigente.
Detto in due parole: l’assoluta prevalenza della dimensione economica e
finanziaria acquistava poteri così ampi, anche nelle relazioni internazionali,
da condizionare in modo molto rilevante l’autonomia politica dello stato. E
poi: la conseguente fine di una selezione politico-culturale di una minoranza
capace di proporre valori sociali collettivi e forme concrete della loro
realizzazione. Terzo elemento: la dissoluzione di una attiva unità nazionale in
forme di privatizzazione dell’esistenza, quelle privilegiate con una feroce
difesa di se stessi, quelle che vivono del proprio lavoro (quando c’è) nella
chiusura quasi necessaria delle proprie prospettive per interpretare una
situazione che inizialmente ne fece dei “consumatori” e poi ne declinò
decisamente la figura sociale.
In queste
condizioni nasceva quel costume politico che tutti conosciamo che ha
rappresentato la decadenza intellettuale e morale della repubblica. Studiare le
ragioni di questo fallimento nazionale è compito difficile, affidabile a
competenti, e certamente non a personaggi spregevoli che proiettano nel passato
interessi e domini dell’agire politico del presente, fruendo di comunicazioni
di massa che non hanno affatto le caratteristiche di una presenza critica, ma
sono solo casse di risonanza utili per ipnotizzare nell’ignoranza quella che
nella tradizione occidentale, almeno teorica, era l’opinione pubblica. E questo
proprio in un momento in cui la trasformazione radicale della “storia del
mondo” richiede una consapevolezza seria di quello che è destinato a capitare
alla nostra forma di civiltà. Un silenzio o delle notizie che non fanno sapere
pubblico, e tanto meno consapevolezza politica.
È con questi contenuti che dovrebbe nascere un attuale
Beruf, cosa impossibile. Confesso che, quando sento parlare deputati di nuovo
conio, giovanotti “di belle speranze”, e signorine (quasi sempre) di gradevole
aspetto, non percepisco nemmeno l’eco di quella minoranza colta e capace che
possano dare una identità al paese nel mondo contemporaneo. A parte le azioni
violente che possono far pensare all’”aula sorda e grigia” con quello che
segue, mi paiono figure che, nel gioco della politica, recitino la parte
necessaria per trovare “il loro posto nel mondo”, per usare eufemisticamente,
un’espressione filosofica di un secolo fa. E questo non ha niente a che vedere
con il weberiano Beruf, che, almeno da noi, mi pare appartenga ad un altro
mondo.
CRISI E CONSUMI
di Fulvio Papi
I dati di cui disponiamo parlano di
una contrazione dell’economia italiana dello 0,2 e in questa prospettiva la
base annua del Pil scende dello 0,3. A mio modo di vedere, nonostante il calo è
calcolabile equamente sull’industria, sull’agricoltura e sui servizi, per avere
un’analisi corretta bisognerebbe disporre di informazioni “scorporate”, magari
per poter intervenire con saggezza politica in modo più efficace. Resta il
fatto che se il Pil (con tutti i limiti ben noti di questo criterio di
informazione) diminuisce è ovvio che vengono meno le possibilità prossime di un
pareggio del bilancio. La conoscenza molto generale dei dati dice che la
domanda interna non cresce, mentre, purtroppo, quello esterno diminuisce: per
esempio gli ordinativi tedeschi mostrano una diminuzione del 3,2 per cento.
L’insieme di queste condizioni dà luogo a quella “conoscenza speculativa” quale
viene registrata nella Borsa e nello spread che incide in maniera negativa
sulle finanze pubbliche. Vale la pena di osservare che la natura contingente di
questi dati, e non può essere altrimenti, mostra una totale indifferenza a
livello storico, e una psicologia del consumatore troppo elementare. A mio
parere sarebbe bene riflettere sulla trasformazione dei consumi nell’ultimo
decennio. Essi non sono diminuiti solo per il rapporto tra disponibilità
monetaria del consumatore e i prezzi di mercato. Ha avuto luogo, almeno per
certi settori non trascurabili, una mutazione radicale nella modalità stessa
del consumo. Chi dimentica che il “consumismo” fu una categoria di analisi
sociale fondamentale che, riassumendo un po’ grossolanamente la questione, era
il flusso di un’abbondanza nel consumo che inglobava una forte percentuale di
spreco. Lo spreco era senz’altro un elemento che teneva alto il livello dei
consumi, almeno a livello di tutti quei ceti che non erano considerati poveri.
Ora questa tendenza non esiste più: ogni consumo è più attento e vigilato, e
per di più diffusa una corretta ideologia sociale che penalizza l’eccesso
consumistico come elemento che, in modo più diretto o meno, ha conseguenze su
quelle trasformazioni note della vita naturale del pianeta. Non credo né che i
famosi ottanta euro sarebbero stati gettati sul mercato con effetti “positivi”,
né che sono stati risparmiati in attesa di venire di nuovo sottratti per nuove
tasse. Penso semplicemente che nella maggioranza dei casi siano stati
accumulati per acquisti di maggiore costo, più necessari, e che possono aver
luogo in tempi successivi. Il problema è cercare di capire quali siano le
dotazioni ritenute primarie dalle famiglie, il che comporta la conoscenza di un
rapporto tra “concezione della necessità” ed elaborazione culturale della
medesima. So che è difficile, ma il contrario è il frutto di una psicologia del consumatore di
tipo primordiale che in tonalità diverse, è sempre stata tipica dell’economia
politica. In parole molto semplici l’analisi della domanda interna va
considerata secondo una pluralità di fattori che devono essere inclusi perché
fanno parte della trasformazione del tessuto sociale italiano nella pluralità
delle componenti che incidono sulla qualità, quantità, temporalità,
immaginazione, identità sociale, fattori tutti tutt’affatto indifferenti nella
comprensione del consumo. Altrimenti la parola ha un astratto significato di
comunicazione settoriale, simile a quella che gli analisti filosofici
rilevavano nel lessico della metafisica privo di senso. Solo che nel nostro
caso il vuoto di conoscenza e la sua riduzione semantica provoca effetti
peggiori. Una considerazione differente va fatta sull’export che è in crisi. In
generale qui si fa questione di lavoro più flessibile, di meno poteri burocratici,
di una giustizia che non appartenga all’autostima di una corporazione piuttosto
che alla sua efficacia sociale, che ora funziona con tempi di natura biblica.
Tutti fattori che hanno un riflesso sulla formazione di prezzi che non sono
competitivi sul mercato mondiale. Ora credo bisognerebbe stare molto attenti,
in un’epoca di grandi trasformazioni, anche su come cambia la domanda sui
mercati mondiali, e qui la flessibilità riguarda la capacità di adeguare la
produzione alle modifiche della domanda. Non è un fatto da nulla, per esempio,
il crollo delle esportazioni italiane nei paesi extra UE. Rispondere
ragionevolmente a un “perché” non riduttivo alla competitività dei prezzi, è
una forma di cultura economica più attrezzata. Sono conoscenze da giornali il
fatto che l’Africa, a dispetto delle locali guerre endemiche, è un continente
in pieno sviluppo economico soprattutto dominato dall’espansione cinese (che a
dispetto di Obama il quale ora vuole “aprire” all’Africa, appare, per lo meno
“appare” meno imperiale di quello che è sempre stata l’espansione estera degli
USA e i cui episodi anche violenti sono universalmente noti). È stato notato che
le misure prese contro la Russia per la questione ucraina hanno contato sulla
nostra esportazione. Anche qui adotterei una maggiore prudenza, lasciando
perdere le “votazioni” del ministro degli esteri USA sulla nostra politica
estera. Sulle esportazioni c’è ancora una considerazione da fare. A suo tempo
Tremonti sosteneva che un euro sopravvalutato frenava le esportazioni. Era una
teoria che riprendeva l’antica consuetudine italiana di svalutare la moneta (e
di non pagare le tasse e di incrementare il lavoro nero) per essere competitivi.
Con l’euro non si può fare, e del resto nell’euro-zona vi sono paesi che
riescono ad avere uno sviluppo delle esportazioni mentre l’Italia nel caso
migliore è ferma. Qui la questione non è solo di analisi economica. L’Italia è
un paese che da decenni per astrazioni culturali, depressioni sociali, culture
inadatte, poteri malavitosi, consensi drogati, politiche demagogiche (perché
non facciamo una storia dei bilanci dello stato da cui avremmo la biografia
della inettitudine del ceto politico rispetto a un’idea generale di bene
collettivo?) elefantiasi amministrative, localismi infetti, ha provocato una
serie di strutturali diseconomie che non si possono guarire né in 100 giorni e
nemmeno in cinque anni. Sono la nostra storia nella quale è compresa la
politica sindacale che ha ripetuto verità morali condivisibili, ma che nella
pratica hanno generato effetti perversi nelle iniziative di corporazioni già
sufficientemente protette, iniziative che hanno il loro peso nell’efficienza
socio-economica del paese. Un’ultima osservazione riservata a un commentatore
de “La Stampa” di Torino che scrive: “Solo chi non ha la minima idea dei
problemi di un’impresa può pensare che la decisione di chiudere o non chiudere,
di licenziare o di assumere possa dipendere da un aumento dello 0,2 o anche
dello 0,5 della domanda di consumo, e non da un sostanzioso recupero di
redditività, sotto forma di riduzione del prelievo fiscale sui redditi di
impresa”. Il problema va visto in relazione ai “prelievi” in altri paesi della
zona euro, e, soprattutto, all’uso sociale di questi denari che potrebbe essere
importante anche per lo sviluppo delle imprese. Non dimenticherei nemmeno il
basso livello culturale del ceto imprenditoriale (solo il 10% laureati). Il che
ha la sua importanza nella considerazione di un’area più ampia o diversa di
opportunità rispetto a quella stabilizzata da tempo. È ovvio, fin troppo, che
garantire un più elevato profitto per esempio con la diminuzione delle tasse,
dà un impulso produttivo e anche psicologico all’impresa. Così com’è ovvio
domandarci se quello che viene ritenuto un eccessivo prelievo fiscale non sia
un elemento, considerata la tradizione politica e la sua logica del consumo,
che vada a incrementare qualche diseconomia storica. Ma, tornando all’industria,
perché non parlare mai, almeno in sede teorica, di progetti di Olivetti, e
perché non ricordare, e qui il problema è più prossimo, Schumpeter e i suoi
capitani d’industria ecc. ecc.?
***
FARE POESIA IN SERENI
di Fulvio Papi
Non ricordo
esattamente l’anno, ma di certo la “Fondazione Corrente” non era da molto in
attività. Il mio compito allora, come adesso, era quello di organizzare delle
conversazioni che, in modo piuttosto vago, possiamo dire di estetica. Era in
questa circostanza che costrinsi, con molto garbo e non minore affetto, Sereni
a parlare del “mestiere del poeta”. La
conferenza ebbe poi una larga risonanza perché fu ripresa in sedi universitarie
italiane e straniere. Avevo un grande interesse per quella conversazione perché
la composizione della poesia di Vittorio aveva avuto certamente trasformazioni
stilistiche che chiunque percepiva chiaramente, ma in ogni caso esse nascevano
sul terreno stesso del “fare poesia” considerato come un settore di cultura che
non ha dipendenze da altre zone del sapere, o, peggio, da campi ideologici.
Una concezione
del genere del fare poesia, vissuto intensamente, ma privo della generalità di
un tessuto astratto o teorico, rimetteva al centro l figura dell’autore, il suo
modo di sentire le varie forme dell’esperienza, la possibilità di ripetizione
di quel loro senso e la relazione con il linguaggio.
Era certamente questa situazione che spiegava la
reticenza di Sereni; parlare di poesia voleva dire essere costretto a mettere
in primo piano non un oggetto, come potrebbe fare un matematico a livello
astratto o un fisico in modo referenziale, ma il modo in cui procedeva in
silenzio il laboratorio segreto di se stesso.
Oggi per me
non sarebbe difficile ripercorrere quella famosa conferenza. Tuttavia prenderò
un’altra strada e altri “documenti” per mostrare quel “fare poesia” che non
sia, e non era, una teoria della poesia. Non che Vittorio mancasse di verve teorica, anche se non amava farne
uno stile di discorso dove poteva assumere l’aspetto di una possibile
affermazione capace di mettere a distanza l’interlocutore. Tuttavia la volta
che lo vidi impegnato in una conversazione teorica, non aveva nulla da
invidiare ai professionisti della simbologia astratta. Quello era un patrimonio
della propria storia intellettuale.
Alla fine
degli anni Trenta, Vittorio, assistente volontario di estetica, parlava
talvolta della sua poesia con il maestro Banfi. E Banfi gli suggeriva che il
suo fare poetico fosse una “immediatezza oggettiva”. Non è facilissimo spiegare
bene questo sintagma, ma, nell’essenziale, è così. l’immediatezza è il modo in
cui si percepisce un campo di esperienza. L’aggettivo “oggettiva”, vuol dire
che essa doveva mantenere un carattere di oggettività. In questa relazione
poteva (e doveva) nascere quel linguaggio della poesia che non apparteneva ad
alcun altro genere di comunicazione, senza essere un puro gioco del linguaggio.
Ci sono alcuni versi di un “Posto di vacanza” che, a rovescio, riproducono questa concezione
del fare poetico, anche se in quest’opera la mediazione intellettuale mi pare
più prossima a uno storicismo etico. In ogni caso nel suggerimento di Banfi
mancava un elemento essenziale della poesia di Sereni, e cioè, il tempo. Senza
il lavoro interiore della temporalità, la ricerca del linguaggio con il suo
celebre “togliere”, è priva del suo luogo di nascita.
Ora cercherò
di trovare questa relazione in due proposizioni che mi disse Sereni. La prima è
di ritorno da un viaggio, e Vittorio mi disse: “L’Egitto mi lavora d’entro”. È
il caso dell’esperienza immediata che però deve sedimentare la sua oggettività
in una temporalità. Non si tratta di esprimere una conoscenza sensibile, come
nell’idealismo, ma di un “ritornare” come linguaggio poetico. La seconda
proposizione fu l’occasione che il “Corriere della Sera” gli offrì di seguire,
a suo estro, il campionato mondiale di calcio. Vittorio mi disse che aveva
rifiutato perché gli pareva di sprecare le parole. Ognuno di noi parla e
scrive, ma per il poeta Sereni le parole sono il ritorno poetico
dell’esperienza dal percorso interiore del tempo. Il trovare nel lavoro della
memoria quelle parole era la stessa possibilità della poesia.
In questo
breve percorso non abbiamo trovato una “poetica” ma, piuttosto, il lavoro
costante, talora incerto come provano le numerose varianti, sempre personale e
un poco segreto del fare poesia di Sereni. Quanto a me ripeterò un verso del
Sereni giovane e lirico che mi è sempre parso, nella sua semplicità, aver a
che fare con i labirinti del destino: “Il
tuo sorriso limpido e funesto”.
DALLA PARTE DI MARX
di
Fulvio Papi
La
centralità umanistica e il denaro
Al
tempo della crisi finanziaria che, con la sua bancarotta salvata in
Usa dall’intervento monetario dallo stato, mostrava un nuovo
assetto del capitalismo mondiale, divenne un luogo comune parlare di
un “ritorno a Marx”. Poi subito cancellato per il timore,
soprattutto nel mondo anglosassone, ma anche europeo, che potesse
risorgere politicamente una qualsiasi prospettiva dalla antica
tradizione socialista, ritenuta una specie di colpa storica della
modernità. Si trattava, più che altro, di trovare un nome e una
dottrina classica per qualificare il proprio disagio e la propria
protesta. Che cosa voleva dire questo generico e pubblicistico
“ritorno a Marx”? Sostanzialmente era il ritorno di una
centralità umanistica contro il dominio del denaro che riproduce se
stesso e il proprio potere. Questo desiderio di un capovolgimento
dell’esito attuale della storia contemporanea mostrava una sua
ricchezza retorica: veniva rievocata la “dignità” dell’uomo
con una parola che va dal Rinascimento a Kant senza rendersi conto
che i significati di valore hanno un senso sociale determinato che è
intuitivo solo a un gruppo intellettuale. Spesso questa dignità
veniva identificata con i diritti della “persona” che
storicamente è una parola decisiva della tradizione religiosa
cristiana.
Da sinistra: Gaccione, Papi e Esposito a Stresa nel luglio 2011 |
Parlare
genericamente di “alienazione” indicava piuttosto la condizione
attuale della vita umana, il suo modo d’essere in una civiltà
caratterizzata dal dominio del denaro, con tutte le conseguenze
naturali, sociali e antropologiche che ci sono ben note: la
distruzione dell’ambiente naturale, le differenze di vita più che
ingiuste vergognose, l’affermazione di un individualismo meschino,
egoista e pericoloso.
Un
filosofo contemporaneo di derivazione lacaniana, con la suggestività
dei giochi linguistici possibili a livello filosofico, parla del
potere di un fantasma, cioè il potere del capitale finanziario
informatizzato, sull’insieme delle possibilità naturali umane. La
potenza reale del virtuale, sulla realtà possibile di una vita
collettiva con i suoi criteri di autonomia e di giustizia. Al
contrario, l’intelligenza di destra degli Usa soleva dire che, in
ultima analisi, questa atmosfera intellettuale derivava a noi europei
da Kant. Cioè dal credere a una universalità ideale come vincolo
dell’uomo alla sua propria capacità di autodeterminazione. Del
tutto opposta la loro visione, derivata, retrocedendo storicamente,
da Hobbes, con la competitività naturale propria dell’uomo nei
confronti di un altro uomo, competitività che nello sviluppo del
pensiero americano si identificava con la libertà e con il diritto
di ognuno di realizzare la propria felicità. Sono queste le figure
sociali mitologiche dell’individualismo occidentale, -che non è
quello di Stuart Mill- le quali hanno sempre partita vinta quando si
ritenga che alla proposizione filosofica, secondo cui la vita umana è
strumento a se stessa, possa corrispondere l’idea di una
realizzazione, di uno stato di cose materiale. Invece questo è solo
il caso del pensiero che si libera dal peso della materialità della
vita. È il pensiero che ripete, nel mondo, come diceva Adorno,
l’argomento di sant’Anselmo e di Cartesio sull’esistenza di
Dio. La possibilità ideale indica una esistenza reale. Purtroppo la
relazione tra pensiero e realtà non è così, e richiede lo studio
di relazioni particolari e non totalizzanti.
Il
fatto è che l’uomo è un corpo che ha necessità e limiti, e la
“vita” non è fatta da singole individualità, ma sempre da un
insieme sociale. Sono prospettive decisive per Marx, il quale,
proprio ne “Il Capitale”, notava che la ricchezza prodotta
dal lavoro di ognuno non poteva ritornare intatta a ciascuno per il
suo consumo, poiché vi debbano essere risorse sia per la
riproduzione economica, sia per l’incremento di una condizione di
civiltà. Del resto Freud negli anni Trenta avrebbe detto che non può
esistere alcuna società senza un livello di repressione del
desiderio. C’è una certa analogia tra i due discorsi.
Marx
e l’umanesimo
Ora
cercherò di individuare il tema dell’umanesimo in Marx vedendone
la natura teorica che è sempre pensata nel luogo ideale della
“storia”. Una storia che, anche quando è pensata nelle sue
condizioni materiali relative alla riproduzione sociale, mantiene
tuttavia la concezione di una temporalità che ha un suo fine
immanente. Una società umanistica appartiene in potenza alla essenza
stessa dell’uomo. Il problema è il superamento dell’ostacolo,
dell’inerzia storica. Tutto ciò è fondamentalmente filosofico.
Credo tuttavia che anche Marx, negli ultimi anni della sua vita,
avesse più di un dubbio intorno alla possibilità di un processo
obiettivo del genere, che apparteneva, nella sua radice,
all’umanesimo filosofico tedesco. Marx vecchio diceva che in futuro
vi sarebbero stati molti cambiamenti, e penso che questi cambiamenti
avrebbero mostrato la complessità produttiva, sociale e culturale
del mondo capitalista, anche al di là delle categorie intellettuali
che, nel suo stesso lavoro, gli avevano consentito di tracciare la
figura teorica del “modo di produzione capitalistico”.
Che ha il valore di una scansione epocale. Del resto già Marx negli
appunti preparatori per “Il Capitale” vedeva molto bene lo
svilupparsi del capitale che avrebbe avuto conseguenze sociali molto
complesse a cominciare dagli effetti della riduzione della scienza,
da verità di tipo aristotelico, a forza produttiva di natura
tecnologica, fondamentale nello sviluppo capitalistico. Il che, in
prospettiva, come mutazione del rapporto tra capitale fisso e
capitale variabile, metteva in crisi non solo la forma filosofica
dell’originaria concezione della alienazione, ma la stessa
concezione centrale della teoria del valore.
Non
sono in grado di dire quanto questi aspetti teorici -al di là delle
cattive condizioni di salute di Marx- abbiano avuto un rilievo nella
mancata pubblicazione del 2° e del 3° libro del “Capitale”,
dove lo sforzo di produrre un oggetto teorico classico dell’economia
politica, era l’obiettivo scientifico di Marx. Posso invece con
certezza ricordare quanto Marx fosse lieto della traduzione francese
del I libro del “Capitale”, inteso fondamentalmente come
patrimonio di identità sociale e politica della classe operaia, in
particolare per quanto riguarda la teoria del valore, dove la
condizione lavorativa degli operai risalta bene nella relazione tra
tempo sociale del lavoro e salario. Tema che era stato centrale per
Marx sino dal 1847.
Papi con la De Monticelli alla Sormani nel 2013 in occasione del decennale di Odissea |
Al
di là della tragedia della Comune (che non posso qui prendere in
esame), negli anni successivi, specie in Germania, dopo la fine delle
leggi di Bismark, prendeva spazio la dimensione politica della
rappresentanza dei lavoratori nel sistema parlamentare che aveva lo
stesso scopo emancipativo della classe operaia. Questa, com’è
noto, è stata la strada degli anni estremi di Engels il quale,
storicamente, vedeva con chiarezza come la loro (sua e di Marx)
visione politica-dialettica fosse il rinnovarsi del sogno della
rivoluzione francese.
Ora,
facendo scorrere il nastro del tempo, possiamo dire che quelle
prospettive furono spazzate via dalla guerra del 1914,
successivamente da una rivoluzione che, al di là del disegno
filosofico-politico, cambiò in pochi anni completamente le sue
finalità originarie che qui non posso esaminare; poi vennero gli
stati totalitari, e, infine quello sviluppo capitalistico, sempre più
potente che noi conosciamo bene e che ha gravemente indebolito la
sfera politica.
Dunque,
per noi occorre tornare al tema dell’umanesimo di Marx non solo
privi di alcun lieto fine, ma in una piena crisi culturale
dell’umanesimo della tradizione, il che non vuol dire essere senza
senso. Probabilmente va cercato un senso comune che vada al di là di
quella che è stata la totale discesa culturale nel futile e
nell’effimero, e anche al di là di quella misura di saggezza
filosofica, non trascurabile affatto, ma che diviene uno specchio
pedagogico che tiene presso di sé l’ombra della verità, sempre
incerta, dell’individuo. Un umanesimo come emancipazione del
filosofo.
Da sinistra: Esposito, Papi e Gaccione |
Proposizione
idealistica di un giovane filosofo neohegeliano che in Germania (a
parte qualche industria tessile nella Slesia) non poteva aver mai
visto un proletariato, che era un concetto filosofico importato che
veniva dalla prima lettura dei socialisti francesi. Siamo in un
umanesimo filosofico che immagina una sua realizzazione storica. La
proposizione più nota è questa: “il proletariato è l’erede
della filosofia classica tedesca”. Questa posizione è precisata
meglio dalla concezione marxiana dell’uomo come essere naturale,
tra esseri naturali, il cui “genere” meglio “l’essenza del
genere”, ha una sola qualità differenziale, il lavoro, che
trasforma il mondo e, in questa prassi, trasforma se stesso. L’uomo
è un essere naturale che diviene. È un’antropologia che per
essenza diventa storia, dato che l’uomo naturale non può che
riprodursi attraverso modi storici di produzione; nei “Grundrisse”
vengono indicati: l’asiatico, il greco-romano, quello feudale dove
il lavoro umano nella sua esecuzione è sempre condizionato alla
relazione con la terra. Contrariamente alla relazione artificiale con
le macchine nel capitalismo.
Alla
sua figura storica appartiene sempre un potere politico, da cui
socialmente dipende e del quale deve temere la punizione corporea. È
di certo ancora un’eco della dialettica servo-signore della
“Fenomenologia” di Hegel.
La
svolta della modernità è data dal fatto, del tutto nuovo nella
civiltà, dell’autonomia della sfera economica dal classico potere
politico, una vicenda iniziata con la rivoluzione parlamentare
inglese.
La
storia dello sviluppo e dell’ampliamento sociale della sfera
economica è anche la storia sociale moderna dell’uomo, la sua
trasformazione e, contemporaneamente la nascita di un sapere
economico -l’economia politica- che ne costruisce il modello
teorico. Marx, erede dell’umanesimo filosofico tedesco, ritiene che
per trovare l’uomo con la finalità che appartiene all’essenza
del suo genere, occorre dare luogo alla critica dell’economia
politica che riduce un rapporto storico-sociale che fonda la
produzione materiale della vita, a una falsa condizione di natura.
L’economia politica nella sua forma teorica naturalizza la storia.
L’effetto diretto di questa critica è -in Marx- la nascita di una
figura epocale dell’antropologia. L’uomo di un “tempo”, non
un generico uomo di natura economica, come di natura morale o
teorica.
Ora
devo essere schematico. Ricardo, l’economista classico intorno alla
cui opera, soprattutto sul tema del plus-valore, Marx si impegnerà
più a fondo, vede la formazione delle classi sociali nel processo di
distribuzione della ricchezza che nasce dal lavoro: la rendita
fondiaria, il profitto, il salario. Marx rovescia il rapporto e mette
la forza-lavoro (come trasformazione produttiva di ogni generica
antropologia) e il suo tempo di lavoro, come relazione sociale, come
fondamentale nella produzione della ricchezza secondo le classi
sociali. Questo è il quadro ben noto che emerge nel I libro del
“Capitale”: vi è un tempo socialmente necessario per
produrre una merce che entra nel mercato (altrimenti non è una
merce) come valore, di cui solo una parte viene pagata come salario
per la riproduzione della forza lavoro. Questo tema è l’essenziale
che passa in vari modi alla storia del movimento operaio.
Nessuno
oggi potrebbe ragionare in questo modo, sia per le trasformazioni
accadute al processo produttivo , anche senza necessariamente cadere
nella formula un po’ambigua dell’ “economia della conoscenza”.
Molto semplicemente ogni teoria, e quindi anche quella di Marx, ha un
suo delimitato campo referenziale, per il quale è la situazione
della classe operaia inglese dalla rivoluzione industriale agli anni
’60. Mi pare persino ovvio che la concezione del valore che,
genealogicamente, nasceva dalla ibridazione di una categoria
umanistica con una determinata situazione storica, dovesse scontare
una crisi teorica già individuata filosoficamente nel primo
Novecento. Anche se va detto che Engels nelle prefazioni alla sua
pubblicazione dei due grandi inediti marxiani (il II e il III libro
del Capitale) difese radicalmente contro ogni critica la
teoria del valore, anzi estendendola (a mio modo di vedere
impropriamente) allo scambio mercantilistico.
L’elaborazione
teorica di questa crisi è un fatto culturalmente rilevante, ed è un
pensiero comune che Sraffa con la sua concezione della produzione di
merci attraverso merci, risolve le aporie marxiane della teoria del
valore. Qui lasciamo in ombra le conseguenze a livello teorico che si
possono trarre dai valorosi allievi della scuola di Napoleoni. Qui
possiamo dire che la fondazione umanistica del mondo di Marx è
certamente perduta. C’è tuttavia una risposta elementare che però
non bisogna ridurre a un colpo di ingegno metafisico, come talora
accade, poiché in questo caso tutto si riduce ad un gioco
linguistico. Ed è la valorizzazione del concetto di “lavoro vivo”
che, secondo una interpretazione corretta (anche Engels una volta
corresse in “lavoro attuale”) vuol dire che ogni lavoro
produttivo costituisce una selezione delle possibilità che
appartengono alle forme di vita dell’uomo, e quindi una
“competenza” che entra in un sistema obiettivo di relazioni
economiche, sociali e culturali in trasformazione. Quindi dalle
grandi agricolture all’attuale produzione informatizzata. In ogni
caso vi è una selezione produttiva delle potenzialità del corpo
umano che deriva dal ruolo produttivo, e che socialmente assume la
forma del salario. Il quale deve essere però ripensato in relazione
all’insieme di situazioni contingenti che costituiscono la forza
lavoro concreta. Non si può mai pensare il salario nella forma
universale come è accaduto con il concetto di moltitudini omogenee
di un proletariato mondiale, comunque lo si voglia immaginare. Che
cosa ne risulta? Ne risulta che una storia mondiale esiste
(come del resto l’immaginava anche Marx giovane con il concetto di
“mercato mondiale”), ed è il dominio del capitale, delle sue
dinamiche, delle sue trasformazioni, del suo potere mondiale. Ma non
esiste invece alcun soggetto universale. Invece esistono molte
storie, e molte figure di soggettività culturali e sociali, in
ciascuna delle quali si riflette il capitale, ma in modo diverso
secondo le culture, le religioni, i poteri politici. E quindi le
possibilità di contrasto.
E
allora dell’umanesimo di Marx -così europeo, così
continentale- che cosa resta?
Resta
l’idea, l’identità, che la figura dell’uomo nella
nostra cultura occidentale, può dare di se stesso. Ma non è
un’idea che appartenga al lessico teatrale filosofico, importante e
combattivo nel suo spazio, ma poco rilevante nella effettualità
della vita sociale, dominata per lo più da altri condizionamenti che
appaiono anche nella forma del linguaggio, il quale codifica una
prevalente situazione sociale. Un umanesimo deve tentare di
“trascendere” (la parola è anche di un economista come Ruffolo)
quella condizione spontanea. E, in modo pratico e sociale, cerca di
elaborare una propria identità come essere materiale (il sistema dei
bisogni fondamentali e collettivi) e culturale (la dimensione del
proprio senso). È sul consumo, sulla sua selezione e qualità che
l’antico umanesimo dei filosofi, ha la sua realtà materiale. Non è
una questione facile per nulla, perché occorre alterare, anche di
poco, la nostra figura di consumatori di un mondo che viene consumato
e distrutto in una riproduzione sociale che è dominata dalla
dimensione del profitto economico, il cui pendant è la
dimensione del privato come pratica di vita e di diritto sociale.
Esistono
tuttavia le condizioni intellettuali, e anche emotive, per una nostra
identità nel mondo. Esiste già una cultura che chiamerei
enciclopedia critica degli effetti del capitalismo
contemporaneo: dalle abissali diseguaglianze, alle rapine
delle ricchezze mondiali, all’emarginazione di milioni di uomini,
agli effetti perversi del capitale finanziario su quasi ogni area
sociale, alle catastrofi ecologiche in progressivo aumento, ai
problemi dell’energia, del consumo, della comunicazione, della
programmazione educativa. Sono tutte risorse di un’intelligenza
umanistica che, nel loro manifestarsi, avrebbero la possibilità di
divenire socialmente, quello che Gramsci chiamava una “egemonia”.
E se non una egemonia, granellini di sabbia nella “macchina”.
Anche perché se invece accade passivamente il contrario, allora temo
che sarà probabile, quasi inevitabile, affrontare catastrofi
progressive in un mondo “nostro” solo per modo di dire.
LA VERITÀ, LA FEDE E IL MICROSCOPIO
di Angelo Gaccione
“Un'affermazione straordinaria necessita
“Un'affermazione straordinaria necessita
di una
dimostrazione altrettanto straordinaria”
Carl Sagan
C’è una verità incontrovertibile e che dovrebbe suonare ovvia: su ciò che non conosciamo, nulla è possibile dire. Se ritenete eccessivamente brutale ed asseverativa questa constatazione, possiamo affrontare la questione in altro modo, partendo cioè da un semplice interrogativo, ma vedrete che la sostanza non cambia: che cosa si può affermare con certezza intorno a qualcosa di cui nessuno ha conoscenza? Anche posta così, la domanda ha ancora una sola, ovvia, sensata risposta: nulla. Dunque, ciò che non conosciamo non può essere discusso, né essere sottoposto a qualsivoglia speculazione intellettuale. La logica e il buonsenso ci suggeriscono, quanto meno, un atteggiamento di prudenza per non incorrere in grossolani errori, in arbitrarie congetture, poiché il passo verso la deriva visionaria, l’eccitazione immaginativa può essere molto labile e nuocere al criterio di verità.
Se lo facessimo, ci avventureremmo su un terreno infido e, nella migliore delle ipotesi, azzardato: un azzardo del pensiero, un esercizio dell’immaginazione.
Ma qual è la cosa per eccellenza, l’entità di cui in assoluto non abbiamo conoscenza?
È quell’ente che per la filosofia era un semplice logos, una convenzione del discorso, definito sin dalle origini con il termine theós, (con tutte le sue ambiguità e menzogne) e che ben presto è stato rivestito di tutti gli attributi possibili fino ad arrivare alla caricatura di darne una rappresentazione iconografica: il triangolo, l’occhio, la nube irraggiata dal sole. Quello che per le grandi religioni monoteiste diventerà Dio, e che la visionarietà dei grandi pittori al servizio della Chiesa trionfante, trasformerà in un omaccione barbuto e muscoloso, dalle fattezze fisiche possenti.
È quell’ente che per la filosofia era un semplice logos, una convenzione del discorso, definito sin dalle origini con il termine theós, (con tutte le sue ambiguità e menzogne) e che ben presto è stato rivestito di tutti gli attributi possibili fino ad arrivare alla caricatura di darne una rappresentazione iconografica: il triangolo, l’occhio, la nube irraggiata dal sole. Quello che per le grandi religioni monoteiste diventerà Dio, e che la visionarietà dei grandi pittori al servizio della Chiesa trionfante, trasformerà in un omaccione barbuto e muscoloso, dalle fattezze fisiche possenti.
Da un esercizio dell’immaginazione è sorto dunque quell’ente a cui la filosofia ha attribuito il nome di théos. Si dirà: l’uomo ha bisogno di immaginare, è una sua insopprimibile necessità oltre che un suo inalienabile diritto; è un’esigenza del suo spirito, del suo animo poetico.
Si dirà anche: ciò che ancora non conosciamo non è detto che col tempo non lo conosceremo, né se ne può negare l’esistenza solo perché ancora non lo conosciamo. Per un tempo lunghissimo nessuno aveva conoscenze delle Americhe, e tuttavia quei continenti esistevano, così come i microbi ed i batteri esistevano prima dell’invenzione del microscopio e degli altri strumenti di indagine. Di tante altre cose non abbiamo né esperienza né conoscenza, e tuttavia con molta probabilità esse esistono da qualche parte ed hanno una sostanza che le caratterizza, un corpo, un peso, una forma, un volume. Tutto molto sensato e tutto molto vero.
E per l’ipotesi Dio? Per ora resta un’ipotesi indimostrabile nata, come abbiamo cercato di argomentare, da un esercizio dell’immaginazione e dalla visionarietà poetica. Un’ipotesi che si può accogliere solo per fede, ed il pensiero, davanti alla fede, cede il passo e si arresta prima della sua soglia.
allo Spazio Tadino
12 Ottobre 2013
UN PENSIERO
NECESSARIO
Il movimento libertario può vantate alcune
pubblicazioni di grande interesse culturale, soprattutto per la molteplicità
dei temi messi a fuoco, per gli ambiti che va a toccare, per l’atteggiamento
aperto con cui li affronta e per lo spazio che concede a collaboratori non
necessariamente anarchici. Valga per tutte “A Rivista
Anarchica”, giunta al suo 385° numero.
Lo stimolante e ricco annuario 2014 propostoci da Luciano
Lanza, che ne è il curatore, e che porta il titolo: “L’anarchismo oggi. Un pensiero necessario” (Mimesis Edizioni, pagg.
230 € 18,00. www.mimesisedizioni.it;
email redazione@libertaria.it;
tel. 02-24861657; 02-24416383) si colloca in questo solco. Fra le firme, alcuni
nomi storici dell’anarchismo, sia italiani che stranieri, e poi una serie di
studiosi che seppur non militanti attivi, sono comunque contigui alle idee
libertarie, o ne hanno una forte simpatia. Possiamo qui ricordare, assieme a
Luciano Lanza, personalità del calibro del grande linguista americano Noam
Chomsky, di Marianne Enckell o del teorico della decrescita, il francese Serge
Latouche, senza trascurare alcune figure come Amedeo Bertolo, Salvo Vaccaro, Eduardo
Colombo che sono presenti da sempre sulla stampa libertaria. I saggi di questo numero sono parecchi e, trattandosi di
un annuario, spaziano in diversi campi. Vediamoli in dettaglio: Chomsky si intrattiene sul
“declino americano”: La paranoia del “declino
americano” è il titolo della sua conversazione, sollecitato dalle domande
di David Barsamian; Michael Albert (Occupy
e la sua teoria) traccia una mappa orientativa del concetto di teoria;
Stefano Boni (Trasormazioni dei
dispositivi di potere in tempi di crisi) incentra la sua riflessione sui
dispositivi molteplici del potere; David Graeber e Andrej Grubacic (L’anarchismo, o il movimento rivoluzionario
del ventunesimo secolo) mostrano come sempre più le radici dei movimenti di
trasformazione, si alimenteranno al pensiero anarchico; la tesi sostanziale di
Francesco Codello (L’educazione
libertaria alla prova dei fatti) affronta ciò che oramai dovrebbe essere
evidente a tutti: la scuola autoritaria ha fallito su tutta la linea e dunque,
la pedagogia libertaria è la sola che può dispiegare la forza d’urto
metodologica e pratica, per mutare le cose; dell’analisi di quella che oggi
chiamiamo società videocratica, si incarica Alberto Giovanni Biuso (La società videocratica), mentre
Fabrizio Eva (La reciproca sfida
dell’anarchismo e della geopolitica) invita a riconsiderare il suo quadro
concettuale (dell'anarchismo) alla luce di ciò che è avvenuto, in termini di cambiamento
geopolitico, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Latouche (Stato e rivoluzione della decrescita)
sparge diversi semi stimolanti per la riflessione su un tema divenuto attuale e
che sta prendendo piede negli ambienti più diversi. La decrescita si configura
come una “rivoluzione” radicale, come una rottura con gli attuali sistemi
economici esistenti, ma anche con quelli politici, dal momento che non si
tratta di sostituire un potere ad un altro, ma di tenerlo a bada e superarlo.
Pietro Adamo e Giulio Giorello, partendo da un assioma di Jefferson: “Preferirei
vivere con i giornali senza un governo che sotto un governo senza giornali”,
mostrano come la libertà di espressione sia il germe fecondo da cui nascono
tutte le altre libertà. Di grande interesse poi il robusto saggio di Massimo
Amato (Per un pensiero metafisico del
politico), quello di Salvo Vaccaro (Genealogia
del pensiero destituente) che prova a rileggere molti aspetti di un autore
per nulla inattuale come Etienne de la Boétie, il sulfureo indagatore della servitù volontaria; quelli di Eduardo
Colombo (Le due rappresentazioni dello
Stato), di Saul Neuman e Verana De Monte, entrambi di taglio più
filosofico; quello di Neuman postula una ontologia post-anarchica, quello della
De Monte parte da Kant e traccia un parallelo fra il concetto di libertà del
filosofo di Königsberg, con quello del pensiero dei teorici della tradizione
anarchica classica, da Bakunin a Proudhon, da Malatesta a Godwin, da Stirner a
Kropotkin.
Come vedete c’è materia per molte riflessioni
affrontabili da varie angolazioni, e tutte decisamente stimolanti. Io vorrei
brevemente soffermarmi su alcune buone idee di Luciano Lanza, riportate nel suo
scritto che introduce il volume, dal titolo La
sfida libertaria. Intanto la sua constatazione che “il pensiero anarchico
si presenta come uno dei più originali e convincenti”, nel momento in cui tutte
le ideologie che hanno caratterizzato
gli ultimi due secoli, Ottocento e Novecento, hanno fatto bancarotta: sono
divenute apertamente omicide, hanno riprodotto (spesso in peggio) quanto volevano
cambiare, sono avversate in mezzo mondo e il loro stesso nome è divenuto
sinonimo di oppressione, dittature, gulag e campi di concentramento. Dunque,
hanno perso ogni fascino, qualunque attrattiva popolare e di massa. Il pensiero
libertario, al contrario, proprio perché non è un’ideologia, ma una pratica di
vita e di liberazione, avrà sempre un cuore giovane ed appassionato, e si ribellerà
in ogni tempo ai sistemi chiusi, rigidi, spietatamente definitori. Mette al
centro la libertà e l’uomo con la sua intera consapevolezza: lo responsabilizza
a partire da se stesso, dal suo agire quotidiano, dal mutamento personale che
influisce sul mutamento della società nel suo complesso, sulla vita nella sua
concretezza. Se è una pratica di vita, se mette al centro la vita e non i
sistemi, esso non può tollerare nulla che mortifichi la vita, e sarà ostinato
come quelle piante che bucano l’asfalto ed emergono prepotenti a riaffermarla.
Ecco perché ogni volta che un movimento nuovo prende piedi e si affaccia sulla
scena della società e della storia, della pratica libertaria assume i
caratteri, anche se spesso non ne è culturalmente consapevole; ma è lì che si
alimenta per mostrarsi diverso, per differenziarsi. È a quella fonte che
attinge se vuole mostrarsi nuovo e diverso, se vuole restare aderente alla vita
e alle sue ragioni. Che altro è il rifiuto di capi, capetti, leader, bandiere, strutture
organizzative esterne che non nascano dall’interno del movimento stesso? Che
cos’è quella voglia di gestire direttamente le proprie lotte? quel partire dal
basso? quella coordinazione orizzontale che ritroviamo ogni volta nelle rivolte
che si accendono in ogni angolo di mondo? Se sempre più segmenti considerevoli della
società, saranno capaci di affiancare a tutto questo, quello che Lanza chiama “nuova
socialità, nuova convivialità” (ancora una volta due istanze inseparabili dalla
nostra vita concreta), la vecchia solidarietà
sociale ed umana che rende uomo un uomo, allora le ragioni del cambiamento
saranno a portata di mano e coloro che le propugnano, saranno invincibili.
Angelo Gaccione
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE".
di Giuseppe
Cacciatore
Un intervento del
filosofo Giuseppe Cacciatore
sul volume di Federico La Sala
Contursi Terme
(Salerno). Il “luogo d’inizio” di questo libro* di Federico La Sala
(filosofo originario di Contursi e docente per oltre un ventennio in un liceo
milanese) è la piccola chiesa di S. Maria del Carmine a Contursi. Qui sono
stati riportati alla luce alcuni affreschi che raffigurano le sibille,
profetesse annuncianti, già in era pagana, l’avvento del Cristo. E’ da questo
spunto che s’origina e si articola il discorso antropologico, storico-religioso
e filosofico di La Sala.
Sullo stile di pensiero e di scrittura (filosofica
innanzitutto, ma anche storica, artistica, estetica) di Federico La Sala ha
detto in maniera efficace Fulvio Papi, nella sua breve e intensa prefazione.
Parto da essa perché, con sagace intuizione, Papi coglie
un aspetto, solo apparentemente didascalico-espositivo, che pone il lavoro di
La Sala in una benefica distanza dalle scritture teoretico-essenziali, capaci
di riscrivere le grandi filosofie di Platone e Aristotele, di Ficino e Bruno,
di Vico e di Kant, di Hegel e di Nietzsche, e così via elencando, senza mai
citare un testo e men che mai un riferimento alla letteratura critica.
Così, l’apparente sovrabbondanza di citazioni ed eserghi
ha solo lo scopo, è ancora Papi a scriverlo, di ricercare la “risonanza” della
parola che il lettore si dispone ad accogliere, sfuggendo così al “sospetto”
suscitato dalle “architetture filosofiche” fin troppo impegnate a rappresentare
concettualmente “qualsiasi forma dell’essere”.
Il ritrovamento del vero e proprio “poema pittorico”
degli inizi del secolo XVII, scoperto durante i lavori di restauro della chiesa
di S. Maria del Carmine, induce La Sala a mettere in pratica un difficile e
tuttavia interessante esercizio di analisi compiuta a più livelli:
storico-artistico, letterario, filosofico, teologico, allegorico-simbolico.
Il livello storico-filosofico e poi anche teologico -
accompagnato, tra le altre citazioni a mò di esergo, da una lunga e profetica
pagina di Eugenio Garin sull’onda lunga della cultura del Rinascimento e della
sintesi platonico-cristiana riversatasi sui secoli successivi - interpreta la
narrazione figurativa (le 12 sibille pagane e i profeti ebraici Elia e Giovanni
Battista) come trascrizione di un viaggio iniziatico ed ermetico che conduce il
pellegrino ideale da Maria madre del Cristo al figlio che accede al regno dei
cieli.
La filosofia si annuncia a partire dai frammenti
dell’opera parmenidea, là dove il viaggio-guida dell’uomo è tracciato dalle
dee-fanciulle che indicano la via. Sono le “figlie del sole” che, lasciate le
“case della notte” spingono “il carro verso la luce” fino ad arrivare alla
porta che divide i sentieri della notte e del giorno. Oltre la porta la dea
indicherà al viandante le vie della ricerca tra le quali dovrà scegliere:
quella dell’essere, il sentiero della persuasione, e quella del non-essere,
cioè della indicibilità e inesprimibilità.
Quello che, tuttavia, a me interessa molto del percorso
interpretativo attivato da La Sala, è la funzione non solo simbolica e
iconografica dell’immagine, ma anche e soprattutto filosofica, gnoseologica ed
etica.
Resto convinto che si debba ancora oggi discutere
filosoficamente il problema dell’immagine, nel senso di una sua inaggirabile
valenza che è in prima istanza mentale e neuroscientifica, per diventare poi
fatto antropologico ed etico-politico. Ed è proprio il lavoro svolto negli
ultimi decenni dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze a confermare ciò
che già Vico ad esempio aveva intuito, e cioè che l’immaginazione non è più
relegabile nel mondo separato della res
cogitans.
Spinoza, Vico Kant, ognuno per suo conto e anzi con
diverse modalità di pensiero, hanno sostenuto che ogni atto di coscienza, e
persino ogni percezione, si presenta come un’esperienza creativa - il poietico
che si fa poetico - ed anche i meccanismi e gli atti della memoria non sono
solo fenomeni scientificamente descrivibili e misurabili, ma anche ed essenzialmente
prodotti immaginativi.
Ho citato Vico perché La Sala è autore di una serie di
interessanti osservazioni sul pensiero e l’opera del filosofo napoletano. Ho
già avuto modo di esprimere privatamente il mio interesse per talune sue
analisi, anche se, come ho già avuto modo di dirgli in una mia lettera, io
resto, per formazione e struttura mentale e disciplinare di storico della
filosofia, legato all’organizzazione sistematica del discorso più che al pur
rispettabile stile dell’aforisma e del frammento.
Ho anche io - in molte pagine dedicate a Vico - insistito
sulla centralità che nella sua opera ha l’idea di una metafisica della mente
umana commisurata alla debolezza delle passioni e alla finitudine del fare
umano.
La Sala parla nelle sue incursioni nell’opera vichiana di
“mente accogliente” (che è anche il titolo di un suo libro che, non a caso, si
apre con la famosa immagine della dipintura che fa da premessa iconologica e
sinottica al capolavoro di Vico).
La “dipintura” allegorica (progettata da Vico e
realizzata dal pittore Domenico Antonio Vaccaro), è la straordinaria summa
figurativa di una profonda intuizione filosofica.
All’immagine si accompagna un’introduzione in forma di
spiegazione, dove si ragiona sul significato simbolico assegnato ai molteplici
segni che, nel loro insieme, costituiscono la dipintura, e dove si staglia in
una posizione di centralità la donna dalle tempie alate, la metafisica. Questa,
anche per la posizione significativa di medium concettuale e iconologico, non
si limita a contemplare Dio “sopra l’ordine delle cose naturali”, ma osserva
anche il mondo delle menti umane.
Ciò è importante perché conferma che Vico non nega in
alcun modo il ruolo della Provvidenza nella vita degli uomini, ai quali
tuttavia spetta un margine di autonomia, di facere individuale. Proprio per
questo il globo posto ai piedi della donna è poggiato su un solo lato
dell’altare, e simbolicamente rappresenta il fatto che avendo i filosofi
“contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno
solamente dimostrato una parte”, trascurando quella “ch’era già propia degli
uomini, la natura de’ quali ha questa principale propietà: d’essere socievoli”.
La Sala ha ripreso e sviluppato, dal suo punto di vista
questi temi in un commento alla recente edizione Bompiani del capolavoro
vichiano che raccoglie insieme le tre edizioni della Scienza nuova (1725, 1730,
1744).
Ma torniamo ai contenuti del libro che a me pare
convergano su una lettura classica della tradizione umanistica neoplatonica (a
partire da Gemisto Pletone) incentrata in modo particolare sull’idea di Prisca
Theologia e di profetismo preparatorio al Cristianesimo, visibile in quella
tradizione ermetica così sapientemente studiata dalla Yates.
È in questo contesto che si inserisce la ricerca di La
Sala sulle tracce di alcuni esempi di arte figurativa raffiguranti motivi
profetici dell’avvento del Cristianesimo (com’è il caso dei mosaici nella
cattedrale di Siena che ritraggono Ermete Trismegisto e le sibille). Ancora più
significativo è il caso degli affreschi del Pinturicchio nell’appartamento
Borgia, commissionati da Alessandro VI che fu convinto difensore di Pico della
Mirandola e della sua astrologia filosofica. In essi ritroviamo le dodici
sibille che profetizzano l’avvento di Cristo e i dodici profeti ebraici, ma poi
ricompare anche il Trismegisto.
Fu, tra gli altri, Fritz Saxl, come ricorda la Sala, a
considerare quegli affreschi come la manifestazione evidente di una tendenza
che intendeva dimostrare che la storia del Cristianesimo cominciava prima di
Cristo come attestavano le testimonianze profetiche ebree e pagane. E gli
esempi di raffigurazione di profeti e sibille citati da La Sala continuano: la
cappella della Madonna dell’acqua di Rimini; la cappella Sistina con la
mirabile rappresentazione di uno schema narrativo che va da Dio alla Sacra
Famiglia, con le sibille e i profeti.
Ma io vorrei tornare ai contenuti filosofici del libro di
La Sala. Questi si mostra giustamente convinto - come lo sono alcuni dei
filosofi che hanno segnato la riflessione sulla crisi della modernità - della
necessità di un radicale mutamento di paradigma rispetto a ciò che la
tradizione dei padri ci ha trasmesso.
Ma il passaggio non è facile, perché come acutamente
osserva il nostro autore, una nuova teoria, come già sapeva Kant, nasce, come
un nuovo sistema solare, solo dopo una lunga gestazione e da una primordiale
nebulosa, quasi come il raggio divino della dipintura vichiana che rompe
l’oscura notte di tenebre delle origini del mondo. Per questo, sostiene La
Sala, occorre impegnarsi per una nuova cultura che sappia porsi “all’altezza
del nostro presente storico”.
Fin qui il mio pieno accordo con La Sala, ma nel passare
dall’enunciato alla sua chiarificazione e praticabilità, confesso di essermi
disperso - probabilmente per limiti miei di comprensione - nei tanti, e
sicuramente interessanti, rivoli della sua fantasmagorica argomentazione che
trova il suo nocciolo - se ho ben capito - nel saper pensare insieme la
molteplicità delle cose e il Principio. Così dopo un percorso apparentemente
intricato si torna al vero padre fondatore della filosofia moderna e, per me, e
lo dico provocatoriamente, anche di quella post-moderna: Emanuele Kant.
Dunque, la fine della storia - come dice La Sala -
comincia proprio quando la ragione kantiana ha compiuto la grande svolta
filosofica e antropologica: l’unione di terrestrità e cielo stellato, coscienza
sensibile e coscienza intellegibile, entrambe racchiuse nell’unità del
corpo-soggetto (vere duo in carne una).
Già a partire da Kant veniva messa in discussione l’idea
di una ragione pura, metafisica e assoluta e venivano poste le premesse della
ragione impura, storica, civile, cosmopolitica, capace ancora una volta di
pensare corporeità e intellegibilità, differenza (anche sessuale) e identità.
Concludo con due citazioni. La prima è tratta dalla Sacra
Famiglia di Marx e Engels (ed è uno degli eserghi scelti da La Sala). “Come
poteva la soggettività assoluta, l’actus
purus, la critica pura, non vedere nell’amore la sua bête noire, il Satana in carne e ossa, come poteva non vedere ciò
nell’amore, che per primo insegna veramente all’uomo a credere nel mondo
oggettivo fuori di lui, che non solo trasforma l’uomo in oggetto, ma perfino
l’oggetto in uomo”. E mi verrebbe da dire: alla faccia del nuovo realismo!
La seconda citazione è di La Sala: “L’indicazione di Kant
non è affatto trascurabile, né sottovalutabile: è carica di teoria come di
futuro: E’ un’intenzione e un invito a ricominciare da capo, senza tornare al
di qua o andare al di là dell’orizzonte critico, e senza abbandonare il corpo e
la Terra (...) Dopo Schopenhauer, dopo Feuerbach, dopo Marx, come dopo
Nietzsche e Freud, oggi, forse, siamo finalmente più preparati e pronti per
rispondere. Riusciremo a portare a compimento la rivoluzione copernicana e ad
abitare la terra serenamente?”.
* Federico La Sala
DELLA TERRA IL BRILLANTE COLORE
Parmenide, una ”Cappella Sistina” carmelitana con 12
Sibille (1608), le xilografie di Filippo
Barberi (1481) e la domanda antropologica
Prefazione di Fulvio Papi
Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 156, € 15,00
LA CITTA' FRA REALTA' E UTOPIA
di Franco Toscani
Com'è
noto, il grande architetto brasiliano Oscar Niemeyer (1907-2012) voleva
costruire edifici e città che, nelle loro forme, nelle loro curve libere e
sensuali, assomigliassero quanto più possibile a quelle di un bel corpo di
donna. Per lui l'architettura non ha un'ispirazione razionalista-funzionalista,
ma è arte, costruzione nella bellezza, invenzione rivolta al superamento della
città disumana e alienante, verso un mondo migliore, attenta alla disposizione
spaziale, imprevedibile come la vita. L'architettura è sorretta da uno spirito
teso alla sorpresa, allo stupore, all'inatteso ed è intimamente legata alla
coscienza e ai progetti politici.
Come rappresentante e protagonista concreto, sul campo,
dell'architettura contemporanea, Niemeyer ha cercato di dare espressione alle
analoghe idee sull'architettura, alle utopie architettoniche espresse da Ernst
Bloch in Das Prinzip Hoffnung (Il principio speranza, 1959).
Qui Bloch rintraccia nell'architettura un fermento utopico,
una peculiare ἐντελέχεια,
un' "utopia dello spazio"; gli edifici tendono a rappresentare un
mondo migliore, le case sono "costruzioni del desiderio" e del sogno;
l'architettura è "il tentativo di produrre una patria umana - a partire
dallo scopo di fornire un'abitazione sino a quello di far apparire un mondo più
bello nella proporzione e nell'ornamento".
Il filosofo tedesco insiste sul nesso molto stretto fra
architettura, pensiero critico, società e storia nel modo seguente:
"l'architettura molto più delle altre arti figurative è e resta una
creazione sociale e non può fiorire nello spazio vuoto del tardo-capitalismo.
Solo gli inizi di un'altra società rendono di nuovo possibile un'autentica
architettura, un'architettura compenetrata dalla propria volontà artistica costruttiva e ornamentale al
contempo" .
Nel criticare duramente l' "architettura
funzionalistica", che "riflette e raddoppia (...) il mondo freddo
come il ghiaccio degli automi della società delle merci, della sua estraneazione,
dei suoi uomini vittime della divisione del lavoro, della sua tecnica
astratta" (PS 857-858), Bloch domanda, facendo un bilancio
dell'architettura del XX secolo: "come
può nuovamente essere edificata nella chiarezza la pienezza umana? Come si
lascia compenetrare dal vero albero della vita, dall'ornamento umano l'ordine
di un cristallo architettonico?".
In Das Prinzip
Hoffnung Bloch fa un elogio della pianificazione urbanistica, che non è da
confondere con la tentazione autoritaria di chi concepisce l'organizzazione
della città come il riflesso di un sistema precostituito di idee.
E conclude, accennando alla "difficile armonia" e
al "mondo migliore" come compiti della grande architettura: " Il
mondo migliore, cui il grande stile architettonico dà forma, riproducendone i
tratti in forma anticipatrice, esiste (...) in modo del tutto non mitico, come
compito reale vivis ex lapidibus,
dalle pietre della vita" .
Riflettendo sulla città di Roma, ha rilevato a sua volta
Franco Ferrarotti: "Occorre, oggi, un nuovo profilo del costruire in cui
la precisione tecnica sia subordinata alle esigenze umane. Urbanisti e
architetti non progettano nel vuoto sociale. Bisogna imparare a costruire senza
violentare la natura o snaturare il territorio, sfigurare il paesaggio. In
questo senso è ancora significativa la lezione di Adriano Olivetti. (...)
Oggi, il calcolo scientifico della costruzione appare ancora
legato a una logica di invasione e vittoriosa trasformazione dell'ambiente. Si
autodefinisce e si autovaluta in metri cubi e in cementificazione. Questa
impostazione predatoria va rovesciata con un nuovo stile del costruire, fondato
su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice. La nuova
architettura si inserisce nell'ambiente senza violentarlo, indovina i passaggi
e le vie da rispettare per dar loro aria e luce, non soffoca e non blocca,
bensì apre, rischiara, vivifica".
La direzione è qui chiaramente accennata verso un'idea di
città aperta, solidale, conviviale, vivibile, dove la sovranità torni ad essere
di tutti gli abitanti, sottraendola al dominio del profitto, del capitale e della mercificazione totale.
Si tratta della città come bene comune. Essa può essere
concepita come un insediamento abitativo che raccoglie la sfida per realizzare
una migliore qualità della vita, per la convivenza tra i diversi, per una
comunità di liberi ed eguali, nel rispetto per i luoghi e i territori,
nell'attenzione alla bellezza dell'opera umana.
È
questa l'idea della cosmopoli, della città e della civiltà dell'uomo planetario.
Hanno o ritroveranno le nostre città e metropoli ancora un' anima? La vera crisi della città è da
mettere in relazione all'incapacità di abitare dell'uomo odierno, ossia alla
sua incapacità di essere all'altezza della propria essenza e dignità di
mortale.
Noi potremo davvero affrontare questa crisi solo se sapremo
tornare ad abitare, se cercheremo di imparare nuovamente ad abitare il pianeta
che ci ospita.
di Fulvio Papi*
Joseph Roth |
Questa
pericolosa confusione non è solo nella propaganda che per anni ha
impestato l’Europa ma talora anche in persone di ottimo intelletto
quando, per tara di pregiudizi, non riescono a distinguere. Oggi il
diritto di cittadinanza a chi nasce nel nostro paese è il
superamento di una patria chiusa e aggressiva. La storia si rinnova,
e bisogna distinguere il positivo dal negativo, anche se nella realtà
non sono come A e non-A nella logica formale.
L’impero
non era in grado di integrare quelle minoranze rigorose che
desideravano una loro identità simbolica (nazionale e anche
repubblicana), e quivi il conflitto diventava molto grave.
Ricordiamo
tutti i grandi (Stuparich, Slataper, ecc.), e anche nella mia
famiglia triestina due miei zii (oggi dimenticati da tutti) fuggirono
dalla città per unirsi all’esercito italiano, e poi morirono nella
terribile guerra sul Carso. Ma a me che vivo qui non dispiace
ricordare che, quanto agli imbrogli, la legislazione dell’impero
era molto severa, e ogni lettore di Svevo ricorderà che il cognato
del suo protagonista Zeno, si uccide per evitare l’immagine del
carcere che poteva attendere i falsificatori di bilanci.
Jean Jaurès |
Altiero Spinelli |
Mentre
la storia del mondo, che è l’espressione dei nuovi capitalismi
-dall’Asia all’America del Sud- mostra che in Africa si è
sviluppato un nuovo potente colonialismo che ha messo in crisi quel
principio di “autodeterminazione dei popoli” che fu l’ideologia
un po’ ingenua del nostro anti-colonialismo.
“Così
va il mondo” diceva Hegel, ma sarebbe bene saperlo con
chiarezza.
* Filosofo, vice-presidente della Casa della
Cultura di Milano
e presidente della
Fondazione Corrente.
UOMINI BUONI
Alla memoria di Camillo Russo (1953-2010) e
Sandro Vettori (1958-2012)
di Franco
Toscani
Che cos'è la bontà? Esistono, possono esistere uomini buoni?
Moltissimi, oggi, negano risolutamente sia che abbia
qualsivoglia senso la parola bontà sia che possano esistere uomini buoni. La
bontà e gli uomini buoni vengono sovente irrisi.
E' a tutti
evidente che gli uomini buoni, le azioni buone e giuste non solo oggi non
abbondano, ma non sono mai abbondati in qualsiasi tempo.
Non è qui mia
intenzione fare l'elogio del "buonismo" né cercare di dimostrare che
sia facile diventare buoni. Al contrario, tutti sperimentiamo - non solo da
oggi - quanti mali, orrori, violenze, ingiustizie, errori, crudeltà, stupidità
e stolidità ci circondano in ogni angolo del pianeta Terra.
E nondimeno occorre ribadire con forza questa verità: per
quanto pochi, esistono esseri umani buoni e virtuosi, che con la luce del loro
cammino, con la testimonianza concreta della loro esistenza garantiscono
speranza e conforto a tutti, soprattutto al nostro presente così corroso
dall'aridità e al futuro così incerto e minacciato della nostra umanità. Posso
dire di avere avuto la fortuna di conoscere alcuni di questi uomini buoni, alla
cui memoria questo scritto è dedicato. Posso dire di aver potuto godere della
frequentazione e dell'amicizia di alcuni uomini buoni e giusti. Posso dire, a
confronto con loro, di essermi vergognato delle mie lacune e inadempienze come
uomo. Posso però anche aggiungere che a contatto con loro mi sono sempre
sentito stimolato a dare il meglio di me stesso. Queste persone sono infatti un
esempio per tutti. Forse un po' della luce degli uomini buoni si riversa e
riverbera su di noi, sino al punto, talvolta, di rimettere in discussione tutte
quelle corazze e armature con cui ricopriamo i nostri volti. Perciò noi non
finiremo mai di ringraziarli. Perché essi ci ricordano quel senso dell'umanità,
della bontà e della giustizia che abbiamo perduto o rischiamo costantemente di
perdere e resta nondimeno - ce ne rendiamo conto o no - vicino a noi, alla
nostra portata.
Ultimi balli dell'estate (foto liviaci)
Milano - corso Vittorio Emanuele
Le marionette dell'Occidente sono alte circa 80-100 cm e pesano quasi 8 kg. a figura intera, testa scolpita, mani in legno e braccia di stoffa imbottite di segatura, gambe di legno articolate alle ginocchia e ai piedi, solettati di piombo.
E' necessaria una lunga preparazione per l'animazione delle marionette, che avviene tramite fili collegati a croce di legno (bilancini).
UNA DIVERSA PROSPETTIVA
Non vorrei dire delle banalità, ma, poiché su questi argomenti si parla moltissimo e da diverse prospettive che hanno alle loro spalle paradigmi teorici - più o meno consci - che non credo di condividere, cercherò di riassumere per larghissimi tratti la questione. Il problema del nostro paese (capisco il limite, poiché il discorso dovrebbe essere rivolto ai paesi dell'Europa, uniti nella moneta ma soggetti a loro proprie relazioni finanziarie, produttive ecc.) è, come tutti sanno e ripetono, quello di una ripresa considerevole del lavoro e un aumento della produttività. Solo attraverso un impiego più ampio della forza lavoro è possibile dare luogo a un circuito economico ascendente. Non credo sia una grande novità, poiché sappiamo dalla economia classica che senza lavoro non esiste alcun valore. Il paradigma è generale, ma continua a valere in modo più stringente per quei paesi, come il nostro, la cui produzione nasce in buona parte da processi di trasformazione. Quindi “centralità del lavoro”. Ma questa affermazione è molto generica, poiché occorre che i prodotti abbiano una loro circolazione e che il loro consumo sia individuato razionalmente come finalità da considerare come mercato e come scopo sociale.
Adesso che, nella recessione in atto, sembra rinascere l’idea
(già condivisa in altri tempi) dell'unità dei produttori, questa prospettiva
diviene fondamentale. Però, a mio modo di vedere, se il problema di un
allargamento della produzione deve accadere sulla vecchia “linea della
automobile” senza una radicale trasformazione dell'oggetto che elimini le sue
clamorose controfinalità, allora sarà un buco solenne. Lo stesso vale per il
famoso “mattone”: anche qui, senza una visione almeno economica (non azzarderò
urbanistica, sociale, estetica) delle costruzioni, andiamo incontro a colossali
sbagli che già si vedono in territori occupati da manufatti scadenti e
praticamente inusabili, frutto della proliferazione edilizia, senza piani
regolatori, tipica degli anni Sessanta e Settanta. Sono del resto vent'anni che
architetti e urbanisti sostengono la necessità di un adeguamento del costruito
come risparmio del consumo del territorio. Qui non apro nemmeno il problema
della salvaguardia del paesaggio come bene estetico collettivo.
Oggi un problema da affrontare subito è quello di “ecologizzare” la
città in relazione alle nuove condizioni storiche in cui ci troviamo rispetto
allo sviluppo, più che di città, di agglomerati urbani. Si tratta di interventi
che consentano la produzione locale di energia per il consumo necessario
(quindi non lo spreco) e delle attrezzature utili per evitare al massimo il
consumo di energia nella dimensione domestica. Abbiamo ampia informazione
tecnologica, architettonica e urbanistica che deriva da queste iniziative, nel
Nord Europa ma anche dalla vicina Svizzera. Credo che la trasformazione delle
città sia un obiettivo molto importante e l'apertura di uno spazio produttivo e
occupazionale straordinario. Capisco benissimo che vi sono anche enormi
problemi finanziari, ma una “programmazione” degli interventi, delle modalità,
dei costi e dei tempi dovrebbe consentire di non considerare il problema come
un ostacolo insormontabile. Capisco anche che il paradigma culturale che
sostiene questa posizione è intellettuale, intenzionale e sociale, fuori quindi
dai calcoli che garantiscono - quando lo garantiscono - un profitto a breve
termine. Non vorrei che la parola “programmazione” generasse panico nei
numerosi relitti del neoliberismo senza scopo, senso e tempo. La programmazione
è un atteggiamento razionale che misura le concrete possibilità sociali in
relazione a scopi collettivi, la cui esecuzione interessa l'iniziativa
industriale privata. È il classico caso della collaborazione tra pubblico e
privato, tra intelligenza e dimensione economica. Non credo che dovrebbe
sembrare strano se solo una programmazione seria, in una efficiente e
anti-burocratica alleanza tra produttori e potere politico (come garanzia della
possibilità e dell'efficienza), possa aprire un nuovo mercato interno e quindi
una trasformazione della vita sociale.
Al mercato interno appartiene il problema di un razionalizzazione
(altro che architettura anti-metaforica!) del nostro territorio, ponendo fine
per quanto possibile a frane, alluvioni, disastri sismici, guardando ai dati e
ai modelli che ci informano delle attuali e future modificazioni climatiche. Connesso
a questo è il problema dell'utilizzazione migliore dell'acqua attraverso
interventi sulla rete idrica. Sono tutte cose del tutto fattibili nella
collaborazione tra forze sociali, capitali finanziari, potere politico. Certo,
se le persone che dovrebbero essere interessate a questi problemi sono grandi o
piccoli delinquenti che rubano, sotto qualsiasi forma, le risorse economiche e
corrompono il costume sociale, è impossibile prendere una strada del genere.
Bisogna mettersi in mente che l’onestà e la cultura dei poteri pubblici e del
mondo economico è di fatto una risorsa straordinaria. Poiché qui da noi
esistono “diseconomie” fondamentali, tra le quali le più importanti sono certamente
la presenza costante della malavita nel rapporto tra il potere politico e
l'iniziativa economica, l’evasione fiscale di ceti certamente abbienti, le
inutili e barocche complicazioni burocratiche, l’incompetenza quasi generale del
ceto dirigente, la demagogia come forma di comunicazione pubblica che fa
scomparire ogni ethos comunitario tra
la popolazione. Desidererei che i competenti traducessero la fine di queste
diseconomie in termini di ricchezza nazionale: credo che scopriremmo un altro
paese. Vorrei anche che fosse finita l'epoca in cui volgari e violenti sistemi
di potere divulgano il linguaggio e lo stile di una triviale teologia atea che
ha rovinato moralità pubblica e privata.
A livello internazionale abbiamo subito in negativo il processo
di globalizzazione economica e, ovviamente, la bancarotta finanziaria che è
derivata (con il consenso politico) dalla politica delle grandi banche
americane. La globalizzazione ultraliberista ha completamente mutato i criteri
originari dei finanziamenti ai paesi in via di sviluppo e li ha considerati in
un'ottica immediata di mercato, creando problemi produttivi e sociali tipici di
una nuova forma di colonialismo. In questo clima internazionale abbiamo
assistito a una quasi perfetta collaborazione in Cina tra economia
capitalistica e potere autoritario, sì da attivare in quel paese un
colonialismo (in senso proprio tradizionale) che ha inserito parte dell'Africa
nel famoso circuito materie prime (petrolio) e esportazione di merci.
Nei paesi europei abbiamo assistito a privatizzazioni più
ideologiche che calcolate economicamente (bisogna capire che l'economia
pubblica fallisce non perché è pubblica, ma perché è gestita da interessi
privati che si valgono dei poteri pubblici). Ne segue inoltre la demolizione
delle forme assicurative dello Stato, la deterritorializzazione del capitale
produttivo in luoghi dove è più bassa la voce del salario nel calcolo dei costi
produttivi. Processo ovvio in una circolazione mondiale del capitale. Sappiamo
tutti gli effetti che ne sono derivati: il tasso di profitto nel settore
finanziario di natura autoreferenziale è gigantesco, l'industria media e
piccola è quasi tagliata fuori dalla circolazione del credito, la
disoccupazione che ne consegue è in aumento continuo. L’effetto è un
peggioramento delle condizioni di vita che è sbagliato mostrare statisticamente
in relazione ai “consumi”, ma che, complessivamente, occorre considerare in relazione
all’insieme degli stili di esistenza che mostrano non “la bellezza del buon
tempo antico”, ma il degrado rispetto ai livelli di civiltà raggiunti, anche se
non sempre condivisibili. Sarebbe comunque bene ricordare come congiunturalmente
fu raggiunto questo stato di cose. Come tutti sanno, siamo un paese che, dal
tempo del “miracolo economico” sino a una trentina di anni fa, fu sempre
aiutato economicamente dalle esportazioni, garantite da una continua
svalutazione della moneta, e da un mercato interno favorito da una spesa
pubblica solo apparentemente keynesiana, ma in realtà condizionata dagli
equilibri politici, quindi priva di un efficace controllo sulla sua capacità di
creare condizioni durature di efficienza economica. Era il tempo dello spreco
favorito dal capitale che così rendeva più veloce il suo processo di rotazione,
non contrastato da una fondamentale cultura sociale priva di derive
demagogiche. Sarebbe una buona cosa raccontarci con schiettezza questa storia.
Per fortuna (o per merito) ancora oggi, in una situazione
profondamente diversa da quella che ho ricordato, abbiamo ancora un aiuto
economico rilevante dai settori produttivi che riescono a realizzare una
favorevole esportazione e quindi una propria capitalizzazione, cosa che si è
verificata impossibile con i beni e i servizi erogati al settore pubblico come
cliente. E qui bisogna porsi culturalmente il problema del mercato
internazionale e della possibilità di attuare una politica di scambi con la
nostra produzione di valori d'uso (per riprendere la classica espressione) che
sono appetibili in varie zone del mercato mondiale. Ma noi abbiamo una
conoscenza pubblica, almeno approssimativa, degli spazi di mercato e delle
possibilità di una offerta che solleciti poi la stessa domanda? Sappiamo tutti
che l’asse della storia mondiale sta mutando, e allora? Penso in questa
situazione all'importanza che può avere il credito che, com’è nella tradizione
storica delle banche, può appoggiare le iniziative sul mercato interno e su
quello internazionale.
Sono problemi difficili, di cui bisogna produrre una conoscenza
analitica pubblica che mi pare difficile da realizzare nel quadro delle
incompetenze politiche dominanti. Chiunque si sarà accorto che questa
elementare rassegna cerca di mostrare quali siano i nodi da risolvere per
riuscire a migliorare la condizione generale non in base a una visione,
comprensibile ma troppo semplificata. della “crescita economica”. Il compito è
quello di una trasformazione necessaria del paese nella sua struttura
abitativa, idrogeologica, produttiva e culturale, dove l'efficienza è al
servizio della giustizia e della libertà. Non sono obiettivi né facili né tali
da poter essere perseguiti senza un ampio consenso: per questo, oltre alla
collaborazione dei produttori, essi implicano anche il nostro modo di essere “soggettività”.
Non desidererei che questi argomenti facessero solo parte della infinita serie
di esercizi critici sulla contemporaneità. Si tratta di una progettazione che è
contemporaneamente possibile, giusta e - possiamo anche aggiungere -
obbligatoria, se vogliamo tramandare un livello “nostro” di civiltà.
L'altrimenti è penoso a pensarci. Basta aggiungere che la visione produttiva
del profitto privato a breve termine conduce all'arricchimento ulteriore di chi
già dispone di mezzi imponenti e si avvale di un mercato qualitativo che,
ovviamente, genera un mercato più largo ma incomparabilmente molto più povero,
con un continuo peggioramento dei prodotti per mantenere bassi i costi di
produzione e quindi prezzi accessibili a una domanda impoverita. Così che le
distanze sociali - in ogni senso possibile -diventano abissali secondo un
processo già in corso.
Credo di aver tentato un piccolissimo disegno economico che
deriva da quella filosofia che chiamo “realismo storico”, erede di quel
rapporto tra effettualità e virtù, consapevole che ogni esperienza o iniziativa
vive in un contesto storico dove incontra la resistenza inerziale della “microfisica
dei poteri”. Una storia (se è necessario dirlo) priva di qualsiasi “filosofia
della storia” o, al contrario, di una esclusiva ottatività morale indirizzata a
soggetti immaginari.
Decennale di ODISSEA - Sala del Grechetto (Palazzo Sormani)
27 ottobre 2013
Dalla Chiesa - Scaramuzza - Colombo - De Marticelli - Papi
Bianchi - Scaramuzza - Colombo
Sala del Grechetto - particolare
Casa Verdi - Milano
foto Livia Corona
Annuale riunione di perenni migranti prima
del lungo viaggio verso cieli più caldi
foto livia corona