UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

mercoledì 30 novembre 2016

“ODISSEA” E IL REFERENDUN DEL 4 DICEMBRE


Milano. La città dove vivo è piena di lapidi, lapidi di patrioti e di partigiani che sono caduti nella lotta contro il nazi-fascismo. Erano padri di famiglia e giovani, alcuni non avevano neppure vent’anni. Giovani uomini e giovani donne. È dal loro sangue e dal loro martirio che ha avuto origine la Costituzione; a quella stagione di dolore e di libertà essa si ispira. Il dovere di chi governa è di attuarne i princìpi e non di stravolgerla; migliorarla in favore delle aspirazioni del popolo e della sua sovranità, non piegarla ai propri fini e ai propri voleri. Chi lo fa a cuor leggero, come è avvenuto con questo maldestro tentativo, non importa sotto quale bandiera politica si collochi, è, per me, un farabutto della peggiore specie e un nemico di quei padri di famiglia e di quei giovani che hanno pagato con la vita. Può darsi che molti in buona fede e mossi da un reale bisogno di cambiamento e disgustati dalla pratica di molti politici (non di tutti), si lascino sedurre da un disinvolto furbetto strapaesano venditore di fumo privo di qualunque retroterra storico-culturale. Noi non siamo così ingenui e sappiamo da dove quella Costituzione ha avuto origine, quali sacrifici umani ha comportato. Senza mezzi termini ed alcuna ambiguità dunque, “Odissea” si è schierata apertamente per il No, perché ha avvertito tutti i pericoli insiti in questa che, con un aggettivo improprio, viene definita “riforma”.  


Quella che ci viene proposta non “riforma” ma “deforma”, non migliora ma peggiora, non dà maggiori diritti ai cittadini ma li toglie, non dà sovranità al popolo ma la svende ai potentati finanziari e istituzionali artefici del disastro mondiale che stiamo vivendo, e che pretendono di non dover rendere conto a nessuno delle loro scelte e del loro nefasto operato. “Odissea” aderisce alla manifestazione del 2 dicembre promossa a Roma dalla Redazione de “il Fatto Quotidiano”, che ha svolto in questi mesi un prezioso e illuminante compito di controinformazione fra i lettori, e porge da Milano un saluto agli organizzatori e agli intervenuti.
Angelo Gaccione 
A nome della Redazione di “Odissea”
e di migliaia di lettori.


LETTERA A PISAPIA
Lettera aperta inviata a Giuliano Pisapia sottoscritta dai seguenti firmatari:

Pierpaolo Pecchiari (Comitato per il NO, Milano)
Franco Calamida (Costituzione Beni Comuni)
Mario Agostinelli (Energia Felice)
Erica Rodari (Comitato Acqua Pubblica, Milano)
Marco Dal Toso (Giuristi democratici)
Luciano Belli Paci (gruppo dei 110 avvocati milanesi per il NO)



Caro Pisapia,
nella tua intervista a "la Repubblica" del 18 novembre ti rivolgi non solo ai sostenitori del Si ma anche a quelli del No e tratti di questioni a carattere generale per le prospettive della sinistra che stanno a cuore anche a noi, convinti sostenitori del No. Affermi che “il Sì e il No sono determinati non dal giudizio sulla legge di revisione costituzionale, ma dalla volontà di far cadere il governo”.
Non è certamente così per il nostro Comitato, non lo è per la Cgil, l'ANPI, l'ARCI e quelle Associazioni che da sempre sono impegnate sul terreno della democrazia costituzionale, non lo è per Lorenza Carlassare, Luigi Ferrajoli, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky e tutti quei costituzionalisti che ci sono stati maestri, anche tuoi maestri.
A tutti noi hanno insegnato a leggere l’intreccio tra crisi sociale e crisi dei valori costituzionali. E questo riguarda la sinistra e il senso della politica.
Noi siamo sostenitori del No per una sola ragione: se vincerà il Sì la nuova Costituzione non sarà più quella di prima, quella nata dalla Resistenza e dalla sconfitta del fascismo, che unì il paese in una comune volontà di rinascita e di riscatto. Il centro del potere passerà dal Parlamento, rappresentativo di tutti i cittadini, al governo, espressione della sola maggioranza (anzi, con le attuali leggi elettorali iper-maggioritarie, della minoranza più forte).
Tutto questo va sicuramente incontro ai desideri dei “poteri forti”, il gigante finanziario americano JPMorgan (una delle banche, ricordiamolo, all'origine della crisi, multata di 13 miliardi di dollari per avere invaso il mercato di titoli tossici), gli USA, l'UE, la Confindustria, che vorrebbero i governi pronti ad accogliere le esigenze del “mercato”, per imporre politiche di attacco allo stato sociale e ai diritti (il lavoro, la sanità, l’istruzione), tutelati dalla Costituzione. Non solo: domani al governo del paese potrebbero andare forze populiste che hanno nel loro DNA la discriminazione contro i “diversi” (immigrati, islamici, disabili, gay...), che vogliono erigere muri e che costruiscono il loro consenso sulla paura e sull'odio, avremmo posto nelle loro mani non solo tutti i maggiori poteri dell'esecutivo, ma anche la possibilità di ridurre le garanzie dei diritti fondamentali delle persone e delle minoranze.
Come non condividere la tua affermazione: “le forze della sinistra devono sentire il peso di una responsabilità storica come forse non mai nei tempi recenti”? E ancora: “non vanno costruiti muri”. Sacrosanto, anche a sinistra.
Ma come interpretare questa responsabilità storica? Nessuno di noi è indifferente a cosa potrà accadere sulla scena politica dopo il 4 di dicembre, ma, parafrasando Sergio Mattarella, che intervenendo alla Camera il 12 marzo 2005, a proposito della proposta di riforma della Costituzione presentata dalla destra diceva “Sapete anche voi che è fatta male, ma state barattando la Costituzione vigente del 1948 con qualche mese in più di vita per il governo Berlusconi”, riteniamo che una cosa è il destino di un anno di governo fino alle elezioni del 2018, altro è lasciare in eredità a noi e alle future generazioni, una Costituzione che realizza una concentrazione di potere inaudita con l'indebolimento di tutti gli strumenti di garanzia.
Dall’esito del referendum dipenderà dunque il futuro della nostra democrazia: la conservazione sul piano normativo del suo carattere parlamentare, oppure la legittimazione dell’attuale deriva anti-parlamentare; la riaffermazione della sovranità popolare, oppure la consegna del sistema politico alla sovranità anonima, invisibile e irresponsabile dei mercati; la legittimazione del governo dell’economia e della finanza, oppure la riaffermazione e il rilancio del progetto costituzionale e dei valori nei quali tutti crediamo, sebbene in tempi così difficili: eguaglianza, libertà solidarietà. 
Caro Pisapia, siamo certi che coglierai il senso di questa nostra lettera. Noi, con ferma convinzione, riaffermiamo le ragioni per le quali difendiamo la Costituzione. Anche noi vogliamo cambiare: in meglio.
CASA DELLA CULTURA
Calabrìa, Gaccione, Russo, Strano,
alla Casa della Cultura il 5 dicembre.



Chiara Pasetti consiglia ai lettori di Odissea
Tributo ad Antonia Pozzi

Antonia Pozzi

Sabato 3 dicembre, nel giorno della morte di Antonia Pozzi (1912-1938), l’Associazione “Zelata Verde” (nella foto la sede) organizza un tributo alla poetessa: dalle ore 17.30, presso Palazzo Cavagna Sangiuliani (Via Cavagna Sangiuliani 9, Zelata di Bereguardo-Pavia), verrà scoperta una targa-ricordo sulla dimora di famiglia. A seguire, presentazione di Antonia Pozzi, Parole. Tutte le poesie (ed. Àncora), con Graziella Bernabò e suor Onorina Dino, le curatrici del volume. 
Ingresso libero e gratuito.
Al termine, aperitivo bio a cura di Eco-Naturasì – Cascine Orsine.
Per info: http://www.zelataverd.com/

La bellissima sede dell'incontro


Una poesia di Antonia, scritta esattamente (profeticamente?...) 
il 3 dicembre del 1934.

Funerale senza tristezza

Questo non è esser morti,
questo è tornare
al paese, alla culla:
chiaro è il giorno
come il sorriso di una madre
che aspettava.
Campi brinati, alberi d’argento, crisantemi
biondi: le bimbe
vestite di bianco,
col velo color della brina,
la voce colore dell’acqua
ancora viva
fra terrose prode.
Le fiammelle dei ceri, naufragate
nello splendore del mattino,
dicono quel che sia
questo vanire
delle terrene cose
-dolce-,
questo tornare degli umani,
per aerei ponti
di cielo,
per candide creste di monti
sognati,
all’altra riva, ai prati
del sole.
Antonia Pozzi [3 dicembre 1934]

***

RODODENDRO?
di Laura Margherita Volante


Si può essere felici di niente perché il niente è il tutto per gli spiriti liberi.
Chi dà avendo molto è lodevole, ma chi dà quel poco che ha è signore dell’anima.
I buoni intelligenti sono leader senza saperlo…
L’ambizioso si fa prima donna…
Le prime donne sono pesanti anche dopo la dieta.
Face Book. Ornigramma dell’invidia.
L’invidioso è portatore sano di paresi orale.
L’invidioso teme il confronto nella ricerca certosina del difetto altrui.
L’invidia non si dichiara, ma è alla ricerca di un alibi per non sentirsi tale.
La società odierna esaurisce senza esaudire…
Il tempo di chi non vuol star solo si attornia di adulatori.
L’egocentrico cerca compagnia ovunque per trovare il centro…

Usi e costumi:
Ieri le persone volevano bene a qualcuno. Oggi c’è sempre qualcuno che vuole essere adorato.
Per coprire i migliori si premiano i peggiori.
Sindrome del salamelecco. I salami che leccano il potere…
Incalzante o…? Chi incalza è per ottenere subito qualcosa. Chi scalza è per lasciare a piedi nudi chi non gli è di nessuna utilità.
Chi è unico e indivisibile non teme nessuno.
Il talento senza sofferenza è uno starnuto mancato.
I circoli chiusi non evolvono tanto sono impegnati a riempirsi di sé…
Quando si abbassa la cultura la mano destra si alza.
Miraggio. Un bagno di realtà ridimensiona le illusioni.
L’amore non tollera violenza. Quando le mani prudono un pizzicotto serve ricordare il dolore che si dà.
Pizzicotto o pizzicrudo? Il dolore è sempre crudo…

La sindrome di Attila. Per un uomo sbagliato una su mille ce la fa…a non subire insolenze, ingiurie, insulti, minacce, ricatti morali, ludibrio e violenze. Molte donne credono sia normale, minimizzano, sperando che cambi alle promesse, sempre disattese. Per assuefazione la situazione peggiora e la vittima si trova in una gabbia di schiavitù, di disistima, di omertà familiare, di manipolazioni, di calunnie e di ritorsioni con gravi conseguenze e strascichi anche dopo la separazione.

Vince chi si fa fiore e non chi recide i fiori più belli per porli sulla tomba di un arido cuore.
Le parole devono splendere e mai spegnere la luce…
No problem? La stupidità umana è il problema!

C’è chi dice:
“Ti invidio perché sai scrivere” “Studia ed esercitati”
“Ti invidio perché sei bella” “Studia e medita”
“Ti invidio perché hai i figli” “Studia e fai l’amore senza pillola”
“Ti invidio perché sei allegra” “Studia e non prenderti sul serio”
“Ti invidio perché sei forte” “Studia e affronta le prove”
“Ti invidio perché te la sai cavare” “Studia e aguzza l’ingegno”
“Ti invidio perché sei diversa” “Studia e non rompere più le palle…!”

Lode al merito. Meglio le lodi al ludibrio.

UN PEZZO DI SICILIA A MILANO
Puna e Zaccone al Palazzo delle Associazioni


La locandina dell'incontro

martedì 29 novembre 2016

Le 10 bugie sulla ‘riforma’ rifilate da Renzi
agli italiani all’estero
di Marco Travaglio 

Marco Travaglio con il compianto Don Andrea Gallo
        

Cari italiani che vivete all’estero, in questi giorni avete ricevuto una lettera firmata e spedita in 4 milioni di copie a tutti voi dal presidente del Consiglio Matteo Renzi in uno dei suoi più riusciti travestimenti: quello di segretario del Pd e leader del comitato BastaunSì. In pratica, questo signore nella sua seconda veste ha chiesto a se stesso nella sua prima veste l’elenco dei vostri nomi e dei vostri indirizzi postali e se lo è concesso tramite il suo ministro dell’Interno Angelino Alfano, che contemporaneamente lo negava a Giuseppe Gargani, leader del Comitato Popolare per il No. Così soltanto lui ha potuto raggiungervi uno per uno a domicilio, fingendo di informarvi sulle modalità di voto e sul contenuto della sua cosiddetta “riforma” costituzionale, impedendo a chi la contrasta di fare altrettanto. Il che già dovrebbe indurvi a diffidare di lui e a cestinarla. Se invece foste tentati di leggerla, sappiate che tutto ciò che egli vi scrive, tranne forse la sua firma in calce, è falso. Un po’ come l’opuscolo che un altro venditore di aspirapolvere farlocchi, Silvio Berlusconi, non a caso coautore di questa “riforma” a quattro mani con Renzi, inviò a milioni di elettori in Italia e all’estero nel 2001, dal titolo Una storia italiana.

Matteo Renzi

1. Renzi vi racconta che la sua “riforma” metterà fine alla “politica debole che si perde in un mare di polemiche” e la farà finita con un “Paese instabile, che cambia premier più spesso di un allenatore della Nazionale”: “63 governi in 70 anni”, “il record mondiale di instabilità”. Ora, a parte il fatto che la prima Repubblica ebbe il record mondiale della stabilità, visto che fu governata per quasi 50 anni dalla stessa maggioranza imperniata sulla Dc e i suoi alleati, sia pure con diversi premier, quei 63 governi sarebbero stati 62 se non fosse arrivato Renzi. In questa legislatura l’Italia ha cambiato governo una volta sola, nel 2014, e proprio per colpa di Renzi, massimo fattore di instabilità e polemiche, che impose al Pd di rovesciare il governo Letta per andare al potere con la stessa maggioranza: altrimenti l’Italia avrebbe avuto lo stesso governo per l’intera legislatura. Se vincesse il Sì, tutto questo potrebbe ripetersi, visto che nessuna norma della “riforma” lo impedirebbe.

Matteo Renzi

2. Renzi vi racconta che, da quando lui è al governo, l’Italia è “rispettata all’estero”. È la stessa frottola che già raccontava Berlusconi quando l’Italia toccò il minimo storico di prestigio internazionale. Lo stesso sta purtroppo accadendo con Renzi, continuamente umiliato in Europa per le bugie sui conti pubblici, per gli impegni non rispettati e per la sua totale incapacità di essere credibile agli occhi dei partner.

Matteo Renzi

3. Renzi vi racconta che “superiamo finalmente il bicameralismo paritario, un sistema legislativo che esiste solo in Italia”. Voi, soprattutto se abitate negli Stati Uniti o in Francia, sapete benissimo che forme di bicameralismo paritario esistono in molte grandi democrazie senza pregiudicare l’efficienza delle istituzioni. Quanto al presunto “estenuante ping-pong tra Camera e Senato” cui sarebbe costretta “ogni legge” che impiegherebbe “anni” per essere approvata, sappiate che in Italia, nell’ultima legislatura, è stata approvata una legge ogni 5 giorni: 202 leggi sono passate al primo colpo, mentre la “navetta” ne ha riguardate pochissime (43 approvate con tre passaggi tra le due Camere, 5 con quattro, una con cinque e una con sei).

Matteo Renzi

4. Renzi vi racconta che la causa dei 63 governi in 70 anni è stata il “doppio voto di fiducia al governo da parte di Camera e Senato” (la “riforma” riserva la fiducia alla sola Camera). Bugia: solo 2 governi su 63, quelli di Romano Prodi, caddero per la sfiducia del Senato. Tutti gli altri, compreso quello di Letta a opera di Renzi, caddero fuori dal Senato e quasi sempre fuori dal Parlamento per manovre di Palazzo.

Matteo Renzi

5. Renzi vi racconta che “questa riforma, definendo le competenze tra Stato e Regioni, mette fine all’assurda guerra tra enti pubblici che ogni anno si consuma in centinaia di ricorsi alla Corte costituzionale”. Falso: le Regioni a statuto speciale, le più costose e sprecone, non vengono toccate, anzi conteranno ancor di più, mentre quelle ordinarie verranno espropriate della loro sacrosante competenze sul controllo del territorio e dunque delle grandi opere (anche quelle iper-costose e inutili o dannose e inquinanti, tipo Tav Torino-Lione, Ponte sullo Stretto, inceneritori, oleodotti, gasdotti, trivelle petrolifere), che tornano nelle mani dell’uomo solo al comando a Roma in nome di un imprecisato “interesse nazionale”. Concetto talmente fumoso da autorizzare i governi a immischiarsi in qualsiasi materia che la “riforma” lascia alle Regioni, innescando non meno, ma più contenziosi fra governo centrale ed enti periferici. Lo stesso caos produrrà la nuova categoria delle “disposizioni generali e comuni” e “di principio”, che porteranno altra conflittualità sulle competenze fra Stato e Regioni.

Matteo Renzi

6. Renzi vi racconta che “questa riforma riduce finalmente poltrone e costi della politica”. Ma in Italia, secondo uno studio Uil, i cittadini che vivono di sola politica sono 1 milione e 100 mila. La riforma riduce i senatori da 315 a 100: un taglio impercettibile con un risparmio irrisorio per lo Stato: circa 40 o 50 milioni all’anno (dati della Ragioneria dello Stato e bilancio preventivo del Senato), a fronte di oltre 800 miliardi di spesa pubblica. E a che prezzo? Quello di rinunciare all’elettività dei senatori, che non saranno più scelti dai noi elettori, ma dalla peggior Casta politica: quella dei Consigli regionali. Che manderanno in Senato 95 fra sindaci e consiglieri (più 5 nominati dal Quirinale), per giunta muniti dell’immunità parlamentare dagli arresti, dalle intercettazioni e dalle perquisizioni: un privilegio che la Costituzione riserva ai parlamentari eletti, cioè non a loro.

Matteo Renzi

7. Renzi vi racconta che “la riforma elimina enti inutili come il Cnel (1 miliardo di spesa)”. Il plurale “enti inutili” è truffaldino: l’unico ente inutile che sparisce -usato come specchietto per le allodole per oscurare le magagne degli altri 46 articoli stravolti della Costituzione- è appunto il Cnel. Che però non costa 1 miliardo, ma appena 8,7 milioni l’anno (vedi bilancio del 2015), di cui 4-5 per il personale residuo che verrà trasferito alla Corte dei Conti e dunque lo Stato continuerà a pagarlo. Ben altri risparmi si sarebbero ottenuti abolendo il Senato (2,8 miliardi costo a legislatura) o dimezzando -come Renzi aveva promesso- il numero e gli stipendi di tutti i parlamentari, lasciandoli eleggere direttamente dal popolo.

Matteo Renzi

8. Renzi vi racconta che la “riforma garantisce più poteri alle opposizioni… senza toccare i poteri del Presidente del Consiglio, né alcuno dei ‘pesi e contrappesi’ che garantiscono l’equilibrio tra i poteri dello Stato”. Menzogna: il governo conterà molto di più, e non solo per la legge elettorale Italicum che regala il 54 per cento della Camera, e dunque il governo, al capo del partito più votato (anche nel caso in cui rappresenti solo il 20 per cento dei votanti, pari al 12-13 per cento degli elettori). Ma anche perché il governo avrà una corsia preferenziale in Parlamento, per i suoi disegni di legge, che andranno approvati entro 70 giorni (art. 72 della “riforma”): la stessa priorità non è prevista per le leggi di iniziativa parlamentare, così il governo monopolizzerà vieppiù l’attività legislativa del Parlamento, dettandogli la propria agenda. Nulla è previsto per le opposizioni, se non la promessa di una legge che dovrebbe disciplinarne i diritti: una legge mai scritta, affidata al buon cuore della futura maggioranza.

Maria Elena Boschi

9. Renzi vi racconta che “per decenni tutti hanno promesso questa riforma… ma si sono dimenticati di realizzarla”. Falso: questa riforma, che modifica 47 articoli su 139 della Costituzione, così com’è non è stata mai promessa da nessuno. E men che meno dal Pd, che l’ha imposta a un Parlamento riottoso con ogni sorta di forzature e senza alcuna legittimità (governa con i suoi mini-alleati in forza di una maggioranza illegittima, drogata dal “premio” della legge elettorale Porcellum già cancellata come incostituzionale dalla Consulta). Il Pd nel 2013 ottenne la maggioranza -anche da una parte di voi italiani all’estero- in base a un programma elettorale che non prometteva di riscrivere un terzo della Costituzione, ma solo di ritoccarla in pochi punti: per allargare la “partecipazione democratica” e per dare “applicazione corretta e integrale di quella Costituzione che rimane tra le più belle e avanzate del mondo”. Programma che la “riforma” calpesta e ribalta, tradendo la fiducia di noi elettori.

Maria Elena Boschi
legge "l'Unità" alla rovescia

10. Renzi vi invita a votare Sì per “andare avanti”, mentre il No significherebbe “tornare indietro”. Balle. La Costituzione americana del 1789 prevedeva senatori nominati dall’alto, poi nel 1913 fu emendata per farli eleggere direttamente come i deputati. Andare avanti significa allargare, non restringere, la partecipazione popolare, soprattutto in un Paese come l’Italia dotato di una Costituzione che all’art. 1 recita: “La sovranità appartiene al popolo”. È la “riforma” renziana che ci fa tornare indietro, ai tempi dell’Italia monarchica e dello Statuto albertino, quando i senatori erano nominati e non eletti.

Travaglio se la ride con Don Gallo

Come vedete, cari italiani residenti all’estero, Renzi vi ha presi in giro, approfittando biecamente della vostra lontananza dall’Italia. Ma per fortuna, anche grazie alla Rete, è facile sbugiardarlo. Se grattate gli slogan e le foto patinate dei suoi incontri con i capi di Stato, e sul retro emergerà la vera domanda che il piccolo piazzista di aspirapolvere vi sta rivolgendo: rinunciate al diritto di eleggere i senatori per farli scegliere a noi della Casta? Una domanda tanto più inquietante e provocatoria per voi, italiani di oltre confine, che oggi siete rappresentati da 6 senatori eletti nei collegi esteri, mentre la “riforma” abolirà quella quota di rappresentanza, tagliandovi fuori dal primo ramo del Parlamento, che se vince il Sì sarà riservato ai delegati-nominati delle 20 regioni, di 21 comuni e del Colle. Se vi occorrono altri chiarimenti, scrivetemi a segreteria@ilfattoquotidiano.it. Difendiamo tutti la nostra Costituzione e i nostri diritti: da quello di votare a quello di essere correttamente informati.

Gaccione legge "il Fatto Quotidiano"
nel giusto verso


La testata de "il Fatto Quotidiano"
Il giornale sta sostenendo una vigorosa campagna per il No
contro la devastazione della Costituzione nata dal sacrificio
della Lotta di Liberazione contro il nazi-fascismo
IN RICORDO DI NINO MAJELLARO
SCRITTURA COME METAFORA
di Vincenzo Guarracino

Vincenzo Guarracino


A dieci anni dalla scomparsa, il poeta e critico letterario Vincenzo Guarracino, che dello scrittore e poeta Nino Majellaro è stato amico e attento lettore e ne ha seguito il percorso creativo, traccia questo splendido ricordo umano e critico. In verità nutrivano una stima reciproca e anche Majellaro si è spessissimo occupato del lavoro poetico di Guarracino, benché Majellaro non fosse altrettanto celebre in campo critico quanto lo studioso di Leopardi e Verga e del traduttore di Catullo. Essendogli anch’io stato amico, sono lieto di ospitare questo ricordo che ne celebra la memoria. (A.G.)

Nino Majellaro "Una metafora cieca"
In copertina una foto dello scrittore


“Una poesia si apprezza / per lo stile; una vita è simile a una poesia, / non la si vive solo con la mente / ma anche con ciò che, riposto nel segreto, / rimane sepolto in una vita”: se mai per altri dei versi possono valere per sintetizzarne e fissarne caratteri e intenzioni, ciò vale soprattutto per Nino Majellaro, per questo Majellaro della raccolta Viaggi di notte (Edizioni del Laboratorio, Modena 1992), da cui  il prelievo testuale è effettuato.
“Una poesia si apprezza / per lo stile; una vita è simile a una poesia”: come dire che poesia e vita si dispongono,  nel segno di uno stile,  su un asse di perfetta omologia, definendo un atteggiamento, un sentimento addirittura, di fronte alle cose, da cui il poeta si sente agito e necessitato.
Di fronte alla storia, come di fronte alla cronaca, di fronte agli eventi del “mondo visibile” non meno che di fronte a quelli della coscienza, al “segreto” in cui si condensa e sublima la vita più vera dell’io, il poeta persegue una strategia di attenzione e rispetto, da un lato, e sospensione (di giudizio) e attesa, dall’altro, con l’obiettivo non tanto di realizzare un’avventura puramente “formale”, che rischierebbe di confinarsi nell’algido spazio di una mortificante razionalità, di una  mente scissa dal sentimento, quanto piuttosto di mettere alla prova e far emergere, nel soggetto non meno che nel lettore, capacità critiche e attitudini fantastiche che il mondo della comunicazione di massa congiura a rendere sempre più deboli e precarie ma di cui la vita, tutt’intera, ha assoluta necessità, ma senza l’aria di possedere e imporre una propria verità: è questo che Majellaro intende per stile? Io credo di sì e mi pare che la conferma venga anche dal fatto che il poeta inscrive la sua stessa vita all’insegna della metafora di un viaggio, realizzato nella “notte” di senso di un’assoluta solitudine (esistenziale, intellettiva), con l’ausilio di un’ostinata ricerca e interpellanza delle ragioni del vivere proprio e altrui.
“Ci si muove con forme, o tumuli / creduti segnali della storia, / di uno che mi raggiunge / per strada e mormora, che fatica la salita. //…All’incrocio / il distacco con un saluto. Di qua / si vede una strada e di là un’altra. / E finisce una poesia”: ecco, è in questa coscienza della coincidenza tra esistenza e scrittura il segno etico,  lo stile,  della ricerca poetica di Majellaro, così come si è sviluppata in mezzo secolo di sperimentazione linguistica e creativa, tra poesia “lineare” e poesia visiva, tra prosa romanzesca e saggistica, sempre fedele a una sua intima misura, per la sua capacità di convocare e coniugare ragione e cuore, con una fiera volontà gnoseologica sorretta da una fede molto umana nel commercio di idee e sentimenti che struttura e sostanzia una civile convivenza da scoprire e costruire (almeno idealmente) anche con la poesia, quell’orizzonte di figure che aspettano di avere un  volto e una voce attraverso la parola che li fa vivere e al tempo stesso dà risalto e consistenza alle stesse coordinate spaziali e temporali dell’io con la sua storia.

Nino Majellaro
"Il Bargello della Vetra

Ma chi era Nino Majellaro, di cui quest’anno ricorre il decennale della morte? Nino Majellaro è stato un poeta e narratore, con interessi nel campo delle arti figurative e della ricerca storica, oltre che impegnato sul campo del sociale e schierato senza incertezze a sinistra, ancorché con modi suoi propri, senza ostentazione. Autore di numerose raccolte di poesie (La memoria artificiale (1974), La figura, lo spazio (1978), Una metafora cieca (1979), L’universo paziente (1985), Dalla Collina (1987), Viaggi di notte (1992), e di almeno quattro romanzi importanti (Il secondo giorno di primavera: Milano 1584, 1984; L' isola delle comete, 1990; Il bargello della Vetra, 1992; Diavoli e capitani, 1997) col secondo dei quali era stato vincitore del Premio Selezione Campiello, si era segnalato per la determinazione nel perseguire un suo progetto di scrittura assolutamente corrispondente alla necessità di rappresentare la vita come un viaggio perseguito all’infinito nella ricerca di un punto di luce, di spazio di autenticità all’interno di una memoria insidiata dalla notte, giusto il titolo emblematico della raccolta poetica del ’92), che nella poesia (o in una scrittura sempre creativa assimilabile appunto alla poesia) trova la sua forza espressiva più necessaria.
È per questo che è alle raccolte poetiche, confluite poi tutte nell’ampia silloge Poesie scelte (Edizioni del Laboratorio, Modena 2000), che vanno chieste risposte necessarie, come ad altrettante tappe di un processo di progressiva esplorazione e messa a fuoco degli statuti e delle ragioni stesse del soggetto, pur attraverso il mutare di tempi e situazioni, dando voce ad una volontà di canto in maniera del tutto eccentrica e personale.
Nino Majellaro
"Il secondo giorno di primavera"

Realista, d’avanguardia, impegnato, sperimentale, Majellaro ha incarnato nella sua ricerca un modello di scrittura nel tempo, costruendo tassello su tassello un “viaggio”di parole a se stesso, ma con l’ambizione di un complice lettore, attraverso una pratica di osservazione e auscultazione delle ragioni dell’Io e della realtà, facendo perno stabilmente sull’esigenza di ridurre il cangiante caleidoscopio di cose ed eventi a chiarezza, fissandoli in una formula, in un linguaggio che pesa e (si) pensa, momento di riflessione per sé e per gli altri.
Fatta di interrogazioni e annotazioni, che comportano scelte essenziali e verità, “scoperte” nel corpo della lingua e nella foresta di libri e sogni, la sua è una ricerca come poche altre capace di dare voce alla meditazione sulla precarietà del vivere, attingendo dalle risorse della poesia la “luce”, l’energia necessaria per tramutare in canto la resistenza opaca delle cose.
“A chi mi ascolta canterò / il canto degli avi, il canto che mi coglie / ogni notte nel sonno e mi prolunga oltre le colline…// Canto il silenzio delle parole che non può / cantare la morte perché le parole s’annidano / nei vulcani spenti…”, promette il poeta nella nona stanza del poemetto Segni, che conclude la silloge Poesie scelte, e la sua è una voce rassicurante solitaria, confinata in uno spazio cui solo pochi sanno accedere, per sentirvi vibrare un’esperienza davvero unica ed essenziale, il senso di un “viaggio” che è “splendida metafora e occasione accanita di pensiero”, come dice Carlo A.Sitta.
Magico come un balsamo salvifico, il canto di Majellaro evoca e fa vivere emozione e dolore, pensiero e immagine, cronaca e storia, sogno e realtà, in una cifra espressiva concreta e insieme mitopoietica, che in virtù della limpida esattezza del suo linguaggio si propone come uno degli esiti più alti della poesia dei nostri anni.






TUROLDO ALLA BIBLIOTECA
DI SETTIMO MILANESE


La locandina dell'incontro

Dove va l’America e dove andrà il mondo?
di Cataldo Russo

Cataldo Russo


Una impietosa analisi sul declino morale americano

La tragedia del nostro tempo sta nel fatto che siamo sempre più privati della capacità di stupirci potendo fare uso della nostra testa e delle nostre emozioni. Siamo di fronte all’omologazione di tutto, dei valori, degli ideali, degli stili di vita e persino dei sentimenti.
Gli accadimenti sono talmente repentini e contraddittori che non si riesce più a comprendere dove incomincia la tragedia e dove finisce la farsa. I social, poi, stanno distruggendo il pensiero forte, la confutazione articolata, imponendo l’uso sempre più massiccio della frase a effetto e dello slogan, consentendo spesso ai superficiali di primeggiare.
Oggi non si comunica per intero ma per anticipi o “per spizzichi e bocconi”. Molti ritengono che tutto questo sia il risultato della globalizzazione. Invece io penso che non si tratti solo degli effetti negativi della globalizzazione quanto di un processo di omologazione tanto capillare quanto pervasivo, che sta finendo per corroderci anche l’anima.
Insomma, se la globalizzazione tende a omogenizzare le civiltà e gli uomini, l’omologazione tende ad annullare qualsiasi espressione di individualità ed originalità. L’uomo moderno rischia di essere un tuttologo che di fatto non sa nulla, perché il sapere è semplicemente sfiorato o posseduto in maniera superficiale. Se queste considerazioni valgono in generale per tutti i paesi del mondo, esse sono molto calzanti per gli americani. Ho spesso la percezione che lì l’omologazione si sia spinta a un punto tale per cui sembra non esserci più una linea di demarcazione fra pubblicità e qualità intrinseche di un prodotto, fra slogan e informazione, fra cinematografia e realtà.
Alcune stragi compiute da persone apparentemente normali, il cosiddetto innocuo uomo della porta accanto, hanno avuto a volte il ritmo e gli ingredienti del thriller cinematografico o delle scelte da giustiziere di turno. Infatti, oltre alla volontà di uccidere in alcune delitti c’era soprattutto il desiderio di ergersi a giudice e “fare pulizia”. Insomma, attestare la propria presenza e il proprio agire scegliendo la catarsi, com’era nella vecchia tragedia greca.
Così il giovane che entra in una scuola e, con lucida follia, fa strage di compagni e professori forse non sa nemmeno che sta compiendo qualcosa di atroce perché è tutto proteso a mettere  in scena il copione di una tragedia che sa di piena immedesimazione con i suoi eroi della celluloide. Del resto, se la più grande industria americana, dopo quella delle armi, è Hollywood, è inevitabile che essa qualche influenza nel forgiare il carattere degli abitanti la determini.
Così non mi sorprende se molti scambiano Rocky per un vero pugile, Rambo per un marines, e che i pugni-carezza che riceve sul volto o sulla bocca dello stomaco “lo spasimante di Adriana” siano visti allo stesso modo di quelli che prende un pugile che sul ring sale veramente mettendo a repentaglio la propria vita. 

Donald Trump

L’elezione del Tycoon Trump non mi ha colto impreparato, non perché avessi più informazioni degli altri o perché tenessi in mano la sfera di cristallo, ma perché da qualche tempo vedo l’America, e non solo essa, avviata a un lento declino, un tramonto che ricorda l’ingloriosa fine di Roma e di altre grandi civiltà, che raggiungono l’apice per poi andare incontro a un processo di disgregazione dovuto più a fattori interni che a cause esterne. Contrariamente a quello che pensa la maggior parte delle persone, io sono convinto che questa crisi sia scandita più dalla decadenza morale e dalla mancanza di valori che non dalla congiuntura economica che, per carità, c’è ed è forte e si sta traducendo nella perdita di milioni di posti di lavoro.
L’America ha smesso da molto tempo di sognare. Sa che sta perdendo il ruolo guida che ha avuto fino a qualche decennio fa ed è confusa e ha paura, ma soprattutto scopre di non avere anticorpi per fronteggiare le crisi, le privazioni e le sofferenze che si annunciano in un futuro non troppo lontano.
Per quanto la società americana sia costituita prevalentemente da immigrati che si portano dietro storie tragiche, è anche vero che quelle storie sono state rimosse ancor più che metabolizzate e interiorizzate. Eccetto gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001, gli Stati Uniti dal 1776 a oggi non hanno mai avuto guerre in casa. Tutte le tragedie si sono consumate in territori lontani dalle loro mura, anche se gli effetti delle guerre che hanno combattuto a partire dagli inizi del Novecento si sono fatti sentire in America, soprattutto quella in Vietnam, vuoi per le perdite subite vuoi anche per le sindromi depressive dei soldati una volta ritornati a casa.
Melville diceva che non si può spargere una goccia di sangue americano senza spargere il sangue del mondo intero in quanto l’America non sarebbe una nazione ma il mondo. Mi auguro che come profeta Melville possa essere smentito, ma analizzando i fatti temo che sia destinato ad avere ragione.

D. Trump

L’America è ammalata e ancor più delle altre nazioni andrebbe aiutata a guarire per evitare appunto che “la goccia di sangue americano” si trasformi nel sangue del mondo intero.
Mi chiedo dov’è oggi la nazione delle grandi opportunità, dei grandi valori democratici, della difesa della libertà di cui si è sempre favoleggiato?  Oggi assistiamo sempre più a una nazione arroccata, piegata su se stessa, trascinata nella palude della quotidianità, dei piccoli calcoli da bottega, nel vortice delle guerre che non hanno alcuna motivazione ideale ma che sono programmate e orchestrate per trarne vantaggio dal punto di vista economico e favorire le potenti lobbies delle armi, che prosperano sul sangue dei dannati e degli ultimi della terra.
Che brutta invenzione quella di esportare la democrazia con la guerra! Con le guerre si esportano distruzioni, lutti, rovine e morte e non certo buoni governi e democrazia.
Io credo che quando si svendono i sogni,  i valori e gli  ideali, per i quali altri hanno sacrificato la propria vita, la realtà non può che essere rappresentata dal Trump di turno o  anche da una Illary Clinton presuntuosa, radical chic, con quel sorriso ipocrita stampato sulle labbra che, in quanto a sentimenti guerrafondai e ambizioni personali, non ha niente da invidiare al suo rivale Trump.
Dire che non tempo Trump, però, è azzardato. Lo temo certo, ma non è tanto il miliardario di New York che mi fa paura quanto la visione messianica calvinista tipica dell’americano medio che, stante queste condizioni, è destinata a essere frustrata  perché l’America non è più “il paese delle opportunità” in quanto, nel frattempo,  sulla scena economica  mondiale sono apparse altre potenze economiche che effettivamente fanno paura per la loro capacità produttiva, quantunque questa capacità sia basata principalmente  sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Penso alla Cina, per esempio. Difficilmente l’americano potrebbe perdonarsi il fatto di non essere un predestinato al successo e al Paradiso attraverso la cartina al tornasole del raggiungimento della ricchezza e del successo. Per questo lo temo: perché può disporsi mentalmente “al tanto peggio tanto meglio”. Insomma, anche a una nuova guerra mondiale.

D. Trump

Io credo sia giunto il momento che gli americani la smettano di interferire nelle politiche interne degli altri stati e che, soprattutto, diano un taglio netto alla loro politica scellerata di insediare nelle varie parti del mondo governi fantocci, che inevitabilmente sfuggono al loro controllo. Chi coltiva nel proprio orto di casa nemici non può aspettarsi da essi carezze e comprensione.
L’America, a mio avviso, non ha bisogno di un Trump o di una Illary ma di chi sappia educarla alla condivisione e a una visione pacifista del mondo, meno tesa a cercare il successo ad ogni costo e più disponibile al confronto.     


domenica 27 novembre 2016

REFERENDUM
Al Cam Garibaldi a Milano


La locandina dell'incontro


REFERENDUM
La Casa di Alex a Milano




La locandina dell'incontro

“La riforma Renzi è oligarchica e antipopolare”
di Roberto Scarpinato*




Il mio dissenso nei confronti della riforma costituzionale è dovuto a vari motivi che, per ragioni di tempo, potrò esplicare solo in piccola parte. In primo luogo perché questa riforma non è affatto una revisione della Costituzione vigente, cioè un aggiustamento di alcuni meccanismi della macchina statale per renderla più funzionale, ma con i suoi 47 articoli su 139 introduce una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale a quella vigente, mutando in profondità l’organizzazione dello Stato, i rapporti tra i poteri ed il rapporto tra il potere ed i cittadini. Una diversa Costituzione che modificando il modo in cui il potere è organizzato, ha inevitabili e rilevanti ricadute sui diritti politici e sociali dei cittadini, garantiti nella prima parte della Costituzione. Basti considerare che, ad esempio, la riforma abroga l’articolo 58 della Costituzione vigente che sancisce il diritto dei cittadini di eleggere i senatori, e con ciò stesso svuota di contenuto l’art. 1 della Costituzione, norma cardine del sistema democratico che stabilisce che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Nella diversa organizzazione del potere prevista dalla riforma, questo potere sovrano fondamentale per la vita democratica, viene tolto ai cittadini e attributo alle oligarchie di partito che controllano i consigli regionali. Poiché, come diceva Hegel, il demonio si cela nel dettaglio, questo dettaglio -se così vogliamo impropriamente definirlo- racchiude in se e disvela l’animus oligarchico e antipopolare che, a mio parere, attraversa sottotraccia tutta la riforma costituzionale, celandosi nei meandri di articoli la cui comprensione sfugge al cittadino medio, cioè a dire alla generalità dei cittadini che il 4 dicembre saranno chiamati a votare.
I fautori della riforma focalizzano l’attenzione e il dibattito pubblico sulla necessità di ridimensionare i poteri del Senato eliminando il bicameralismo paritario, questione sulla quale si può concordare in linea di principio, ma glissano su un punto essenziale: Perché pur riformando il Senato avete ritenuto indispensabile espropriare i cittadini del diritto-potere di eleggere i senatori? Il bicameralismo così come lo volete riformare non poteva funzionare altrettanto bene lasciando intatto il diritto costituzionale dei cittadini di eleggere i senatori?
Perché questo specifico punto della riforma è stato ritenuto tanto essenziale da determinare addirittura l’epurazione dalla Commissione affari costituzionali dei senatori del Pd: Corradino Mineo e Vannino Chiti, che si battevano per mantenere in vita il diritto dei cittadini di eleggere i senatori? Forse uno degli obiettivi che si volevano perseguire, ma che non possono essere esplicitati alla pubblica opinione, era proprio quello di restringere gli spazi di partecipazione democratica e di estromettere il popolo dalla macchina dello Stato? Dunque secondo voi la ricetta migliore per curare la crisi della democrazia e della rappresentanza, è quella di restringere ancor di più gli spazi di democrazia e di rappresentanza?
Questo travaso di potere dai cittadini alle oligarchie di partito non riguarda solo il Senato, ma anche la Camera dei Deputati e viene realizzato mediante sofisticati meccanismi che sfuggono alla comprensione del cittadino medio.


La nuova legge elettorale nota come l’Italicum, che costituisce una delle chiavi di volta della riforma, attribuisce infatti ai capi partito e ai loro entourage il potere di nominare ben cento deputati della Camera, imponendoli dall’alto senza il voto popolare.
Questo risultato viene conseguito mediante il sistema dei capilista bloccati inseriti di autorità nelle liste elettorali presentate nei 100 collegi nei quali si suddivide il paese, e che vengono eletti automaticamente con i voti riportati dalla lista, senza che nessun elettore li abbia indicati. Gli elettori potranno esprimere un voto di preferenza per un altro candidato oltre il capo lista, ma i voti di preferenza così espressi saranno presi in considerazione solo se la lista da loro votata avrà ottenuto più di cento deputati in campo nazionale, perché i primi cento posti sono bloccati per le persone “nominate” dai gruppi dirigenti del partito in base a particolari vincoli di fedeltà. Così, per formulare un esempio, se una lista ottiene un totale nazionale di voti pari a 100 deputati, nessuno dei candidati scelti dagli elettori dal 101 in poi con il voto di preferenza potrà essere eletto alla Camera, perché tutti i posti disponibili sono stati esauriti. Ora poiché il premio di maggioranza previsto dall’Italicum attribuisce al partito vincitore delle elezioni 340 deputati su 630, tutti i partiti della minoranza potranno portare alla Camera nel loro insieme complessivamente 290 deputati, e, quindi, ciascuno solo una quota di deputati intorno a 100 o ad un sottomultiplo di cento.
Il che significa che entreranno alla Camera per le minoranze solo i capilista bloccati, nominati dai capi partiti. Nessuno o quasi dei candidati scelti dagli elettori oltre i cento con i voti di preferenza, farà ingresso in Parlamento. Ne consegue che ben due terzi dei cittadini italiani votanti, tanti quanti sono rappresentati dalla somma dei partiti della minoranza nell’attuale panorama tripolare nazionale, saranno di fatto privati del diritto di scegliere i propri rappresentanti alla Camera. Se questa è la sorte riservata ai cittadini elettori delle minoranze, è interessante notare come il congegno dei cento capilista bloccati, unito ad altri, consegua poi l’ulteriore risultato antidemocratico di determinare una distorsione della rappresentanza parlamentare anche nel partito di maggioranza, e di realizzare una sostanziale abolizione della separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo.
Per spiegare come ciò si verifichi, occorre comprendere come opera il combinato disposto della riforma e dell’Italicum.


L’articolo 2 comma 8 dell’Italicum stabilisce: “I partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica”. In questo modo il voto per la forza politica “che si candida a governare” è anche il voto per il “capo della forza politica” che si candida a divenire il capo del governo, in contrasto con l’art. 92 della Costituzione, rimasto inalterato, che ne affida la nomina al Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni dei gruppi parlamentari. Come è stato osservato, sarà ben difficile non solo la nomina di una persona diversa, ma perfino la sfiducia, destinata inevitabilmente a provocare lo scioglimento della Camera.
Ciò posto, tenuto conto che, come accennato, l’Italicum attribuisce alla medesima oligarchia di partito che esprime il leader della forza politica candidato a capo del governo, la possibilità di nominare cento deputati della Camera, è evidente che tale gruppo oligarchico nominerà capilista, e quindi deputati ipso facto, tutti i componenti del gruppo ed i fedelissimi del leader.
Si tratta di un numero di deputati che già di per sé attribuisce al futuro capo del governo la Golden share per il controllo della maggioranza alla Camera dei deputati, perché equivale a circa un terzo dei deputati eleggibili dal partito.
Qualunque studioso di diritto societario sa bene che l’amministratore delegato di una azienda che detiene un terzo della quota azionaria, è in grado di controllare l’intera azienda. Ma non finisce qui. Il leader futuro capo del governo ed il suo entourage dopo avere nominato 100 deputati, tanti quanti sono i collegi elettorali del paese, sono gli stessi che formano la lista degli altri candidati non bloccati, per i quali gli elettori hanno la possibilità di esprimere una preferenza o due a condizione che si votino candidati di sesso diverso.


La riforma costituzionale non prevede alcuna norma che imponga (così come, ad esempio, l’art. 21 della Costituzione tedesca) che l’ordinamento interno dei partiti debba essere conforme ai princìpi fondamentali della democrazia e che garantisca, di conseguenza, una selezione democratica dei candidati da inserire nelle liste elettorali. Dunque la stessa oligarchia partitica che elegge se stessa con il sistema dei 100 capilista bloccati, ha la possibilità di cooptare, inserendoli nella lista dei candidati votabili, solo personaggi ritenuti affidabili e obbedienti, escludendo dalla lista gli indipendenti e gli esponenti delle opposizioni interne, oppure relegandoli in posizioni marginali.
Ma non finisce qui. L’Italicum ha in serbo un altro congegno a disposizione delle oligarchie di partito per selezionare persone da cooptare nella maggioranza parlamentare del futuro capo del governo. Si tratta della possibilità di candidare la stessa persona in ben dieci diversi collegi contemporaneamente. Il candidato eletto in più collegi deve scegliere il collegio che preferisce. In quello in cui rinuncia, al suo posto viene eletto il candidato che ha ottenuto più voti di preferenza dopo di lui. Il gruppo oligarchico che esprime il leader futuro capo del governo ha in questo modo la possibilità di neutralizzare eventuali candidati espressi dai territori e ritenuti non affidabili, stabilendo che il candidato eletto in più circoscrizioni e fedele alla leadership, scelga la circoscrizione nella quale altrimenti al suo posto verrebbe eletto il candidato non gradito, che viene così escluso dalla Camera.
Grazie a questi congegni elettorali, lo stesso gruppo oligarchico che designa come capo del Governo il capo della partito di maggioranza, acquisisce la possibilità di controllare contemporaneamente sia il Governo che la Camera dei deputati.
Si realizza così un continuum tra Camera dei deputati e Governo espressione entrambi dello stesso gruppo oligarchico che abolisce di fatto la separazione dei poteri tra legislativo ed esecutivo, e la Camera si trasforma da organo espressione della sovranità popolare che controlla il governo dando e revocando la fiducia, in Camera di ratifica delle iniziative legislative promosse dal Capo del Governo, il quale è allo stesso tempo capo del partito di maggioranza.


Il capo del Governo/capopartito oltre ad avere una supremazia di fatto sulla Camera nei modi accennati, ha anche una supremazia istituzionale in quanto la riforma gli attribuisce il potere di dettare l’agenda dei lavori parlamentari con il meccanismo delle leggi dichiarate dal Governo di urgenza che devono essere approvate entro 70 giorni.
Interessante notare che la stessa corsia preferenziale non è prevista per le leggi di iniziativa parlamentare, così che il governo è in grado di colonizzare ancor di più l’attività legislativa del parlamento. Alla sostanziale desovranizzazione del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere legislativo e, quindi, del ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo, si somma poi la disattivazione del ruolo delle minoranze che, sempre grazie all’Italicum, sono condannate per tutta la legislatura alla più totale impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290 deputati rispetto ai 340 della maggioranza governativa.
E ciò nonostante che nell’attuale panorama politico multipolare, le minoranze siano in realtà la maggioranza reale nel paese, assommando i voti di due terzi dei votanti a fronte del residuo terzo circa, ottenuto dal partito del capo del governo. Grazie alla lampada di Aladino del combinato disposto della riforma costituzionale e dell’Italicum, un ristretto gruppo oligarchico autoreferenziale in grado di auto cooptarsi prescindendo in buona misura nei modi accennati dai voti di preferenza espressi da una minoranza del paese, pari a circa un terzo dei votanti, che lo porta al potere, è in grado di divenire il gestore oligopolistico delle leve strategiche dello stato, cioè della Camera e del Governo.
Azionando sinergicamente tali leve, il gruppo nell’assenza di ogni valido contro bilanciamento è in grado di esercitare un potere politico-istituzionale di supremazia sugli apparati istituzionali nei quali si articola lo stato: dalla Rai, alle Partecipate pubbliche, agli enti pubblici economici, alle varie Authority, ai vertici delle Forze di Polizia, dei Servizi segreti, e via elencando. Si pongono così le premesse per realizzare uno spoil system generalizzato, finalizzato a garantire l’autoriproduzione del gruppo oligarchico mediante la nomina ai vertici degli apparati che contano, solo persone di provata consonanza politica e fedeltà.
Tramite questi e molti altri sofisticati meccanismi, si pongono così a mio parere le premesse per una transizione occulta da un repubblica parlamentare imperniata sulla sovranità popolare, sulla centralità del Parlamento e sulla separazione dei poteri, ad un regime oligarchico nel quale il potere reale si concentra nelle mani di una oligarchia che occupa il cuore nevralgico dello stato.


Per giustificare la sostituzione della Costituzione vigente con una nuova Costituzione, i promotori della riforma si sono appellati ad argomenti che si rivelano non ancorati alla realtà e che, proprio per questo motivo, suscitano, a mio parere, serie perplessità, giacché se le ragioni della riforma dichiarate non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre ragioni che non si ritiene politicamente pagante esplicitare.
Si sostiene infatti che questa riforma sarebbe finalizzata a tagliare i costi della politica e sarebbe necessaria ed urgente per risolvere i problemi del paese. Quanto all’inconsistenza del primo argomento -cioè lo scopo di tagliare i costi della politica- non ritengo di dovermi soffermare. La Ragioneria dello Stato in una relazione trasmessa al Ministro per le riforme in data 28 ottobre 2014 ha stimato il risparmio di spesa conseguente alla riforma del Senato pari a 57,7 milioni di euro, una cifra ridicola rispetto al bilancio statale, e che potrebbe essere risparmiata in mille altri modi con leggi ordinarie senza alcuna necessità di stravolgere la Costituzione. Per esempio tagliando i costi della corruzione, i costi della evasione fiscale, invece di tagliare la democrazia.
Il secondo argomento dei sostenitori del Sì è -come accennavo- che la riforma è necessaria ed urgente per risolvere i problemi del paese, in quanto il bicameralismo paritario determina una patologico rallentamento del processo legislativo, ed in quanto l’attuale assetto costituzionale impedisce una governabilità del paese agile, flessibile, necessaria per reggere le sfide della globalizzazione.
Se questo è lo scopo dichiarato, non risulta che siano stati indicati dai fautori del Sì i problemi del paese che sarebbero stati causati in passato dalla farraginosità dei meccanismi istituzionali previsti dalla Costituzione vigente e che, invece, troverebbero immediata soluzione con la riforma della Costituzione.
Forse la completa assenza di una politica industriale che perdura da oltre un quarto di secolo e a causa della quale dal 2008 ad oggi sono passati al capitale straniero più di 500 marchi storici di tutti i settori strategici dell’industria nazionale?


Dall’elettronica, alle automobili, alle comunicazioni, agli elettrodomestici, alle ferrovie, all’aerospaziale, all’agroalimentare, alla moda, l’elenco dei marchi passati al capitale straniero dà la sensazione di una silenziosa Caporetto nazionale: Pirelli, Pininfarina, Indesit, Ansaldo Breda, Italcementi, Edison, Buitoni, Parmalat, Fendi, Bulgari, Gucci, Valentino, etc 
Forse la disoccupazione giovanile che raggiunge livelli record in ambito europeo e l’emigrazione all’estero di centinaia di migliaia di giovani laureati che nel nostro paese non hanno alcun futuro?
Forse la gigantesca evasione fiscale (la terza del mondo dopo Messico e Turchia) con un mancato introito per le casse dello stato che mette in ginocchio l’erogazione dei servizi sociali?
Ciascuno può allungare a piacimento la lista dei gravi problemi nei quali versa il paese e che lo stanno avvitando in una spirale di declino che sembra senza fine, e stilare dal suo punto di vista una diversa gerarchia della gravità di tali problemi.
Ma pur nella diversità delle opzioni, un fatto è certo: nessuno di questi problemi è addebitabile al bicameralismo paritario e alla Costituzione del 1948. Una classe dirigente che si è rivelata inadeguata a reggere le sfide della complessità e che si è resa responsabile del declassamento economico e sociale del paese, ora tenta di scaricare le proprie responsabilità sul capro espiatorio di una Costituzione del 1948 che nulla ha da spartire con le cause della crisi economica. 
Non basta. Gli uffici studi del Parlamento hanno documentato quanto sia priva di fondamento nella realtà la narrazione dei sostenitori del Sì secondo cui il bicameralismo paritario avrebbe enormemente dilatato i tempi di approvazione delle leggi a causa della navetta tra la Camera dei Deputati ed il Senato, quando una delle due camere apporta modifiche ai progetti di legge approvati dall’altra.


In questa legislatura sono state sino ad oggi approvare 250 leggi di cui ben 200, pari all’80%, senza navetta parlamentare e solo 50 pari al 20% con rinvio di una Camera all’altra, a seguito di modifiche. I tempi medi di approvazione delle leggi sono i seguenti: ogni legge ordinaria viene approvata in media fra Camera e Senato in 53 giorni; ogni decreto viene convertito in legge dalle due Camere in 46 giorni; e ogni legge finanziaria passa, con la "doppia conforme", in 88 giorni. Se una legge si incaglia in parlamento non è per colpa del pur discutibile bicameralismo paritario: ma dei dissensi politici dentro le coalizioni di maggioranza. È pur vero che vi sono leggi che invece sono state approvate in tempi molto lunghi. Ma se si approfondisce l’analisi si comprende bene che le ragioni di questi tempi lunghi non sono attribuibili al bicameralismo paritario, ma a ben altre ragioni di ordine politico non sempre commendevoli. La legge sulla corruzione, per esempio, ha ottenuto il via libera dal Parlamento dopo ben 1546 giorni. Dunque ricapitolando le ragioni addotte dai sostenitori del Sì per sostenere la necessità di questa riforma non trovano riscontro nella realtà.
Possiamo concludere che non è affatto vero che esiste una crisi di governabilità del paese che è una concausa importante della grave crisi economica nella quale ristagniamo?
Non possiamo affatto sostenerlo. Anzi dobbiamo ammettere che esiste certamente una reale grave crisi di governabilità che ha causato ed aggrava la crisi.
Quel che merita riflessione, dal mio punto di vista, è che si addebita la crisi di governabilità alla Costituzione vigente e si tacciono invece alla pubblica opinione le vere cause strutturali di tale crisi di governabilità, che possono essere ignote al cittadino comune, che possono essere sconosciute ai tanti giuristi in buona fede che non conoscono quale sia il reale funzionamento della macchina del potere oggi, ma che, invece, non possono essere ignote a coloro che hanno ideato questa riforma. Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella seconda repubblica per fattori nazionali e internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso? La risposta a questa domanda presuppone che si abbia ben chiaro quali siano gli strumenti indispensabili per governare la politica economica di un paese e che sono essenzialmente tre. La potestà monetaria, cioè il potere di emettere moneta e obbligazioni di Stato. La potestà valutaria, cioè il potere di svalutare la moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di competitività all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di bilancio, cioè il potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa pubblica in deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed uscite. In assenza di questa fondamentale cassetta degli attrezzi, non è possibile governare la politica economica di un paese.  L’esempio più evidente si trae dall’esperienza degli strumenti messi in campo dall’amministrazione americana per gestire e superare la crisi sistemica verificatasi dopo l’esplosione della bolla dei mutui subprime.


L’amministrazione statunitense ha contemporaneamente azionato la leva della potestà monetaria autorizzando la Fed ad iniettare ogni mese 80 miliardi di liquidità nell’economia reale, la leva della sovranità valutaria svalutando il dollaro rispetto ad altre monete, la leva infine della potestà di bilancio, finanziando con il deficit di bilancio statale politiche di spesa per il rilancio dell’economia. Solo grazie a tali manovre, l’economia statunitense è uscita dal guado. Veniamo ora al nostro paese. Perché il governo italiano nello stesso periodo non ha azionato le stesse leve felicemente azionate dall’amministrazione statunitense? Forse perché ha commesso un errore di diagnosi? Perché ha ritenuto di dovere seguire un’altra strategia? 
No, semplicemente perché non ha potuto. Non ha potuto perché le tre potestà fondamentali per gestire il governo dell’economia del sistema Italia -potestà monetaria, potestà valutaria, potestà di bilancio- non sono più azionabili dal governo italiano essendo state cedute ad organi sovranazionali: la Commissione europea e la Bce, componenti insieme al Fondo monetario internazionale della cosiddetta Troika, santuario del pensiero unico neoliberista.
In altri termini il governo non ha potuto azionare quelle leve per un deficit di governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948, come sostengono i fautori del Sì, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in poi. Il deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il frutto di un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per governare la politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento europeo o ad altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state cedute agli organi prima menzionati -la Commissione europea, la Bce (e per certi versi il Fondo monetario internazionale)- privi di legittimazione e rappresentanza democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi invece ai grandi centri del potere economico e finanziario. 
Connessione questa dimostrata in modo inequivocabile dalla biografia di tanti soggetti che in tali organi hanno rivestito e rivestono ruoli decisionali strategici e che provengono dalle strutture apicali delle più grandi banche di affari internazionali, o che a fine del loro mandato vengono assunti da tali banche e da potenti multinazionali come consulenti o top manager.
Non risponde a realtà dunque, come affermano i sostenitori del Sì, che la politica ha perduto il controllo sull’economia a causa dell’ inefficienza delle procedure decisionali previste dall’attuale Costituzione che, dunque, sarebbe bene riformare votando Sì al prossimo referendum del 4 dicembre.


La politica, o meglio la democrazia, ha abdicato al suo ruolo, quando ha consegnato gli strumenti della sovranità a ristrette oligarchie arroccate in centri decisionali impermeabili alla volontà popolare, ma fortemente permeabili ai diktat dei mercati, o meglio alle potenze economiche che governano i mercati. Una esemplificazione concreta e recente dei risultati di questa abdicazione della politica al potere economico e dei modi nei quali oggi viene gestito il potere reale si ricava dall’esame della lettera strettamente riservata che in data 5 agosto 2011, il Presidente della Bce inviò al Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, dettandogli una analitica agenda politica delle riforme che il governo ed il Parlamento italiano dovevano approvare, specificando anche i tempi e gli strumenti legislativi da adottare.
Dalla riforma della legislazione sul lavoro, alla riforma della contrattazione collettiva, alla riforma delle pensioni sino alle privatizzazioni e alla riforma della Costituzione, è una summa del pensiero e delle strategie neoliberiste.
È impressionante verificare a posteriori come quell’agenda politica sia stata puntualmente realizzata -dalla riforma Fornero sino al Jobs Act- dai tre governi che si sono susseguiti dal 2011 ad oggi, e da maggioranze parlamentari composte in larga misura da persone nominate da ristretti vertici di partito.
Quel che appare ancor più significativo è che in quella stessa lettera del 5 agosto 2011, il Presidente della Bce sollecitava anche una riforma della seconda parte della Costituzione che è stata realizzata nel 2012 nella indifferenza e nella inconsapevolezza della sua reale portata, della opinione pubblica e del mondo dei giuristi.
Mi riferisco a quell’art. 81 della Costituzione che ha introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio, norma di matrice culturale neoliberista.
Una norma che ha introdotto un vero e proprio cavallo di Troia all’interno della cittadella costituzionale, perché impedisce di finanziare in deficit politiche economiche espansive di tipo keinesiano per superare le fasi di crisi aumentando la spesa pubblica, ed impone quindi come unica soluzione alternativa obbligata il taglio della spesa pubblica ai servizi dello Stato sociale, determinando così l’impoverimento delle masse popolari, la riduzione della loro capacità di spesa, la caduta della domanda aggregata interna e l’avvitamento della spirale recessiva.
La vicenda in parola dimostra quanto siano infondate tutte le argomentazioni dei sostenitori del Sì secondo cui la Costituzione va riformata perché quella attuale rallenta l’iter legislativo e impedisce la governabilità.


Tutte le leggi indicate dalla BCE sono state approvate in tempi rapidissimi con un doppio passaggio parlamentare. La Salva-Italia di Monti e Fornero fu approvata in appena 16 giorni.
La legge costituzionale sul pareggio di bilancio obbligatorio fu approvata addirittura in cinque mesi (con quattro votazioni Camera-Senato-Camera-Senato).
La vicenda esposta costituisce una concreta esemplificazione del reale modo di essere del potere oggi e di come oligarchie partitiche insediate al governo e in grado di controllare il parlamento, possano divenire la cinghia di trasmissione della volontà politica di centri decisionali esterni ai luoghi della rappresentanza popolare, attraverso itinerari informali che si sottraggono alla visibilità democratica.
Quella che ho appena esposto non è solo una vicenda del passato ma è una simulazione di come sarà esercitato il potere in futuro se questa riforma costituzionale dovesse essere definitivamente approvata.
Non si tratta di un processo alle intenzioni, non si tratta di dietrologia.
Nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, si legge testualmente che questa riforma risolverà tutti i problemi del paese, rimediando:
“l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle relative stringenti regole di bilancio”
“le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale”


In altri termini l’abrogazione del diritto dei cittadini di eleggere i senatori e, in buona misura, i deputati, nonché il travaso di potere dal Parlamento al Governo che costituiscono il cuore e il nerbo della riforma, vengono invocati per assicurare la migliore consonanza ai diktat della Commissione europea, della Bce e alle pretese dei mercati.
In nome della esigenza di una totale subordinazione della politica all’economia. Il migliore inequivocabile riscontro che questo sia il reale obiettivo della riforma costituzionale, viene dalla sua sponsorizzazione entusiastica da parte delle più potenti banche di affari internazionali e delle altre cattedrali della finanza internazionale che in questi ultimi mesi sono scese in campo con tutta la loro forza di pressione per sostenere il fronte del Sì, e per intimidire gli indecisi minacciando sfracelli economici se la riforma dovesse essere bocciata dai cittadini il 4 dicembre. E mi pare meritevole di riflessione che queste finalità della riforma benché siano state dichiarate nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, non siano mai state utilizzate per sostenere le ragioni del Sì nel corso di tutta questa campagna referendaria. Evidentemente i promotori politici della riforma ritengono controproducente proclamare a reti unificate che la riforma costituzionale risolverà tutti i problemi del paese, grazie al fedele esecuzione delle indicazioni provenienti dalla governance europea.
I Riformatori affermano di essere proiettati nel futuro, ma a me sembra che con questa riforma si rischi di riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca del primo Novecento quando prima dell’avvento della Costituzione del 1948, il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico.
Era il tempo in cui lo Stato non godeva di alcuna considerazione perché era considerato un instrumentum regni nelle mani dei potenti e la legge, come insegnava Gaetano Salvemini, non godeva di alcun rispetto perché era percepita come la voce del padrone.



Quella triste stagione della storia è stata archiviata grazie alla Costituzione del 1948 che resta, oggi come ieri, l’ultima linea Maginot per la difesa della democrazia e dei diritti. Una Costituzione che nessuno ci ha regalato, che è costata lacrime e sangue, come ci ricorda Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione del 1948, le cui parole pronunciate durante i lavori della Costituente nella seduta del 7 marzo 1947, sono da tenere bene a mente in questo delicato frangente della storia nel quale dovremo decidere sul futuro del paese, e mi sembrano le migliori per concludere il mio intervento: “Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea costituente… credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno… che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri i cui nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani […] Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”.   

[* Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Palermo. Intervento al Seminario di studi sulla Riforma della Costituzione svoltosi al Palazzo di Giustizia di Palermo il 22 novembre 2016]
Privacy Policy